ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. LA VERITA’, LE PASSIONI DELL’ANIMA, E LE INTERPRETAZIONI .... DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA E DALLA LINGUA BIFORCUTA.

"IL MITO GRECO" E "1984" DI ORWELL: IL "CHI E’ PIU’ FORTE COMANDA" E "LA VOGLIA DI FASCISMO". Luciano Canfora e Tommaso Pincio evidenziano, contemporaneamente (senza volerlo), il "lato oscuro" della tradizione europea - a cura di Federico La Sala

lunedì 8 giugno 2009.
 


Quegli dei troppo umani che non avevano la verità

La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite

di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 8.06.2009)

La visione più fonda­ta, quando si parla del mito greco, è quella che pone l’ac­cento sulla unità del flusso mitografico e mitologico nel­l’area mesopotamico-medi­terranea. Erodoto ne è consa­pevole, quando scrive che «quasi tutte le deno­minazioni degli dei vennero in Grecia dall’Egit­to » (II, 50). E precisa che solo pochi nomi (Po­sidone, Themis, Dioscuri, Era, Nereidi, Cariti e pochi altri) fanno eccezione: ma, secondo la tradizione egizia cui Erodoto presta fede, an­che tali nomi trassero i Greci dall’esterno, in particolare dai «Pelasgi». Su tale provenienza, che rinvia ad una unità culturale mediterra­nea, Erodoto si sofferma a lungo.

Né gli è ignota la tradizione relativa ai viag­gi «d’istruzione» in Egitto compiuti da grandi figure della grecità arcaica quale Ecateo. Nes­so di «apprendistato» nei confronti dell’anti­co Egitto che Platone enfatizzerà nel Crizia in­dicando in Solone un tramite illustre, e appro­dando alla celebre formulazione secondo cui i Greci sarebbero stati i «fanciulli» del mondo mediterraneo, riscopritori recenti di una sa­pienza antichissima.

Nei primi libri di Diodoro di Sicilia, il quale scriveva al tempo di Cesare, tale filiazione dal­l’Egitto trova una sistemazione quasi manuali­stica. Ed è notevole come secoli più tardi espo­nenti del pensiero cristiano si siano appropria­ti di questo luogo comune bene attestato nella cultura greca per capovolgerlo polemicamen­te e presentare i Greci (cioè i rappresentanti per eccellenza della cultura pagana) come pla­giari rispetto a più autorevoli e più antiche cul­ture. Accusa che fa un certo effetto da parte di chi così largamente risentiva dell’eredità gre­ca e orientale come, per l’appunto, il cristiane­simo. La mitologia cristiana, dunque, nel suo denso e alquanto confuso tessuto sincretisti­co, chiude il cerchio di questa storia di una re­ligiosità di lunghissima durata incominciata molto prima dei Greci, e ramificatasi poi in moltissimi rivoli, eresie ed islamismo inclusi.

Collocare dunque i Greci come un «inizio» è operazione moderna, che ha una salda tradi­zione alle spalle ma che va intesa per l’appun­to come una proiezione moderna, come il ri­sultato dell’«idea di passato» che i moderni occidentali hanno costruito (e che rischiano talvolta di dimenticare frastornati da un’idea banale e incolta di modernità).

Ben scrive dun­que Giulio Guidorizzi nell’Introduzione a Il mi­to greco (vol. I, Meridiani Mondadori, da po­chi giorni in libreria, pp. 1.526, e 55): «I miti greci hanno un carattere archetipico, perché presentano nella loro essenzialità gli elementi originari del racconto sacro»: purché sia chia­ro che quello è, per dirla alla maniera degli scolastici, un inizio per noi piuttosto che un inizio in sé. A ragion veduta, poi, Guidorizzi delinea la continuità pagano-cristiana quando osserva che «malgrado tutto i miti greci resta­no vivi sotto la superficie (...) pronti a manife­starsi appena qualcuno li cerca».

Egli lo dice in senso soprattutto estetico-emotivo e lettera­rio, ma si potrebbe integrare tale intuizione in termini più propriamente sto­rico-religiosi tenendo d’oc­chio il fenomeno della conti­nuità ed il principio non con­traddetto secondo cui soprat­tutto nel mondo delle religio­ni e delle credenze, che coin­volgono masse sterminate di persone, nulla è totalmente nuovo.

Vi è però una peculiarità della religione greca ed è l’as­senza dell’«unico libro» cui at­tingere «la verità». Assenza salvifica perché ha reso possibile la grande libertà con cui il patrimonio mitico è stato trattato per esem­pio dal teatro tragico ateniese. L’assenza di una casta di scribi o di sacerdoti-teologi grava­ta del compito di tutelare l’ortodossia ha con­tribuito a rendere meno vincolante quel patri­monio. Una conseguenza di ciò è anche il fat­to che, nel mondo greco, non accade che sia solo un determinato genere di testi a trattare del mito. Ed è probabilmente in ciò la causa del fenomeno più interessante: tra i moderni la religione greca non attrae soltanto gli spe­cialisti di tradizioni religiose ma anche studio­si lontanissimi da tale bisogno mentale. Il che non accade sempre nel caso delle altre tradi­zioni.

Una situazione del genere «avvicina» gli dei agli uomini. Li avvicina non solo dal punto di vista dell’interventismo continuo degli dei nel­le cose umane (si pensi alla cura ad personam che gli dei omerici riservano a questo o a quel­­l’altro «combattente» di grido: invece si disin­teressano delle masse...), ma anche dal punto di vista delle loro vicissitudini e dei loro com­portamenti in quanto dei.

Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di de­dicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei gre­ci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a di­fenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto li­bro dell’Iliade. Per non parla­re delle risse, passioni, soffe­renze, stanchezze di cui que­sti dei sono partecipi, pur im­mortali.

Nel libro XV dell’Ilia­de, Iris, messaggera di Zeus, si reca da Posidone per tra­smettergli l’ordine perentorio di Zeus di non intervenire atti­vamente a favore degli Achei. «Se non darai retta al comando - gli dice - verrà lui a combatterti quaggiù». Posidone, fu­ribondo, rievoca che le tre parti del mondo erano state tirate a sorte tra i tre figli di Crono, e a lui era toccato «il mare canuto», a Zeus «il cielo fra le nuvole e l’etere», mentre la terra doveva essere «comune».

Dunque qui Zeus sta forzando la mano, ma Posidone, pur men­tre si sottomette, dichiara che nel cuore gli sta entrando «dolore tremendo» e comunque manda a dire a Zeus che, se Troia si salverà, deve sapere che tra loro ci sarà «insanabile col­lera » (si legga questo brano, di straordinaria importanza, nel volume di cui qui discorria­mo, alle pp. 55-56).

Qui sorge un vero problema teologico. Qua­li sono i rapporti di forza tra queste due divini­tà all’apparenza pari? Perché Zeus si giova del­la sua prevalente forza? E viola un diritto? Que­sto problema era, a ben vedere, complementa­re dell’altro (che affaticherà, senza che una so­luzione venga fuori, il pensiero cristiano): per­ché gli dei non impediscono il male, il trionfo del male, perché consentono il dolore e la sof­ferenza del giusto? Per i cristiani il problema è insolubile (o solubile con qualche sofisma in­torno al male a fin di bene). Per i Greci del­l’epoca arcaica la risposta era dura, non conso­lante, ma era comunque una risposta: anche tra gli dei vige la legge del più forte, legge che - al di là della retorica consolatoria - regna dovunque tra gli umani.

Lo dicono gli Atenie­si ai Meli, nel celebre «dialogo del carnefice con la vittima» nel quinto libro della Storia tu­cididea, onde togliere ai Meli ogni illusione: «noi riteniamo che, a quanto si sa tra gli dei, ma certamente tra gli uomini, in forza di una necessità (hypo physeos anankaias), chi è più forte comanda. Non siamo noi ad aver stabili­to questa norma, né siamo i primi ad attenerci ad essa; l’abbiamo trovata che c’era già e la la­sceremo in eredità a chi verrà dopo, per sem­pre ». La «insanabile collera» che Posidone promette al fratello sopraffattore sembra im­plicare che i rapporti di forza tra le due poten­ti divinità potrebbero un domani cambiare. E certo Troia, pur così cara a Zeus, non si salvò.


-  1984 il celebre libro uscì nel 1949, sessant’anni fa

-  Serpeggia ovunque riflesso nel romanzo
-  il lato oscuro di Orwell

-  L’autore sosteneva che ‘la voglia di fascismo’ non è mai morta

-  Sleale e specialista dell’inganno, l’autore era capace di bassezze. Un po’ del famigerato Grande Fratello albergava in lui come anche in ciascuno di noi
-  È evidentissima la somiglianza con Hitler e Stalin del protagonista, Winston Smith

di Tommaso Pincio (la Repubblica, 8.06.2009)

Sessant’anni. Tanti ne ha ormai il libro più noto di George Orwell. Dall’8 giugno 1949, data della sua prima apparizione, 1984 non ha mai smesso di vendere e parlare alle coscienze. Di pochi giorni fa è l’uscita di 1Q84, nuovo romanzo di Murakami Haruki, anche lui sessanta primavere quest’anno. La pronuncia inglese della lettera Q suona come kyuu, «nove» in giapponese. È un palese tributo, l’ultima delle innumerevoli tracce che il Grande Fratello dissemina da più di mezzo secolo nel nostro immaginario.

Attribuire il segreto del suo planetario successo alla prefigurazione di un mondo di occhi elettronici che sbirciano costantemente nella vita delle persone sarebbe un errore. Negli anni Cinquanta il segreto veniva individuato nell’avvento della Guerra Fredda. Uno sbaglio anche quello. Diversamente, infatti, la caduta del Muro avrebbe dovuto invecchiarlo un po’. Invece è ancora qui, più attuale che mai, e tutto lascia credere che sopravvivrà anche all’era dei reality show.

Nemmeno il valore letterario pare essere una spiegazione sufficiente, tant’è che alcuni hanno persino messo in dubbio si tratti di un capolavoro. Umberto Eco, per esempio, sostenne a suo tempo che lo stile «non supera quello di un buon romanzo d’azione», aggiungendo che le Carré avrebbe saputo far di meglio, dal punto di vista della tecnica narrativa. Un’opinione simile fu espressa pure nell’immediatezza dell’uscita: il recensore dello Spectator sentenziò che 1984, seppure degno di nota, era un fallimento sia come satira che come thriller. Nemmeno la celebrata preveggenza orwelliana è stata al riparo da critiche. Un guru della fantascienza, Isaac Asimov, ha rimproverato allo scrittore di non essere stato capace di prevedere novità quali il computer e l’hard rock.

Qualunque sia il segreto di 1984, va dato atto a Fredric Warburg, editor e amico di Orwell, di averne intuito all’istante le potenzialità. Gli bastò una scorsa al manoscritto per capire di avere in mano qualcosa di grosso. L’entusiasmo fu tale che non seppe resistere alla tentazione di fantasticare sui possibili modi di convertire 1984 in una macchina da soldi. Considerò persino di lanciarlo come un romanzo dell’orrore affinché ne venisse tratto un film. Una simile idea suona oggi quasi blasfema, ma è meno bislacca di quel che sembra.

Sebbene venga spesso descritto come un uomo estremamente posato e razionale, Orwell aveva i suoi lati oscuri. Storie di fantasmi e magia nera lo avevano affascinato sin da giovane. Una volta confidò a un amico di avere adottato uno pseudonimo per evitare che i nemici usassero il suo nome anagrafico - Eric Arthur Blair - per qualche maleficio. Lo stesso 1984 ha un che di gotico e notturno, un cuore di tenebra solo in parte riconducibile alla previsione di un governo dispotico e malefico che distorce la verità, ricorre alla dilazione e obnubila il popolo.

È infatti possibile leggere il romanzo anche da una prospettiva diversa da quella meramente politica. È possibile leggerlo come la triste e paurosa parabola di Winston Smith, un uomo sulla soglia della mezza età che dopo anni di rinunce e silente sottomissione si illude di rinascere a nuova vita grazie all’amore per una ragazza, la lasciva Julia del Reparto Finzione. La storia finisce in tragedia, perché l’uomo rientrerà nei ranghi nel modo più orribile che si possa immaginare: rinnegando se stesso e il fatto di essere mai stato innamorato.

All’apparenza il cattivo della situazione è il famigerato Grande Fratello. La descrizione che Orwell fornisce in apertura sembra evocare personaggi tristemente noti: «un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli». La somiglianza con Hitler e, meglio ancora, con Stalin è fin troppo evidente.

Ma siamo certi che fosse davvero questa l’intenzione? Anche Orwell vantava una discreta somiglianza con il Grande Fratello. Aveva baffi e lineamenti rudi. Ma soprattutto: compì quarantacinque anni proprio nel 1948 ovvero mentre portava a compimento il libro. Se a ciò aggiungiamo che il titolo ribalta l’anno corrente, il dubbio di avere davanti il riflesso di uno specchio è più che lecito.

Resta solo da capire perché mai lo scrittore avrebbe inteso identificarsi nell’eminenza oscura del suo romanzo. Il fatto è che Orwell era un uomo passionale, contraddittorio e capace di inaspettate bassezze. Un «adorabile egoista», come qualcuno lo ha definito. Se adottò uno pseudonimo non fu soltanto per proteggersi dalla magia nera, ma anche perché era uno specialista dell’inganno. Ripeteva che «la buona prosa è come il vetro di una finestra», ma nella vita non si comportava con altrettanta trasparenza. Evitava di far incontrare gli amici così da mostrarsi a ognuno con una faccia diversa. Teneva la famiglia all’oscuro di ciò che faceva. Si serviva del riserbo per celare i veri sentimenti. Era spesso sleale nelle relazioni sessuali. Senza contare la discussa lista di giornalisti e scrittori «cripto-comunisti» compilata per il Foreign Office.

Tutti noi ricordiamo le tremende torture cui viene sottoposto Winston Smith nelle pagine finali di 1984. Ciò nonostante nel modo in cui giunge a rinnegare il suo amore c’è qualcosa che trascende i carnefici. Si ha come l’impressione che questo Smith, questo piccolo uomo qualunque, non aspetti altro che una buona scusa per soffocare il lumicino di dignità e verità che per breve tempo gli ha rischiarato l’animo. È una sensazione che lascia atterriti, con un vuoto d’indicibile orrore.

Orwell sosteneva che «la voglia di fascismo» non è mai morta del tutto, serpeggia dove meno te l’aspetti. Può contagiare chiunque, perché chiunque, se messo alle strette, può sacrificare gli affetti più cari e i principî più irrinunciabili. Forse, perciò, il vero segreto del romanzo, più che nel monito politico, risiede nella sua cupa riflessione sulla natura umana, su quel lato debole e nero da cui nessuno può dirsi immune, quel pizzico di Grande Fratello che alberga in chiunque, in Orwell come in ciascuno di noi.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".

-  L’IDENTITA’ ("TAUTOTES") E IL DESTINO DELL’ITALIA, NELLE MANI DI UN "UOMO PRIVATO" ("IDIOTES") E DEL SUO PARTITO ("FORZA ITALIA")!!!
-  Gloria e destino della Necessità?! Boh?! Bah?!

-  L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.

Federico La Sala


Rispondere all'articolo

Forum