Da tutte le parti d’Italia a Roma per protestare contro i tagli al Fus: non meritiamo tutto questo
Alla rabbia contro il governo, in alcuni teatri si aggiunge quella verso direttori e sovrintendenti
La classica in rivolta: «Il governo ci tratta come costi da tagliare»
di Luca del Frà (l’Unità Roma, 11.12.2008)
«Ho fatto oltre 50 concorsi per trovare un posto stabile: contrabbassista di fila alla Haydn, una realtà bellissima dove la musica, nella tradizione Mitteleuropea e in particolare austriaca è al centro della cultura»: Corrado è nato a Salerno, si è diplomato in contrabbasso al Conservatorio di Roma, ha ricoperto il ruolo di aggiunto, leggi precario, a Torino, Firenze e Roma. Totale, 8 anni di studio e 15 di precariato in giro per l’Italia, prima di trovare il posto fisso tra Trento e Bolzano.
Ieri era alla manifestazione contro i tagli alle attività culturali previsti dalla finanziaria 2009 del Governo Berlusconi: orchestre e cori da tutta Italia hanno suonato assieme all’Opera di Roma addobbata di striscioni come non si vedeva dal 1980, quando Joan Sutherland cantò Lucrezia Borgia.
La manifestazione indetta dai sindacati unitari e dalla Fials, ha coinvolto le fondazioni lirico sinfoniche, i maggiori teatri italiani, ma anche delle orchestre regionali: è proprio Corrado nato in Campania rappresentava la compagine con la sede più settentrionale: l’Orchestra Haydn delle province di Trento e Bolzano, una compagine regionale, ma che si dà parecchio da fare: oltre alla stagione in sede, è ospite del Rossini Opera Festival, va spesso a esibirsi al Mozarteum di Salisburgo ed è stata di recente in tournèe in Giappone. «Sono risultati che i tagli dello governo mettono in forse -spiega-, e vorrei ricordare che al contrario di molti altri settori legati alla pubblica amministrazione in Trentino Alto Adige, nell’orchestra non ci sono posti riservati ai cittadini di lingua tedesca e ladina. Con noi suonano musicisti argentini, canadesi, tedeschi come di altri paesi europei». In fondo rappresentate un momento di incontro e di apertura in una zona d’Italia che è considerata un po’ chiusa verso l’esterno? «A Bolzano sono molto meno chiusi di quanto si dice, ma la nostra speranza è che l’orchestra rappresenti anche la fusione di persone e culture diverse». Quanto guadagna al mese? «Paga base meno di 1500, ma se va tutto bene, cioè se lavoriamo parecchio, arrivo anche 1700».
In questi giorni c’è stato da più parti un attacco contro le compagini stabili, accusate di guadagnare troppo, ma in realtà le cifre delle buste paga si aggirano tutte intorno a questa cifra: da Bolzano a Palermo. «Non ho mai smesso di studiare, perché se a un violinista si rompe l’archetto lo può ricomprare ma se un cantante si rovina la voce ha chiuso», precisa Paolo, corista al Massimo di Palermo: «Noi lavoriamo 26 ore, e non 16 come dice il ministro Bondi, ma si dovrebbe aggiungere il tempo del riscaldamento, perché se canti a freddo ti rovini la voce: comunque percepiamo 1800 euro, tutto compreso. Per capirci, in questo periodo studiamo Lohengrin di Wagner la mattina ed eseguiamo Aida di Verdi la sera: non mi pare una passeggiata».
Se è ovvio che tutti qui sono contro i tagli del governo, serpeggia anche una notevole rabbia nei confronti di molte dirigenze dei teatri: «Da Gardaland è arrivato un manager che ha fatto un un piano di rilancio per superare il deficit di una ventina di milioni di euro -dice Marco dell’Arena di Verona-, ma nessuno lo ha messo in pratica perché la Fondazione è stata commissariata»: peraltro su richiesta del sindaco leghista Flavio Tosi.
Ma i soldi li ha presi il manager? «Bisognerebbe chiedere alla direzione, ma credo proprio di sì». La voce di Marco è quella dello stomaco dei teatri, è infatti un attrezzista, le maestranze che raramente trovano spazio sui giornali: «La passione me la ha trasmessa mio padre, che mi portava a vedere l’opera da bambino. Oggi dopo 27 anni di lavoro prendo 1400 euro, ma raggiungo 1700 l’estate quando c’è la stagione all’aperto. Perché lavoriamo di notte, ogni sera si fa un titolo diverso e quindi bisogna smontare e rimontare ogni volta”.
Claudio, Chiara e Andrea sono nel Corpo di Ballo dell’Opera di Roma, ma sono aggiunti vale a dire precari. Sono grati alla direzione che gli garantisce lavoro tutto l’anno ma è un’eccezione: «Sono diplomata alla scuola del Teatro di San Carlo, ma sono dovuta scappare da Napoli per poter lavorare -spiega Chiara-. A Roma divido un appartamento con un’amica che studia». Insomma una vita da studente fuori sede: «Ed essendo aggiunti ci sono dei periodi in cui devi interrompere: qui a Roma sono brevi, ma altrove possono durare anche mesi, poi ti chiamano magari tre giorni prima».
Secondo voi quanto ci vorrà prima che vi assumano in pianta stabile? «Con l’aria che tira è impossibile dirlo... -risponde Claudio- Già è tanto che riusciamo ad avere da lavorare». Ma per i periodi in cui dovete restare fermi avete dei sussidi: «Abbiamo i genitori, questa è la verità -replica secco Claudio-. E anche quando sei fermo non puoi mollare, se perdi la forma fisica ci vogliono mesi per ritrovarla e sono dolori».
È vero che gli aggiunti si danno più da fare degli stabili? «In certo senso sì» dice Chiara e gli fa eco Andrea «Come si dice, hai più pepe al culo», ma conclude sempre Chiara «Dall’altra parte però sei sempre psicologicamente insicuro».
A che età avete deciso di diventare danzatori: «Quando non sapevamo cosa ci aspettava», rispondono ridendo in coro, poi Chiara sbotta «A 7 anni ho sentito che era predisposta...»; «Io a 14» dice Andrea, «A 15» conclude Claudio. La loro prospettiva di vita la racconta Silvia, stabile al Maggiodanza: «Con 9 scatti di anzianità guadagno 1700 euro al mese e il mio contratto prevede che possa interpretare anche parti da prima ballerina». È molto orgogliosa del suo lavoro: «Maggiodanza è il secondo teatro in Italia per produzioni, i nostri spettacoli vanno esauriti, la gente viene, si diverte, e ci riusciamo anche se da anni siamo sotto organico: non mi pare proprio uno spreco».
La protesta
Gli orchestrali di 12 teatri insieme sul palco
Maxi-concerto a Roma contro i tagli alla lirica «Non siamo privilegiati»
di Valerio Cappelli (Corriere della Sera, 11.12.2008)
Nel mirino anche Pizzi e Zeffirelli: cachet eccessivi Mancavano soltanto i rappresentanti della Scala, perché il loro pullman è tornato indietro per il maltempo
ROMA - È lo scatto d’orgoglio degli artisti «fannulloni». Nella Finanziaria si parla oggi dei tagli per lo Spettacolo: 200 milioni per il 2009 con un taglio del 30 per cento. E il palco dell’Opera di Roma, dove campeggia la scritta pucciniana Nessun dorma, è invaso da diverse centinaia di musicisti da tutt’Italia, Cagliari, Trieste, Verona, Firenze, Palermo, Genova, Venezia... Dai palchi le ballerine espongono tutù e scarpette come i panni dalle case a Trastevere; striscioni contro la sforbiciata e contro i registi Pier Luigi Pizzi e Franco Zeffirelli che sono stati critici sui teatri: «Vampiri senza vergogna, dichiarate i vostri cachet».
Rispolverato il motto risorgimentale Viva Verdi con doppio significato per l’allusione a Vittorio Emanuele, suonato l’inno nazionale e tutti in piedi, ma gli orchestrali lo erano già: non bastavano certo le sedie per contenere le rappresentanze dei 12 teatri lirici (mancava solo la Scala, il pullman è tornato indietro causa maltempo). Insomma non è mancata la solennità alla manifestazione del mondo della lirica, ondeggiante tra cuore e protesta e per la prima volta unita , trasferita per la pioggia da piazza del Popolo al chiuso dell’Opera.
Il sovrintendente Francesco Ernani: «Stiamo vivendo un momento di delirio, si dicono cose e se ne fanno altre, i teatri sono un bene importante per il Paese». Ci sono i deputati dell’opposizione Vincenzo Vita («Senza la cultura l’Italia non sarebbe l’Italia, ho scongiurato Bondi di riparlarne con Tremonti») ed Emilia De Biasi («A Tremonti dico che l’economia non è solo finanza e tagli, la lirica non è il tempo libero del re ma impresa culturale »). I tagli, visti da qui, faranno chiudere i teatri: «Ci sarà la messa in liquidazione».
Si suona e si parla. Ecco i sindacalisti, che chiedono il ripristino integrale del fondo statale e, chiamando in causa il burocratichese, «un tavolo di confronto» col governo. Se la prendono con i sovrintendenti che fanno i cartelloni con le agenzie dei cantanti e i costi si gonfiano. Il problema però è altrove, è la spesa dei dipendenti che assorbe il 70 per cento dei budget. Siete accusati di essere privilegiati... Risponde Francesco Melis segretario territoriale della Uil: «La media degli stipendi, tra portiere e primo violino, è di 1400 euro al mese, cifra inferiore agli altri teatri europei». S’è detto che le regole devono cambiare: «Dai tre contratti degli ultimi 10 anni abbiamo avuto 150 euro lordi, meno della rivalutazione Istat».
E i conti in rosso? «Sono dovuti ai tagli e al ritardo nell’erogazione dei soldi. A Roma abbiamo 800 mila euro di interessi passivi con l’Unicredit, uno dei nostri sponsor». Un momento: i soldi dello sponsor si prosciugano col debito allo stesso sponsor? «Esatto». E gli sprechi? «A coloro che hanno fallito parlando di costi esorbitanti, e mi spiace mettere Cofferati per Bologna, dico che all’Opera di Roma abbiamo dimostrato che è possibile alzare il sipario 220 volte a stagione e avere il pareggio di bilancio». Loris Grossi della Cgil: «Siamo tornati ai valori del 1986. A Roma nel 2007 abbiamo avuto un milione di euro in meno. Sfido qualunque azienda a sopravvivere con un danno del 35 per cento». Lorella Pieralli della Fials-Cisal: «C’è una cordata trasversale di faccendieri che vuole impadronirsi dei teatri».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, ILLUMINAZIONE E ANTROPOLOGIA: "SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784).
Un omaggio a Flavio Piero Cuniberto e alla sua riflessione sul
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HAMLETICA: LA PORTA DELLA CAVERNA E LA QUESTIONE DEL NOME. Gloria a Pitagora, e a Teano ("Viva Verdi"), ma non confondiamo la "furbata" di Socrate che, al "Convivio" di Platone, si porta dietro il ricordo (falso e bugiardo) del discorso di Diotima, di cui ribalta tutto il senso sia sul piano materialistico sia idealistico! Dopo interi millenni di labirinto (Nietzsche) e, dopo aver perso l’Italia e la Costituzione, si hanno ancora grandi difficoltà a ricordarsi di M_Arianna, di Maria Maddalena, e di Maria Beatrice (Dante-2021), e si continua a vivere allucinatamente nella illuminata caverna del platonico Mentitore? Tra l’alto dell’Acropoli e il basso dell’Agorà, nella città di Pitagora, come di Parmenide e Zenone, c’è il ponte (un viadotto), non una "Porta Rosa" d’accesso alla fabbrica del "plateale" camuffato Demiurgo acropolitano.
’Nessun Dorma’
canto di speranza: un coro virtuale di 700 bambini
esegue l’aria
di Puccini
Prima della Scala.
Viva Verdi: trionfa l’«Attila» politico di Chailly e Livermore
L’ovazione a Mattarella è stata la vera ouverture dell’opera. La regia, dal taglio cinematografico, sposta ai tempi della Resistenza, ma è nella direzione di Chailly dove esplode tutta la tragedia
di Pierachille Dolfini (Avvenire, venerdì 7 dicembre 2018)
Un Attila politico quello che oggi ha aperto la nuova stagione del Teatro alla Scala. Un Attila ai tempi della resistenza. Perché ha questo sapore il lungo applauso che ha salutato l’ingresso in palco reale del capo dello Stato Sergio Mattarella prima di un Inno di Mameli sussurrato a mezza voce da chi sembra chiedere all’Italia di (ri)destarsi. Un attimo e tocca a Giuseppe Verdi, che corre veloce verso il tragico finale. In mano, stretta in un pugno, la bandiera italiana: Odabella ha dato il colpo di grazia ad Attila, legato a una poltrona, torturato, sgozzato e poi scaraventato a terra, nemico vinto al quale non è concessa la pietà. Una donna che combatte, vestita come in una foto sbiadita che ti guarda da un sacrario della lotta partigiana.
Per Davide Livermore, infatti, Odabella ha il viso e il piglio forte di una staffetta partigiana. Nome in codice Odabella, ci potrebbe stare. Perché il regista porta negli anni Quaranta del Novecento, ai tempi della Resistenza appunto, le vicende di Attila, l’opera di Giuseppe Verdi che ieri sera ha aperto la nuova stagione lirica milanese con Riccardo Chailly sul podio. Quattordici minuti di applausi, foto per tutti, ma anche dissenso per Livermore.
Attila da sempre evoca altre invasioni. Lo fa grazie a Verdi capace di raccontare attraverso una vicenda del quinto secolo, quella del re degli Unni appunto, qualcosa di noi. Di chi siamo e da dove veniamo. Valore imprescindibile della memoria. Che Livermore associa alla resistenza partigiana. Inizia tutto dal nulla. Il palco vuoto, sul grande ledwall macerie di edifici post industriali. Poi la memoria inizia a disegnare i contorni della storia.
Dai sotterranei del palco si materializza la scenografia: un ponte di ferro e pietra diroccato. “Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine e stragi e fuoco”. C’è tutto sulla scena che si affolla di un’umanità oppressa, quella dell’Italia della Seconda guerra mondiale: camionette della polizia, fucilazioni di piazza raccontano quello che "d’Attila è giuoco".
E un grande videogame della storia è la regia di Livermore che ricostruisce come in un cinegiornale - costumi filologici di Gianluca Falsachi - le atmosfere dell’epoca.
Racconta come in un film alla Roma città aperta la storia di Odabella che vuole vendicare il padre ucciso da Attila. Punto di partenza del libretto che Livermore rievoca in un flusso di memoria dove le
scene - disegnate dallo studio Giò Forma tra frammenti di edifici e video - si susseguono in dissolvenza.
Un kolossal pieno di immagini ad effetto quello di Livermore, pensato e realizzato in formato tv per rendere il più appetibile possibile la diretta su Rai 1. Scene corali tecnicamente ben congegnate. A volte anche toccanti. Come lo sbarco dopo la tempesta dei profughi di Aquileia che portano gli arredi di una chiesa salvati alla barbarie per ricostruire anche in esilio un luogo in cui tutti si ritrovino perché il naufragio della vita, sembra dire Verdi, è quello che ti fa perdere i punti di riferimento.
Come il sogno di Attila al quale appare Papa Leone: l’affresco dello storico incontro dipinto da Raffaello nelle Stanze Vaticane appare prima in una proiezione in bianco e nero e poi in una sorta di grande 3D colorato. Altre meno riuscite. Come a festa di nozze in un capannone (travestimento, ma nessun nudo e niente statua della Madonna gettata a terra).
Tutte, però, rischiano di rimanere in superficie, con un’estetica dei movimenti vecchio stile. Rischio che non corre Riccardo Chailly che crede nel Verdi giovanile, lo concerta solenne e ieratico. Nuovo. La lettura del direttore milanese arriva con una morbidezza e una cantabilità che mostrano la raffinatezza di una scrittura che anticipa i grandi capolavori verdiani che verranno.
Arrivano anche le cinque battute scritte da Rossini come introduzione al terzetto che prelude al tragico finale: l’azione si ferma e una luce rossa illumina il palco. Hanno in sé quegli squarci di morte di cui tutto il racconto musicale è contrappuntato, accompagnato da una lenta e inesorabile marcia funebre. Che inghiotte tutti i personaggi.
Una scena di ’Attila’ di Giuseppe Verdi che ha aperto la stagione del Teatro alla Scala (Brescia’Amisano - Teatro alla Scala)
Una scena di "Attila" di Giuseppe Verdi che ha aperto la stagione del Teatro alla Scala (Brescia/Amisano - Teatro alla Scala)
In orchestra e in scena il bianco e nero, il color seppia delle foto d’epoca per raccontare le fragilità di Attila che Ildar Abdrazakov (applauditissimo già dal primo atto) scolpisce con una parola che si fa teatro; la risolutezza di Odabella, affidata alla voce piena e affascinante di Saioa Hernández, temperamento e musicalità perfette per il personaggio chiave dell’opera; il patriottismo di Foresto al quale Fabio Sartori offre il suo squillo capace di piegarsi all’emozione; la meschinità politica di Ezio che ha il carattere vocale e scenico di George Petean.
Tutti armati contro tutti. Personaggi che escono a pezzi. Perché lo spettacolo di Livermore, come l’applauso a Mattarella, è politico, forse non revisionista nel senso storiografico del termine, ma certo critico con un capitolo della storia d’Italia sul quale non si è fatto ancora pace. Alla fine si compie una strage: i dissoluti della festa di Attila vengono trucidati dai partigiani, Odabella, Foresto e Ezio torturano il re, lo legano a una poltrona, lo feriscono prima del colpo finale della donna mentre sullo schermo torna, inquietante, il volto del padre morto. Finisce nel nulla Attila. Chi ha combattuto guarda lontano, verso lo schermo. Dove non ci sono più immagini, ma un chiarore che, però, non abbaglia. Inquieta nella sua freddezza. Vuoto. Come la sensazione che, messaggio politico di Verdi, lascia la vendetta.
Risorgimento italiano, Ebraismo, Antisemitismo.
Una nota di Gramsci ....
Giuseppe Verdi e il Risorgimento
di Maria Rosa Mazzola *
Nell’Ottocento tra le varie forme di musica il melodramma era senz’altro la forma che più godeva del favore del pubblico e suscitava un grande interesse sia nelle persone semplici che negli intellettuali e negli aristocratici. La rappresentazione di un’opera era allora un evento di straordinario interesse: per effetto della sua natura che mette insieme lo spettacolo scenico, la musica e l’intreccio narrativo spesso commovente, essa costituiva un’occasione unica capace di suscitare vero impeto in un’epoca in cui le possibilità di intrattenimento non erano molte. Per questo molti guardavano al melodramma come a uno dei mezzi più efficaci per far conoscere le nuove idee di libertà, di indipendenza e di amor di patria.
Le opere che Giuseppe Verdi scrisse tra il 1842 e il 1849 avevano tutte una forte componente patriottica e vennero tutte accolte dall’entusiasmo del pubblico. Le arie e i cori che parlavano ai cuori e alle coscienze, venivano bissati in teatro e cantati nelle piazze, andando in un certo senso a costituire la "colonna sonora" del Risorgimento.
Da allora iniziò il mito di Giuseppe Verdi, mito che continua tuttora, perché, come disse il presidente Ciampi in occasione del centenario della morte di Verdi, "se l’Italia divenne una sola nazione lo si deve anche a lui e alla forza del suo linguaggio musicale".
Quando Verdi portò Nabucco alla Scala era un giovane di ventinove anni che non presentava particolari velleità patriottiche o sobillatrici. Verdi aveva un unico desiderio, fortissimo e comprensibile: voleva affermarsi artisticamente. Verdi voleva uscire da quel tunnel buio nel quale era entrato negli ultimi anni e nel quale aveva sopportato tragedie immense come l’annientamento della sua famiglia, gli stenti placati solo dall’aiuto di Barezzi e di qualche amico, l’umiliazione prodotta dall’insuccesso di Un giorno di Regno.
Verdi ambiva al successo, alla tranquillità economica, all’indipendenza. Perciò quando si ritrovò fra le mani il libretto di Nabucco è inverosimile che si fosse messo a tavolino per progettare un’opera che avrebbe inaugurato il risorgimento musicale italiano.
Fu una fortunata combinazione il fatto che il libretto contenesse la storia di un popolo oppresso da un potere straniero. Fu una combinazione il fatto che Verdi potesse rappresentare quest’opera alla Scala, nel più importante teatro italiano, in una delle città dove il movimento liberale si stava animando. Non fu una combinazione la musica travolgente che Verdi seppe imporre a questo libretto, una musica accesa, infiammata, vivida. Era questa la musica dell’anima verdiana ed era perfettamente calibrata per evocare una sentimentalità patriottica.
L’opera successiva a Nabucco fu I Lombardi alla prima Crociata. Opera simile al Nabucco dal punto di vista compositivo. Stessa sequenza di brani, cori posti con funzione drammatica analoga, temi musicali con evidenti similitudini, focosità replicata ed accresciuta.
Ancora opera di masse, di grandi temi popolari. I Lombardi alle prese con una Crociata, ed i riferimenti alla grande Crociata che gli italiani dovevano decidersi ad intraprendere furono intenzionalmente marcati. Per raggiungere l’effetto che cercava, Verdi, utilizzò ogni mezzo. Tamburi, trombe squillanti, cori, preghiere, invocazioni a Dio, tutto ciò che poteva infiammare il pubblico.
Il popolo, protagonista in Nabucco come nei Lombardi, si presenta però in quest’ultima con ruolo diverso, opposto rispetto a quello che contraddistingue lo sfortunato popolo ebraico di Nabucco. Una prova di questa diversità ce la offre il coro “O signore dal tetto natio”, simile al “Va pensiero” nel ruolo emotivo ma antitetico nella psicologia di fondo.
Nel “Va pensiero” gli Ebrei sognano la loro terra natia; nel coro de I Lombardi i milanesi sognano le loro belle colline nebbiose, fresche e attraversate dai fiumi.
Ma mentre nel “Va pensiero” gli Ebrei sono conquistati ed oppressi dai cattivi assiri, nel coro dei Lombardi, i lombardi sono ad Antioca, durante una Crociata, a giocare il ruolo di invasori, di conquistatori. Piccola differenza che comunque ci mostra quanta diversa intenzione ci sia fra le due opere. Verdi, nei Lombardi, comincia a porre i buoni fra gli attivi, i belligeranti. I buoni non sono più gli Ebrei rassegnati, ora sono i lombardi battaglieri.
Con il librettista Salvatore Cammarano, da sempre sostenitore di aspirazioni patriottiche, a Napoli, Verdi mise in scena, non senza problemi con la censura, La battaglia di Legnano. Questa opera, dal contenuto sovversivo, fu rappresentata durante la Repubblica romana, la sera del 27 gennaio 1849, qualche giorno avanti la proclamazione dell’effimera repubblica. Verdi, che curò personalmente l’allestimento della prima, ebbe un successo travolgente, tanto che il compositore fu investito di una onorificenza repubblicana. Questo fatto, però, danneggiò la fama dell’opera che, in altre riprese fatte durante l’Ottocento, fu sottoposta al cambiamento del titolo, dell’ambientazione e dei personaggi.
Per quanto riguarda il compositore, subito dopo la prima, se ne andò frettolosamente a Parigi. Ma Verdi era uomo di musica e non d’armi; stando a Parigi si era illuso di poter comporre e portare avanti opere sovversive. La sua opera continuava a raccogliere consensi e a coinvolgere i patrioti che trovavano nella sua cifra melodica e nella sua vigorosa orchestrazione ispirazione e esortazione per le loro lotte.
Durante le cinque giornate di Milano, un osservatore straniero, J. Alexander von Hübner, così scriveva: «In mezzo a questo caos di barricate si pigiava una folla variopinta. Preti molti col cappello a larghe tese, fregiato di coccarda tricolore, signori in giustacuore di velluto... borghesi portanti il cappello alla Calabrese o in onore di Verdi il cappello all’Ernani». Nell’aprile di quello stesso anno Verdi scrisse al librettista Piave, arruolato a Venezia nella Guardia Nazionale, una lettera nella quale faceva esplicite affermazioni: «... Sì, sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo?... Tu credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni?... Non c’è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli Italiani nel 1848. La musica del cannone!...».
Ma i moti del 1848 si concluderanno con una sostanziale sconfitta dei sostenitori della rivoluzione e, con essi, anche gli ideali repubblicani subiranno un grave colpo. Tanti i nomi che passeranno alla causa monarchica e tra essi troviamo anche Verdi (appena eletto delegato per Busseto dopo l’annessione al Piemonte), che in una lettera dell’8 settembre 1859 scriveva al podestà di Busseto:
«L’onore che i miei concittadini vollero conferirmi nominandomi loro rappresentante all’Assemblea delle Provincie parmensi mi lusinga, e mi rende gratissimo. Se i miei scarsi talenti, i miei studi, l’arte che professo mi rendono poco atto a questa sorta d’uffizi, valga almeno il grande amore che ho portato e porto a questa nobile ed infelice Italia. Inutile il dire che io proclamerò in nome dei miei concittadini e mio: la caduta della Dinastia Borbonica; l’annessione al Piemonte; la Dittatura dell’illustre italiano Luigi Carlo Farini. Nell’annessione al Piemonte sta la futura grandezza e rigenerazione della patria comune. Chi sente scorrere nelle proprie vene sangue italiano deve volerla fortemente, costantemente; così sorgerà anche per noi il giorno in cui potrem dire di appartenere ad una grande e nobile nazione».
* Cfr. Maria Rosa Mazzola, O Patria mia! La musica e il sentimento patriottico (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!! CONTRO LA POLITICA DI UNA MAGGIORANZA CHE INFANGA IL NOME DELL’ITALIA, NEL NOSTRO PAESE E NEL MONDO, LA PROTESTA DEI MUSICISTI E DEGLI ARTISTI DEI TEATRI E DELLE COMPAGNIE STABILI.
Federico La Sala
Nelle pieghe della musica con Muti
di Benedetta Saglietti *
Frequentare un’accademia per studiare un’opera lirica (Aida) guidati da un grande maestro, Riccardo Muti, al Teatro Alighieri di Ravenna: quest’anno si tiene la terza edizione. In precedenza, l’accademia ha affrontato le letture di Falstaff (2015) e Traviata (2016). Un’esperienza da specialisti, riservata a pochi eletti? Falso.
Si penserà che anzitutto sia riservata a chi conosce già bene la musica e a chi sa leggerla. Bisogna per prima cosa sfatare il pretesto (“non capisco la musica perché non so leggerla”) che comprenda la musica solo chi è in grado di leggere una partitura. Come in una qualsiasi altra lingua, davvero essenziale per muoversi agevolmente all’interno di un’opera è conoscerne l’impalcatura. Sapersi muovere dentro una struttura musicale s’impara solo e soltanto con l’ascolto attivo: con le guide all’ascolto disponibili ormai ovunque, in radio, su internet, a volte, nei teatri, nelle università e nei conservatori (e, ultimo, ma non in ordine d’importanza, Muti stesso tiene da qualche anno cicli di lezioni intitolate “prove d’orchestra”, su Berlioz, Cimarosa, Dvořák, Mozart, Paisiello, Schubert e Verdi, amatissime e seguitissime, recentemente di nuovo in onda su Rai5 e racchiuse anche in otto dvd).
Dal primo al 14 settembre nel magnifico teatro ravennate si tiene l’Italian Opera Academy, le prove a cadenza giornaliera: il 10 la generale, il 12 Muti ha diretto una selezione di brani da Aida, questa sera sarà la volta dei giovani direttori.
I fruttuosi insegnamenti che si possono trarre dall’Italian Opera Academy non sono confinati all’ambito musicale. Cinque i fortunati direttori d’orchestra selezionati: Marco Bellasi, 35 anni, Italia; Gevorg Gharabekyan, 35, Svizzera; Kaapo Johannes Ijas, 29 anni, Finlandia; Hossein Pishkar, 29 anni, Iran; Katharina Wincor, 22 anni, Austria (e quattro i maestri collaboratori: Maddalena Altieri, 26 anni, Italia; Emmanuelle Bizien, 30 anni, Francia; Wei Jiang, 28 anni, Cina; e Alice Lapasin Zorzit, 22 anni, Italia). L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, fondata quattordici anni fa dallo stesso Muti, è lo strumento del lavoro dell’Accademia. Oltre ai "Cherubini", e i cinque allievi direttori, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, e il cast vocale: il soprano Vittoria Yeo nel ruolo di Aida (che ha interpretato, sempre con Muti, al Festival di Salisburgo 2017), il basso Luca Dall’Amico (il Re d’Egitto), Anna Malavasi mezzosoprano (Amneris) e il tenore Diego Cavazzin (Radamès). Completano il cast il basso Cristian Saitta (Ramfis), il baritono Federico Longhi che dà voce a Amonasro, mentre il messaggero è il tenore Andrea Bianchi .
L’Aida di Giuseppe Verdi è stata spartita tra i quattro direttori: ognuno è responsabile di un atto. Avendo assistito all’accademia in fase inoltrata (siamo quasi a metà), ormai Muti ha ceduto il palcoscenico ai suoi allievi; se ne sta discosto, tra le quinte, a sorvegliare con sguardo attento i giovani direttori sul podio. Vedere un direttore d’orchestra del calibro di Muti cedere la bacchetta ai giovani non solo fa una certa impressione, ma è denso di significato come fatto simbolico. "Trasmettere ciò che ho imparato alle nuove generazioni quanto ho avuto la fortuna di imparare" è il motto dell’accademia. Quanti grandi maestri oggi, hanno il coraggio e l’umiltà di farlo?
Nella lezione del 9 settembre, ogni direttore ha avuto a sua disposizione sedici minuti di tempo per rivedere con i musicisti passi scelti della partitura, esattamente come si fa durante una prova d’orchestra. Cos’è nascosto nelle pieghe della musica, difficilissimo da spiegare a parole senza banalizzarlo, è sempre stupefacente, anche a orecchie esperte: in pochi hanno poi la possibilità di smontare un’opera soffermandosi sul singolo dettaglio (si pensi all’invocazione “Pietà, pietà” nel terzo atto, dove Aida è sola, e intona queste parole senza il supporto della musica, che fa una pausa, e letteralmente le fa il vuoto attorno, su queste parole). Ma qui, come in pochi altri posti al mondo, in platea e nei palchi, quasi tutto il pubblico segue l’accademia, in silenzio e con attenzione, partitura e matita alla mano.
Ogni partecipante si misura dunque con specificità musicali diverse, ad esempio il Preludio iniziale, da far tremare i polsi a direttori anche più esperti, o la celebre Marcia trionfale. In questa fase i cantanti non sono in scena, quindi ci è regalata la possibilità, quanto mai rara, di apprezzare in tutta la sua potente bellezza la sola musica strumentale di Verdi, senza le voci, senza il coro, e soprattutto senza la scena, che a volte distrae le orecchie. Una partitura raffinatissima, che probabilmente in Italia abbiamo un po’ maltrattato o, forse, non studiato abbastanza. (Nel nostro paese la tendenza, per incuria o per lassismo, è quella di nascondersi dietro una scusa e tradizioni esecutive assodate: "Si è sempre fatto così, quindi Verdi è così"). Se si dovesse cercare uno slogan per quest’accademia potrebbe essere questo: dimenticate gli elefanti. Perché questa Aida non è quella che vi hanno sempre fatto vedere/ascoltare: anche se credevi di conoscerla. Ogni piccolo dettaglio, di ogni singolo direttore, dice qualcosa: un attacco poco preciso, un gesto delle braccia, il semplice saper stare in piedi su un podio, il tono della voce, la capacità di saper cantare con voce ferma. Domare una compagine da parte di un maestro ricorda, a volta, la tenuta della classe di un maestro elementare (e, forse non a caso, sempre di maestri di tratta). Gli esperti di team building avrebbero da imparare, eccome, da queste lezioni.
Non è la perizia o l’imperizia musicale che colpisce per prima - pur con le loro specifiche differenze, questi direttori hanno già “un mestiere in mano”, altrimenti non avrebbero passato le selezioni - ma come reagisce l’orchestra a ognuno di loro, come se, in questo lasso di tempo, sino a ora dieci giorni, entrambe le parti si fossero studiate reciprocamente e avessero instaurato una relazione specifica, diversa con ciascuno di loro. Una sorta di chimica interpersonale, più che musicale.
Oltre all’entrare tra le pieghe più riposte della musica, grazie a questo grande puzzle che è prima analizzato per singolo pezzo, e poi ricomposto, si capisce che tutto il corpo fa la musica: il gomito, le dita, l’espressione del viso. Le fasi delle prove sono varie: dapprima si discute in dettaglio, poi per sezioni più grandi, con i cantanti o senza, sino a che si smette di parlare e si suona tutto di fila, o quasi.
La personalità musicale è fatta di gesti, sembra lampante, se non fosse che mai come in situazioni del genere dove si avvicendano molteplici personalità sul podio, spiccano i tratti individuali. Questi gesti creano la musica e, di conseguenza, il corpo del direttore e il suo carisma è fondamentale, soprattutto in quella fase in cui non è più alla parola che si affida l’intesa fra musicisti e podio: perché il direttore d’orchestra col suo corpo impersonifica letteralmente la musica e un direttore con un corpo diverso, par creare una musica diversa. Il dominio della musica è un fatto intellettuale che si estrinseca nel corpo: se la comprensione è fatta con la testa e non si traduce nel corpo è fallace e viceversa se si afferra la musica con il corpo ma non con la mente non si traduce in musica “ricca”, gustosa.
Prima dell’antegenerale, Muti sale sul palcoscenico e tira le fila: “Attenti a non guastare mai il suono”, consiglia. “Ci tengo molto alla rotondità nel suono, anche nei fortissimo. Chi aggredisce l’orchestra dirigendo, genera di ritorno un’aggressività in chi suona. Ogni direttore che passa di qui crea un suono (che lo voglia o no) che cambia: questo è uno dei grandi misteri della musica”.
* Alfabeta2, 14 settembre 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!! CONTRO LA POLITICA DI UNA MAGGIORANZA CHE INFANGA IL NOME DELL’ITALIA, NEL NOSTRO PAESE E NEL MONDO, LA PROTESTA DEI MUSICISTI E DEGLI ARTISTI DEI TEATRI E DELLE COMPAGNIE STABILI.
Le relazioni pericolose tra musica e politica
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 16.05.2016)
Relazioni travolgenti, talvolta virtuose, talaltra assai meno. Certo è che tra musica e politica la corrispondenza d’amorosi sensi non è mai mancata. E si tratta di una neverending story che ha contrappuntato moltissime fasi della storia delle società umane: basti pensare a quanto, nella Repubblica, Platone sottolineasse il potere della musica di influire sulle emozioni degli individui spingendoli a compiere determinate azioni.
Un intreccio che si fa strettissimo con l’ingresso dell’Occidente nella modernità, nel quale giocarono un ruolo chiave l’Illuminismo e la Rivoluzione francese con la canzone di guerra (a sua volta basata su un canto contadino) de La Marsigliese convertita in inno rivoluzionario.
La musica, sul finire del Settecento e con le grandi rivoluzioni liberali, perde i connotati edonistici di occasione di diletto per la società di corte e viene adottata quale medium della nuova sociabilità politica fondata sulla borghesia. Che, nel XIX secolo, guida i moti del ’48, rifonda il teatro musicale e fa delle arie e dei recitativi del melodramma dei vettori potentissimi delle lotte per l’indipendenza nazionale. Il folclore, anche musicale, nell’Ottocento romantico costituisce infatti la manifestazione per eccellenza di quella che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato la «reinvenzione della tradizione» al servizio della battaglia politica dei diversi nazionalismi. Ma vale anche, molto dopo, per Giovinezza, canto goliardico tramutato in megafono del fascismo, e per Bella Ciao, sintesi di svariate canzoni per trovare un inno accettabile da parte di tutte le correnti della Resistenza.
Con l’ingresso delle masse sulla scena della vita pubblica nel Novecento, musica e politica rinsaldano ulteriormente i loro legami, che diventano relazioni pericolose all’interno dei totalitarismi. Dalla Germania nazista all’Unione Sovietica la musica si fa (come tutte le arti) di regime e viene impiegata con finalità di propaganda.
Da Oltreoceano, nel frattempo, era arrivata la «musica degenerata» chiamata jazz, un veicolo di identità per la popolazione afroamericana i cui suoni dilagheranno in Europa, conoscendo traiettorie eccentriche e contraddittorie: amata dai futuristi per la sua fisicità iconoclasta, verrà depurata nel secondo dopoguerra dalla sua dimensione di rivolta razziale e utilizzata dal governo Usa come irresistibile arma di soft power.
Nell’Italia iperpolitica (e degli opposti estremismi) degli Anni Sessanta e Settanta, la «musica andina» era di sinistra e quella «celtica» di destra. E anche negli Stati Uniti la canzone impegnata identifica la colonna sonora di quei decenni (e del rifiuto della guerra in Vietnam), tra Joan Baez e Bob Dylan, via via fino al rock «operaio» e working class di Bruce Springsteen. Ma anche il Regno Unito, naturalmente, dice la sua su politica e musica, dal Britpop prodotto da esportazione della Cool Britannia di Tony Blair sino a Elton John campione dei diritti dei gay e delle unioni civili.
In una società di massa e pop la musica può dunque rappresentare anche un formidabile canale «ideologico» e di costruzione di un’egemonia culturale. Come mostra pure l’Eurovision Song Contest che dalla politica si era tenuto sempre rigorosamente alla larga, e sembra andare adesso alla ricerca di una narrazione pubblica per una Ue in crisi di immagine. Ecco così la vittoria di Conchita Wurst (il tema del «gender») nel 2014 e, ora, di Jamala (il contrasto alla neo-politica di potenza della Russia). Perché, è proprio vero, negli «scontri di civiltà» uccide (o difende) più la gola - nel senso dell’ugola canterina - della spada.
“Napoli e la mia musica furono i doni di mamma”
Riccardo Muti: “Era una donna tosta, bellissima ed elegante ma anche riservata
Mi trasmise la cultura
tedesca,meridionale,pugliese e sicula di Federico II”
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 25.08.2015)
Una potente madre napoletana è all’origine delle sorti musicali di Riccardo Muti. Figlio di una signora «plasmata da quella napoletanità che deriva dalla cultura di Federico II, imperatore tedesco ma anche partenopeo, pugliese e siculo» (parole di Muti), il direttore d’orchestra colloca con atteggiamento fiero la propria mamma nella categoria dei «napoletani tosti». Lo dichiara nella sua fresca casa ravennate
durante uno dei suoi rari pomeriggi di riposo.
Se è vero che la napoletanità attinge la sua linfa da una coscienza secolare delle radici e da un accorato calore umano, ma anche da una prospettiva ombrosa e segnata dal disincanto, in Muti convivono entrambi gli aspetti. È napoletano nelle battute svelte, nell’ironia feroce, nella facilità del gesto rimodellata strutturalmente dalle regole del podio. Ma lo è pure nelle nostalgie che ogni tanto sembrano incupirlo.
Ora che gira il mondo con successo, parla dei suoi trascorsi gioiosamente sudisti come di una mitica età dell’innocenza, «ricca di emozioni semplici e dirette». Riferisce le circostanze della propria nascita come se fosse spuntato da una fiaba. -«Sono cresciuto a Molfetta, nella stupenda terra dove mio padre, pugliese, lavorava come medico. Tuttavia nacqui a Napoli nel 1941 e fui riportato in Puglia quando avevo due settimane. A volte i molfettesi si risentono un po’ del mio definirmi napoletano, però bisogna ammettere che la qualifica dipende da ragioni obiettive. Diciamo che sono un apulo- campano».
Come mai nacque a Napoli, se abitavate a Molfetta?
«Mia madre volle dare alla luce i cinque figli, tutti maschi, nella propria città. Al termine di ogni gravidanza ci andava in treno sfidando pericoli e fatiche - nel mio caso il viaggio avvenne durante la guerra - per partorire a casa di sua madre. Da adulti i miei fratelli e io l’abbiamo interrogata su questa scelta. Se un giorno finirete, che so, in America, replicò, quando vi chiederanno dove siete nati e direte a Napoli vi rispetteranno, se invece risponderete a Molfetta ci vorrà un’ora per spiegare dov’è».
Le inculcò l’idea della grande capitale?
«Napoli era per lei il regno da cui tutto s’irradia. La comprendo: ogni volta che ci vado mi coinvolge profondamente lo spettacolo della città, meravigliosa e ferita. Dal punto di vista musicale, inoltre, Napoli ha avuto un’importanza enorme e non abbastanza valutata. Spesso è stata al centro del mio lavoro, come quando curai un progetto sul Settecento napoletano per il Festival di Salisburgo. L’iniziativa ha presentato in Austria fino al 2011 capolavori sconosciuti, facendo capire quanto compositori quali Cimarosa, Paisiello, Porpora e Mercadante abbiano nutrito il genio di Mozart».
Sua madre si chiamava Gilda, come un personaggio del “Rigoletto”. Curiosa coincidenza per un verdiano come lei.
«È un puro caso: la sua famiglia non s’interessava di musica. Il gran melomane tra i miei genitori era mio padre Domenico, dotato di una bella voce tenorile. Reputava necessaria per noi un’educazione musicale, e a me toccò il violino. All’inizio mi pareva una tortura: avevo sette anni e stonavo davanti a una finestra da cui potevo assistere con invidia alle partite di pallone dei miei coetanei. Non facevo progressi, sembravo negato, e l’insegnante consigliò ai miei di farmi smettere. La via crucis di Riccardo si ferma qui, decretò mio padre. Ma mia madre si oppose: aspettiamo un mese. Non ho mai capito il perché di quella frase, fatto sta che in me scattò qualcosa e il giorno dopo riconobbi le note con immediatezza, anzi, con una certa baldanza. La mia strada nella musica partì da quel momento».
Come appariva mamma Gilda?
«Bellissima, slanciata ed elegante, coi capelli ondulati. Una linea di sangue blu scorreva nella sua famiglia, anche se lei, così sobria, non amava sottolinearlo. La sua bisnonna materna era una marchesa di Grenoble, e quando andavamo a pranzo da mia nonna a Napoli, in Via Cavallerizza a Chiaia, sulla tavola c’erano tovaglie e posate con lo stemma del marchesato».
Gilda non aveva vanità?
«Nascondeva l’età. Solo quando se n’è andata nel ‘71, per un ictus a 65 anni, abbiamo potuto vedere un suo documento. L’hanno sepolta a Napoli e mio padre, per rispetto, ha fatto incidere sulla sua tomba l’anno della morte ma non quello della nascita ».
Era una mamma affettuosa?
«Non gradiva le smancerie. Era riservata e severa. Ci ha cresciuti come soldati. Dormivamo su materassi di crine messi sopra tavole di legno. Espressioni come “non mi piace” e “io voglio” erano per lei inconcepibili ».
Dura, quindi.
«Ma no, solo non incline alle effusioni. Un suo sorriso apriva il cielo. Quand’era spensierata, in cucina, cantava canzoni appassionate come “Stu core analfabeta tu ll’he purtato a scola” di Totò. Però il bacio della buonanotte ce lo dava di nascosto, quando credeva che fossimo addormentati. Baciare i figli era una sdolcinatezza inopportuna per l’“omme”, il maschio”».
Come accolse la carriera straordinaria del figlio Riccardo?
«Con la consueta asciuttezza. Vinsi il concorso Cantelli nel ’67 e diressi il concerto della premiazione a Novara. Ho una foto dove l’intera sala è plaudente tranne i miei genitori e i miei nasuti fratelli. Mia madre aveva impartito l’ordine di non applaudire, considerando ogni forma di entusiasmo per un congiunto una debolezza sconveniente. Nel ’70, dopo un mio concerto a Firenze, chiese al critico de La Nazione Leonardo Pinzauti: “dottore, come va questo ragazzo?” Eppure io dirigevo il Maggio Musicale Fiorentino già da un anno e mezzo».
Esiste ancora, secondo lei, la “grande madre mediterranea”?
«Certo: basta pensare alle madri austere e vigorose del Sud Italia, a quelle d’Israele, della Spagna, della Grecia. Guardo con orgoglio a questo mondo, che ci ha impresso una certa peculiarità del ragionare e del sentire. Per questo sono convinto che la Grecia debba restare in Europa. È il luogo dove in passato furono creati i modelli culturali che non smettono di determinare la nostra identità».
"Uniti supereremo ogni difficoltà". Gli auguri di Napolitano all’Italia
Roma - (Ign) - Il presidente della Repubblica nel suo intervento alla manifestazione per la ’notte tricolore’ nella piazza antistante il Quirinale: oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. E sottolinea: "Ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia
Accompagnato dalla signora Clio, il capo dello Stato ha aggiunto: "Se fossimo rimasti divisi in otto stati come eravamo nel 1860 saremmo stati spazzati via dalla storia".
Per Napolitano oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. Perché abbiamo avuto momenti brutti, commesso errori, abbiamo vissuto pagine drammatiche ma abbiamo fatto tante cose grandi e importanti, grazie all’unità siamo diventati un Paese moderno". "Eravamo già in ritardo allora di fronte alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra che erano già dei grandi stati nazionali e stava per diventarlo anche la Germania. Per fortuna - ha detto ancora - eravamo in ritardo ma non abbiamo atteso ulteriormente. Sono state schiere di nostri patrioti che hanno combattuto e dato la vita e scritto pagine eroiche che noi dobbiamo avere l’orgoglio di ricordare e rivendicare. Perché solo così possiamo anche guardare con fiducia al futuro e alle prove che ci attendono".
"Ne abbiamo passate tante, passeremo anche quelle che avremo di fronte, in un mondo forse più difficile. Però l’importante è che ricordiamo sempre che" anche se "ognuno ha i suoi problemi, i suoi interessi e le sue idee e discutiamo e battagliamo ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia. E se saremo uniti sapremo superare tutte le difficoltà che ci attendono. Auguri a tutti gli italiani"
* ADNKRONOS. ultimo aggiornamento: 16 marzo, ore 22:18:
http://www.adnkronos.com/IGN/Speciali/Unita_DItalia/Uniti-supereremo-ogni-difficolta-Gli-auguri-di-Napolitano-allItalia_311798162589.html
Muti: la nostra identità si risveglia in musica
Il Maestro ha diretto ieri a Roma il “Nabucco” di Verdi
“Uso le note per aggregare persone, culture, religioni diverse”
Esportiamo il cortocircuito tra melodramma opera e nazione
di Sandro Cappelletto (La Stampa, 17.03.2011)
Sono nato a Napoli, il 28 luglio 1941, durante la guerra, da madre napoletanissima e padre pugliese. Mi riportarono subito a Molfetta, e mantengo dentro di me lo stesso amore per l’una e per l’altra patria: amo definirmi un apulo-campano». Così scrive di sé Riccardo Muti, all’inizio di «Prima la musica, poi le parole», la sua autobiografia. Meridionale, dunque; e fieramente. Poi il diploma al Conservatorio di Milano, le prime affermazioni al Maggio Musicale di Firenze, il lungo incarico alla guida dell’orchestra della Scala, in questi giorni la presenza a Roma per una serie di recite del Nabucco di Verdi, diretto ieri sera alla presenza del Presidente della Repubblica.
La carriera di un musicista non ha patria e lo sanno bene i cantanti, i direttori, gli strumentisti italiani che sono stati per secoli, e continuano a essere, infaticabili emigranti. Muti non fa eccezione: i successi a Filadelfia, il sodalizio con l’orchestra dei Filarmonici di Vienna, la presenza costante al festival di Salisburgo, il recente incarico a Chicago.
Tuttavia, in questi giorni sembra che attraverso di lui si sia di nuovo acceso il cortocircuito tra musica - più esattamente: il melodramma, l’opera in musica - e nazione. Una nazione affaticata, che trova motivi per dividersi, per precisare, per distinguere, anche in questo giorno di festa, e che sembra ritrovare una vernice comune negli entusiasmi che questa musica ancora accende. «Non c’è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli italiani nel 1848. La musica del cannone! Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo: ne avrei un rimorso, consumare della carta da musica, che è buona per fare cartucce», scriveva Verdi il 21 aprile 1848, nella sua più celebre lettera patriottica. E meno male che non è stato di parola.
E un secolo dopo, commentava Massimo Mila: «Soltanto in Italia in rapporto di filiazione tra l’artista e la nazione procede in questa direzione e riguarda assai più lo spirito che i sensi».
Oggi, siamo allo stesso punto. Così, ogni recita - e sono tutte esaurite - di questo Nabucco romano diventa un sacrificio collettivo: un atto sacro, a fortissima temperatura emotiva. Dopo il Va’ pensiero - «che non può diventare inno nazionale perché esprime il dolore, il compianto di un popolo incatenato», precisa Muti - il Maestro chiede al pubblico di cantare e di unirsi al coro del Teatro dell’Opera di Roma. Superata ogni remora, ogni dubbio se concedere o non concedere il bis, quel coro sembra diventare un momento identitario, e condiviso: «Era già successo alla Scala: sapevo bene, in teoria, di non poter concedere il bis: il divieto faceva parte di quel codice scaligero che aveva dato al teatro negli anni Venti il suo meritato carisma e la funzione di modello agli occhi del mondo. Ma alla terza richiesta mi chiesi che fare: “Se non lo fai - dicevo fra me e me - deludi migliaia di persone, se lo fai spezzi una tradizione sacra”». La spezzò, rispettando la richiesta che partiva dall’emozione della sala gremita, e da se stesso.
«Continuo a combattere per un’Italia - che amo profondamente - e per un’Europa che denotano gravi segni di stanchezza, di smarrimento. Altre nazioni, tecnologicamente, culturalmente si stanno prendendo il futuro. Non vorrei che in questo futuro l’Europa e l’Italia rimanessero soltanto una specie di museo. Magari con la scritta “chiuso”»: un rischio concreto che Muti ha esplicitamente evocato l’altra sera, spezzando un’altra tradizione e parlando al pubblico durante lo spettacolo.
Ma un’identità musicale italiana capace di imporsi come codice linguistico internazionale è assai più antica di Verdi: «Mozart è stato il più grande operista italiano del Settecento. Certe sue creazioni, penso a Così fan tutte, ma non solo, non sarebbero state possibili senza la conoscenza dell’ opera italiana e in particolare napoletana di quel secolo». In questa direzione vanno le esecuzioni di compositori e titoli italiani usciti dal repertorio più frequentato, che Muti da alcuni anni costantemente ripropone, in un lavoro tenace, non episodico.
La musica ha un’altra caratteristica preziosa: unisce e non divide, in un mondo contemporaneo che vede ancora contrapposizioni feroci tra popoli, tra Stati. Questa la strategia di Le vie dell’amicizia, la manifestazione legata al festival di Ravenna, che ha fatto tappa in diverse città del Mediterraneo, del Medio oriente, del Nord Africa e, in Italia, a Trieste: «Trieste come città di confine, città ponte tra l’Italia, la Slovenia e la Croazia. Un concerto che ha avuto un significato sociale, ma anche politico: amicizia significa fratellanza, ricucire ciò che è stato strappato. Trieste, in memoria degli orrori avvenuti nella Risiera di San Sabba, il lager dove furono torturati, uccisi, avviati ai campi di sterminio migliaia di italiani, soprattutto ebrei; e degli orrori delle foibe istriane, che inghiottirono migliaia di altri sventurati».
Maestro, fa politica o musica? «Uso la musica anche per aggregare persone, culture, religioni, popoli diversi. Faccio musica, non politica. La mia politica è fare appello continuo e appassionato per la cultura. Ho sempre combattuto contro lottizzazioni, partigianerie». Per un’altra Italia, quella che festeggeremo nel 2161.
Muti: "Non toccate Mameli è meglio di Va’ Pensiero"
Il direttore d’orchestra: "Quelle note rappresentano la storia di tutti noi e sarebbe assurdo cambiarle con Verdi" "Il Nabucco è meravigliosamente poetico ma è un canto di perdenti: è una lamentazione, una preghiera"
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 17.03.2011)
Che cosa accende la fiamma del Nabucco? Perché batte invariabilmente forte il cuore patriottico di questo monumento musicale? «Perché vi si specchia l’essenza stessa dell’Italia», risponde uno straordinario specialista di opere verdiane come Riccardo Muti, «anche se l’opera è basata sulla Bibbia». Ma al di là dell’argomento biblico, con la sua violenta storia di un popolo, gli Ebrei, esule e asservito a un tiranno, il re di Babilonia, fu in qualche modo facile, per un Paese frammentato e oppresso come l’Italia in cui debuttò il Nabucco (Scala, 1842), proiettare la speranza di un prossimo risorgimento in quel grandioso affresco musicale. Lo fece soprattutto ritrovandosi nel Va’, pensiero, pagina corale di inestinguibile efficacia, in grado di sollecitare un desiderio di riscatto che continua a riguardarci anche in quest’Italia odierna, invelenita dagli scandali e soffocata nelle sue risorse culturali. Lo ha dimostrato Muti qualche sera fa, sul podio della prima del Nabucco a Roma, accogliendo la richiesta di bissare quel coro, e anzi invitando il pubblico a unirsi al canto collettivo, in un’onda clamorosa di emozioni condivise che sfidava coraggiosamente il rischio della retorica.
«Io credo davvero nella bandiera e nella patria», afferma il direttore d’orchestra con la consueta veemenza. «Ci ho creduto fin da bambino, essendo cresciuto in una terra del Sud dove questi valori sono radicati. L’ho ribadito anche in periodi in cui la fede nel tricolore sembrava politicamente sospetta. Ho sempre creduto nell’Italia, nella sua gente, nei suoi talenti. E continuo a credere in quel suo ricco patrimonio artistico e culturale che ci rappresenta e fa la nostra grandezza nel mondo. Per questo andrebbe difeso».
Crede anche nell’Inno di Mameli?
«Certo: mi coinvolge e mi commuove. Non mi pongo mai di fronte a questo pezzo con un atteggiamento giudicante, come un critico che ne analizza la fattura. Nell’inno italiano sono nato: fa parte del nostro Dna. È la musica dei milioni di miei connazionali che hanno sacrificato la vita per la loro terra. D’altra parte, con qualche rara eccezione, come l’inno tedesco, derivato da un quartetto di Haydn, e come l’inno inglese e quello russo, nessun Paese, per i suoi inni, conta su pagine musicali di autentico pregio. Non sono pensate in profondità, ma fatte per spronare un popolo, imprimergli vigore e motivarlo. Anche la Marsigliese, cantata con fierezza dai francesi, al cui spirito nazionale si armonizza egregiamente, non spicca per qualità musicale».
Lei ha eseguito tanto l’Inno di Mameli, persino in luoghi del mondo difficili e remoti grazie ai "Viaggi dell’Amicizia" del Ravenna Festival, dove dirige ogni volta l’inno locale accanto al nostro.
«È così che sono diventato un esperto di inni! Ho diretto l’egiziano, il tunisino, l’armeno, il marocchino, il siriano, il libanese... A noi si uniscono di volta in volta musicisti e coristi del posto, e per loro imparare il testo è un’impresa. Parole come "dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa", per uno straniero, possono essere uno scioglilingua. Il 9 luglio saremo a Nairobi, e a cantare l’Inno di Mameli ci saranno anche i bambini del Kenya. Sono situazioni coinvolgenti e unificanti. Comunque, accanto ai vari inni, posso testimoniare che il nostro non sfigura mai, anzi: spesso è il migliore».
Resta dunque convinto che non va messo in discussione?
«Non avrebbe senso: Fratelli d’Italia è la nostra storia. È i nostri eroi e caduti. È i valori e gli onori della patria. Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l’Inno di Mameli e che Dio ce lo conservi».
Eppure, come lei ci ha di nuovo fatto comprendere nei giorni scorsi a Roma, il Va’, pensiero è l’Italia...
«La sua poesia è magistrale, ma non potrà mai essere un inno, perché è un canto di perdenti, dove gli Ebrei piangono l’esilio e la sconfitta. In realtà è una lamentazione e una preghiera. Fu Verdi a spiegare che, scrivendo quel coro, aveva in mente il Salmo "Superflumina Babylonis". È grave e sottovoce, dal tempo lento, e il suo carattere desolato esprime dolore e rimpianto. Non nacque per fomentare la ribellione contro gli invasori austriaci, e infatti nella sua malia sommessa non ha il senso di riscossa di un coro risorgimentale. Eppure, grazie alla sua forza evocativa, il Va’, pensiero è divenuto il sogno della patria persa, il sentimento di un’identità comune e il riflesso di istanze di liberazione".
Perché allora non considerarlo un possibile inno?
«Perché è inimmaginabile, per esempio, il Va’, pensiero cantato da una squadra di sportivi: farebbe crollare la pressione. Ci vuole un altro piglio, un vigore particolare, che quello di Mameli possiede. Bisogna anche capire che il Va’, pensiero non vive solo di una meravigliosa melodia, ma di una superba orchestrazione e di una serie di linee di contrappunto che la attraversano dandole un significato profondo e complesso. Per eseguire quella pagina, insomma, non si può prescindere dal contesto di orchestrazione e armonizzazione concepito per Nabucco dal compositore".
Che cos’ama di quest’opera verdiana?
«La sua sinfonia strepitosa dal punto di vista della forma, dell’incisività, della potenza ritmica e rivoluzionaria. Le sue pagine corali ispirate al Rossini tragico, e altre di estrema raffinatezza cameristica. Il bellissimo uso strumentale dell’orchestra e la definizione di figure ben stagliate e caratterizzate, con due giganti quali Nabucco e Abigaille, che sono porte d’accesso ai personaggi immensi della maturità verdiana: in Nabucco c’è già tutto il Verdi degli anni successivi».
«Stavolta alziamo la voce per cantare il Dies Irae in memoria del Paese»
Centinaia di musicisti saranno in piazza del Popolo per intonare le note del Requiem di Mozart. Anna de Martini: «Sarà il nostro urlo colto e bello». E la scuola popolare di Testaccio marcerà sulle note
di Jolanda Bufalini (l’Unità, 13.02.2011)
Dies Irae, dies illa/ solvet saeculum in favilla. È stata una valanga di adesioni, cento, duecento, ora il conto si è perso e l’ iniziativa si è allargata a macchia d’ olio. «Io dirigo un coro», racconta Anna De Martini, cantante di musica antica, che ha avuto l’ idea, «conosco altri cori, pensavo a loro». Le voci: soprano, contralti. La manifestazione che qualcuno pensava solo di donne è di donne e uomini: tenori, baritoni, bassi. Hanno chiamato tanti strumentisti, cantanti professinonisti e principianti. Quanti saranno lo vedremo oggi ma certo non passerà inosservato il Dies Irae dal Requiem di Mozart. «Un urlo colto e non demagogico», spiega Anna che prende in prestito dal mestiere la spiegazione: «Se urli si schiaccia la voce e il suono è meno chiaro». Ogni adesione, ogni messaggio, ogni telefonata era così «convinta, entusiastica, come fossi io», racconta la musicista. «Politicamente aggiunge è interessante che sono persone che spesso non hanno votato, non sono iscritte a partiti, non vanno spesso a manifestazioni. Le persone che studiano e che si fa finta che non esistano, quelli che non appaiono nei talk show».
Il paese dei balocchi. Sarà un richiamo severo per chiedere «un giusto processo» e «le dimissioni del presidente del Consiglio», le dimissioni sono scritte, anche, in testa alla partitura. L’ indignazione nasce perché «non si può salire tutte/i sulla carrozza del postiglione, ‘venite ragazze nel paese dei balocchi’ e poi crescono le orecchie d’ asino», perché non tutto «è opinione a cui contrapporre un’ altra opinione uguale e contraria» e, se si continua così, «ci cambieranno anche il passato, come avviene in 1984 di George Orwell». «Io aggiunge Anna De Martini non vado in piazza perché sono scandalizzata ma perché penso si debba dar voce all’Italia per cui non tutto è uguale, non tutto è opinabile, che studia e che si impegna». Appuntamento all’ una in piazza del Popolo per provare. «Portate amici e bambini e qualche copia in più di testo e partitura per darla a chi voglia aggiungersi».
Tanta musica a piazza del Popolo, dove arriverà anche Giovanna Marini con le testaccine/i della scuola popolare di musica. Come le lucciole “Puritani e moralisti”? Non sembra proprio. Nel repertorio degli allievi e delle allieve della scuola che andranno a piazza del Popolo spicca l’ indimenticabile “Bocca di rosa” di Fabrizio De André e anche “Noi siam come le lucciole”, 1927: «Brilliamo nelle tenebre/ Schiave di un mondo brutal/Noi siamo i fiori del mal ... ».
E ancora le canzoni popolari e politiche alla cui riscoperta Giovanna Marini ha dedicato il suo rigore filologico e prestato la sua voce: «Ama chi ti ama/ non amare chi ti vuol male/ e specialmente il caporale/ e i padroni che sfruttano te». Un pensiero va anche alle operaie della Fiat e a Marchionne: «Sior padrone, non si arrabbi se al gabinetto devo andare... /Ci sei andato l’altro ieri... Mi vuoi proprio rovinare, la catena fai rallentare”. Il testo di Dario Fo e Paolo Ciarchi è del 1972: «Vai ma sbrigati in tre minuti, non si fuma al gabinetto, non si legge l’Unità». È proprio una fissa dei padroni questa della lunghezza della pausa per il gabinetto. L’ appuntamento per chi voglia provare è alla scuola di Testaccio alle 11, chi non facesse in tempo può andare direttamente a piazza del Popolo.
Musica che salva i bambini
Da Caracas alle periferie italiane arriva il “sistema Abreu” che insegna a suonare come alternativa al degrado
di Stefano Miliani (l’Unità, 14.11.2010)
Nella nostra Italia in frantumi, Rossini un giorno dovrà ringraziare il Venezuela. Tra i palazzi che fanno letteralmente acqua nel quartiere periferico delle Piagge a Firenze, nel quartiere Sanità di Napoli dove la camorra fa suonare le pistole, nel multietnico San Salvario a Torino, sta per plasmarsi un sogno a forma di oboi e violini suonati da bambini, bambine, ragazze e ragazzi.
Nel paese latinoamericano, dove la povertà impazza nonostante il petrolio, dove la criminalità dilaga e le baracche fatiscenti punteggiano le colline di Caracas, dal 1975 esiste il «sistema Abreu»: è il programma inventato dal «maestro» Abreu che ha permeso a 2 milioni di ragazzi e ragazze di apprendere la musica, di suonare in un’orchestra per acquisire fiducia in se stessi, per trovare un’altra via al degrado, alla povertà economica e culturale, e divertendosi.
Il «sistema» oggi impegna 400mila ragazzi in 250 orchestre giovanili e 150 infantili. Quell’ utopia diventata realtà ora la importiamo nella terra di Monteverdi, Puccini e De André. Dietro la spinta di Claudio Abbado, la Scuola di musica di Fiesole e Federculture ieri hanno tenuto a battesimo qualcosa di unico, audace, perfino da scavezzacollo: tra i cipressi delle colline fiesolane l’istituto musicale e l’associazione hanno organizzato un confronto internazionale quale preludio alla onlus detta «Comitato sistema nazionale delle orchestre e dei cori infantili e giovanili». Il nome un po’ farraginoso non faccia pensare a strutture elefantiache o succhiasoldi. L’obiettivo è altro. La meta è creare «nuclei didattici» nelle cento città e cittadine per rendere la musica accessibile a tutti, per insegnarla a cuccioli d’uomo e donna tra i 4 e i 14 anni. Attenzione però: non si vuole creare ulteriori fabbriche di aspiranti professionisti né tanto meno illusioni televisive stile Talent Show. Si vuole insegnare la musica per imparare a stare insieme, perché - come ama ripetere Riccardo Muti - suonando in gruppo si apprende ad ascoltare gli altri, se stessi e quella convivenza oggi così compromessa.
Il «sistema» italiano vede due piloti principali: il presidente di Federculture Roberto Grossi e il direttore artistico della Scuola fiesolana nonché affermato pianista Andrea Lucchesini. Grossi introduce: «Valorizzeremo le esperienze già vive nella società e ne incoraggeremo di nuove seguendo criteri unitari oltre la logica dei 100 campanili. Non prepareremo musicisti professionisti avvisa non faremo concorrenza ai Conservatori, non saremo una sovrastruttura pesante». «Partiamo sì da zone disagiate, vogliamo dare a chi non ha prospettive, ma per coinvolgere tutti senza esclusioni, compresi i genitori - chiosa Lucchesini - E le lezioni saranno gratuite». Lezioni senza solfeggio, all’inizio, per cantare e suonare subito.
Il «sistema» avrà «nuclei» didattici con docenti-musicisti preparati sia a insegnare sia ai rapporti umani anche in situazioni sociali emarginate. Requisiti: metodi e organizzazione condivisi più l’entusiasmo. Ma l’entusiasmo non paga l’affitto di stanze né i flauti. I soldi? Grossi risponde che, diventati Fondazione, chiederanno sostegno ai ministeri dell’istruzione, delle politiche giovanili e dei beni culturali (auguri), che presenteranno progetti all’Ue, che saranno essenziali le Regioni, i privati e, dando luoghi, strutture, attrezzature, gli enti locali. Grossi confida anche in un disegno di legge bi-partisan con Buttiglione primo firmatario ora in commissione cultura alla Camera (ci permettiamo un certo scetticismo sull’esito concreto), però c’è già chi si muove. Valga citare la Cgil: aderisce quella nazionale e in Toscana offrirà le sue 262 sedi. Piccole viole e cantanti tra le tute blu e i precari.
«Rigoletto» in tv. E Mehta attacca il ministro della Cultura
Scontro a distanza sui tagli alla lirica. Domingo protagonista nei luoghi originali pensati da Verdi: diretta stasera e domani
di Chiara Maffioletti (Corriere della Sera, 04.09.2010)
MANTOVA - Alla vigilia della diretta in mondovisione in 148 Paesi di «Rigoletto a Mantova», in onda stasera (il primo atto verrà trasmesso su Raiuno alle 20.30. Domani gli altri due, alle 14 e alle 23.30) va in scena la polemica. Ad accendere la miccia, il maestro Zubin Mehta che dirigerà l’orchestra sinfonica della Rai in questo evento. Parlando della situazione della cultura in Italia, il direttore tuona: «Questo governo taglia fondi a tutti i teatri. A Genova è una tragedia, a Firenze lo stesso. Siamo senza un ministro: il signor Bondi non ha il coraggio di parlare con noi. Per lo spettacolo l’Italia rappresenta una vergogna». Parole roventi, seguite da un’immediata replica del ministro: «Mehta non sa di cosa parla. La situazione del Carlo Felice come di altre realtà non può essere imputata al governo ma a un quindicennio di malagestione. Il Maestro riveda i suoi infondati giudizi offensivi che non merito».
Uno scontro che non ha tuttavia guastato troppo il clima fibrillante del giorno prima del debutto. Il più emozionato era lui, Placido Domingo. Concentrato al punto da trincerarsi nella suite del suo albergo piuttosto che partecipare con il resto del cast all’ultimo tour sui luoghi del libretto.
Alla fine, un saluto ai colleghi ha voluto comunque farlo: Domingo si è fatto trovare, a sorpresa, sulla riva del Mincio, all’attracco del battello che ha portato gli artisti a costeggiare la rocca di Sparafucile, set del terzo atto. Completamente vestito di bianco e scortato da uno dei suoi figli, ha accolto tutti con un sorriso e si è spinto in un abbraccio quando dalla passerella è scesa la bionda soprano russa Julia Novikova, che nell’opera è sua figlia Gilda. «Non riesco a fare una passeggiata in barca il giorno prima di un evento così: lo vedranno un miliardo di persone», si è scusato. In fondo per lui è una prima volta: mai, nei suoi 69 anni dichiarati (di cui 50 effettivi di carriera) lui, tenore, si era avventurato nel ruolo (da baritono) di Rigoletto. La sua paura è non trattenere le lacrime in diretta. Non è un caso se per convincerlo a prendere parte al progetto ci siano voluti due anni: «Ero spaventato. Cantare nei luoghi del libretto rende tutto più emozionante ma l’impresa è mantenere i nervi e la voce saldi con i tre atti così divisi nel tempo».
Ma Andrea Andermann, mente di questo film in diretta, dice senza mezzi termini: «Senza Domingo non l’avrei fatto. Era fondamentale perché non cercavo un ottimo baritono ma un ottimo attore». Mentre parla, il produttore cammina svelto tra una stanza e l’altra di Palazzo Te, primo dei tre set. Mantova è invasa da chilometri di cavi, binari e camion della Rai. La sincronia è fondamentale e il più piccolo imprevisto rischia di frantumare questa colossale produzione. «Ci sono moltissime incognite», ripete Andermann. E intanto ricontrolla la telecamera nascosta in un mobiletto. Rilassato invece il regista, Marco Bellocchio, che si schermisce: «Eh, con l’età...».
Al contrario, decisamente carico Mehta che, dopo lo sfogo su Bondi, si rituffa nel suo ruolo (dovrà seguire le mosse dei cantanti da un monitor) e racconta divertito: «I set sono blindati. L’altro giorno la polizia non mi ha lasciato passare». L’augurio più bello arriva dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che per questo «Rigoletto» ha pensato un regalo speciale: sarà lui a presentare l’evento con un annuncio prima della messa in onda.
Stasera e domani "Rigoletto a Mantova" su RaiUno con il saluto del presidente Napolitano
La lirica in mondovisione con Domingo e Mehta: "Bondi si ispiri invece di tagliare"
Il direttore accusa: "Il ministro è senza vergogna". La replica: "Non sa di cosa parla"
Regia di Bellocchio per un kolossal da un miliardo di fan. Il tenore: "Sono emozionato"
di Carlo Brambilla (la Repubblica, 04.09.2010)
Ci sarà anche il saluto del Presidente Giorgio Napolitano a introdurre il primo atto del Rigoletto a Mantova, in diretta stasera, alle 20.30, su RaiUno, trasmesso in mondovisione. Il secondo e il terzo atto del kolossal con Placido Domingo per la prima volta nel ruolo baritonale del protagonista, con la regia di Marco Bellocchio, andranno in onda, sempre in diretta, domani alle 14.30 e alle 23.15. Il messaggio presidenziale sottolinea la grande funzione culturale di questo spettacolo popolare ideato da Andrea Andermann, a metà strada tra teatro, cinema e televisione, per il quale gli organizzatori si aspettano un miliardo di spettatori in 141 Paesi. Come per Tosca a Roma nel 92 e poi Traviata a Parigi nel 2000 gli artisti reciteranno nei luoghi storici dove si svolge la scena dell’opera. Che per Rigoletto saranno Palazzo Ducale, Palazzo Te, la Rocca di Sparafucile, oltre alle strade della città bagnata dal Mincio.
La presentazione del grande evento, ieri, è stata però l’occasione per rilanciare le polemiche sui tagli statali alle fondazioni liriche italiane. Comincia il direttore Zubin Mehta - che per l’occasione dirigerà l’Orchestra nazionale della Rai - a sparare a zero contro la politica culturale del Governo. «Spero che il Rigoletto sia di ispirazione. Spero che il Governo che taglia a tutti i teatri lo guardi». In particolare Mehta attacca il ministro Sandro Bondi, riferendosi anche alle vicende legate al Maggio Fiorentino dove è direttore. «Bondi è senza vergogna e non ha il coraggio di venire a Firenze a parlare con noi. Mentre al Maggio Fiorentino il mese scorso è arrivato un ulteriore taglio di 2 milioni di euro». La replica del ministro non si fa attendere: «Mehta non sa di cosa sta parlando. In questi anni il ministero è stato particolarmente vicino al Maggio fiorentino, così come a tutte le altre fondazioni in difficoltà». Uno scambio di battute che scatena una serie prese di posizione. Da Francesco Giro sottosegretario ai Beni e alle attività Culturali, schierato naturalmente a fianco di Bondi a Matteo Orfini, responsabile cultura del Pd che spiega la sua solidarietà a Mehta per gli attacchi ricevuti.
Di poche parole, ieri, Placido Domingo, per conservare la voce al meglio in vista della due giorni che lo attende. «Sto bene ma sono esausto - ha confidato - Trovo particolarmente emozionante il fatto di poter recitare nello scenario naturale immaginato da Giuseppe Verdi. Sempre più spesso la lirica esce dai teatri per andare dappertutto. È giusto che sia così perché la lirica sta diventando ogni giorno più popolare». «E una grande operazione di divulgazione vuole essere questo Rigoletto - spiega Bellocchio. - Questo è il significato fondamentale dell’intera operazione».
È questo il motivo per il quale Andermann ha voluto fermamente Domingo nel ruolo di Rigoletto: «Non avrei accettato nessun altro cantante al suo posto. Neanche il miglior baritono del mondo. Ho voluto Domingo per le sue grandi doti di attore. Per la sua straordinaria capacità interpretativa». Il film prevede infatti numerosi primi piani. Mentre le telecamere potranno girare attorno agli artisti regalando al pubblico un forte effetto cinematografico. Da parte di Placido Domingo una confessione: «È tale il mio coinvolgimento nel dramma di Rigoletto e di sua figlia Gilda, che temo di arrivare, sulla scena, a delle vere lacrime».
L’ALLARME
Barenboim: «Tagli alla musica danno enorme» *
Dalla Scala per l’Oro del Reno al Maggio, è un diluvio di prove aperte e gratuite di opere e concerti stoppati dagli scioperi contro il decreto Bondi. I musicisti e i teatri spalancano le porte mentre dal ministero il titolare si sottrae e ci mette la faccia il sottosegretario Giro, mentre il governatore della Puglia Vendola chiede un occhio di riguardo per il Petruzzelli e la maggioranza gli risponde che ci sta già pensando.
E il direttore Daniel Barenboim fa rimbombare la sua voce dalla Scala con parole che dovrebbero mettere i brividi a tutti: «Ci sono cose non accettabili che faranno un danno enorme alla qualità della Scala e alla vita musicale di questo Paese. È un segnale molto negativo per l’Italia». E, affinché chi ha responsabilità politiche intenda: «La musica è considerata elitaria solo perché non è disponibile, lo vedo con i bambini di Ramallah in Palestina, non è qualcosa che accompagna la pubblicità in tv, è un’espressione fisica dell’ anima: anche i problemi finanziari diventeranno più facili se, invece di tagliare solamente, si faranno investimenti nell’educazione». Parole semplicemente sacrosante. STE. MI.
* l’Unità, 06.05.2010
La Scala in piazza
«Lotta dura per la cultura»
Scioperi al Maggio
A Firenze lo sciopero fa saltare 5 spettacoli *
Come uno tsunami, il decreto Bondi sulla lirica. Per le «forti tensioni» la Scala annulla la conferenza stampa del 21 maggio sulla stagione 2010-11: l’appuntamento non è solo un rito, serve a dare risalto alle notizie sapendo che, dal Giappone agli Usa, i fan all’esterno prenotano i posti mesi prima. E ieri artisti e tecnici del teatro, in corteo con una bara in spalla, hanno suonato il «Silenzio» con una tromba rossa restando muti, ricevendo applausi, e poi gridato «Lotta dura per la cultura» e «Giù il governo».
Sempre ieri a Firenze i lavoratori convocati da Cgil, Cisl, Uil e Cisal, hanno deciso «a malincuore» il blocco del Maggio fino al 14 maggio: stop alle repliche di Donna senz’ombra, a due balletti, all’orchestra di Dresda e al popsinger Rufus Wainwright, alla «prima» del Ratto dal serraglio del 14. Ma l’opera di Mozart avrà prove aperte al pubblico perché la protesta «non è contro il pubblico». «Il decreto non prefigura alcun futuro positivo per le fondazioni, l’opposizione sarà durissima», chiosa Silvano Conti della Cgil.
* l’Unità, 05.05.2010
FONDAZIONI LIRICHE
Napolitano firma il decreto
Raffica di scioperi nei teatri
Il Quirinale: "Recepite dal ministro Bondi le osservazioni del capo dello Stato". Sindacati sul piede di guerra: saltano concerti e prime a Roma, Milano, Firenze, Venezia, Bologna, Torino, Genova, Napoli. Bondi convoca le parti per il 6 maggio *
ROMA - Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha emanato oggi il decreto legge per le "Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e di attività culturali", nel testo definitivo trasmesso ieri dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che riflette significativamente osservazioni segnalate al ministro per i Beni e le Attività culturali Sandro Bondi. Il decreto era stato rinviato dal Quirinale 1 due giorni fa, con la richiesta di chiarimenti al dicastero. Il Capo dello Stato, si legge in una nota del Quirinale, "ha inoltre preso atto della conferma da parte dello stesso Ministro dell’intendimento di incontrare nei prossimi giorni le rappresentanze sindacali e di tener conto, nel corso dell’iter di conversione, delle proposte dei gruppi parlamentari e degli apporti collaborativi che potranno pervenire dal mondo della cultura e dello spettacolo".
Durissima la reazione degli operatori del settore.
ROMA. Sciopero, questa sera, al Teatro dell’Opera. Per decisione unanime dell’assemblea di tutti i lavoratori del teatro, salta il Don Chisciotte, protagonista femminile la danzatrice coreana J. Young-Kim. Il Coordinamento unitario CGIL, CISL, UIL e FIALS preannuncia che i lavoratori del Teatro si riuniranno nei prossimi giorni in assemblea per la determinazione delle prossime azioni di lotta.
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è blocco totale. I professori d’orchestra, gli artisti del coro, il personale tecnico-amministrativo si sono riuniti in assemblea permanente dalle ore 14.30 di oggi e hanno proclamato il blocco totale delle attività. Annullati, fino a data da destinarsi, prove, concerti e lezioni. Previsti happening musicali nei foyer dell’Auditorium Parco della Musica per informare il pubblico sulle ragioni della protesta.
MILANO. Questa sera alla Scala la rappresentazione di Lulu di Alban Berg si terrà ma, prima dello spettacolo, sarà letto in italiano e inglese un comunicato dei sindacati che annunciano scioperi e iniziative contro il decreto. "Gentile pubblico - spiega il testo firmato da Cgil, Cisl, Uil, Fials e Rsa della Scala - è solo per rispetto a voi e alla musica che stasera si terrà lo spettacolo in cartellone. Le maestranze del teatro alla Scala e delle fondazioni lirico-sinfoniche esprimono la più profonda contrarietà al decreto legge di riforma del settore che considerano inaccettabile".
FIRENZE. Mentre il sindaco Matteo Renzi considera "un punto molto importante" che di un declassamento del Maggio Musicale Fiorentino nel decreto non vi sia alcun "esplicito riferimento", lo sciopero annunciato oggi da tutte le sigle sindacali dei lavoratori dello spettacolo fa saltare, domenica 2 maggio, la prima replica dell’opera La donna senz’ombra, che ieri sera ha inaugurato la 73/a edizione della rassegna.
TORINO. Annullata, causa sciopero. la prima dell’opera Il Barbiere di Siviglia al Teatro Regio, prevista domenica 2 maggio. Conseguenza, anche in questo caso, della protesta decisa dalle rappresentanze sindacali unitarie della Fondazione Teatro Regio di Torino contro le nuove norme sugli enti lirici.
GENOVA. Al teatro Carlo Felice, per lo sciopero di musicisti e maestranze proclamato dai sindacati Fials-Cisal, Snater, Uilcom-Uil e Libersind, salta giovedi 6 maggio (due giorni dopo il concerto in onore del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita a Genova per i 150 anni della partenza dei Mille dallo scoglio di Quarto) il concerto sinfonico diretto da Jordi Bernacer.
VENEZIA. Anche i lavoratori del teatro La Fenice hanno proclamato per domenica prossima, in occasione di un concerto, uno sciopero come segno di protesta contro il decreto Bondi. Lo ha annunciato stasera Giorgio Trentin, segretario della Fials Cisal.
BOLOGNA. I lavoratori del Teatro Comunale di Bologna scioperano martedi prossimo, in occasione della prima della Carmen. Uno sciopero ancor più necessario, ha rimarcato Enrico Baldotto della Fials-Cisal, perché "qui c’è uno dei principali ispiratori del decreto, ossia Marco Tutino", sovrintendente del teatro.
BARI. L’assemblea dei lavoratori della Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari aderisce al documento del coordinamento nazionale unitario del 19 aprile scorso, "che tra l’altro prevede azioni di lotta, di iniziative e di sciopero fino a giungere all’occupazione del teatro se sarà necessario". "Il Decreto - è detto in una nota - deve contenere una deroga per il teatro Petruzzelli per consentire allo stesso la sopravvivenza". L’assemblea "prende atto positivamente" della posizione assunta dal presidente della Fondazione, Michele Emiliano, contro il decreto e "invita tutte le forze politiche e le istituzioni di Puglia a solidarizzare" con i lavoratori.
NAPOLI. Lo stato di agitazione proclamato al Teatro di San Carlo determina la irrealizzabilità dell’appuntamento della stagione sinfonica del Massimo partenopeo, con il direttore d’orchestra Maurizio Benini sul podio in un programma dedicato ad Haydn.
Bondi: "Poco rispetto per il pubblico". Di fronte alla raffica di scioperi, il ministro Bondi ricorda l’invito rivolto ai segretari nazionali delle rappresentanze sindacali per un incontro che si terrà il 6 maggio presso il ministero e critica duramente le agitazioni. "Gli scioperi proclamati dai sindacati - dichiara Bondi - con l’annullamento di molti spettacoli importanti, nonostante che sia stato già fissato un incontro con le parti sociali per giovedi 6 maggio e nonostante la volontà da me espressa di tenere conto in sede parlamentare delle proposte e dei suggerimenti migliorativi che verranno dai parlamentari e dalle forze politiche, rivelano una mancanza di rispetto per il pubblico e un atteggiamento irresponsabile di fronte a problemi che nessuno può ignorare così disinvoltamente".
* la Repubblica, 30 aprile 2010
Napolitano sospende la firma del decreto per lo spettacolo
di Marcella Ciarnelli
Per ora il presidente della Repubblica non ha firmato il decreto legge che interviene in materia di «spettacolo e attività culturali» che è arrivato al Quirinale nella tarda serata del 23 aprile dopo essere stato approvato dal Consiglio dei ministri del giorno 16. Dopo aver esaminato attentamente il decreto, i cui contenuti sono di esclusiva responsabilità del governo, il Capo dello Stato ha deciso di segnalare al ministro per i Beni e le attività culturali, Sandro Bondi «osservazioni di carattere tecnico-giuridico e specifiche richieste di chiarimenti sul testo inviatogli per l’emanazione» è scritto in una nota del Quirinale. Sono state molte le richieste arrivate in questi giorni a Napolitano di non firmare il decreto.
Anche durante la visita alla Scala per la celebrazione del 25 aprile i lavoratori avevano ripetuto la richiesta al Capo dello Stato che a loro, come a tutti gli altri che gli avevano avanzato analoga richiesta compreso i 7.607 artisti che gli hanno inviato una lettera aperta, aveva spiegato i termini dettati dalla Costituzione per un suo intervento. Che non è mancato. Ed è proprio nella sospensione della firma in attesa di risposte alla richiesta di chiarimenti e alle osservazioni. Il Capo dello Stato, si legge poi nella nota, «ha preso nello stesso tempo atto positivamente dell’impegno manifestatogli dal ministro a incontrare sollecitamente le organizzazioni sindacali ed a prestare la massima attenzione alle preoccupazioni emerse e alle proposte dei gruppi parlamentari».
In questi giorni ma anche «nel corso dell’iter di conversione» il che fa intendere che, una volta ricevuti i chiarimenti, il decreto legge sarà emanato. I punti più discussi sono quelli dell’autonomia gestionale delle fondazioni lirico-sinfoniche e le questioni relative agli istituti mutualistici degli operatori dello spettacolo. «Leggerò con attenzione le osservazioni del presidente» ha detto il ministro Bondi. Alla luce del rinvio il Pd ha chiesto «l’azzeramento» del testo e la ripresa del confronto con le parti interessate. «Dopo la scelta certamente saggia e ponderata del Presidente della Repubblica di fermare il decreto legge in materia di spettacolo e di fondazione sinfoniche - affermano Matteo Orfini,responsabile Cultura della segreteria del Pd, Vincenzo Vita, senatore, Emilia De Biasi, deputato-ci auguriamo che il ministro Bondi ripensi seriamente al suo iniziale proposito. Abbiamo già da giorni espresso insieme alle altre forze dell’opposizione e in sintonia con la Cgil una fortissima contrarietà al decreto legge, nella forma e nel contenuto conosciuto.
Non è mai troppo tardi. Si azzeri la situazione e si ricominci il confronto». Anche L’Italia dei Valori con Fabio Giambrone ha espresso «apprezzamento» per la decisione di Napolitano. La sua decisione il presidente l’ha comunicata al ministro Giulio Tremonti che si è recato al Colle anche per illustrare anche le iniziative dell’Italia per arginare la crisi economica che è esplosa in Grecia ma che coinvolge l’Europa. Su questa materia nel Consiglio dei ministri della prossima settimana il governo ha annunciato un decreto.
* l’Unità, 29 aprile 2010
Il decreto della discordia
La lirica sulle barricate
Il decreto sulle fondazioni liriche è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri al Quirinale. Bondi ha dovuto correggerlo perché il testo approvato dai ministri venerdì ha fatto arrabbiare tanti. Anche nella maggioranza.
Un decreto fantasma come il Vascello di Wagner, poiché non si conosce il contenuto, ma che non citerebbe più la Scala e Santa Cecilia; una selva di archetti in rivolta contro il ministro Sandro Bondi, latore del decreto stesso; un deus ex machina, che prende le sembianze del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ancora una volta tirato per la giacchetta nell’agone politico.
di Luca Del Fra (l’Unità. 21.04.2010)
Il decreto sulle fondazioni lirico-sinfoniche - i nostri maggiori teatri d’opera dalla Scala al Maggio fiorentino, dal San Carlo al Regio di Torino -, approvato venerdì scorso in consiglio dei ministri, sta causando un pandemonio al punto che, viste le proteste perfino nella stessa maggioranza, il testo è stato pesantemente riscritto prima di arrivare, ieri nel tardo pomeriggio, a Napolitano. Sarebbe composto da sette articoli non cita, com’era invece venerdì, la Scala e Santa Cecilia. Al presidente fanno appello l’opposizione, sindaci e sindacati, musicisti e sovrintendenti, perché non firmi un testo dove molti ravvisano profili d’incostituzionalità. A cominciare dalla presunta urgenza, che giustificherebbe l’uso stesso del decreto per risolvere i problemi dei maggiori teatri italiani, anche se gli effetti, stante la prima stesura, si vedrebbero almeno tra un anno. S’aggiunga che il ministro delle attività culturali Bondi si arrogherebbe il diritto di modificare leggi che disciplinano lo spettacolo con dei semplici regolamenti. E ancora: almeno il testo del 15 aprile, avverte Silvano Conti della Cgil, «modifica lo statuto dei teatri “di interesse nazionale” facendo sì che conti chi mette più soldi». Anche un privato, dunque. Il provvedimento nascerebbe per far fronte alla crisi delle fondazioni lirico-sinfoniche, afflitte da pesanti deficit, ingrossati annualmente da passivi di bilancio: una evidente conseguenza dei tagli alla cultura di questi anni, in particolare dei governi quelli di centrodestra.
Il progetto del governo è far pagare le spese ai lavoratori, senza entrare minimamente nel merito del perché i nostri teatri, o almeno la maggior parte, funzionino male. Per indorare la pillola, inizialmente ne erano stati salvati due, la Scala e Santa Cecilia, causando le reazioni nervose degli altri sovrintendenti con la singolare l’eccezione di Marco Tutino del Comunale di Bologna - oltre che dei sindaci delle rispettive città, ma con gioia del sindaco milanese Letizia Moratti e del sovrintendente scaligero Stéphane Lissner. E contro le critiche venute dal neogovernatore toscano Rossi e dal sindaco fiorentino Renzi (entrambi Pd), Bondi reagisce dicendo che oggi pubblica oggi sul sito del ministero i bilanci dei teatri: quando accadde un anno e mezzo fa, molti sovrintendenti si infuriarono definendo quei numeri inattendibili.
COLPIRE I LAVORATORI
I sindacati hanno reagito compatti contro la divisione dei teatri in serie A e serie B e, per la prima volta da quando è sovrintendente alla Scala, Lissner si è trovato in contrasto con il sindacato. Se il provvedimento sarà firmato, inizieranno due mesi di scioperi a oltranza che faranno saltare tutte le rappresentazioni, e i sindacati minacciano anche di occupare i teatri. Oltre a colpire i lavoratori, anche se non ufficialmente il decreto commissaria tutti i teatri, spogliando regioni, enti locali e i privati di ogni reale funzione, demandando la trattativa dei contratti all’Aran, l’agenzia del pubblico impiego.
Un’iniziativa del genere fu tentata nel ’95 quando i teatri erano enti pubblici, ma l’Aran dichiarò la propria scarsa competenza in una materia come il contratto di un musicista d’orchestra o di un tecnico di palcoscenico: oggi il risultato è che così si ritrasformano i teatri in enti pubblici. Anche più preoccupante appare abrogare una serie di articoli della legge 800/67 che sancisce, in ossequio alla Costituzione, che lo Stato finanzia la cultura: cosa che evidentemente non interessa affatto né l’attuale governo, né tanto meno Bondi.
L’EVENTO DI SANT’AMBROGIO
Scala, prima «blindata» tra le proteste
«Solidarietà ai cassintegrati»
In piazza i lavoratori degli enti lirici e delle aziende in crisi: tensioni con la polizia e lancio di fumogeni *
MILANO - Momenti di tensione tra alcuni manifestanti e agenti delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa fuori dal teatro alla Scala di Milano, in attesa della «prima» con Carmen diretta da Barenboim. E’ volato qualche spintone tra una trentina di persone e uno dei gruppi di agenti che bloccano l’ingresso alla piazza della Scala, completamente transennata. In precedenza c’era stato anche il lancio di un fumogeno da dietro le transenne verso lo spazio lasciato libero all’interno del piazzale. Sono qualche centinaio i manifestanti assiepati dal primo pomeriggio dietro le barriere piazzate a qualche centinaio di metri di distanza dall’ingresso della Scala. Appesi alle transenne striscioni di diverse rappresentanze sindacali che protestano contro i tagli agli spettacoli. Ci sono i lavoratori del teatro Regio di Torino, quelli del Verdi di Trieste, quelli del teatro dell’Opera di Roma e molti altri. Ci sono bandiere degli organizzatori della protesta (Cgil, Cisl, Uil, Fials, Cub e Cobas) ma anche bandiere rosse, palloncini e gente che urla slogan al megafono. «Resteremo qua almeno fino alle diciotto - afferma il segretario provinciale Fials, Sandro Malatesta -, la nostra è una protesta dovuta contro i tagli che rappresentano la rovina dei teatri lirici». Sui cartelloni si leggono slogan come «Ieri Attila oggi Bondi», «Piangi, pagliaccio», «Basta tagli alla cultura». Accanto a loro i lavoratori delle aziende in crisi, a rischio licenziamento: l’Alfa di Arese, la Lares-Metalli Preziosi di Paderno Dugnano e altre. Ci sono anche esponenti dei centri sociali milanesi.
IL MINUTO DI SILENZIO - Prima dello spettacolo gli orchestrali resteranno in piedi per 60 secondi «a supporto dei lavoratori colpiti dalla crisi e, al tempo stesso - spiega una nota firmata dalla rappresentanza sindacale aziendale e da Cgil, Cisl, Uil e Fials - per ricordare quello che sta accadendo nei nostri teatri senza un adeguato sostegno pubblico». «Sicuramente gesti come questo hanno significato», è stato il commento del sindaco Letizia Moratti. Il minuto di silenzio indetto prima dello spettacolo come segno di vicinanza per i lavoratori colpiti dalla crisi, afferma invece il segretario provinciale Fials Sandro Malatesta, «è un segnale minimo che può servire per attirare l’attenzione sul nostro problema, ma certo serve molto di più».
BASSO PROFILO - La Scala ha fatto una scelta di understatement: la regia di Emma Dante con pochi fronzoli e molto contesto sociale e la metamorfosi della cena di gala offerta dal Comune che quest’anno diventa un buffet in piedi (per trecento invitati) nei ridotti del teatro. Il menu: carpaccio di salmone, tagliata di storione, timballi di riso, tortini di zucca e uno scrigno di funghi porcini serviti dal Caffè Scala. Tra gli ospiti il presidente Giorgio Napolitanocon la moglie Clio, il presidente del Senegal Abdoulaye Wade, l’ambasciatore americano in Italia David Thorne, il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, lo scrittore Dan Brown. Ci saranno anche i loggionisti, che domenica mattina all’alba (e fino alle 19 circa) si sono messi in coda per uno dei 140 posti a 50 euro. Dopo una giornata campale, lunedì mattina alle 8 hanno risposto all’appello e solo alle 16 hanno potuto acquistare il biglietto.
* CORRIERE DELLA SERA, 07 dicembre 2009
Le cento piazze della Conoscenza
di Maristella Iervasi *
Alice ha un violino in mano e scrive sulla lavagna il suo pensiero: “La musica rende migliori”. La studentessa del liceo scientifico Keplero di Roma ha preparato con altri ragazzi della sua scuola un pezzo di Vivaldi e sta per esisbirsi in piazza Navona, per un giorno trasformata in scuola della Conoscenza. Una manifestazione per la difesa di saperi e dell’arte e la cultura, al centro di un attacco senza precedenti: strozzati sempre più dalla mancanza di risorse e con le casse vuote. Così non solo a Roma ma in cento piazze d’Italia il sindacato Flc-Cgil ha fatto conoscere ai cittadini chi sono i cosa fanno quotidianamente i ricercatori precari, gli insegnanti "fannulloni", i "baroni" universitari, i bidelli "che non fanno le pulizie", gli studenti di una scuola alla quale stanno togliendo il futuro. E anche qualche turista ha voluto lasciare il proprio pensiero: “Pensar es gratis pero cuesta mucho apoya la cultura”.
Angoli di pittura, lezioni di astronomia e il terremoto spiegato ai bambini. E ancora: proiezioni di filmati di astronomia, la terra vista dallo spazio raccontata dall’astronauta Umberto Guidoni e un quiz di “ignoranza” sull’università della Gelmini. Poi il punto di vista di personalità della cultura e dell’informazione, come Lidia Ravera (scrittrice), Oliviero Beha (giornalista), Filippo la Porta (critico letterario), Gianni Ferrara (docente di diritto costituzionale).
Da uno stend accanto alla fontana dei fiumi del Bernini arriva il canto dei bambini. E’ il coro della “Sesta voce” spiega la maestra. Il coro multietnico degli studenti delle scuole della sesta Circoscrizione di Roma. Parole in musica che suonano come un invito contro il razzismo e le scuole ghetto: “Siamo diversi, siamo tutti uguali/ Siamo bianchi siamo neri/ siamo fatti di pensieri...”.
Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: “Il senso di questa mobilitazione? Lanciare un segnale al Paese. La cultura è un patrimonio fondamentale per ridare futuro all’Italia. Questo governo invece va nella direzione opposta: per loro la cultura è solo un costo”.
* l’Unità, 07 novembre 2009
L’INNO DI MAMELI E’ L’INNO D’ITALIA! All’Aquila, Riccardo Muti ha aperto e chiuso il concerto sulle note "dell’Inno d’Italia", come ha tenuto a chiamarlo, dedicandolo dal palco, fra gli applausi, al capo dello Stato.
NAPOLITANO ALL’AQUILA: "Pare che ci sia molta gente con il morale alto, e gente sorridente, e questo è molto importante. C’é fiducia nelle istituzioni e con quello che è accaduto non era scontato", ha detto dopo avere stretto molte mani in Piazza Duomo
Ansa» 2009-02-08 15:32
MINA AL FESTIVAL CON ’NESSUN DORMA’
ROMA - Sara’ la romanza ’Nessun dorma’, tratta dalla ’Turandot’ di Giacomo Puccini, cavallo di battaglia di Luciano Pavarotti, il brano con cui Mina aprirà, il 17 febbraio, la 59/ma edizione del Festival di Sanremo. Lo rivela ’Tv-Sorrisi e Canzoni’ in edicola domani. Il video che accompagnerà la canzone - spiega il settimanale - non prevede la presenza della grande cantante ma solo la voce. La romanza farà parte del nuovo album di Mina, un omaggio al melodramma italiano orchestrato dal maestro Gianni Ferrio, e che uscirà il 20 febbraio durante la settimana del Festival.
Napolitano: "Non modificabili le fondamenta della Costituzione" *
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene nuovamente nel dibattito sulla riforma della giustizia difendendo le "fondamenta" della Carta costituzionale: "I principi fondamentali della Costituzione sono fuori discussione", afferma.
Ricevendo al Quirinale i membri del Fai, e raccogliendo il loro appello per una tutela continua del patrimonio ambientale e monumentale italiano, Napolitano ribadisce: "Per quanto si discuta su cosa cambiare e cosa no della Costituzione, certamente i princìpi fondamentali sono fuori discussione e nessuno può pensare di modificarli o di alterarli".
* la Repubblica, 12 dicembre 2008
Intervista
Franco Cordero «Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale. Vuole pm sottomessi»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 dicembre 2008)
Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».
Un atto fuori dalla normalità istituzionale?
«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».
Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.
«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».
Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.
«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».
Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?
«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le procure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».
È un obiettivo realizzabile?
«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».
Fino a che punto?
«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».
Quali sono i pericoli?
«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».
Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?
«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».
In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?
«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».
Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?
«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».
Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?
«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».
Il mistero dell’intervista scomparsa
Perché chiedere un’intervista a uno dei più prestigiosi giuristi europei (di cui sono stranote le posizioni politiche e lo stile comunicativo) per poi non pubblicarla? Perché comportarsi in modo così offensivo verso uno degli intellettuali italiani più stimati e rispettati (anche dai suoi avversari) per la qualità, il rigore, l’indipendenza del suo lavoro? Un episodio che riempie di amarezza e incredulità.
di Franco Cordero
L’arte docile del giornale
Le premesse remote risalgono a quando scrivevo in «Repubblica». M’aveva invitato Ezio Mauro (novembre 2001): centinaia d’articoli e il Bagutta 2004, sul filo del rasoio perché Divus Berlusco regnava e i cautelosi rabbrividivano, ma non la direi mésaillance se bene o male è durata quindici anni. Due mesi fa esce Rutulia (Quodlibet), dove confluisce largo materiale d’allora. Il «Venerdì» manda qualcuno a intervistarmi, 24 ottobre: non so chi sia, né figura nel folto onomasticon del quotidiano e settimanale; ero sul chi vive, perciò lascio che parli a dirotto sfogliando il libro costellato da scarabocchi. Niente in contrario quando chiedo quesiti scritti. Arrivano e li sciolgo nella stessa forma. L’indomani canta genuflesso (26 ottobre): «Professore, grazie mille»; usciremo l’11 novembre; qualche giorno prima manderà l’intero testo affinché io lo riveda. La formula perentoria smentisce i sospetti ma il séguito rimane nella luna. L’ufficio stampa Quodlibet s’informa presso l’intervistatore: l’hanno spostata al 25 novembre; rinascono i dubbi, più gravi; e quel mattino non ne appare nemmeno l’ombra. Interpellato dall’editore, il predetto racconta un’historiette: le risposte erano nello stile dei miei articoli, quindi «non adatte» all’intervista (mai uditi argomenti simili), sicché lui e il direttore hanno deciso di non pubblicarla; in graziosa vece propongono una recensione. Il verbo “proporre” suona equivoco: l’homo in fabula accondiscenda e sarà benvoluto; altrimenti sibila la frusta recensoria. Forse erano servizi alla Leopolda, i cui adepti temono le lame affilate. Secondo questo canone, l’intervista, genus letterario, è ammissibile in quanto vi coli broda tiepida. Non interessano le opinioni cliniche sulla storia recente d’un paese afflitto da qualche tabe ereditaria.
Tali i fatti, ed ecco l’opus svanito in mano ai maestri stilisti del «Venerdì» (ogni capoverso risponde a uno o più quesiti).
Divus Berlusco regnabat. Ottant’anni gli pesano addosso, senza contare le gaffes accumulate nel quarto di secolo, ma resta temibile. Nello schieramento referendario sceglie “no”: è mossa tattica non sappiamo quanto credibile; niente lo fa supporre rassegnato alla vecchiaia quieta. L’animale biblico Leviathan nuota sott’acqua, sornione, cacciatore inesorabile: inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto. Nel caso suo è lacuna utile non avere l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali: risparmia fatica e dubbi tormentosi; operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia.
Le «larghe intese» erano l’obiettivo d’una politica quirinalesca d’impronta monarchica, tenacemente perseguìta. Sarebbe enorme la grazia pretesa dal pirata dopo «l’attentato alla democrazia» che la Corte ha perpetrato applicandogli le norme. Qualche cortigiano ventila «guerra civile» e lascia pochi dubbi la fulminea nota con cui il Quirinale manda lodi al condannato, chiedendo riforme giudiziarie.
L’attuale presidente sta agli antipodi del predecessore. Temporibus illis (giovedì 26 luglio 1990) s’era dimesso con quattro ministri quando l’impudente Andreotti poneva la fiducia sulla legge Mammì, intesa al profitto parassitario d’un Re Lanterna già padrone delle Camere, sebbene non avesse ancora identità politica.
I 101 voti tolti a Prodi nel coup de scène 19 aprile 2013 gonfiano d’euforia l’Olonese: «meno male che Giorgio c’è», canta al microfono e dal complotto notturno nasce un governo a due teste, presieduto da Letta junior, nipote del mellifluo plenipotenziario d’Arcore; il séguito sarebbe diverso se la parola contasse qualcosa nel conclave politicante.
Storia tenebrosa d’una prigionia. Il recluso era Aldo Moro, nel «carcere del popolo». L’hanno rapito le Brigate Rosse abbattendo i cinque della scorta, tamquam non esset. Al Viminale, sotto Francesco Cossiga, tiene banco la P2, ferocemente ostile al sequestrato, fautore d’una cauta apertura al PCI e presidente della Repubblica in pectore. Le messinscene poliziesche durano 55 giorni, incluso lo scandaglio d’un Lago della Duchessa. Dovevano salvarlo. Fallite le ricerche, trattino. Lo Stato non può, dicono rigoristi ignoranti del codice penale (art. 54, stato di necessità). L’introvabile scrive lettere disperatamente lucide, spiegando che delitto sia lasciarlo lì. «Non è più lui», dicono i santoni, nella cui favola il misteriosamente recluso è succubo dei terroristi; muoia com’erano morti i cinque della scorta. I brigatisti hanno l’occasione d’un colpo formidabile (lo suggeriva caritatevolmente Paolo VI), quale sarebbe restituirlo senza contropartite scatenando una crisi nel sistema, ma inviluppati in formule subintellettuali, non sanno risolversi; alla fine l’ammazzano con intuibile sollievo degli «imperialisti» contro cui declamano. Assente il cadavere, Tartufi sanguinari fingono lutto in San Giovanni. Hanno vinto, Andreotti, P2, Cossiga, il quale non cambia mestiere vergognandosi dell’inettitudine: nient’affatto, vola ad sidera; successore d’Andreotti in due governi, presiede il Senato e da Palazzo Madama sale al Quirinale; poi infesta le acque politiche, caso clinico e mina vagante. Che vita rimarrebbe al povero «irriconoscibile» se rapitori con la testa sul collo, senza disegni occulti, l’avessero liberato, guidandolo in salvo perché ormai incuteva paura agli pseudolegalisti eroi sulla pelle altrui? Vita cattiva, da homo sacer, esposto al malanimo pubblico. Eventi simili lasciano segni indelebili nel corpo sociale. L’Italia esce marchiata come paese infetto.
Che l’antiberlusconismo «non conduca da nessuna parte» e Sua Maestà d’Arcore sia idoneo al cursus honorum, era giaculatoria corrente nel Pd: Enrico Letta riteneva fattibile una «piccola legge» immunitaria che lo liberasse dalle rogne penali; Neapolitanus Rex s’era immischiato nell’invalido privilegio; e fin dalla XIII legislatura oligarchi postcomunisti garantivano Mediaset. Non s’è mai parlato sul serio del conflitto d’interessi. Enrico Letta difendeva con le unghie l’innaturale premiership costruita dal Colle sull’asse berlusconoide Pd-Pdl: l’unico possibile, salmodiavano cercatori d’ingaggio; la «ripresa» è dietro l’angolo ma svanisce se il governo cade (dopo quattro anni l’aspettiamo ancora). Reduce dal Golfo Persico, vantava 500 milioni lasciati cadere nel cappello dagli Emiri. In via Arenula custodiva i sigilli l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, cara al Colle e puntuale nel sostegno della famiglia Ligresti. Eventi esterni rompono l’immobilità verbosa.
Il fattore dirompente è l’uomo nuovo, la cui apparizione spariglia i conti: ha stravinto le primarie, infliggendo un avvilente 68% contro 18% alla vecchia guardia; la segreteria del partito era obiettivo preliminare; punta all’en plein quando siano riaperte le urne. I conoscitori lo descrivono animal politicum dalle rotte sicure: boy scout, campione d’un concorso televisivo (Canale 5), presidente della provincia, sindaco fiorentino. La mainmise sul Pd svela un cuculo rapace. Nelle immagini dagli schermi pedala bardato in bicicletta. Non incarna l’icona perfetta e volano sospetti ma i gerarchi sconfitti non offrono soluzioni raccomandabili. Ovvio che l’aborrano: è titolo a suo favore; avevano mani in pasta nelle «larghe intese». Va colpita l’immagine d’innovatore. L’offerta avvelenata è una premiership che l’abbindoli nel marasma: l’equivoca maggioranza gl’inibirebbe ogni serio tentativo; sono maestri nell’arte del tagliare teste. Napolitano spranga l’unica via negando lo scioglimento delle Camere: resti vivo l’esecutivo inerte; e loda chi lo presiede.
Lo sottovalutavano: in scena appare «veloce» (un Filippo Tommaso Marinetti senza insegna letteraria); è scaltro, insonne, famelico, ingordo, sicuro d’essere predestinato, molto pragmatico, pronto a muoversi in ogni verso. I suoi mondi mentali ignorano le ideologie. L’evanescente Letta apriva larghi spazi, ormai derelitto dal Quirinale, sicché una lieve spinta lo manda ai pesci. Agl’italiani piacciono i numeri da palcoscenico e i notabili Pd hanno poco appeal. Così ribalta le prospettive seminandosi un futuro nell’area postberlusconiana dalla quale l’adocchiano (gli elettori, non i gerarchi, spaventati dal concorrente). Nessuno lo supera come possibile erede del monarca logoro. Figura, gesti, parola, egotismi lo candidano al «partito nazionale». Saltano all’occhio due precedenti. Nella Roma medievale orfana del papa inscena mirabilia l’omonimo giovane notaio latinista, Nicola, abbreviato in Cola, figlio dell’oste Rienzi: s’è qualificato Spiritus Sancti miles, liberator Urbis, et cetera; sfoderata la spada in San Giovanni, taglia il mondo in tre fette, esclamando ogni volta «è mia» (1 agosto 1347). Ed è ancora giovane l’oratore imperioso Benito Mussolini, presidente del consiglio dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Non nominiamo Savonarola, il cui pathos tragico è assente nel fiorentino a Palazzo Chigi.
S’è identificato con l’Italia e racconta che la salus Rei publicae stia nel sì al referendum. Se il colpo gli riuscisse, sommando riforma costituzionale e Italicum o norme elettorali equivalenti avremmo in sella l’uomo che decide. Non è prospettiva consolante perché le sventure italiane dipendono da un malaffare economico nel quale l’eredità berlusconiana impedisce ogni serio intervento repressivo (vedi come lobbies industriose sabotino la raccolta delle prove).
p.s.
Sic stabant res domenica mattina 4 dicembre, quando gli uffici elettorali aprono le urne. Davano favorito l’uomo in sella: partito con un handicap, appariva irresistibile; aveva dalla sua organi influenti sull’opinione pubblica. Politici più o meno rusés scioglievano le riserve schierandosi. I conti notturni li deludono: quel referendum somigliava al gesto con cui l’omonimo notaio romano tagliava il mondo in tre fette aggiudicandosele; e lo sconfitto subisce la rovinosa percentuale che quattro anni fa aveva inflitto agli avversari nelle primarie. Stavolta è fallita l’ipnosi, ricorrente nella storia italiana. Bene ma l’orizzonte resta buio, data l’eterogenea motivazione dei «no»: vi figura l’Olonese; sbocceranno «larghe intese», i cui retroscena alimentano cronico illegalismo (vedi banche svaligiate et cetera); e finché la corruzione succhi miliardi, saremo bel paese depresso. L’unica terapia pensabile è un’effettiva legalità.
Sarkozy ’miglior dirigente europeo’, Berlusconi all’ultimo posto *
Nicolas Sarkozy è il leader europeo più amato tra il 27 capi di stato e di governo dell’Unione Europea secondo il quotidiano francese La Tribune, che ogni anno affida la scelta a una giuria di 12 giornalisti (corrispondenti da Bruxelles ed esperti di politica europea) di 9 diversi paesi. Ultimo della lista, invece, il leader italiano Silvio Berlusconi. Il premier italiano è stato duramente criticato dalla giuria e definito "un arruffapopolo imprevedibile e egoista".
Nella lista dei somari europei, a far compagnia a Berlusconi, ci sono anche il premier ceco Mirek Topolanek (25esimo) e il premier irlandese Brian Cowen (penultimo).
I francesi, si sa, sono chauvinisti e dunque non stupisce che al primo posto tra i "dirigenti europei" ci sia Sarkozy, senza contare che l’attività politica degli altri capi di Stato e di governo Ue è stata piuttosto opaca. Fatto sta che il presidente della repubblica francese ha vinto il premio, pur essendo - recita il verdetto degli esperti - "più apprezzato in Europa che in Francia".
Il capo dello stato francese, secondo la giuria della Tribune, "ha dato prova di un nuovo stile di presidenza dell’Unione, magari non perfetto ma comunque di eccezionale qualità". Sarkozy, proseguono gli esperti, si è anche distinto per le sue "qualità di leadership e per l’energia con cui ha affrontato delicati dossier come la crisi georgiana o quella finanziaria".
Sul podio, a seguire, si sono ben classificati il primo ministro lussemburgese Jean-Claude Juncker, presidente dell’eurogruppo, il premier britannico Gordon Brown e il cancelliere tedesco Angela Merkel.
* l’Unità, 11 dicembre 2008