Quegli dei troppo umani che non avevano la verità
La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 8.06.2009)
La visione più fondata, quando si parla del mito greco, è quella che pone l’accento sulla unità del flusso mitografico e mitologico nell’area mesopotamico-mediterranea. Erodoto ne è consapevole, quando scrive che «quasi tutte le denominazioni degli dei vennero in Grecia dall’Egitto » (II, 50). E precisa che solo pochi nomi (Posidone, Themis, Dioscuri, Era, Nereidi, Cariti e pochi altri) fanno eccezione: ma, secondo la tradizione egizia cui Erodoto presta fede, anche tali nomi trassero i Greci dall’esterno, in particolare dai «Pelasgi». Su tale provenienza, che rinvia ad una unità culturale mediterranea, Erodoto si sofferma a lungo.
Né gli è ignota la tradizione relativa ai viaggi «d’istruzione» in Egitto compiuti da grandi figure della grecità arcaica quale Ecateo. Nesso di «apprendistato» nei confronti dell’antico Egitto che Platone enfatizzerà nel Crizia indicando in Solone un tramite illustre, e approdando alla celebre formulazione secondo cui i Greci sarebbero stati i «fanciulli» del mondo mediterraneo, riscopritori recenti di una sapienza antichissima.
Nei primi libri di Diodoro di Sicilia, il quale scriveva al tempo di Cesare, tale filiazione dall’Egitto trova una sistemazione quasi manualistica. Ed è notevole come secoli più tardi esponenti del pensiero cristiano si siano appropriati di questo luogo comune bene attestato nella cultura greca per capovolgerlo polemicamente e presentare i Greci (cioè i rappresentanti per eccellenza della cultura pagana) come plagiari rispetto a più autorevoli e più antiche culture. Accusa che fa un certo effetto da parte di chi così largamente risentiva dell’eredità greca e orientale come, per l’appunto, il cristianesimo. La mitologia cristiana, dunque, nel suo denso e alquanto confuso tessuto sincretistico, chiude il cerchio di questa storia di una religiosità di lunghissima durata incominciata molto prima dei Greci, e ramificatasi poi in moltissimi rivoli, eresie ed islamismo inclusi.
Collocare dunque i Greci come un «inizio» è operazione moderna, che ha una salda tradizione alle spalle ma che va intesa per l’appunto come una proiezione moderna, come il risultato dell’«idea di passato» che i moderni occidentali hanno costruito (e che rischiano talvolta di dimenticare frastornati da un’idea banale e incolta di modernità).
Ben scrive dunque Giulio Guidorizzi nell’Introduzione a Il mito greco (vol. I, Meridiani Mondadori, da pochi giorni in libreria, pp. 1.526, e 55): «I miti greci hanno un carattere archetipico, perché presentano nella loro essenzialità gli elementi originari del racconto sacro»: purché sia chiaro che quello è, per dirla alla maniera degli scolastici, un inizio per noi piuttosto che un inizio in sé. A ragion veduta, poi, Guidorizzi delinea la continuità pagano-cristiana quando osserva che «malgrado tutto i miti greci restano vivi sotto la superficie (...) pronti a manifestarsi appena qualcuno li cerca».
Egli lo dice in senso soprattutto estetico-emotivo e letterario, ma si potrebbe integrare tale intuizione in termini più propriamente storico-religiosi tenendo d’occhio il fenomeno della continuità ed il principio non contraddetto secondo cui soprattutto nel mondo delle religioni e delle credenze, che coinvolgono masse sterminate di persone, nulla è totalmente nuovo.
Vi è però una peculiarità della religione greca ed è l’assenza dell’«unico libro» cui attingere «la verità». Assenza salvifica perché ha reso possibile la grande libertà con cui il patrimonio mitico è stato trattato per esempio dal teatro tragico ateniese. L’assenza di una casta di scribi o di sacerdoti-teologi gravata del compito di tutelare l’ortodossia ha contribuito a rendere meno vincolante quel patrimonio. Una conseguenza di ciò è anche il fatto che, nel mondo greco, non accade che sia solo un determinato genere di testi a trattare del mito. Ed è probabilmente in ciò la causa del fenomeno più interessante: tra i moderni la religione greca non attrae soltanto gli specialisti di tradizioni religiose ma anche studiosi lontanissimi da tale bisogno mentale. Il che non accade sempre nel caso delle altre tradizioni.
Una situazione del genere «avvicina» gli dei agli uomini. Li avvicina non solo dal punto di vista dell’interventismo continuo degli dei nelle cose umane (si pensi alla cura ad personam che gli dei omerici riservano a questo o a quell’altro «combattente» di grido: invece si disinteressano delle masse...), ma anche dal punto di vista delle loro vicissitudini e dei loro comportamenti in quanto dei.
Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di dedicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei greci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a difenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto libro dell’Iliade. Per non parlare delle risse, passioni, sofferenze, stanchezze di cui questi dei sono partecipi, pur immortali.
Nel libro XV dell’Iliade, Iris, messaggera di Zeus, si reca da Posidone per trasmettergli l’ordine perentorio di Zeus di non intervenire attivamente a favore degli Achei. «Se non darai retta al comando - gli dice - verrà lui a combatterti quaggiù». Posidone, furibondo, rievoca che le tre parti del mondo erano state tirate a sorte tra i tre figli di Crono, e a lui era toccato «il mare canuto», a Zeus «il cielo fra le nuvole e l’etere», mentre la terra doveva essere «comune».
Dunque qui Zeus sta forzando la mano, ma Posidone, pur mentre si sottomette, dichiara che nel cuore gli sta entrando «dolore tremendo» e comunque manda a dire a Zeus che, se Troia si salverà, deve sapere che tra loro ci sarà «insanabile collera » (si legga questo brano, di straordinaria importanza, nel volume di cui qui discorriamo, alle pp. 55-56).
Qui sorge un vero problema teologico. Quali sono i rapporti di forza tra queste due divinità all’apparenza pari? Perché Zeus si giova della sua prevalente forza? E viola un diritto? Questo problema era, a ben vedere, complementare dell’altro (che affaticherà, senza che una soluzione venga fuori, il pensiero cristiano): perché gli dei non impediscono il male, il trionfo del male, perché consentono il dolore e la sofferenza del giusto? Per i cristiani il problema è insolubile (o solubile con qualche sofisma intorno al male a fin di bene). Per i Greci dell’epoca arcaica la risposta era dura, non consolante, ma era comunque una risposta: anche tra gli dei vige la legge del più forte, legge che - al di là della retorica consolatoria - regna dovunque tra gli umani.
Lo dicono gli Ateniesi ai Meli, nel celebre «dialogo del carnefice con la vittima» nel quinto libro della Storia tucididea, onde togliere ai Meli ogni illusione: «noi riteniamo che, a quanto si sa tra gli dei, ma certamente tra gli uomini, in forza di una necessità (hypo physeos anankaias), chi è più forte comanda. Non siamo noi ad aver stabilito questa norma, né siamo i primi ad attenerci ad essa; l’abbiamo trovata che c’era già e la lasceremo in eredità a chi verrà dopo, per sempre ». La «insanabile collera» che Posidone promette al fratello sopraffattore sembra implicare che i rapporti di forza tra le due potenti divinità potrebbero un domani cambiare. E certo Troia, pur così cara a Zeus, non si salvò.
1984 il celebre libro uscì nel 1949, sessant’anni fa
Serpeggia ovunque riflesso nel romanzo
il lato oscuro di Orwell
L’autore sosteneva che ‘la voglia di fascismo’ non è mai morta
Sleale e specialista dell’inganno, l’autore era capace di bassezze. Un po’ del famigerato Grande Fratello albergava in lui come anche in ciascuno di noi
È evidentissima la somiglianza con Hitler e Stalin del protagonista, Winston Smith
di Tommaso Pincio (la Repubblica, 8.06.2009)
Sessant’anni. Tanti ne ha ormai il libro più noto di George Orwell. Dall’8 giugno 1949, data della sua prima apparizione, 1984 non ha mai smesso di vendere e parlare alle coscienze. Di pochi giorni fa è l’uscita di 1Q84, nuovo romanzo di Murakami Haruki, anche lui sessanta primavere quest’anno. La pronuncia inglese della lettera Q suona come kyuu, «nove» in giapponese. È un palese tributo, l’ultima delle innumerevoli tracce che il Grande Fratello dissemina da più di mezzo secolo nel nostro immaginario.
Attribuire il segreto del suo planetario successo alla prefigurazione di un mondo di occhi elettronici che sbirciano costantemente nella vita delle persone sarebbe un errore. Negli anni Cinquanta il segreto veniva individuato nell’avvento della Guerra Fredda. Uno sbaglio anche quello. Diversamente, infatti, la caduta del Muro avrebbe dovuto invecchiarlo un po’. Invece è ancora qui, più attuale che mai, e tutto lascia credere che sopravvivrà anche all’era dei reality show.
Nemmeno il valore letterario pare essere una spiegazione sufficiente, tant’è che alcuni hanno persino messo in dubbio si tratti di un capolavoro. Umberto Eco, per esempio, sostenne a suo tempo che lo stile «non supera quello di un buon romanzo d’azione», aggiungendo che le Carré avrebbe saputo far di meglio, dal punto di vista della tecnica narrativa. Un’opinione simile fu espressa pure nell’immediatezza dell’uscita: il recensore dello Spectator sentenziò che 1984, seppure degno di nota, era un fallimento sia come satira che come thriller. Nemmeno la celebrata preveggenza orwelliana è stata al riparo da critiche. Un guru della fantascienza, Isaac Asimov, ha rimproverato allo scrittore di non essere stato capace di prevedere novità quali il computer e l’hard rock.
Qualunque sia il segreto di 1984, va dato atto a Fredric Warburg, editor e amico di Orwell, di averne intuito all’istante le potenzialità. Gli bastò una scorsa al manoscritto per capire di avere in mano qualcosa di grosso. L’entusiasmo fu tale che non seppe resistere alla tentazione di fantasticare sui possibili modi di convertire 1984 in una macchina da soldi. Considerò persino di lanciarlo come un romanzo dell’orrore affinché ne venisse tratto un film. Una simile idea suona oggi quasi blasfema, ma è meno bislacca di quel che sembra.
Sebbene venga spesso descritto come un uomo estremamente posato e razionale, Orwell aveva i suoi lati oscuri. Storie di fantasmi e magia nera lo avevano affascinato sin da giovane. Una volta confidò a un amico di avere adottato uno pseudonimo per evitare che i nemici usassero il suo nome anagrafico - Eric Arthur Blair - per qualche maleficio. Lo stesso 1984 ha un che di gotico e notturno, un cuore di tenebra solo in parte riconducibile alla previsione di un governo dispotico e malefico che distorce la verità, ricorre alla dilazione e obnubila il popolo.
È infatti possibile leggere il romanzo anche da una prospettiva diversa da quella meramente politica. È possibile leggerlo come la triste e paurosa parabola di Winston Smith, un uomo sulla soglia della mezza età che dopo anni di rinunce e silente sottomissione si illude di rinascere a nuova vita grazie all’amore per una ragazza, la lasciva Julia del Reparto Finzione. La storia finisce in tragedia, perché l’uomo rientrerà nei ranghi nel modo più orribile che si possa immaginare: rinnegando se stesso e il fatto di essere mai stato innamorato.
All’apparenza il cattivo della situazione è il famigerato Grande Fratello. La descrizione che Orwell fornisce in apertura sembra evocare personaggi tristemente noti: «un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli». La somiglianza con Hitler e, meglio ancora, con Stalin è fin troppo evidente.
Ma siamo certi che fosse davvero questa l’intenzione? Anche Orwell vantava una discreta somiglianza con il Grande Fratello. Aveva baffi e lineamenti rudi. Ma soprattutto: compì quarantacinque anni proprio nel 1948 ovvero mentre portava a compimento il libro. Se a ciò aggiungiamo che il titolo ribalta l’anno corrente, il dubbio di avere davanti il riflesso di uno specchio è più che lecito.
Resta solo da capire perché mai lo scrittore avrebbe inteso identificarsi nell’eminenza oscura del suo romanzo. Il fatto è che Orwell era un uomo passionale, contraddittorio e capace di inaspettate bassezze. Un «adorabile egoista», come qualcuno lo ha definito. Se adottò uno pseudonimo non fu soltanto per proteggersi dalla magia nera, ma anche perché era uno specialista dell’inganno. Ripeteva che «la buona prosa è come il vetro di una finestra», ma nella vita non si comportava con altrettanta trasparenza. Evitava di far incontrare gli amici così da mostrarsi a ognuno con una faccia diversa. Teneva la famiglia all’oscuro di ciò che faceva. Si serviva del riserbo per celare i veri sentimenti. Era spesso sleale nelle relazioni sessuali. Senza contare la discussa lista di giornalisti e scrittori «cripto-comunisti» compilata per il Foreign Office.
Tutti noi ricordiamo le tremende torture cui viene sottoposto Winston Smith nelle pagine finali di 1984. Ciò nonostante nel modo in cui giunge a rinnegare il suo amore c’è qualcosa che trascende i carnefici. Si ha come l’impressione che questo Smith, questo piccolo uomo qualunque, non aspetti altro che una buona scusa per soffocare il lumicino di dignità e verità che per breve tempo gli ha rischiarato l’animo. È una sensazione che lascia atterriti, con un vuoto d’indicibile orrore.
Orwell sosteneva che «la voglia di fascismo» non è mai morta del tutto, serpeggia dove meno te l’aspetti. Può contagiare chiunque, perché chiunque, se messo alle strette, può sacrificare gli affetti più cari e i principî più irrinunciabili. Forse, perciò, il vero segreto del romanzo, più che nel monito politico, risiede nella sua cupa riflessione sulla natura umana, su quel lato debole e nero da cui nessuno può dirsi immune, quel pizzico di Grande Fratello che alberga in chiunque, in Orwell come in ciascuno di noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
#LETTERATURA #MATEMATICA E #INTERPRETAZIONEDEISOGNI.
«Libertà è la libertà di dire che #due più #due fa #quattro: garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente».
MA “QUATTRO”... QUATTRO #PROFETI? IL #TONDO ("O") DEI #DONI.
George Orwell: 17 agosto 1945 pubblica “La fattoria degli animali”
di Riccardo Radi (filodiritto, 12 Agosto 2021)
Il 17 agosto del 1945 venne pubblicata in Inghilterra, dopo molte resistenze, la fattoria degli animali.
George Orwell in realtà si chiamava Eric Arthur Blair, assunse il nome di George Orwell quando negli anni Trenta cominciò a pubblicare i suoi primi romanzi.
Orwell era figlio di un funzionario al servizio di Sua Maestà britannica fu educato a Eton per essere avviato alla carriera diplomatica.
Orwell deluse le aspettative familiari e decise di intraprendere l’attività di narratore e quindi lasciò la famiglia e visse per alcuni anni autonomamente svolgendo mestieri molto umili quali il lavapiatti condividendo in alcuni momenti la vita dei senzatetto.
L’esperienza di vita vissuta, venne raccontata nel libro “Senza un soldo a Parigi e Londra”, pubblicato nel 1933.
La svolta nella sua vita fu quando decise di partire alla volta della Spagna e combattere nelle fila repubblicane. Militò nel POUM, formazione dell’estrema sinistra rivoluzionaria spagnola. La sua esperienza è espressa in “Omaggio alla Catalogna”, vero e proprio atto di accusa contro Franco ma soprattutto contro Stalin e l’URSS.
Durante la seconda guerra mondiale fu commentatore per la BBC e corrispondente per alcune riviste e quotidiani della sinistra inglese.
Tra la fine del ‘43 e l’inizio del ‘44 scrisse “Animal Farm”, ossia “La fattoria degli animali”. In Italia arrivò nel 1947.
L’altra opera immortale “1984” invece è pubblicata nel 1949 decretando con “La fattoria degli animali” la sua fama di grande scrittore.
Orwell morì nel 1950, a soli 46 anni.
Orwell ebbe molte difficoltà per la pubblicazione della fattoria degli animali perché in quel momento l’Urss era alleata della Gran Bretagna e ben quattro editori tra i maggiori non ritennero opportuno pubblicare quel testo.
Solo nel 1945, finita la guerra, il libro venne pubblicato.
Orwell al momento della prima pubblicazione del suo libro decise di non pubblicare la sua prefazione non per timori vari ma perché temeva di dare alla sua favola una netta interpretazione antistalinista e anti intellettuale facendo perdere al romanzo quel carattere di universalità che ogni grande libro deve avere. Ora in tutte le edizioni di Animal Farm si può leggere la prefazione di Orwell.
La storia è ambientata nella “Fattoria padronale” del signor Jones, per i lettori di Filodiritto un breve estratto del magnifico e intramontabile testo: “Per una volta Benjamin consentì a rompere la sua regola e lesse ciò che era scritto sul muro. Non vi era scritto più nulla, fuorché un unico comandamento.
Diceva:
TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI MA ALCUNI SONO PIU’ UGUALI DEGLI ALTRI.
Dopo ciò non parve strano che i maiali che sorvegliavano i lavori reggessero fruste nelle loro zampe. Non sembrò strano di apprendere che i maiali si erano comperati per loro uso un apparecchio radio, che stavano impiantando un telefono, che avevano fatto l’abbonamento al «John Bull», al «Tit-Bits» e al «Daily Mirror».
Non sembrò strano vedere Napoleon passeggiare nel giardino della casa colonica con la pipa in bocca; no, neppure quando i maiali presero dal guardaroba gli abiti del signor Jones e li indossarono e fu visto Napoleon in giacca nera, pantaloni e scarpe di cuoio, mentre la sua scrofa favorita vestiva l’abito di seta che la signora Jones portava la domenica, neppur questo sembrò strano.
Una settimana dopo, nel pomeriggio, numerose carrozze giunsero alla fattoria. Una deputazione di agricoltori del vicinato era stata invitata a fare un giro d’ispezione. Fu mostrata loro tutta la fattoria, ed essi espressero grande ammirazione per ciò che vedevano, specialmente per il mulino. Gli animali stavano sarchiando il campo di rape. Lavoravano con attenzione, quasi senza osar sollevare la testa da terra, non sapendo se avevano più paura dei maiali o dei visitatori umani.
Quella sera alte risa e canti uscirono dalla casa colonica, e ad un tratto, all’udir tutte quelle voci, gli animali si sentirono presi da curiosità. Che cosa stava succedendo la dentro, ora che per la prima volta gli animali e gli uomini si incontravano su un piede di eguaglianza? In un solo accordo, essi cominciarono a strisciare silenziosamente nel giardino della casa colonica.
Al cancello si fermarono dubbiosi se entrare o no. Ma Berta aprì la strada. In punta di piedi si portarono fin presso la casa e quelli che erano abbastanza alti spiarono attraverso la finestra della sala da pranzo. Là, attorno alla lunga tavola, sedevano una mezza dozzina di agricoltori e una mezza dozzina o più di eminenti maiali. Napoleon occupava il posto d’onore a capo della tavola. I maiali sembravano completamente a loro agio sulle seggiole. La compagnia stava giocando una partita a carte, momentaneamente sospesa, evidentemente per un brindisi. Circolava una grande anfora e i bicchieri venivano riempiti di birra. Nessuno si accorse delle facce attonite degli animali che spiavano dalla finestra.
Il signor Pilkington di Foxwood si era alzato reggendo il bicchiere. Fra un istante, egli disse, avrebbe chiesto alla compagnia di fare un brindisi, ma prima sentiva il dovere di pronunciare alcune parole. Era per lui motivo di grande soddisfazione, disse - e, ne era sicuro, per tutti gli altri presenti - di sentire che il lungo periodo di diffidenza e di incomprensione era finito.
C’era stato un tempo - non che lui o alcuno dei presenti avesse condiviso tali sentimenti - ma c’era stato un tempo in cui i rispettabili proprietari della Fattoria degli Animali erano stati guardati, non con ostilità, ma forse con qualche sospetto dagli uomini del vicinato. C’erano stati disgraziati incidenti, c’erano state incomprensioni. Si sentiva che l’esistenza di una fattoria tenuta e governata da maiali era qualcosa di anormale e rischiava di avere un malefico effetto sul vicinato. Troppi agricoltori erano convinti, senza prova alcuna, che in quella fattoria dominava lo spirito di licenza e di indisciplina. Erano inquieti per l’effetto che la cosa poteva avere sui loro animali e anche sui propri impiegati umani.
Ma ogni dubbio era ora dissipato. Quel giorno assieme ai suoi amici aveva visitato la Fattoria degli Animali, ne aveva ispezionato ogni palmo coi propri occhi, e che cosa aveva trovato? Non solo i metodi più moderni, ma una disciplina e un ordine da porre come esempio agli agricoltori di ogni dove. Credeva di poter dire a ragione che gli animali inferiori della Fattoria degli Animali facevano più lavoro e ricevevano meno cibo di tutti gli animali della contea. In realtà assieme ai suoi amici visitatori aveva quel giorno osservato molte cose che intendeva introdurre subito nelle proprie fattorie.
Chiudeva la sua perorazione, disse, esaltando ancora i sentimenti di amicizia che esistevano e dovevano esistere tra la Fattoria degli Animali e i suoi vicini. Tra i maiali e gli uomini non vi era e non doveva esservi alcun conflitto d’interessi. Le loro lotte e le loro difficoltà erano uniche. Non era il problema del lavoro lo stesso ovunque? Qui parve che il signor Pilkington stesse per lanciare qualche ben preparata arguzia sulla compagnia, ma per il momento era troppo sopraffatto dal piacere per poterla pronunciare. Dopo molti colpi di tosse durante i quali i suoi numerosi menti si fecero di bracia, riuscì a metterla fuori: «Se voi avete i vostri animali inferiori contro cui lottare» disse «noi abbiamo le nostre classi inferiori!». Questo bon mot fece scoppiare dalle risa tutta la tavola; e il signor Pilkington ancora si congratulò coi maiali per le razioni scarse, le lunghe ore di lavoro e la generale assenza di sovrabbondanza che aveva osservato nella Fattoria degli Animali.
E ora, disse infine, chiedeva alla compagnia di alzare la zampa e assicurarsi che il bicchiere fosse pieno.
«Signori» concluse il signor Pilkington «signori, brindo a voi e alla prosperità della Fattoria degli Animali!»
Seguirono entusiastici applausi e battere di piedi. Napoleon era tanto soddisfatto che si alzò dal suo posto e fece il giro della tavola per venire a toccare il suo bicchiere con quello del signor Pilkington prima di vuotarlo. Quando gli applausi si placarono, Napoleon, che era rimasto in piedi, annunciò che aveva qualche parola da dire.
Come tutti i discorsi di Napoleon, anche questo fu breve ed esplicito. Anche lui, disse, era felice che il periodo dell’incomprensione fosse finito. Per molto tempo erano corse voci - messe in giro, aveva ragione di credere, da qualche nemico maligno - che le direttive sue e dei suoi colleghi rivestissero qualcosa di sovversivo e di rivoluzionario Erano stati accusati di suscitare la ribellione fra gli animali delle vicine fattorie. Niente di più lontano dalla verità! Il loro solo desiderio, ora come nel passato, era di vivere in pace e in buone e normali relazioni con tutti i vicini. Questa fattoria che aveva l’onore di controllare, aggiunse, era una specie di impresa cooperativa. Le azioni che erano in suo possesso erano comune proprietà dei maiali.
Egli non credeva, disse, che alcuno degli antichi sospetti continuasse a sussistere; ma alcuni cambiamenti, recentemente introdotti nelle consuetudini della fattoria, dovevano aver l’effetto di promuovere un’ancor maggiore fiducia. Fino ad allora gli animali della fattoria avevano avuto la sciocca abitudine di chiamarsi l’un l’altro "compagni". Ciò doveva aver termine. C’era anche stato lo strano costume, la cui origine era sconosciuta, di sfilare la domenica mattina davanti al teschio di un verro posto su un ceppo nel giardino. Questo pure sarebbe stato abolito, e già il teschio era stato sepolto. I suoi visitatori avevano certo visto la bandiera verde spiegata in cima all’asta e avevano forse notato che lo zoccolo e il corno dipinti in bianco, di cui prima era fregiata, erano scomparsi. La bandiera, d’ora innanzi, sarebbe stata verde soltanto. Egli aveva solo una critica, disse, da fare all’eccellente e amichevole discorso del signor Pilkington. In esso il signor Pilkington si era sempre riferito alla "Fattoria degli Animali". Non poteva sapere, naturalmente - é lui, Napoleon, lo annunciava ora per la prima volta - che il nome "Fattoria degli Animali" era stato abolito. Da quel momento la fattoria sarebbe ritornata "Fattoria Padronale", quello cioè che, egli credeva, era il suo vero nome d’origine.
«Signori» concluse Napoleon «ripeterò il brindisi di prima, ma in forma diversa. Riempite fino all’orlo i vostri bicchieri. Signori, ecco il mio brindisi: alla prosperità della Fattoria Padronale!»
Come prima, vi furono calorosi applausi e i bicchieri vennero vuotati fino al fondo. Ma mentre gli animali di fuori fissavano la scena, sembrò loro che qualcosa di strano stesse accadendo. Che cosa c’era di mutato nei visi dei porci? Gli occhi stanchi di Berta andavano dall’uno all’altro grugno. Alcuni avevano cinque menti, altri quattro, altri tre. Ma che cos’era che sembrava dissolversi e trasformarsi? Poi, finiti gli applausi, la compagnia riprese le carte e continuò la partita interrotta, e gli animali silenziosamente si ritirarono.
Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio. Vi erano grida, colpi vibrati sulla tavola, acuti sguardi di sospetto, proteste furiose. Lo scompiglio pareva esser stato provocato dal fatto che Napoleon e il signor Pilkington avevano ciascuno e simultaneamente giocato un asso di spade.
Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”.
Pericoli. Un’antologia di testi di George Orwell sembra parlare profeticamente dell’era della rete
Disprezzare l’autorità senza credere alla libertà
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, La Lettura, 10.06.2018)
«Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, le polizie si aggirano minacciose nelle città, le menzogne piovono dagli altoparlanti, ma la Terra continua a girare intorno al Sole, e né i dittatori né i burocrati, per quanto profondamente ostili alla cosa, sono in grado di impedirglielo».
Così scriveva nel 1946 Eric Arthur Blair (1903-1950), noto al pubblico come George Orwell. Eppure, ci sono voluti secoli per capire e far accettare il moto del piccolo globo che noi abitiamo. Ciò significava, per Orwell, che è necessaria «una vigilanza costante» per vedere «ciò che abbiamo sotto il naso». Ma non è solo passione per la verità; è amore per la libertà. Perché l’assenza di tale incessante attenzione consegna la vittoria a vecchi e nuovi despoti. Costoro incarnano quella che si potrebbe chiamare la perversione della politica, la quale, da invenzione per favorire la sopravvivenza degli esseri umani in un ambiente ostile, si è tramutata in rischio subdolo, che ci minaccia di estinzione più di quanto facciano catastrofi o disastri naturali.
Orwell avrebbe voluto tenersene lontano per dedicarsi alla letteratura; ma, forse fin dai banchi di scuola, si era reso conto che la fuga dagli onnipresenti rapporti di potere era impossibile. Si era sentito come «un pesciolino rosso in una vasca di lucci»; e ora Vittorio Giacopini intitola così una bella antologia di scritti orwelliani per la casa editrice Elèuthera (Milano). Nato nell’India britannica ma formatosi in Inghilterra, Orwell, non ancora ventenne, si era trasferito in Birmania e si era arruolato nell’Indian Imperial Police. Ma non doveva trattarsi di un incarico troppo congeniale, visto che gli insegnò «a odiare l’imperialismo».
Dimessosi nel 1927, cominciò a scrivere «racconti e romanzi che nessuno voleva pubblicare», e gli ci vollero quasi dieci anni per riuscire a campare dei suoi libri. L’orrore per lo sfruttamento coloniale e per le discriminazioni sociali nella «progredita» Inghilterra lo portarono tra le file del socialismo. Con lo scoppio della guerra civile in Spagna, Orwell si recò in Catalogna con la moglie a difendere la Repubblica. Ma l’entusiasmo iniziale era destinato a spegnersi man mano che emergevano i contrasti interni alle forze che avrebbero dovuto battersi contro il fascismo di Franco. Quelle vicende sono state poi raccontate in Omaggio alla Catalogna (1938). I comunisti staliniani si misero a braccare sia anarchici sia seguaci di Trotzky: «Questa caccia all’uomo in Spagna avveniva in simultanea con le Grandi Purghe in Urss e ne costituiva il complemento». E ciò, commenta Orwell, «mi insegnò con quanta facilità la propaganda totalitaria può influenzare l’opinione pubblica nei Paesi democratici», ove le accuse staliniane erano accettate persino negli ambienti «progressisti».
Orwell avrebbe poi dedicato parecchi sforzi a mostrare come Stalin avesse finito per capovolgere il sogno di Lenin nel suo opposto: una società gerarchica, autoritaria e repressiva, non molto diversa dai regimi di Hitler e di Mussolini. Contro i totalitarismi di ogni sorta, che mirano a cancellare le differenze individuali, Orwell si guardava bene dall’abbandonare la difesa delle leggi. C’è infatti anche una «tendenza totalitaria inerente alla visione anarchica o pacifista della società», ove «l’unico possibile arbitro del comportamento» resta l’opinione pubblica. Solo che «quando si presume che gli individui siano governati dall’Amore (...) il singolo è sottoposto a una pressione costante per comportarsi e pensare in modo esattamente identico a tutti gli altri».
Oggi, nell’epoca nella rete che Orwell non fece in tempo a conoscere, chi «disprezza l’autorità senza credere alla libertà» ha i mezzi per imporre un conformismo così generalizzato da rendere superflua ogni forza di polizia. D’altra parte, chi ancora crede alla propria libertà dev’essere disposto a resistere e contrattaccare anche in difesa di quella altrui.
Una lettera inedita del grande autore in cui rivela
il suo rapporto con la politica, le ideologie e i totalitarismi
"Ecco cosa penso di fascismo e comunismo"
"Combattendo in Spagna ho capito che non c’è differenza"
di George Orwell (la Repubblica, 14.04.2010)
La lettera di al direttore della rivista
letteraria "Strand", che pubblichiamo in anteprima
mondiale, esce domani in Inghilterra nel -volume "Orwell: A Life in Letters" dell’editore Harvill Secker
Caro Mr. Usborne,
grazie della sua lettera del 22 agosto. Cercherò di risponderle come meglio posso.
Sono nato nel 1903 e ho studiato a Eton dove ottenni una borsa di studio. Mio padre era un funzionario dell’Amministrazione statale indiana e anche mia madre proveniva da una famiglia anglo-indiana, con legami soprattutto in Birmania.
Dopo aver completato la scuola ho lavorato per cinque anni per la Imperial Police in Birmania, ma il lavoro non si confaceva per nulla alle mie capacità: così ho dato le dimissioni quando sono venuto a casa, in licenza, nel 1927.
Volevo diventare uno scrittore, e ho vissuto la maggior parte dei due anni successivi a Parigi, mantenendomi con i miei risparmi, scrivendo romanzi che nessuno avrebbe pubblicato e che successivamente ho distrutto. Quando ho finito i soldi, ho lavorato per un po’ come lavapiatti, poi sono tornato in Inghilterra dove ho fatto una serie di lavori mal pagati, come quello di insegnante, con intervalli di disoccupazione e povertà disperata... (Era il periodo della depressione).
Quasi tutte le vicende descritte in Senza un soldo a Parigi e Londra sono accadute realmente ma in momenti diversi, e io le ho intrecciate per creare una storia che funzionasse.
Ho lavorato in una libreria per circa un anno nel 1934-1935, ma ho deciso di raccontarlo soltanto in Fiorirà l’aspidistra per creare uno sfondo. Non mi sembra che il libro sia autobiografico: io non ho mai lavorato in un ufficio di pubblicità. In generale i miei libri hanno un contenuto meno autobiografico di quanto per lo più si creda. Vi sono parti di autentica autobiografia in Wigan Pier e, naturalmente, in Omaggio alla Catalogna, che è un resoconto diretto. Incidentalmente Fiorirà è uno dei molti libri che non m’interessano e che ho soppresso.
Riguardo la politica, me ne sono interessato soltanto saltuariamente fino al 1935, sebbene io creda di poter dire di essere sempre stato più o meno "a sinistra". In Wigan Pier ho tentato per la prima volta di chiarire le mie idee. Ho pensato, e lo penso ancora, che ci siano enormi mancanze nell’intera concezione del Socialismo e mi sono spesso chiesto se non esiste nessun’altra via d’uscita.
Dopo aver studiato abbastanza bene l’industria britannica nella sua versione peggiore, cioè le miniere, ho concluso che è un dovere lavorare per il Socialismo anche se non si è emotivamente attratti da esso, perché la perpetuazione delle condizioni attuali è semplicemente intollerabile, e non esiste una soluzione politicamente realizzabile tranne qualche forma di collettivismo, perché è questo ciò che la massa della popolazione vuole.
Ma, più o meno nella stessa epoca sono stato infettato dall’orrore del totalitarismo, che in realtà avevo già sperimentato in quelle che chiamerei "forma di ostilità per la Chiesa Cattolica".
Ho combattuto per sei mesi (1936-37) in Spagna, e ho avuto la sfortuna di essere coinvolto nelle lotte intestine alle stesse fazioni: questo mi ha dato la certezza che non c’è molto da scegliere fra Comunismo e Fascismo, sebbene per varie ragioni sceglierei il Comunismo, se non avessi alternative. Sono stato vagamente associato con i trotskysti e gli anarchici, e più da vicino con l’ala sinistra del Partito Laburista (la propaggine Bevan-Foot).
Sono stato direttore letterario di Tribune, allora il giornale di Bevan, per circa un anno e mezzo (1943-45), e ho scritto per lo stesso per un periodo di tempo più lungo. Ma non sono mai stato iscritto a un partito politico, e credo di valere molto di più, anche politicamente, se scrivo quello che ritengo vero, rifiutando di seguire una linea imposta dall’alto.
All’inizio dell’anno scorso ho deciso di prendere una vacanza, dato che avevo continuato a scrivere quattro articoli alla settimana per due anni. Trascorsi sei mesi a Jura, un periodo in cui non ho lavorato, sono poi tornato a Londra facendo, come al solito durante l’inverno, il giornalista. Quindi sono rientrato a Jura: ho cominciato un romanzo che spero di finire entro la primavera del 1948.
Cerco di non fare nient’altro mentre continuo a lavorare a questo mio nuovo progetto. Molto raramente scrivo recensioni di libri per il New Yorker. Intendo trascorrere l’inverno a Jura, un po’ perché a Londra mi sembra di non riuscire mai a concludere nulla, un po’ perché credo sia più facile qui. Il clima non è così freddo, ed è più semplice avere cibo e carburante. Qui ho una casa molto comoda anche se in un luogo sperduto. Mia sorella fa funzionare la casa per me. Sono vedovo con un bambino che ha poco più di tre anni.
Spero che queste mie note le saranno d’aiuto. Mi rincresce di non poter scrivere nulla per lo Strand per il momento, perché, come ho detto, sto cercando di non essere distratto da altro.
Qui la posta funziona soltanto due volte alla settimana e questa lettera non partirà sino al 30, perciò la indirizzerò nel Sussex.
Con sincerità suo
George Orwell
Barnhill, Jura, 26 agosto 1947
Il testo scritto un anno prima di "1984"
di Gabriele Pantucci (la Repubblica, 14.04.2010)
L’importanza di questa lettera - che Repubblica riproduce in anteprima - sta, soprattutto, nel periodo in cui il grande autore la scrisse. Siamo a fine agosto 1947, a poco più di due anni dalla sua prematura scomparsa, a 46 anni. Già l’anno precedente aveva sofferto d’una emorragia tubercolare e quasi contemporaneamente decise di scrivere 1984 il suo capolavoro che compose nel 1948. La fattoria degli animali gli aveva dato quel minimo d’indipendenza economica che non lo obbligava a fare quattro articoli alla settimana. Scelse una fattoria abbandonata a otto chilometri dal paesino più vicino nell’isola di Jura, nelle Ebridi a ovest della Scozia. Qui lo raggiunse la lettera di Richard Usborne, il direttore del mensile letterario Strand, che lo invitava a collaborare.
Può sembrare strano che Orwell abbia deciso di rispondere con tanti dettagli a una persona che non conosceva per poi declinare l’offerta. Forse pesava lo stato di penuria in cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita: la proposta del direttore d’un giornale poteva tornargli utile in futuro. E forse, stare così isolato, gli aveva offerto l’occasione per chiarirsi le idee a mente fredda. Di sicuro oggi si può leggere la sua risposta come un testamento politico.
La lettera non compare nei volumi che contengono il suo epistolario pubblicato anni fa. È venuta a luce soltanto di recente e verrà pubblicata in Orwell: A Life in Letters che l’editore Harvill Secker pubblica domani.
Il volume, curato da Peter Davison, è un’autobiografia costruita attraverso le sue lettere (tutte già pubblicate, tranne pochissime). È scritta con l’efficienza che contraddistingue tutta la corrispondenza del grande scrittore: si direbbe quasi da uomo d’affari. Non ci sono note di spirito. La dolorosa perdita della moglie Eileen che lo lasciò col bambino adottato di tre anni non invoca commiserazioni.
Nella lettera c’è una contraddizione quando Orwell sostiene di non essere stato iscritto a un partito politico. Era stato un membro dell’Independent Labour Party, su cui aveva anche scritto. Forse fingere di ignorarlo faceva parte del suo processo di dissociazione dalla vita politica.
ANNIVERSARIO. 60 anni fa usciva il romanzo di George Orwell. Distopia che pare adattarsi a tutti i regimi. Forse anche all’Italia dei nostri giorni.
1984, il Grande Fratello non è più staliniano
di Guido Vitiello (il Riformista, 14.06.2009)
Ci sono scrittori divorati dalla loro stessa fortuna, che come un mostro marino li fa scomparire nelle sue fauci, li rimastica, li spolpa diligentemente, per poi risputarne al più qualche osso lustro, qualche maldigesto brandello. Ma a pensarci bene, per descrivere quel che capita a questi infelici, metafore altrettanto adatte possiamo trovarle nel prosaico scenario di un giacimento petrolifero: accade cioè che dal ribollente sottosuolo della loro opera la trivella dei critici e dei recensori estragga un piccolo numero di preferiti motivi, e che ad essi riduca l’intero corpus dei loro scritti. Se poi seguiamo le tappe successive della raffinazione, ecco che osserviamo come da centinaia o migliaia di pagine si perviene a distillare un paio di aggettivi miserelli, adatti a spendersi in ogni occasione che la cronaca, la storia o i casi della vita faranno apparire opportuna: si dirà allora che la tal situazione è kafkiana, o pirandelliana, o boccaccesca, e non si serberà memoria di una sola riga scritta da Boccaccio, Pirandello, o Kafka.
Qualcosa di simile è accaduto a George Orwell, e al suo libro più fortunato, 1984, che fece il suo debutto sulla scena letteraria l’8 giugno di sessant’anni fa. Lo scrittore, polemista e combattente britannico, al secolo Eric Arthur Blair, morto quarantaseienne appena sette mesi dopo aver dato alla luce la sua terrificante distopia politica, sopravvive oggi nel linguaggio comune rannicchiato nello spazio breve di un solo aggettivo, "orwelliano" - che a ben vedere si sovrappone un poco a "kafkiano", ma senza i grilli metafisici del grande praghese: orwelliana è la propaganda occulta, la scaltra manipolazione dell’opinione pubblica, l’informazione che crea dal nulla immagini della realtà congeniali al potere; orwelliano è quel pervertimento del linguaggio che consente di dire o fare qualcosa sotto la maschera del suo opposto, di muovere guerra inneggiando alla pace, di razzolare da oppressori mentre si predica da liberatori; orwelliano è, infine, qualunque sistema di sorveglianza o di spionaggio centralizzato, qualunque diavoleria elettronica che assedi - più o meno a nostra insaputa - la cittadella della vita privata.
Nei sei decenni esatti che ci separano dalla prima apparizione di 1984, critici e lettori illustri si sono disputati a dadi le vesti di George Orwell: alcuni onestamente, altri in modo un poco immaginoso, altri ancora barando apertamente al gioco. E così, il torvo scenario di un mondo retto dall’onnipresente effigie del Grande Fratello è stato strattonato nell’una o nell’altra direzione, a seconda delle opinioni e delle convenienze. Per alcuni, l’ordine totalitario descritto nel romanzo era una maschera i cui tratti si adattavano altrettanto bene alla Germania di Hitler e alla Russia di Stalin, solo esaperate e trasposte nel futuro. C’è chi, come Anthony Burgess, vi ha letto una satira swiftiana della sinistra londinese del dopoguerra, o perfino del governo laburista di Clement Attlee. Più di recente Christopher Hitchens - che all’autore britannico ha dedicato un libro appassionato, Why Orwell Matters - ha trovato analogie tra l’impero del Big Brother e l’Iraq di Saddam Hussein o la Corea del Nord di Kim Jong-Il - quasi echeggiando Norman Podhoretz, che in un celebre saggio di vent’anni prima aveva tentato l’annessione postuma di Orwell alla causa neoconservatrice.
Lo spagnolo Fernando Arrabal, in una dura requisitoria in versi e in prosa contro la dittatura cubana, scritta proprio allo scoccare dell’anno fatale, aveva accusato Fidel Castro di aver materializzato i peggiori incubi di 1984. E ovviamente c’è chi - sono legione - con forzatura davvero marchiana si ostina a scorgere in 1984 la prefigurazione di un ipercapitalismo tecnologico e oppressivo, di un mondo schiavo dell’imbonimento televisivo, magari giocando sulla fortuna di un format che, battezzato a partire da Orwell, con il suo libro non ha nulla a che vedere (e poi, diciamolo fuori dai denti: sul premier in carica, fatto salvo tutto il male che se ne può pensare, 1984 non ha nulla da dirci).
L’appellativo che si associa più di frequente al nome dell’autore di 1984, ad ogni modo, è quello di "profeta". Ed è un appellativo corretto, purché non lo s’intenda alla maniera moderna, come sinonimo di chiaroveggente o indovino, ma nel senso originario di colui che coglie con più chiarezza il presente e ne decifra i segni. George Orwell, spirito candido - nel senso voltairiano quanto in quello comune - nonché grande ammiratore della fiaba anderseniana del "re nudo", che sognava di trasporre nel mondo moderno, non parlava del futuro, ma del presente e del passato recente. Lui, che con La strada di Wigan Pier e Omaggio alla Catalogna aveva inaugurato il "non-fiction novel" con qualche lustro di anticipo su Truman Capote e Norman Mailer, nelle pagine di 1984 non ha fatto che descrivere quel che aveva davanti agli occhi, nelle cronache del suo tempo - un poco nascoste semmai, o sommerse da voci più squillanti, nondimeno accessibili a chiunque lo volesse. «Anche coloro che conoscono Orwell solo per sentito dire», scriveva nei primi anni cinquanta Czeslaw Milosz in uno dei saggi de La mente prigioniera, «si stupiscono che uno scrittore mai stato in Russia abbia potuto mettere insieme una tale quantità di osservazioni esatte». Impressione confermata dal polacco Gustaw Herling, l’autore di Un mondo a parte, una delle più alte testimonianze sul gulag: quando i suoi connazionali presero a leggere Orwell, racconta, non poterono fare a meno di chiedersi: «Ma questa è la mia vita. Come fa a conoscerla così bene? Come può un inglese sapere queste cose?».
Proprio come "La fattoria degli animali", di certo il libro più misurato e felice di Orwell, 1984 è prima di tutto un libro su Stalin e lo stalinismo, che sceglie il registro della fantascienza come l’altro sceglieva i travestimenti dell’apologo esopico. Non c’è nulla, o quasi, che Orwell non abbia pescato nelle cronache della Russia sovietica: l’asfissiante delirio burocratico, la creazione di un linguaggio disanimato fatto di sigle astruse; la riscrittura continua della storia in funzione delle necessità presenti, che porta fino alla cancellazione "in effigie" dei dissidenti (ricordiamo cosa fece Stalin con Karl Radek?); il controllo della vita privata basato sulla delazione generalizzata quanto e più che sui sistemi tecnologici di sorveglianza, la ripetizione martellante di slogan innocui costruiti per celare il loro esatto opposto; l’induzione coatta di sentimenti di reverente ammirazione verso la figura paterna del leader, rinfocolati dalla pratica dei «due minuti d’odio», in cui i sudditi si raccolgono a insultare l’oppositore Emmanuel Goldstein - trasparente alter ego di Lev Trotzkij - che compare su un grande schermo.
Il Grande Fratello è, prima di tutto, Iosif Stalin. E anche se è pretestuoso sostenere, come pure si è fatto, che questa elementare verità sul romanzo di Orwell sia stata occultata o rimossa per le sempiterne ragioni di fedeltà al partito, di egemonia, di accecamento ideologico, è pur vero che essa circola alla stregua di una lectio minore: la lettura di 1984 come prefigurazione dell’epoca televisiva gode senza dubbio di una risonanza più vasta.
Certo, l’attacco di Orwell allo stalinismo è pur sempre l’attacco di un uomo che si professò, fino all’ultimo, socialista. Un socialista sui generis, ferocemente antitotalitario, avversario dei marxisti dottrinari, dei pacifisti fanatici, degli anticolonialisti ideologici; un uomo ferito da quel che chiamava «l’orrore della politica», mosso dalla chimera populista e sentimentale di poter rinnegare le proprie origini privilegiate per immergersi nel popolo, confondersi con gli umili, sperimentare la condizione operaia con la stessa straunata generosità di Simone Weil.
La sua avversione al Grande Fratello staliniano discendeva da un’idea del socialismo ancora un po’ fluttuante in mare aperto, che non si era persuasa del tutto a rinnegare le sirene di una possibile rivoluzione "buona" (lo testimonia Il leone e l’unicorno), ma che pure sembrava navigare nella direzione della piena sconfessione dell’utopia. Fosse vissuto un po’ più a lungo, chissà, Orwell avrebbe capito che a fronte del "socialismo reale" non c’è il socialismo ideale, ma solo socialismi immaginari.
Il contagio
Il panico delle Borse per i titoli tossici, il reclutamento sul web dei terroristi, le emergenze sanitarie: non si contano i fenomeni virali, fino a configurare un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, che può espandersi o contrarsi. Questo tuttavia finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Ne hanno parlato Albert Camus nella «Peste» e George Orwell in «1984». Ma forse la pagina più istruttiva si trova già nelle «Storie» di Tito Livio
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, La Lettura, 14.02.2016)
Non sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del «contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il «virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche. Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto. Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti.
L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale, stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi allarmi sanitari - come appunto il virus Zika di questi tempi o le ricorrenti paure legate alla meningite -, destinati o meno a tramutarsi in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti, le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo. Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso lineare e infinito.
Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei «miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
La verità è che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La peste, un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata, non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo, all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze. Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste, suona come una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.
Pochi mesi dopo La peste, George Orwell pubblicò 1984. Questi due grandi scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano, sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus, noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico. Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso. Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire. Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una compagnia di attori.
I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi, destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa.