LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA
di Patricia Klindienst *
Aristotele, nella Poetica (16, 4) registra una frase significativa da un lavoro teatrale di Sofocle, ora perduto, sul tema di Tereo e Filomela. Come sapete Tereo, avendo stuprato Filomela, le taglia la lingua per non essere scoperto. Ma lei tesse un resoconto della violazione che ha subito in un arazzo, resoconto che Sofocle chiama "la voce della spoletta". Rivolgendosi agli antichi miti, ed aprendoli dall’interno tramite un corpo di donna, una mente di donna e una voce di donna, le donne contemporanee si sono sentite come ladre del linguaggio, come se inscenassero un’irruzione fra le tesoreggiate icone della tradizione, che avevano richiesto per secoli il silenzio delle donne.
Quando Geoffrey Hartman, in Beyond Formalism (p. 337), riferendosi alla citazione di Sofocle, si chiede "Cosa dà a queste parole il potere di parlarci, anche il dramma da cui provengono non lo abbiamo?", egli celebra il Linguaggio, e non la donna violata che emerge dal silenzio. Celebra la Letteratura e l’abilità del poeta maschio, non l’elevazione che la donna fa della sua abilità sicura, femminile, domestica - il tessere - ad un’arte e ad un nuovo modo di resistere.
Le donne che ricevono la storia di Filomela tramite la metafora di Sofocle, preservata per noi da Aristotele, si fanno la stessa domanda, ma arrivano a una risposta differente. Per Saffo, che scrive di Filomela trasformata in passero senza voce, la storia è il segno di ciò che minaccia l’esistenza della voce delle donne nella cultura.
Quando Hartman analizza in maniera esuberante la struttura del tropo della voce, egli compie un’elisione del genere che ci è fin troppo familiare. Quando si rivolge alla metafora del riconquistare la capacità di discorso, ovvero ciò che fa il testo potente, la storia per lui non è più la narrazione della donna costretta al silenzio e della violenza maschile (stupro e mutilazione) che le sottrae la parola. Invece, diviene la storia del Fato. Filomela, nella sua analisi, e’ una figurazione del Fato, un’oscura figura mitologica, che tesse i fili della vita in intricati disegni... e fa la sua parte nel mistificare la violenza.
Curiosamente, il critico non è conscio delle implicazioni del suo prendere distanza da Filomela, la fanciulla stuprata, mutilata e imprigionata da Tereo, per muoversi verso la mitica figura del Fato, la pericolosa, misteriosa ed enormemente potente "donna".
Perché questa figura spersonalizzata è preferibile, per il critico? Forse perché in Filomela egli non riesce a vedere la donna violata, che riflette sul suo telaio finché scopre il suo potere nascosto. Perché non può vedere in lei la donna attiva, che resiste, che si dà potere; e non può vedere come questa donna riesca ad ottenere dal telaio ciò che prima sperava di poter fare con la propria voce.
Nel libro sesto delle Metamorfosi di Ovidio, dove c’è la versione più famosa della storia, dopo che Tereo l’ha violata Filomela si rifiuta di accondiscendere all’addestramento alla sottomissione e fa voto di narrare la sua storia a chiunque voglia ascoltarla: "Poiché non ho vergogna, io lo proclamerò. Se me ne sarà data l’occasione, andrò in mezzo alla gente, lo dirò a tutti; se mi rinchiuderai qui, io muoverò a pietà i boschi e le rocce. L’aria del Cielo mi udrà, ed ogni dio, se ce ne sono in Cielo, mi sentirà".
Per Filomela, lo stupro dà inizio ad un profondo sconvolgimento. Il linguaggio ordinario, che ella parla, è divenuto privo di potere. Non importa quante volte lei dica "No", Tereo non la ascolterà. Paradossalmente, è proprio il fallimento del linguaggio che susciterà in Filomela la concezione della parola parlata come comunicazione, potere, azione.
E l’agire di Tereo è misterioso sia all’inizio che alla fine. Cosa inizialmente lo motiva a violare Filomela? E perché, avendola stuprata e ridotta al silenzio, preserva un’evidenza contro se stesso nascondendola, piuttosto che ucciderla? Qual è "la causa" che vince quando l’arazzo di Filomela viene ricevuto e letto, e perché il suo momento di trionfo viene spazzato via da una vendetta che la silenzia ancor più completamente? Per rispondere a queste domande dobbiamo riappropriarci della metafora della tessitura e ridefinire sia il luogo della sua potenza che la crisi che vi dà inizio.
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La violenza antecedente e la poetica femminista: la differenza che fa una Storia
In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf ci fornisce una comica metafora della poetica femminista usando l’esempio del gatto di razza Manx, che vive sull’isola di Man. Dalla finestra ella vede questo gatto attraversare il prato: nota che apparentemente al gatto "manca" qualcosa, ma si chiede se la sua condizione non sia primariamente solo una "differenza" dai gatti con la coda. È il gatto senza coda un mostro della natura, una mutazione? O è un prodotto della cultura, un sopravvissuto alle mutilazioni? Il gatto, poiché non ha la coda, non è ovviamente in grado di dirlo...
La figura è muta, ma pregna di suggestioni. La storia della coda perduta, nel mentre testimonia un senso reale della differenza, e specificatamente della differenza di genere, resiste alla violenza intrinseca della riduttiva teoria freudiana sulla "castrazione" delle donne come spiegazione del nostro essere ridotte al silenzio all’interno della cultura. Virginia Woolf percepisce una differenza così radicale nel gatto senza coda che esso sembra "mettere in discussione" l’universo e dio, semplicemente essendo là.
La questione echeggia il rigetto, da parte della Woolf, di accettare la versione di Milton, che prende a prestito l’autorità religiosa per spiegare il silenziamento delle donne in termine di peccato originale delle stesse. Per Woolf, la coda perduta significa un’assenza presente: la x (di Manx) marca il segno che qualcosa di irreparabile è apparentemente avvenuto; la lettera in più segnala una storia spezzata. Designa il mistero, la violenza.
La coda perduta non rappresenta solo la nostra tradizione spezzata, le storie seppellite delle donne che vennero prima di noi nella storia. Significa anche il taglio della voce, l’amputazione della lingua: ciò che troviamo difficile da guarire e persino da dire a noi stesse. Noi non siamo castrate. Non siamo minori, con qualcosa di mancante, con qualcosa di perso. E ancora ci sentiamo però ladre e criminali quando parliamo, perché sappiamo che qualcosa di originariamente nostro ci è stato rubato, e la forza con cui ciò è stato fatto ci minaccia ancora se tentiamo di averlo di nuovo.
Nel mito di Filomela possiamo cominciare a guarire la violenza antecedente su cui Woolf ironizza con la sua pungente metafora del gatto senza coda. Il nostro essere mute è una mutilazione, non una perdita naturale, ma una culturale, a cui resistiamo quando ci muoviamo nel linguaggio. Woolf ci ha insegnato a vedere gli ostacoli, e a capire che il principale fra essi è l’interiorizzazione delle immagini mortali delle donne create ad arte, nell’arte.
Quando Hartman termina il suo saggio su Filomela notando (p. 353): "C’è sempre qualcosa che ci viola, ci priva della voce, e spinge l’arte verso un’estetica del silenzio", la specifica natura della doppia violazione subita da Filomela scompare dietro l’apparente (ma in realtà maschile) "neutralità" rispetto al genere del linguaggio usato.
"Noi", l’"io" e il "tu" che si dicono d’accordo nell’attestare che ciò che ci viola e depriva, ciò che ci riduce al silenzio è solo un misterioso, innominato, "qualcosa"... Non intendo permettere a Filomela di diventare "universale" prima di essere incontrata come "femminile": la nostra storia ci insegna che è ingenuo aspettarsi che la verità venga fuori da sola; ciò non accade senza lotta, inclusa la lotta contro coloro che pretendono di avere la veritò in tasca. Può anche darsi che ogni pezzo di "grande" arte porti con sé l’ansiosa memoria del momento originario della rottura o della violenza, ma la donna che scrive, e la critica femminista, devono anche domandarsi perché questo momento è, ed è stato, così particolarmente violento verso le donne.
Che cosa è archetipale per una donna nella "voce della spoletta"? È l’immagine della donna artista come tessitrice. E cosa, nel contesto, percepisce come archetipico? Che, dietro al silenzio femminile, c’è l’incompleta trama della dominazione maschile, la quale fallisce, non ha importanza quanto decida di essere estrema.
Quando Filomela si immagina libera di raccontare la sua storia a chiunque voglia ascoltarla, Tereo capisce per la prima volta cosa verrebbe alla luce, se la voce della donna divenisse pubblica. In privato, la forza è sufficiente. In pubblico, tuttavia, la voce di Filomela, se udita, li farebbe eguali. Il silenzio imposto e l’imprigionamento sono i sistemi che Tereo usa per proteggersi da questo: ma come lo stesso mito racconta, il dominio può contenere, ma mai distruggere con successo, la voce delle donne.
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Sbrogliare lo schema mitico: confini, scambi, sacrifici
In numerose versioni del mito, inclusa quella di Ovidio, si dice che Tereo è preso da improvvisa passione per la bella vergine Filomela, la figlia più giovane del Re di Atene, Pandione. Ciò che usualmente non viene osservato, è che entrambe, sia Filomela sia sua sorella Procne, servono quali oggetti di scambio fra due Re: Pandione d’Atene e Tereo di Tracia, ovvero fra i greci e coloro che i greci consideravano "barbari".
Filomela è la fanciulla che Tereo si prende per sfidare la supremazia di Pandione ed il potere di Atene. La sua passione mitica è la storia che copre la violenta rivalità fra due Re.
Apparentemente, la tragica sequenza non comincia dal desiderio di Tereo, ma da quello di Procne. Dopo cinque anni di vita matrimoniale in Tracia, Procne sente la mancanza della sorella, e chiede a Tereo di recarsi da Pandione affinché egli permetta a Filomela di farle visita.
Quando Tereo vede Filomela con Pandione, il suo desiderio diventa incontrollabile ed egli non tollererà frustrazioni per la sua soddisfazione. In primo luogo, le tensioni politiche vengono trasformate in conflitto erotico, ed in secondo luogo la responsabilità per la lussuria di Tereo viene fatta ricadere su Filomela stessa: come Ovidio stesso ci dice, il corpo casto di una donna è fatalmente seduttivo.
In altre parole, ci viene richiesto di credere che Filomela, contro la propria volontà e passivamente, inviti il desiderio di Tereo essendo semplicemente quel che è: pura. Ma se è la purezza di Filomela a renderla desiderabile, non è perché la purezza sia bella. Il desiderio di Tereo è adescato non dalla bellezza, ma dal potere. Pandione detiene il potere di offrire Filomela ad un altro uomo, perché essa è una vergine, e perciò non ancora scambiata. Tereo è un barbaro, ed avergli offerto la prima figlia lo incita solamente a prendersi l’altra figlia proibita. Sia il "barbaro" che la "figlia vergine" sono due figure chiave dell’immaginario greco. Sono gli attori del dramma che raffigura la necessità di stabilire e di mantenere sicuri i confini che proteggono il potere dell’emblematico Pandione, il Re che scompare dalla storia non appena ha dato via entrambe le figlie.
Lo scambio di donne è la struttura che il mito nasconde in modo incompleto. Ciò che il mito rivela è come la gerarchia politica costruita sul dominio sessuale maschile richieda l’appropriazione violenta del potere di parlare delle donne.
Quando ci interroghiamo sul corpo della figlia del Re, ci avviciniamo alla struttura che Mary Douglas vede come interazione dialettica fra i "due corpi": l’effettivo corpo fisico e il corpo socialmente definito dalle metafore: "(...) il corpo umano è sempre trattato come un’immagine della società (...) L’interesse verso le sue aperture dipende dalla preoccupazione per ciò che socialmente può entrarne od uscirne (...) Se non c’è preoccupazione nel mantenere confini sociali, non mi aspetto di trovare preoccupazione per quanto concerne i confini fisici. Le relazioni fra testa e piedi, cervello ed organi sessuali, bocca ed ano, sono comunemente trattate in modo da esprimere gli schemi rilevanti della gerarchia" (Mary Douglas, Natural Symbols, Explorations in Cosmology (1970, seconda edizione Pantheon, New York 1982, p. 70).
Lo scambio di donne articola i confini della cultura, l’imene delle donne serve come simbolo fisico o sessuale del muro che delimita i confini della citta’. Come il terreno fra le mura d’Atene, la castità delle donne è circondata da proibizioni e precauzioni. La terra e la castitò sono protette da sanzioni politiche e rituali, entrambe sono "sacre". Ma la castità femminile non è "sacra" nel senso di rispetto per l’integrità della donna come persona; piuttosto, essa è "sacra" in relazione alla violenza che può subire. L’imene non deve essere rotto se non in maniera che rifletta ed assicuri la continuazione dell’esistente gerarchia politica.
Il Re-padre controlla i cancelli al potere della città sia in senso letterale che metaforico. La cultura disegna una differenza fra la porta aperta e la fortezza assediata: Pandione garantirà a Tereo libero accesso al corpo di Procne se egli acconsentirà a non usare le proprie forze contro Atene. Lo scambio di cui è oggetto la figlia del Re non è niente di meno che il dispiego del potere del Re stesso, ed il suo riaffermare la propria sovranità sulla città.
Durante il rito matrimoniale, la figlia del Re è condotta all’altare come vittima sacrificale ed offerta, ma invece di essere uccisa viene data in sposa al Re rivale. La guerra è scongiurata. Ma durante una crisi, la donna può essere identificata con la violenza stessa che lo scambio del suo corpo avrebbe dovuto frenare.
La violenza implicita nello scambio di donne è centrale non solo nella storia di Filomela, ma in una delle grandi tragedie greche, Ifigenia in Aulide di Euripide, dove la natura sacrificale dello scambio di donne è chiara in modo terrificante. Qui la figlia del Re viene letteralmente condotta all’altare del sacrificio, tramite lo stratagemma che fa credere che vi viene condotta per essere data in sposa ad Achille. E come il dramma rivela, la figlia del Re è in finale una vittima surrogata, che prende il posto del Re stesso: è Agamennone che la folla armata ucciderà, se Ifigenia non verrà sacrificata.
E due cose devono accadere, per trasformare Ifigenia in una vittima volontaria, di modo di sottrarre a sua madre la possibilità di chiedere vendetta e di assolvere suo padre dalla responsabilità della sua morte. Primo: Ifigenia deve sentirsi dire da Achille che la folla sta chiamando il suo nome e che se resisterà verrà condotta comunque, trascinata per i capelli; secondo, Ifigenia deve cominciare a parlare il linguaggio della vittima: biasima Elena, vede la guerra di Troia come conflitto erotico, ripete ciò che dicono gli uomini che stanno preparando il suo sacrificio e, infine, sposta la responsabilità della sua morte sulla dea Artemide.
Come segno e sostituto della moneta di scambio, il corpo invaso della donna porta il fardello di un contagio rituale. Filomela descrive se stessa, dopo lo stupro, come una fonte di pericoloso contagio, perché ora che è stata violata ella è contemporaneamente rivale della sorella e suo doppio mostruoso. Se il matrimonio usa il corpo della donna come moneta buona e discorso inequivocabile, lo stupro la trasforma in una moneta contraffatta, una parola contraddittoria che minaccia l’intero sistema.
Il paradosso, ovvero la vergine violata come segno ridondante ed equivoco, è il lato oscuro della successiva positiva scoperta da parte di Filomela sul linguaggio: ora che ella non può più funzionare come simbolo, libera il proprio potere di parola.
Raccontare la storia dello stupro è sperare nella giustizia. E la giustizia non danneggerebbe solo Tereo, ma lo stesso Pandione. Poiché, una volta stuprata, Filomela si trova radicalmente esclusa da ogni confine: viene esiliata nel regno della "natura", è prigioniera fra i boschi. Ma è proprio lì che ella potrà capire quanto arbitrari i confini culturali siano.
Lo stupro della figlia del Re ed il sacrificio di Ifigenia coincidono: entrambi minacciano di rendere completamente visibile la base della struttura di dominio, gettando luce sulla violenza implicita nelle iscrizioni culturali che riducono al silenzio il corpo della donna.
L’autorità che si basa sulla soppressione della conoscenza e della libertà di parola relega allo stesso tempo le persone ridotte al silenzio e le cose indicibili negli interstizi della cultura. È solo questione di tempo, e ciò che è stato spinto ai margini dal centro acquisterà forza per se stesso e il centro verrà minacciato dal collasso. I sistemi che il dominio crea per definire se stesso come il centro della cultura ed il vertice della gerarchia si rivolgono contro di esso.
L’invasione di Atene/Filomela da parte della Tracia/Tereo (barbarismo) collassa il sacrificio rituale in un momento isolato in cui il sistema della regalità si rivolge su se stesso.
Quando Filomela trasforma la sua sofferenza, la sua prigionia ed il suo silenzio in occasioni per la sua arte, il testo che tesse è stracolmo del desiderio di raccontare. Il suo arazzo non cerca solo risarcimento ad un torto privato, ma deve diventare pubblico (e lei comincia a vedere le connessioni fra pubblico e privato prima che le venga tagliata la lingua) e riportare alla luce dall’oscurità tutto ciò che la cultura definisce fuori dai confini del discorso permesso, sia in senso sessuale, sia in senso spirituale e letterario.
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Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta.
Quando Procne riceve il testo di Filomela, lo legge e lo interpreta, e agisce per correre in suo soccorso, il mito crea un vicolo cieco sia per la produzione che per la ricezione del testo femminile. Il movimento della violenza è rapido e sicuro: non c’è quasi pausa fra il concepire una strategia da parte di Procne e l’eseguirla. Né c’è esitazione da parte di Tereo nel riconoscere che egli si è cibato del suo stesso figlio e nella decisione di inseguire ed uccidere le sanguinarie sorelle.
Lo spazio più minacciato dal collasso è quello fra Tereo e le sorelle; qui gli dei intervengono, e tutti e tre sono mutati in uccelli. Ma paradossalmente, questo cambiamento non cambia nulla. La metamorfosi preserva la distanza necessaria fra la struttura di dominio e la sottomissione: nel finale ogni movimento è congelato. Tereo non smetterà mai di inseguire le sorelle, ma neppure le donne cesseranno di fuggire.
La distanza non può giungere al collasso od espandersi. In tale stasi, sia l’ordine sia il conflitto sono preservati, ma non c’è alcuna speranza di cambiamento. La metamorfosi fissa per l’eternità lo schema violazione-vendetta-violazione. Il mito sostiene la struttura dando alla storia un finale morto e mortale. Le donne, inchinandosi alla violenza, diventano simili all’uomo che per primo l’ha usata contro di loro. Le sorelle barattano l’omicidio e lo smembramento di un bambino per lo stupro e la mutilazione di una donna. Il sacrificio della vittima innocente continua, senza alterare il moto della violenza reciproca. E, come la tradizione letteraria ci mostra, le due donne vengono ricordate come ben piu’ violente dell’uomo... Il mito ha questo fine.
Ma preserva il contradditorio "in mezzo". Poiché il finale è così contrario a ciò che ci è stato narrato nel "mezzo", noi lo percepiamo spontaneamente come falso. È quell’"in mezzo" che recuperiamo: il momento del telaio, il punto di partenza per la storia di una donna, che avrebbe potuto giungere ad un finale inaspettato.
Imprigionata nella trama, così come Filomela è imprigionata da Tereo, c’è l’antitrama. Così come Filomela non viene uccisa ma nascosta, la possibilità dell’antistruttura non è mai distrutta dalla struttura. È solo contenuta o controllata, fino a che la struttura diventa morente o estrema nella sua rigidità gerarchica, proprio in virtù di tutto ciò che ha tentato di espellere da se stessa. Allora l’antistruttura può erompere. E può essere pacifica o violenta.
La violenza che sorge quando Filomela viene soccorsa e riporta nella cultura non il potere che durante l’esilio è stato inerente al suo testo tessuto, ma quello che concerne la struttura di dominio. Il finale della storia rappresenta il tentativo di impedire o evitare un momento di trasformazione radicale in cui il dominio e la gerarchia dovevano cominciare a cambiare o lasciar posto ad altro.
La cultura si nasconde dalla propria violenza sacrificale. L’immaginario greco usa questo finale mitico per espellere da sé la propria violenza ed evitare ogni conoscenza del processo violento. La cultura patriarcale sente, come sente Tereo, che le si chiederà di rispondere della propria mostruosità quando la donna tornerà dall’esilio per narrare la propria storia.
E il mito cerca di gettare sulle donne il biasimo che si deve all’incapacità della cultura di permettere alla donna stuprata, mutilata, ma resistente, di tornare: le sorelle devono diventare nutrici della forza bruta, devono diventare assetate di sangue. Devono dimenticare rapidamente il loro desiderio di stare insieme, a lungo ritardato, per dar spazio al desiderio di vendetta.
Ma la storia può ottenere questo solo lasciando fuori il telaio. C’è da fare i conti con due donne, la pace (il fare) e la violenza (il disfare). Tramite l’omicidio da parte di Procne del proprio figlio e la sua cottura che culmina in pasto familiare rovesciato - il cannibalismo di Tereo - il mito cancella il nascosto lavoro di Filomela al telaio. La vendetta, lo smembramento, è veloce. L’arte, la resistenza alla violenza, lo stesso processo del tessere, sono lenti.
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude. Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" ed il disfare la violenza dello stupro.
Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dei che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile. Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere nonviolento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poeta facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
È solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi e’ Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa.
Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine. Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa e’ divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio puo’ raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale". Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’idenficazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili.
La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini. Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano a lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità. Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus.
La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione.
La guerra ed il tessere sono antitetici. Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla. E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio.
L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso. È il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza?
All’interno della tradizione greca, il mito e’ stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacita’ di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come e’ istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
È il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema.
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Abbiamo cominciato a recuperare le nostre storie
Perche’ la "voce della spoletta" ha il potere di parlarci anche se siamo prive del testo della donna? Perché abbiamo cominciato a recuperare, preservare, interpretare le nostre storie. Esse ci chiedono di ricordare, contro ogni avversità, ciò che ci è stato chiesto di dimenticare, ciò che siamo state addestrate a dimenticare.
Filomela ed il suo telaio ci parlano perché assieme rappresentano l’affermazione della volontà di vivere, nonostante qualsiasi cosa minacci di renderci mute, inclusa la tradizione letteraria maschile ed i suoi critici, che hanno conservato la "voce" di Filomela senza neppure sapere cosa essa dica. Filomela parla a noi ed in noi perché il suo corpo è la pagina originale su cui una storia è stata scritta con il sangue.
Noi abbiamo bisogno di atti di ricordo comune, collettivo: sia il corpo femminile che il testo femminile devono essere recuperati dall’oblio. Dobbiamo uscire dall’amnesia culturale indotta e resistere al continuo quieto smembramento delle nostre storie da parte della misoginia. Noi ricordiamo, e poi speriamo di dimenticare: l’amnesia e’ ripetizione, essa rivela (e viene continuamente inseguita da) la paura e la rabbia per ogni momento in cui ci siamo inchinate alla pressione che ci chiede di non vedere, di non sapere, di non nominare ciò che per noi è vero.
Se le donne sono servite come capri espiatori della violenza maschile, se la donna artista ridotta al silenzio è un’offerta sacrificale all’immaginazione artistica maschile (che ha visto Filomela come un usignolo che si infilza volontariamente sulla spina, così il poeta maschio potrà tradurre la sua canzone in versi), noi dobbiamo cercare di ricordare le donne nei loro corpi, le donne che resistono. Ogni volta che lo facciamo, ci opponiamo al nostro stato di vittime predestinate ed interrompiamo la struttura della violenza reciproca.
Se la "voce della spoletta" è oracolare, ciò che ci dice è che il Fato non è mai stato una donna che tesse le sue trame nell’oscurità per danneggiare gli uomini: questo Fato è la fantasia maschile della rappresaglia operata dalle donne. Celebrando la "voce della spoletta" come nostra, noi celebriamo non Filomela la vittima, non Filomela che prepara per il pasto di Tereo la testa insanguinata del figlioletto, bensì Filomela che tesse, la donna artista che nel ricostruire la propria voce scopre non solo il proprio potere, ma il proprio potenziale trasformativo nel mutare la vendetta (violenza) in resistenza (pace).
Nel liberare le nostre voci noi non intendiamo ridurre al silenzio nessun altro. Nel disfare la trama mitica che vuole gli uomini e le donne brutalmente vendicativi/e gli uni verso le altre e viceversa, noi rifiutiamo che la violenza riduca di nuovo in pezzi il lavoro dei nostri telai. Noi abbiamo questo potere. Noi abbiamo questa scelta.
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[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo@tvol.it) per averci
inviato, nella sua traduzione, adattamento e riduzione, questo articolo di
Patricia Klindienst, con la seguente premessa: "Questo articolo apparve
nella sua prima stesura nella rivista letteraria "The Stanford Literature
Review", n. 1 del 1984, pp. 25-53; fu pubblicato anche nel libro Rape and
Representation (Stupro e rappresentazione) edito da Columbia University
Press, New York 1991, pp. 35-64. Patricia Klindienst è una studiosa
indipendente.
Scrisse La voce della spoletta e’ nostra quale completamento
di una dissertazione su Virginia Woolf alla Stanford University. E’ stata
assistente alle cattedre di Inglese, Studi Umanistici e Studi Femministi
all’Universita’ di Yale dal 1984 al 1992, anno in cui ha scelto di lasciare
la professione per dedicarsi a scrivere.
Originariamente concepito come
parte di uno studio sui cambiamenti della rappresentazione dello stupro, il
presente saggio fu seguito da altri due testi che proseguivano l’analisi:
Ritual Work on Human Flesh: Livy’s Lucretia and the Rape of the Body Politic
(ed. Helios, 1990, pp. 51-70), e Intolerable Language: Jesus and the Woman
Taken in Adultery, in Shadow of Spirit: Postmodernism and Religion, ed.
Berry and Wernick, (Routledge, London and New York 1992), pp. 226-237"]
("La nonviolenza e’ in cammino", 458, 27 dic. 2002 - Centro di ricerca per la pace - Viterbo)
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
LE "REGOLE DEL GIOCO DELL’OCCIDENTE" E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala (24 febbraio 2019).
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del "Sapiente" (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
FILOLOGIA, FILOSOFIA, E PEDAGOGIA:
UN "INVITO" A USCIRE DAL LETARGO (Par. XXXIII, 94) E A RILEGGERE IL "CRATILO" DI #PLATONE, A RIASCOLTARE "LA VOCE DELLA SPOLA NEL #TEREO DI #SOFOCLE" (#ARISTOTELE), A INSEGNARE E IMPARARE A COME MEGLIO "FARE LA SPOLA", E, ANTROPOLOGICAMENTE, A CONCEPIRE UN ALTRO MODO DI #TESSERE IL RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE, IN GENERALE:
"[...]
SOCRATE: Se io ora domandassi: «Che strumento è la spola?». Non quello con cui tessiamo?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E, tessendo, che cosa facciamo? Non distinguiamo forse la trama e gli stami confusi insieme?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E non avrai modo di dire così anche del trapano e degli altri strumenti?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: E hai modo di dire lo stesso anche del nome? Quando diamo denominazioni con il nome, che è uno strumento, che cosa facciamo?
ERMOGENE: Non so cosa rispondere.
SOCRATE: Non insegniamo qualcosa gli uni agli altri e distinguiamo le cose come stanno?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: Il nome dunque è un mezzo suscettibile di insegnare e di farci cogliere l’essenza come la spola a proposito del tessuto?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: La spola è un mezzo per tessere?
ERMOGENE: Come no?
SOCRATE: Il tessitore si servirà bene della spola: e bene vuol dire da tessitore, così chi è atto a insegnare si servirà bene del nome e bene vuol dire da insegnante.
ERMOGENE: Sì . [...]"
("Cratilo", 388 b-c)
CONTRO "LA MISURA" DELL’#ANTROPOLOGIA (DI #ERACLITO E #PROTAGORA), L’#ALIBI DEL DEMIURGICO "SO-CRATILO" #DIALETTICO DI ESSERE #ALTROVE, NEL MONDO DELL’#IDEE, DOPO OLTRE "#VENTICINQUESECOLI" (#DANTEALIGHIERI), NON E’ ANCORA CHIARO CHE E’ UNA "STORICA" #APOLOGIA DELL’ #ANDROCENTRISMO PROPRIO DELLA #TRAGEDIA"?:
"SOCRATE: Ascolta dunque, [...] dopo la #giustizia di che cosa ci resta da #parlare? Il #coraggio, "andreia", non l’abbiamo ancora esaminato, io credo. è chiaro infatti che l’ingiustizia, "adikia", è di impedimento per l’ente ’che passa attraverso’, "diaion"; "andreia", invece, ’il coraggio’, significa come se questo nome di coraggio gli fosse stato attribuito in battaglia; e battaglia è nell’ente, se questo scorre, niente altro se non la ’corrente contraria’, "enantia rhoe"). Se dunque si elimina il "delta" dal nome di "andreia", il nome "anreia" significa proprio questa opera. E pur sempre chiaro che non la corrente contraria a ogni corrente è coraggio, ma quella che contrasta alla corrente che si oppone al giusto: diversamente infatti non verrebbe lodato il coraggio. E così "arren" (’#virilità’) e #aner (’#uomo’) si riferiscono a un qualcosa simile a questo, "ano rhoe" (’corrente verso l’alto’). #Gyne (’#donna’), poi, pare a me voglia significare ’#generazione’, "gone", e "thely" (’femminile’) pare che sia chiamato così da "thele" (’mammella’). E la "thele", Ermogene, non ritieni che sia detta così perché ’fa fiorire’, "tethelenai",) come tutto quello che viene annaffiato?
ERMOGENE: Mi pare di sì , o Socrate.
SOCRATE: E anche lo stesso thallein (’fiorire’) mi sembra che rapresenti la crescita dei giovani perché è rapida e
improvvisa. Ed è proprio quello che il legislatore ha imitato con il nome componendolo con il thein (’correre’) e
hallesthai (’saltare’). Ma tu non ti rendi conto che io mi lascio trascinare fuori dal seminato non appena imbocco un
tratto liscio. E sì che restano ancora molte questioni di quelle che sembrano impegnative.
ERMOGENE: Dici il vero.
SOCRATE: E una di queste è vedere anche #techne (’#arte’) che cosa mai vuol dire.
ERMOGENE: Ma certo.
SOCRATE: E non significa dunque techne "hexis nou" (’condizione della mente’), per chi toglie il tau e vi aggiunge
ou tra il ch e il n e tra il n e l’eta?
ERMOGENE: Sì , ma in modo molto cavilloso, o Socrate. [...]" ("Cratilo", 413 d-e/414 a-b).
“Perché, sorella, sei venuta?” Voci di donne nell’epica, di Cecilia Nobili
di Sofia Fiorini (La monografia di Cecilia Nobili, [Voci di donne nell’epica->https://www.carocci.it/prodotto/voci-di-donne-nellepica" class="spip_out">"ClassiCult" , 8 gennaio 2024 (Carocci, 2023), si apre con un mito che rappresenta un perfetto paradigma delle forme di sopravvivenza della voce femminile in letteratura. È il mito di Procne, Tereo e Filomena riportato nel romanzo greco di Leucippe e Clitofonte.
Il punto focale del mito non consiste tanto nella violenza subìta, e nemmeno nel tentativo maschile di soffocare la comunicazione tra donne. Anche il mito latino di Tacita Muta (la mitica madre dei Lares compitales), speculare a quello di Filomena, racconta di una Naiade resa muta da Giove come punizione per aver rivelato alla propria sorella l’interesse del re degli dèi nei suoi confronti. E anche nel mito di Lara-Tacita c’è una violenza sessuale2: quella che Tacita subisce da parte di Mercurio, incaricato da Giove di condurla nel regno dei morti. E, di più, in entrambi i miti, la comunicazione che si teme - qui scongiurata, lì punita - è tra sorelle. Ciò in cui la storia di Filomena differisce da quella di Tacita, ciò che lo rende archetipo positivo, è che, anche priva di lingua, Filomena non si rassegna al silenzio e fa della tela il suo testo.
Voce silenziosa, voce della spola
Questa fu la forma di sopravvivenza della voce femminile nell’epos, di cui questo mito segna in modo mirabilmente preciso la rotta. Queste voci - quelle di Teti, Ecuba, Penelope, Nausicaa, Elena, Andromaca, Circe, Calipso, le sirene - sopravvivono davvero come la voce di Filomena sulla tela. La loro è una sopravvivenza sempre clandestina, di certo quando appartiene a donne-outsider (la scandalosa Elena, la perturbante Circe), ma anche quando apparentemente si uniformano al mondo che abitano (le mogli e madri esemplari Andromaca, Penelope). I poemi omerici, pur espressione di un epos maschile, a loro non poterono rinunciare, almeno come verosimili comparse. Quello fu lo spazio in cui sopravvissero.
D’altronde, già la prima apparizione di Penelope nell’Odissea fissa permanentemente i confini della giurisdizione femminile per quel che concerne la parola. Quando, commossa fino allo strazio dai racconti del cantore sul nostos degli Achei, Penelope scende dalle sue stanze e domanda all’aedo di scegliere un argomento meno doloroso per il suo canto, il figlio Telemaco, assunto il ruolo di erede del padre in casa, impone prontamente alla madre di tacere. Nel ricordarle che la parola pubblica, il mythos, non le compete, le ingiunge anche di avere il coraggio di ascoltare quella parola. Ancora una volta, la voce maschile, di massima dignità, è quella da cui la voce femminile deve imparare, a cui deve piegarsi.
Forme della sopravvivenza della voce femminile nell’epos
Il continuo colloquio con la poesia di Saffo in questa monografia ricorda al lettore che quella in corso non è soltanto una ricognizione di personaggi mitologici. È anche un’investigazione intorno alla poesia femminile nella Grecia antica. Se il genere epico per le donne greche era pressoché interdetto, alcune forme di espressione poetica eleggevano le donne in via preferenziale o esclusiva. È il caso della preghiera. Mezzo con cui mogli e madri intercedono presso le divinità per gli uomini a loro cari: con la preghiera retoricamente ben congegnata le donne dell’epos sanno piegare e vincolare gli dèi. È altresì il caso del lamento, modalità espressiva femminile per eccellenza, anche a prescindere dall’occasione funebre. Ma le voci di donne trovano mezzi espressivi anche nella poesia nuziale - Nausicaa - simposiale e oracolare - Circe.
Nobili dimostra inoltre come due donne - Elena e Penelope - arrivino, per la poliedricità dei registri, a competere con Omero in persona, a configurarsi come suoi alter ego. Ma questo non avviene per loro senza un prezzo da pagare. Per Elena, in grado con la sua eloquenza di “imporre addirittura la propria voce su quelle degli uomini che le stanno intorno”, è il biasimo. Per Penelope, è il silenzio. Come la sorella di Shakespeare immaginata da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, Penelope è dotata di una metis pari a quella del marito, ma
“può metterla in atto solo grazie alla tessitura poiché il mondo delle parole e del canto le sono preclusi”7.
“Perché, sorella, sei venuta?” O del fare pace coi modelli
Così Penelope apostrofa Atena quando le appare in sogno con le sembianze della sorella Iftime. Nei primi quattro versi è contenuto tutto il dramma dell’eredità della voce femminile. Queste donne che hanno trovato posto clandestinamente nell’epos, per sopravvivenza giunte fino a noi; queste donne che, privilegiate almeno nella memoria tra torme di altre pari senza nome, sono state traghettate dalle lingue antiche; queste donne che, inevitabilmente, scopriamo avere come espressione privilegiata il lamento. Queste donne forse è così che ci avrebbero apostrofate, oggi, come Penelope apostrofa la sorella-Atena, nello scoprire che le avremmo disprezzate per la loro eredità.
Ogni parola poetica nasce da uno sforzo di emersione dagli abissi. Quando tale sforzo è compiuto e la parola si salva dal silenzio, la parola è alla luce e può essere guardata. Lì inizia il suo destino. Ma ogni parola pronunciata da donna porta con sé un’ombra ulteriore, un nuovo abisso in cui è condannata a entrare dopo essere nata. Quest’ombra dipende dallo sguardo che su quella la proietta. Non è salvifica, come l’altra da cui era uscita. È l’ombra della mano che, non avendo potuto in tempo tagliare la lingua, ne brucia le carte. Per mettere a tacere le voci femminili si è operata la tecnica dello sminuimento del loro valore, la peggior forma di condanna e la più efficace censura, da quando alle donne si è aperto stabilmente il mestiere della scrittura.
E tra i vari giudizi e pregiudizi di genere, anche le donne del mito ritrovano la loro lunghissima eredità: tra le colpe imputate alle voci di donne in poesia c’è, ad esempio, quella di suonare lacrimevoli. Come sopportare, per chi si scontra quotidianamente con la realtà di questo sguardo, l’eredità delle donne dell’epos? Uno dei capitoli della monografia di Nobili s’intitola “La poetica del lamento”. Quello precedente, “La preghiera agli dèi: una prerogativa femminile”, quella successiva “la poetica nuziale”. Il libro si apre e si chiude con l’immagine di donne al telaio. Le donne nell’epos furono questo. E nell’essere questo furono tantissimo. Questo suggerisce scandalosamente questo libro, il cui primo merito sta nell’atto di accendere la luce sulle parole di queste donne. L’intero equilibrio del saggio è saldo sul pilastro della citazione. È dalle parole che si riparte, dalla lettera che si chiede al lettore: “Ascolta. Ascolta meglio”.
Voci di donne: costellazioni parallele
Nella mia percezione, il lavoro di Nobili non può essere disgiunto da un’altra operazione di riscoperta della voce femminile, a cui ho avuto occasione di collaborare, Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento (a cura di Isabella Leardini, Vallecchi, 2023). In entrambi i casi non si tratta di scoprire il nuovo, ma dell’atto di togliere il velo da ciò che è noto. Così come Nobili parla di donne celeberrime e canonizzate del mito, Leardini affastella sedici nomi già affermati della poesia italiana del secolo scorso. Ma entrambe le operazioni, per quanto riportino a galla ciò che già era, sono tanto benefiche quanto è totalizzante il buio che continuamente tenta di inghiottire la voce femminile, in tutti i secoli. In entrambi i casi si tratta di rifare i conti con un’eredità che troppo spesso si è stati tentati o costretti a disconoscere.
Penelope, forse la più famosa tra le donne dell’epos, davvero potrebbe dire così in sogno alle donne-sorelle che oggi la riscoprono, la guardano, la giudicano: “da quale lontananza siete venute, ora, ad ascoltarmi e come ora chiedete di non piangere, a me che non posso fare altro?”. Così da un altro capo del mondo le risponderebbe oggi un’altra voce:
Scandaloso è riconoscere non solo che il lamento sia femminista, ma accettarlo anche in quanto più antica e propria delle forme di canto femminili. Cecilia Nobili lo fa con un’operazione culturale che è tutta occhi ed ascolto aperto. Un ascolto che ci mostra, ad esempio, come il lamento di Andromaca, perfetto modello di moglie da cui ci si aspetterebbe perfetta conformità ai canoni, sia la più sovversiva delle voci femminili di questi due poemi - non Elena, non Circe, non Calipso. Il suo lamento ricorda come l’indignazione personale sia l’inizio di ogni vera denuncia sociale.
“E non mi hai detto una parola saggia”: la vita oltre il kleos
Proviene da Andromaca, la “lamentatrice” per eccellenza nelle parole di Nobili, l’attacco più duro al sistema di valori dell’Iliade, al kleos che governa le vite degli eroi e li rende ciechi di fronte a tutto il resto. Come da copione, il lamento funebre di Andromaca sul cadavere di Ettore contiene, accanto alla tenerezza e all’elogio, la commiserazione per il triste destino a venire e per la disperata condizione di chi resta, solo e indifeso, sulla terra. Ma queste parole di Andromaca contengono, io credo, anche una critica più dura. Un attacco peggiore di quello ai versi appena precedenti, in cui viene rinfacciato a Ettore di aver reso, con le stragi di nemici, sua moglie e suo figlio passibili di orribili vendette. Lì Andromaca mostrava le conseguenze oscure della fame di gloria del marito. Ma in questi versi dice di più: quella “parola saggia” che lamenta di non aver ricevuto da Ettore significa non un semplice motto consolatorio, ma la carenza, in lui, di una saggezza esistenziale che possa sorregge nel dolore della sua assenza. Andromaca sta così denunciando il fallimento del sistema di valori del marito, e della società di cui era il campione: il mondo del kleos non è capace di salvare dal dolore, l’intero mondo del kleos non vale una parola saggia detta sul letto di morte.
Note:
1 Cecilia Nobili, Voci di donne nell’epica. Personaggi e modelli poetici femminili nell’Iliade e nell’Odissea, Roma, Carocci, 2023, p.11.
2 Eloquentemente, la protagonista di questo mito cambia nome dopo gli eventi subìti: colei che parla (Lara) divenuta colei che tace (Tacita).
3 Nobili, op. cit., p.12.
4 Ivi, pp. 12-13.
5 Ivi, pp. 126-7.
6 Ivi, pp. 18-19.
7 Ivi, pp. 133.
8 Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Sperling & Kupfer, Milano, 2016, p. 407.
9 Nobili, op. cit., p. 69.
SOFIA FIORINI
Sofia Fiorini (Rimini, 1995) è scrittrice e insegnante. In poesia ha pubblicato “La logica del merito” (Interno Poesia, 2017) - premiato dal Premio Violani Landi e dal Premio Prato, recentemente ripubblicato come "La logica del merito e nuove poesie" (Interno Poesia, 2023) - e “La perla di Minerva” (La Noce d’Oro, 2023). Ha tradotto l’antologia italiana delle poesie di Ralph Waldo Emerson “Il cervello di fuoco” (La Noce d’Oro, 2022) e ha collaborato a curare l’antologia “Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento” (Vallecchi, 2023).
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SCHEDA EDITORIALE *
Themis. Uno studio sulle origini sociali della religione greca
Autrice: Jane Ellen Harrison, a cura di Giuliana Scalera McClintock
ISBN 978-88-97820-54-3 Pagine: 728 Anno: 2021 Formato: 15 x 21 cm Collana: Saggi, 6
La teoria sacramentale del sacrificio, il matriarcato mitico come modalità di pensiero, l’opposizione tra divinità olimpiche e ctonie spinta fino a significare una metafora del moderno, il riaffiorare di una religione ‘domestica’ fatta di demoni che lavorano e soffrono, sono alcuni dei temi che decretarono il successo di Themis, considerato, al suo apparire nel 1912, quasi come il manifesto dei Ritualisti di Cambridge. «Libro pericoloso», secondo le parole della stessa Harrison, Themis fu accolto con diffidenza negli ambienti dei classicisti, per avere in letteratura una risonanza immediata, pari solo a quella de Il Ramo d’oro e di Totem e tabù. È soltanto negli anni sessanta, con il diffondersi delle analisi strutturali e morfologiche, e sulla scia della ripresa della tematica delle origini, che se ne è cominciato a riconoscere il valore pionieristico anche in ambiti specializzati. In una lettera del 1955 a Jocelyn Toynbee, Gilbert Murray ha scritto: «L’opera di Jane Harrison è stata memorabile [...] Forse solo pochi ne accetteranno le conclusioni, ma nessuno può scrivere di religione greca senza esserne in qualche modo influenzato». Questo testo - imprevedibile inventario dell’immaginario greco - è qui riproposto nell’ambito dei programmi di ricerca dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici sulle civiltà artistiche con un ampio saggio introduttivo, aggiornamenti critici e nuovi indici.
Jane Ellen Harrison (1850-1928) occupa un posto di primo piano sia nella storia delle donne che negli studi di antichistica. I suoi primi lavori le valsero una laurea honoris causa dalle Università di Aberdeen e Durham e nel 1898 la docenza al Newnham College di Cambridge. Nel 1911 marciò alla testa della spettacolare Woman Suffrage Procession di Londra, e alla questione femminile dedicò saggi significativi (“Homo sum”, Being a Letter to an Anti-Suffragist from an Anthropologist 1911, Scientiae sacra fames 1913). Tra i suoi numerosi lavori si ricordano soprattutto i geniali contributi allo studio della religione greca in cui utilizza l’iconografia per infirmare l’immagine della Grecia costruita solo attraverso le fonti letterarie (Myths of the Odyssey in Art and Literature 1882; Prolegomena to the Study of Greek Religion 1903). Allo stesso tempo, sensibile a tutti i venti che nei primi del Novecento cercavano di spazzare via una classicità sterile, fa interagire il dionisiaco di Nietzsche con le ipotesi della prima antropologia (Themis 1912). La Grecia che si rivelava nei suoi scritti non era più quella in cui - come diceva Hegel - l’uomo europeo si sente a casa.
Giuliana Scalera McClintock è mitologa e storica delle religioni del mondo antico. Dei Ritualisti di Cambridge ha curato e tradotto - oltre a Themis della Harrison - Dalla religione alla filosofia di F. Cornford (Lecce 2002). Della sua produzione scientifica si ricorda la monografia L’antica natura titanica. Studi sull’antropologia orfica (Napoli 2016).
* FONTE: ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI PRESS
Jane Harrison, l’irruzione dei selvaggi nell’Olimpo
di Gianluca De Sanctis (il manifesto, Alias, 30 aprile 2023)
L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha ripubblicato l’edizione italiana di Themis, il libro più discusso di Jane Ellen Harrison (1850-1928), a cura di Giuliana Scalera McClintock, la cui traduzione è stata rivista e aggiornata rispetto alla prima edizione del 1996 (pp. XLVII-694, euro 45,00). Il sottotitolo, Uno studio sulle origini sociali della religione greca, mira dritto al cuore del problema. A partire dall’analisi dell’Inno dei Cureti, un testo greco risalente agli inizi del III secolo a.C., scoperto ai primi del Novecento nella cittadina di Palaikastro, a Creta, l’autrice dipanava, attraverso una scrittura poetica, a tratti visionaria e vertiginosa, una complessa genealogia di miti, rituali dionisiaci e temi, apparentemente sconnessi tra loro (mana, tabù, dramma, ditirambo, sacrificio, culto eroico, cerimonie iniziatiche, e molti altri ancora), che la condussero a formulare una teoria generale della religione come costruzione sociale.
Il presupposto di partenza è che quel testo, per quanto tardo, racchiudesse «fossilizzate antiche modalità di pensiero» che immettevano nello strato più antico della religione greca e che potevano essere comprese solo attraverso la comparazione etnografica con società altrettanto primitive (in quello stesso arco di tempo veniva data alle stampe l’edizione in più volumi di The golden Bough di Frazer). Themis, a cui è dedicato l’ultimo capitolo, incarnava perfettamente l’idea di questo substrato originario, soggiacente alle divinità olimpiche, che l’autrice si era proposta di ricostruire: «Themis è la forza che riunisce e vincola gli uomini, è l’istinto aggregante (herd instinct), la coscienza collettiva, la sanzione sociale. (...) Più tardi si cristallizza nelle convenzioni sancite, nei regolari costumi tribali, finché prende forma nella polis come Legge e Giustizia. Themis veniva prima delle forme particolari degli dèi; non è religione, ma la materia di cui la religione è fatta. È la rappresentazione forte dell’istinto gregario, della coscienza collettiva, che sta alla base della religione» (p. 588).
Il libro, pubblicato nel 1912 e divenuto ben presto il manifesto dei ritualisti di Cambridge - il gruppo di antichisti che nei primi decenni del secolo scorso gettò le basi per un approccio antropologico allo studio della religione greca -, fu accolto con freddezza negli ambienti accademici, sconcertati dal comparativismo selvaggio praticato dall’autrice e dall’ampio impiego di categorie sociologiche. L’approccio proposto dalla Harrison non piacque ai suoi colleghi antichisti che vedevano con turbamento i selvaggi fare irruzione tra gli dèi olimpici, improvvisamente degradati al rango di «rappresentazione tarda e consapevole», a «opera di analisi, di riflessione, di intelligenza», in una «vertigine verso la diversità» - come l’ha definita Giuliana Scalera McClintock nel bel saggio introduttivo al volume -, che per i classicisti era ancor meno accettabile del dionisiaco di Nietzsche. Ma anche gli eredi di Durkheim ebbero da ridire perché vedevano sostanzialmente fraintesa la teoria sociale della religione postulata dal loro maestro.
Nella seconda edizione, pubblicata nel 1927, la stessa autrice avrebbe riconosciuto molti dei limiti e delle forzature, soprattutto nella lettura delle fonti, che erano state rimproverate al suo testo; ma sapeva anche che quelle fragilità, quelle acrobazie interpretative, quelle suggestioni quasi sentimentali costituivano la vera forza del libro: se avesse provato a correggerle, di Themis sarebbe rimasto poco o nulla, e molti altri miti (storiografici e letterari) non avrebbero visto la luce: «Oscurati negli studi filologici, Draghi, uccelli maghi antichi prodigi - ricorda la curatrice del volume - ebbero miglior vita in letteratura». I veri epigoni della Harrison furono T.S. Eliot, Robert Graves, David H. Lawrence, Virginia Woolf, Silvia Plath. Di questo libro resta oggi soprattutto il monumentale campionario di documenti letterari e iconografici, una serie di congetture geniali e al tempo stesso eversive per la civiltà vittoriana di allora.
Jane Harrison riteneva che la forma più antica della religione greca, e indirettamente di ogni altra religione primitiva, non fosse stata antropomorfa, ma teriomorfica e fitomorfica (animali e piante all’epoca la facevano da padroni). Nella fase totemica, in cui predominava l’emozione, l’uomo non sarebbe stato ancora in grado di comprendere la propria individualità rispetto al resto degli altri viventi, ma si sarebbe autopercepito come parte indifferenziata di un mana più grande e omnicomprensivo: «Non si tratta dell’errore o della confusione di selvaggi ignoranti ma di una fase o di uno studio del pensiero collettivo attraverso cui la mente umana è costretta a passare. Suo fondamento è l’unità del gruppo, l’aggregazione, la similarità, la simpatia, il sentimento della vita comune; e questo sentimento di unità, di comunione, di partecipazione, si estende al mondo non umano, secondo modalità che l’individualistica ragione moderna, arroccata sulle distinzioni, trova quasi impensabili» (p. 166).
Poi a poco a poco gli uomini avrebbero imparato a cogliere le differenze tra sé e le altre creature viventi, sviluppando un’autocoscienza individuale, che li avrebbe portati a superare la fase totemica. Anche se continua per molto tempo a travestirsi da emú - spiega la Harrison - l’uomo non crede più, come prima, di essere un emú, ma si limita a interpretarlo. La partecipazione cede così il passo all’imitazione. Ma poiché le consuetudini sono dure a morire e sopravvivono spesso indipendentemente dalla consapevolezza che si ha di loro, anche quando la fede nella primitiva consustanzialità del gruppo si è ormai incrinata, i riti totemici continuarono, almeno formalmente, a essere praticati come nei tempi più antichi. Intanto, però, il gruppo dei maghi, e più tardi dei singoli «uomini-medicina» o dei «re-medicina» (termini con i quali si designavano agli inizi del Novecento gli stregoni, i guaritori o sciamani delle società di interesse etnografico), avrebbe cominciato a reclamare il controllo sulle risorse alimentari, sulla fecondità e sui fenomeni atmosferici dai quali dipendono le risorse alimentari. Lo stadio totemico avrebbe ceduto il passo alla magia, intesa come manipolazione del mana.
Per la Harrison l’essenza della magia consiste, infatti, nel puro gesto, nell’azione che scaturisce da un desiderio o da un’emozione. «È un periodo di bonaccia, non puoi fare niente, non pensare a niente se non al vento che non verrà. Questo pensiero si impossessa di te, ti ossessiona, finché la tensione diviene insopportabile e il desiderio si libera; se il vento non fischia, tu fischierai per il vento; il primo fischio è puro desiderio incarnato, ma poiché viene dopo una lunga attesa forse il vento realmente si leva. La volta seguente i sentieri sono già tracciati, una consuetudine è stata messa insieme, si inaugura un rituale privato o forse pubblico» (p. 121). Quando il desiderio che ha determinato l’azione mimetica suscita, o così almeno pare al soggetto, un reale o effettivo cambiamento in seno allo status quo (l’improvviso alzarsi del vento in seguito a lungo periodo di bonaccia), il soggetto crederà in buona fede di aver trovato la formula per riuscire a manipolare la natura. Non solo ripeterà quell’azione ogni qual volta si ritroverà nelle medesime circostanze, ma il ricordo della prima volta, di quel primo fischio, funzionerà da garanzia per le volte successive. In questo modo, il gesto diviene storia.
I miti trarrebbero origine da qui, dalla necessità di tradurre in forma narrativa la procedura messa in atto dal rito, fornendogli una giustificazione, un’autorità che permette al rito di attraversare le generazioni, di trasformarsi in consuetudine. Mito e rito, dunque, nascono insieme, all’unisono, dalle medesime istanze: «la religione consta di due elementi: il costume sociale, la coscienza collettiva, e la rappresentazione emozionalmente carica di tale coscienza; vale a dire, di rito e mito/teologia: il rito come azione collettiva, e il mito come rappresentazione dell’azione e dell’emozione collettiva. Rito e mito sono indissolubilmente legati e, punto di fondamentale importanza, incombenti, vincolanti e interdipendenti» (p. 589).
Abbracciato il totemismo, la Harrison non poteva non prendere le distanze anche dalla teoria del sacrificio-dono, formulata da Taylor, secondo la quale gli uomini sacrificherebbero agli dèi per ottenere in cambio un qualche beneficio (do ut des) o per non esserne danneggiati (do ut abeas). Tale paradigma presupponeva infatti delle divinità già perfettamente antropomorfe, che ragionavano e si comportavano come delle persone. Harrison, dunque, rifacendosi all’intuizione di Robertson Smith, per il quale l’essenza del sacrificio non sarebbe stato il dono, ma il pasto in comune con il dio, proponeva di vedere nell’atto sacrificale il «medium», il «ponte», il «conduttore elettrico» attraverso il quale il mana dell’animale sacro passa a coloro che lo mangiano. I Bouphonia ateniesi, «cerimonia primitiva e anacronistica», costituivano ai suoi occhi il fossile sacrale che dimostrava la validità della sua teoria del sacrificio-banchetto comunitario.
Alla prova del tempo, molte delle costruzioni che animano la complessa architettura del libro risultano oggi ampiamente superate o quantomeno indimostrabili. Così come talune premesse metodologiche, ad esempio l’idea che gli autori antichi, in particolare i poeti, nel dare forma alle leggende del proprio popolo, non avessero piena consapevolezza dell’autentico significato di quei racconti, ma che la loro poesia, sopravanzando la loro stessa coscienza, fosse riuscita a serbarne una qualche traccia (i versi omerici sarebbero «pieni di reminiscenze, insorgenze dell’antica fede», la teologia di Esiodo «del tutto confusa e intrecciata con i relitti di tempi più antichi, che riemergono improvvisi da profondità subconsce», il coro delle Trachinie di Sofocle conterrebbe segni della primitiva natura di Eracle quale demone dell’anno solare, ecc...), e che il classicista dovesse scovare e seguire tali tracce per ricostruire, con l’ausilio degli strumenti concettuali messigli a disposizione dal proprio sapere scientifico, i quadri mentali originali e soggiacenti a tali racconti. Tutto ciò presuppone un Besserwissen, un «sapere di più», dei moderni rispetto agli antichi che, non essendo più in grado di comprendere se stessi, avrebbero dovuto aspettare le nostre interpretazioni perché fosse finalmente svelata l’essenza più profonda, originaria della loro cultura.
Ma nonostante la prospettiva primitivista, oggi difficilmente condivisibile, Themis resta una pietra miliare nella storia degli studi sulla religione greca, che ha avuto il merito, insieme a The golden Bough di Frazer, di liberare gli studi classici dalla loro autoreferenzialità, aprendoli a una riflessione non solo interdisciplinare, ma soprattutto transculturale, antropologica nel senso più moderno del termine. Attraverso un comparativismo, spesso indiscriminato, e l’introduzione di categorie «esotiche» per i classicisti suoi contemporanei (come totem, mana, tabù, ecc.), la Harrison aveva gettato un’ombra inquietante sul primato della civiltà greca. I popoli primitivi sembravano essere riusciti là dove avevano fallito i Giganti: scalzare gli dèi dall’Olimpo. Le «crepe» aperte da Themis furono profonde e per certi versi scandalose, ma noi oggi, forti del senno del poi (è il privilegio dei posteri), ai detrattori di quella studiosa visionaria potremmo rispondere, citando Leonard Cohen, che da quelle «crepe» è passata anche molta luce.
IN MOSTRA A BASILEA/
Louise Bourgeois: la donna che portava il suo pene sottobraccio Francesca Serra All’inizio degli anni Ottanta Robert Mapplethorpe scatta una formidabile foto a Louise Bourgeois, in cui quest’ultima guarda dentro l’obiettivo con un sorrisetto da fare invidia alla Gioconda e il volto pieno di rughe come una tartaruga. Una simpatica vecchietta, apparentemente innocua, vestita di una pelliccia di piume nere. Se non fosse che sotto il braccio porta, con molta nonchalance, un oggetto che potrebbe essere una borsetta. Ma non lo è: si tratta di un enorme membro maschile. Sì, un pene scolpito molto realisticamente, il cui glande la donna tiene con la mano destra come fosse la parte anteriore della borsa. Quando l’occhio, dunque, scivola dal sorriso della vecchietta al grande pene che si porta sottobraccio, quel sorriso prende tutta un’altra strada. E forza. Diventa derisorio, sarcastico. Oppure soddisfatto? Senza saper dire esattamente di cosa: di sé, del sesso o della sua rappresentazione? In ogni caso di quello che l’artista si porta dietro come la feroce satira di una borsetta.
Al centro della mostra che il Kunstmuseum di Basilea ha recentemente dedicato a Louise Bourgeois, ci sono due donne artiste: una è Bourgeois, l’altra Jenny Holzer, che cura la mostra intitolata The violence of handwriting across a page. Louise Bourgeois x Jenny Holzer. Quarant’anni fa Mapplethorpe aveva visto in Bourgeois già settantenne la dissacrante artista che, con la penosa lentezza tipica delle carriere femminili, si era infine imposta nel mondo dell’arte. Oggi Holzer cosa vede in lei? E cosa ci fa vedere? Qualcosa di più complesso, forse, e soprattutto qualcosa che non possiamo più definire come davvero dissacrante. Per il semplice fatto che quel sacro non esiste più. E quindi il gesto che un tempo veniva interpretato come dissacratorio può finalmente rivelarsi per quello che è: un fondamentale nucleo di violenza psichica, che rappresenta un dato costitutivo della nostra vita individuale e collettiva. E quindi non va più inquadrato nella sfera del dissacrante, ma piuttosto in quella del quotidiano. Com’era, in fondo, la paradossale borsetta-pene nella foto di Mapplethorpe.
Jenny Holzer è un’artista americana famosa per le sue istallazioni in grande scala che utilizzano le parole, i testi scritti per creare opere d’arte con un messaggio politico. Affidare a lei una mostra su Bourgeois è una sfida interessante: Holzer legge l’opera di Bourgeois come fosse un palinsesto e la espone mettendo in rilievo le sue multiple sovrapposizioni tra scrittura e immagine. Nel titolo della mostra campeggiano due parole: “pagina” e “scrittura”. Insieme a una terza che le introduce, quasi giustificandole: “violenza”. Non c’è scrittura che attraversi (“across”) una pagina senza violenza. La violenza che si fa alla pagina bianca, ma anche il moto di violenza che spinge a scrivere. Oppure a dipingere e scolpire. Jenny Holzer ci invita a attraversare l’opera di Bourgeois, a tratti monumentale a tratti ironicamente sommessa, tirando il filo primigenio della scrittura. Un filo rosso, come vedremo, molto simile a un cordone ombelicale che ci porterà dritti dentro il corpo di qualcuno. Qualcuno che non c’è, ma insieme è onnipresente.
Il corpo della madre, si potrebbe ipotizzare, che Bourgeois ha rappresentato in una delle sue opere più celebri come un gigantesco ragno. Oppure il pene del padre, senza il quale la vecchietta con le rughe di una tartaruga (che avrà la ventura di vivere un secolo intero, tra la Francia e gli Stati Uniti: oggi è l’anniversario della sua morte, avvenuta 12 anni fa) non sarebbe mai nata. Tutti possiamo dire di avere un pene sottobraccio. E una vagina in testa. Freud ci ha fatto questo regalo avvelenato più di un secolo fa e da allora ce lo portiamo dietro, in parti più o meno nascoste di noi.
Non che prima non fosse così, in epoca pre-psicanalitica. Ma dopo sarà come se uno scultore dissennato avesse fatto una mastodontica copia degli organi genitali, per consegnarla a ciascuno di noi: copia quanto mai dettagliata e realistica, ma insieme talmente sproporzionata da trasformarli in oggetti squisitamente mentali. In questo senso Louise Bourgeois è la geniale artista di un Novecento pieno di correnti psichiche, esplose come lampi in un cielo buio, che abbiamo attraversato sul dorso di quell’unicorno che era la psicanalisi. E ricordarlo oggi, in un’epoca che potremmo definire post-psicanalitica, ha un senso non solo storico ma soprattutto artistico. Facendo pace con quel sorrisetto della foto di Mapplethorpe che sembra dire: “avete ragione a volervi dimenticare del pene del padre”. E nello stesso momento: “Ma se pensate di poterlo fare, siete più sciocchi di quanto crediate”.
La psicanalisi, del resto, è stata quello che è stata e ha avuto l’influenza che ha avuto, soprattutto perché utilizzava uno strumento di cura inedito e incredibilmente ambiguo: la parola. La stessa parola che viene messa al centro di questa mostra, nella quale Holzer sceglie di farci vedere una Louise Bourgeois che dipinge e scolpisce nel momento stesso in cui scrive. O per dire meglio, dipinge e scolpisce perché non smette mai di scrivere. Riempiendo di parole non soltanto i suoi quadri, ma compulsivamente pagine e pagine di diari, di block notes, di fogli sparsi. Come se l’arte non esistesse senza questo flusso continuo di scrittura, che con la sua potenza riflessiva e talvolta delirante la trascina con sé, forzandoci a sporgerci sul baratro dei nostri traumi e dei buchi neri di cui siamo fatti, nell’unica forma in cui forse possiamo farli esistere: quella linguistica.
Se soltanto intendiamo tutto come linguaggio. Idea, anche questa molto novecentesca, che non è sempre possibile sostenere, se non creando enormi tensioni psichiche e pagando prezzi talora esorbitanti. In primo luogo nel rapporto con il corpo, che abbiamo imparato a considerare come un grande enigma mentale e una complessa costruzione culturale: quindi sempre fondamentalmente inafferrabile, assente. Ma che, nello stesso tempo, non possiamo ostinarci a cancellare in quanto insieme di cellule, organi, malattie, ferite, vita e morte che sono quanto abbiamo di più vicino al presente. E quindi a quello che potremmo definire, con tutte le cautele e i dubbi del caso, “vero”. Mi pare che “la violenza della scrittura attraverso la pagina”, alla quale questa mostra s’intitola, stia tutta qui: nel nostro dilaniarci tra la presunta verità del corpo e quella altrettanto insondabile del linguaggio. Ma anche nel nostro necessario fortificarci, e quindi riscattarci, quasi sublimarci attraverso la presa in conto di questa violenza fondamentale. Presa in conto di cui Bourgeois è stata maestra assoluta, come l’esposizione al Kunstmuseum di Basilea documenta e l’incontro con l’universo artistico di Jenny Holzer enfatizza: per tale motivo la foto della donna che porta il pene sottobraccio, da cui siamo partiti, appare tanto intensa. E perfino commovente, nella sua profonda mescolanza di verità e irrisione, concretezza e irrealtà.
Così di fronte alle mutande che campeggiano sull’affiche della mostra, con sopra la scritta rossa “The day the bird was attracted, it fouled its nest” (“Il giorno in cui l’uccello è stato attratto, ha sporcato il suo nido”) cosa rimane da fare? Ridere o piangere? Come davanti alla serie di scritte ricamate, sospese a metà tra il ricordo antico degli ex voto e quello ultramoderno delle citazioni che si moltiplicano diventando frasi fatte sui social o sui gadgets turistici, dai bavaglioni per bambini ai grembiuli per cucinare. In ogni caso, nell’opera di Bourgeois ci troviamo sempre confrontati al misterioso combaciare di una profondità vertiginosa, caotica e densa, con la superficie rarefatta, quasi instupidita e incantata di un ritornello. Dove tutto è femminile, la profondità come la superficialità: ma un femminile sempre inteso come travestimento e tranello. Dalla scopa che come uno spaventapasseri tiene su un vestitino a quadretti bianchi e neri, alla torre di cuscinetti di velluto che sembrano appena usciti dal salotto polveroso della nonna. Fino all’annullamento del maschile e del femminile nel lugubre e tenero abbraccio di due pupazzi in aria, compenetrati per sempre in un atto amoroso o semplicemente sessuale che mescola la favola al tormento.
La parola regna nelle diverse sale, ma lo fa nei modi più bizzarri e sorprendenti. Talvolta la scrittura sta da sola, prendendo la forma di un disegno come fosse una poesia visiva; talaltra è inquadrata, colorata, ripetuta, gridata, enumerata, cucita sulla stoffa. Oppure scritta sopra dei pentagrammi, come fosse musica. Spesso divide lo spazio della tela con l’immagine, in una prodigiosa proliferazione iconotestuale. Come nel quadro dove si intravedono due capezzoli, che sembrano due occhi racchiusi dentro una conchiglia fatta di linee concentriche, mentre sotto si legge: “Visto dal punto di vista di un bambino.
Un bambino di 12 o 14 anni, era in vacanza dalla scuola e si poteva vedere improvvisamente il cambiamento di espressione sul suo volto, l’espressione di terrore. Il terrore di percepire il caos, come io dissi”. Oppure nella straordinaria sala dedicata al corpo, incredibilmente palpitante nei vari suoi pezzi (intestino, braccia, crampi e altro), che le parole e i disegni consegnano alla pietà del nostro sguardo come dei bisturi. Per finire nella sala del sangue: non inizia e finisce tutto, infatti, in un lago di sangue? Una sala accecante di rosso vivo, come fosse dipinta dal sangue mestruale, piena di parti, falli, vagine, linee concentriche, forbici che tagliano il cordone ombelicale. Ci sono le viscere qui, certo. Esibite, anzi sbattute in faccia al pubblico. Ma c’è anche una irresistibile leggerezza dell’arte, che rovista nel dolore per attraversarlo. “Pain is the business I am in” (“Il dolore è l’attività che svolgo”), come si legge altrove cucito su una federa.
La donna che portava il suo pene sottobraccio ha attraversato un secolo della nostra storia. Lo ha fatto disseminando le sue opere di parole e trasformando una moltitudine di parole in opere. Quel possente e ridicolo fallo che si porta a spasso può rappresentare un’infinità di cose, e anche in verità nessuna. Ma perché non allora una metafora del pennello o dello scalpello dei grandi artisti, oppure della penna dei grandi scrittori? Tutti maschi che nei secoli dei secoli non hanno esitato a mettere in relazione la loro prestanza artistica con quella sessuale. Pennello, scalpello o penna che una fillette qualunque (così la foto di Mapplethorpe s’intitola), una little girl sbarcata da Parigi a New York alla fine degli anni Trenta può finalmente scegliere di prendere in mano. Decidendo, con mano ferma e un arcano sorriso tra le labbra, di farne ciò che vuole.
NOTA:
#DIVINACOMMEDIA E #MISERIA DELLA #FILOSOFIA: L’#ANATOMIA (1560) DI #GIOVANNIVALVERDE, I #TESTICOLI DELLE DONNE (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=851), E LA MESSA A NUDO DELLA #RAGNATELA DELLA #TRAGEDIA UMANA DI #LOUISEBOURGEOIS (1911-2010).
TESSERE LA VERITA’ / FARE LA VERITA’. ANTROPOLOGIA E STORIA... *
Biblioteca apostolica vaticana. Arte tessile in mostra con Maria Lai
È stata inaugurata ieri presso la Biblioteca apostolica vaticana la mostra "L’arte di tessere la verità. Maria Lai incontra la Biblioteca apostolica vaticana"
di Redazione Agorà (Avvenire, sabato 28 maggio 2022)
È stata inaugurata ieri presso la Biblioteca apostolica vaticana la mostra "L’arte di tessere la verità. Maria Lai incontra la Biblioteca apostolica vaticana". L’esposizione delle opere dell’artista sarda, scomparsa nel 2013, sarà visitabile fino al 15 luglio. Alla presentazione sono intervenuti il cardinale José Tolentino de Mendonça. archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, il vescovo di Lanusei e di Nuoro, Antonello Mura, per la Regione Sardegna l’assessore al Turismo Gianni Chessa, con la dirigente Angela Maria Porcu, Micol Forti (Musei Vaticani) e Giacomo Cardinali (Biblioteca apostolica vaticana). Maria Lai è celebre a livello internazionale per la sua rivisitazione della storia dell’isola attraverso opere realizzate con il telaio, o usando il pane o anche oggetti del passato arcaico sardo, e per le sue opere di carattere religioso. Nel 1978 l’artista sbarcò alla Biennale di Venezia. Suoi lavori sono conservati presso importanti istituzioni pubbliche, fra queste Palazzo Grassi a Venezia, Palazzo Mirto a Palermo, Villa Borghese e Montecitorio a Roma. Nonché al Moma di New York e al Centro “Georges Pompidou” di Parigi. Partner della Biblioteca sono la diocesi di Lanusei, la Fondazione e l’Archivio Maria Lai, e i Musei Caticani, con il contributo della Regione Sardegna.
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NOTA. ANTROPOLOGIA, TESSITURA, STORIA, E DISAGIO DELLA CIVILTA’.
Psicoanalisi: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al faatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stat una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione", "L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
Lettere
Le trame delle donne
Cosa sarebbe successo a Ulisse se Penelope avesse smesso di tessere la sua tela?
Risponde Umberto Galimberti *
Prima che l’uomo erigesse un muro invalicabile a dividere la Natura dalla Storia, penso l’esistenza avesse un senso diverso dall’insostenibile peso di viverla, come accade da 5000 anni a oggi per 5 miliardi di persone su 6. Oggi i "tempi storici" sono superati nella lentezza delle trasformazioni che li producono e quindi la Storia stessa, che può definirsi un continuo succedersi di mutamenti effimeri ancorché tragici, sta morendo e con lei i riferimenti culturali maschili che maggiormente l’hanno espressa (e ancor oggi la esprimono): poteri, guerre e religioni. Oggi abbiamo il "tempo reale", che è senza attese e ci porta sia verso un progresso scientifico ad accelerazione esponenziale, sia verso la nostra Natura e il sentimento di corrispondervi. Se la Storia era "trina", la Natura è duale: vita-morte, bene-male, giorno-notte, femminile-maschile avranno di nuovo la stessa dignità ormai indifferente agli esorcismi e alle divisioni che la Storia gli imponeva. La tradizione del kilim risale, nel tempo, lungo 500 generazioni, da quando, ancora in epoca neolitica, la prima civiltà si esprimeva all’interno di una cultura femminile. Per questo motivo, per il complesso simbolico che anima i suoi segni e i suoi colori, per la straordinaria e sempre uguale ritualità di cui era all’origine, l’antico kilim è l’icona vivente speculare alla nostra esistenza, in cui luci e ombre, colore e dinamica affermano la propria specificità in quell’eterno che per alcuni è divino. Sa dirmi qualcosa di questo enigmatico tessuto a cui le donne affidavano quel segreto che è la loro natura, forse a esse stesse ignota?
Dario Valcarenghi, Milano
La sua enigmatica lettera contiene un messaggio che, se fosse recepito, potrebbe evitare all’Occidente, terra della sera, il suo tramonto. La via che lei indica è nell’attenta decifrazione degli antichi kilim che, nell’Anatolia, le donne tessevano secondo un’antica scrittura simbolica che ha preceduto quella alfabetica, che gli uomini hanno introdotto per la "loro" comunicazione. Le donne conoscevano il due: la terra e il cielo. E consideravano se stesse espressione della terra generatrice; fecondata dai raggi di luce e dalle lacrime del cielo.
Gli uomini, abbandonata la natura, inaugurarono la storia che è tre: cielo, terra e uomo. Il simbolo cosmologico (cielo e terra) divenne antropologico: non più la terra e il cielo, ma l’uomo che dispone del cielo e della terra. Questo passaggio segnò il congedo dalla natura (duale) a favore della storia (triadica) che tratta cielo e terra non più come orizzonte e confine ma come materia da impiegare per le proprie artificiali costruzioni.
Tra le costruzioni artificiali c’è la scrittura, svalutata da Platone come può essere una copia pietrificata rispetto a un dialogo vivente. Eppure il "testo" che la scrittura compone viene dal latino "textus" che significa "tessuto", in cui è possibile scorgere una "trama" e un "ordito", le due componenti della tessitura, misteriose, enigmatiche, se è vero che "tramare" e "ordire" esprimono a un tempo la cadenza della natura che tesse il filo della vita e le scansioni della storia che ribolle di congiure e sinistri disegni. Perché la storia che l’uomo inaugura con le sue imprese è appesa al filo che la donna tesse nell’attesa.
Se Penelope avesse smesso di tessere la sua tela Ulisse avrebbe perso il filo che lo teneva legato alla sua Itaca. Tutto quello che accade a Ulisse, tutto il suo peregrinare e viaggiare, in una parola tutta la sua storia dipende dal filo che Penelope tesse. Perché la storia è iscritta nella natura e guai a quell’uomo, a quella cultura, a quella civiltà che tradisce questo rapporto e, come l’Occidente, perde l’orma del mondo naturale. OR-MA TRA-DITA è quel che risulta mescolando tra loro le sillabe di OR-DITO e TRA-MA.
Non sono giochi di parole, ma misteriosi segni delle donne che, come la natura, danno la vita. Una vita appesa a quel cordone ombelicale che ci tiene vivi quando, incoscienti, dormiamo nel buio del ventre materno. Una vita appesa a un filo, come quello delle tre Parche, figlie di Zeus, che regolavano la durata della vita di ognuno: "Una avvolge il filo, l’altra lo misura, la terza lo taglia".
Misteriosa orchestrazione di messaggi in codice, di alfabeti dimenticati, di simboli trascurati eppure fondanti quella cultura universale, da cui l’Occidente si è separato per affermare il primato della storia sulla natura, anzi della sua storia su quella primordiale cultura che concepisce la vita come unione degli opposti: la trama e l’ordito, il maschio e la femmina, il cielo e la terra, la vita e la morte.
Per avere smarrito questa simbolica duale, di cui la donna è gelosa custode, noi occidentali trattiamo i kilim, le cui figure raccontano una storia di novemila anni trasmessa da madre a figlia, come semplici tappeti da calpestare. E in essi più non avvertiamo quella presenza amica che proteggeva dal vento e dalla sabbia, serviva da mensa, da letto, fungeva da spazio sociale, per discutere e chiacchierare, da culla per bambini, da paramento funebre, da luogo di preghiera, da serbatoio di segreti dove intessuti erano i sogni delle donne che la storia degli uomini ha solo trascurato e calpestato. Eppure lì, nel kilim, c’è la trama profonda del senso della storia che nascite e morti cadenzano, come vuole il ritmo della natura, che non si è mai fatta incantare dal racconto della storia nel suo incessante proferir parole di riscatto, progresso, redenzione.
* Fonte: la Repubblica, D-memory, 440, Marzo 2005
KILIM: "[...] la memoria è un fatto interiore e "ki-lim" (la parola ricondotta alle sue radici) vuol dire "come dentro". Ce lo ricorda, riprendendo l’ etimologia da Giovanni Semerano, Dario Valcarenghi il più esperto in Italia di Kilim anatolici e autore di quello splendido "catalogo": Storia del Kilim anatolico (1994) che l’ editrice Electa farebbe bene a ripubblicare se ancora gli editori hanno cura dei libri importanti. "Come dentro" perché i gesti delle donne che da cinquecento generazioni compongono le trame e gli orditi dei Kilim rispondevano a una esigenza interiore, le figure che uscivano dalle loro mani non erano il frutto di mediazioni culturali, ma avvenivano senza coscienza, come risultato puro del sentimento del mondo. Ne abbiamo conferma, come dicevamo, da Giovanni Semerano che ha pubblicato da Leo Olschki, editore in Firenze, quattro volumi, di cui due dizionari etimologici su Le origini della cultura europea (1994) [...] Il Kilim fa essere la visione cosmologica come è stata interiorizzata dall’ uomo, prima dell’ avvento della storia, prima che l’ uomo si ponesse al centro dell’ universo e facesse ruotare l’ universo intorno a sé [...]" (U. Galimberti, "Il tappeto che vola nel Tempo", 25 sett. 1999)
Vito Mancuso. Alla fine dell’8 marzo queste parole che Antigone rivolge a Creonte: “Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore" (Sofocle, Antigone, verso 523).
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti.
A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? -Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
“Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo”
di Francesca Ghedini (Letture.org)
Prof.ssa Francesca Ghedini, Lei è autrice del libro Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo edito da Carocci: qual è stata l’influenza di Ovidio e della sua opera dal Medioevo ad oggi?
Il libro Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo, edito da Carocci, giunge alla fine di un lungo percorso di studio iniziato una quindicina di anni fa, quando, assieme al mio gruppo di lavoro, formato da studenti, giovani laureati, dottorandi e colleghi, abbiamo scelto di confrontarci con uno dei più prolifici e immaginifici poeti dell’antichità, Publio Ovidio Nasone, la cui opera ha ispirato artisti e letterati di ogni tempo. La nostra ricerca, nata all’interno dell’Università di Padova, era volta ad indagare non tanto, e non solo, le ragioni dello straordinario successo dei suoi poemi ma anche, e soprattutto, il rapporto fra le parole del poeta e quell’universo figurativo che tanto deve alla sua fantastica capacità di creare immagini grazie ad uno straordinario dominio sul lessico e sulla musicalità del verso.
Più di duecento saggi, convegni, monografie e una piccola mostra, tenutasi all’Orto Botanico dell’Università di Padova nel 2012, sono stati il prodotto delle nostre indagini e ci hanno portato alle soglie del bi millenario della morte del poeta nella lontana Tomi sul Mar Nero, con un bagaglio di spunti, stimoli, informazioni che abbiamo tradotto in un progetto espositivo che ha trovato la possibilità di una realizzazione nella prestigiosa sede delle Scuderie del Quirinale.
E, mentre ero impegnata con la selezione dei pezzi da esporre e la costruzione delle sale, mi sono resa conto che nella mostra potevo raccontare solo una parte del complesso mondo che emerge alla lettura dei carmi del poeta di Sulmona: solo quella parte cioè che poteva trovare riscontro nel repertorio figurativo antico e moderno. Ma l’uomo Ovidio, quell’uomo che nella giovinezza gioiosamente parla d’amore e riesce a entrare nelle pieghe più riposte dell’animo femminile, nella maturità si cimenta con la grande epica e la poesia civile, nella vecchiaia percorre i disperati sentieri della nostalgia della patria, sarebbe rimasto in ombra, perché gli aspetti più intimi della sua personalità non avrebbero potuto essere illustrati con opere d’arte figurativa.
Ho quindi deciso di mettermi a scrivere un libro per raccontare, nel modo il più semplice e accattivante possibile, un personaggio che merita tutta la nostra attenzione per la sua grandezza ed anche per le sue debolezze e contraddizioni, cercando di raggiungere una platea più ampia di quella fatta di specialisti della disciplina, colleghi, studenti a cui mi sono rivolta nei lunghi anni della mia carriere accademica.
Questa dunque la premessa; ma veniamo ora a tratteggiare le motivazione della fortuna di Ovidio e della sua opera dal Medioevo ad oggi: la parola di Ovidio è giunta a noi grazie ai pazienti amanuensi che nel chiuso dei loro cenobi hanno copiato anche i suoi versi più audaci (la mente corre ai segreti di quel monastero benedettino descritto con insuperabile forza evocativa dal grande Umberto Eco ne Il nome della rosa), illustrandoli con fantasiose immagini che hanno poi fornito ispirazione a tutti i grandi del Rinascimento. A partire dal XIV-XV secolo non c’era personaggio di spicco che non desiderasse possedere opere ispirate alla classicità, rivisitata attraverso lo specchio del mito: cicli di affreschi, sculture, arazzi, da esporre nelle sale da ricevimento, o deliziosi piccoli quadri per i boudoir o le camere da letto.
Ma l’influenza di Ovidio non si è fermata alla grande stagione della riscoperta dell’antico e del suo uso in chiave di auto rappresentazione sociale e culturale; le sue storie hanno continuato infatti a fornire ispirazione per secoli ad artisti di ogni genere, pittori, scultori, incisori, romanzieri e poeti, che spesso hanno messo in scena episodi e personaggi che in antico non avevano avuto fortuna iconografica. Ne sono esempi straordinari Filemone e Bauci, la coppia di dolcissimi coniugi che chiedono e ottengono di cessare la loro vita umana nello stesso momento, Deucalione e Pirra, a cui si deve il ripopolamento del mondo dopo il diluvio, e l’ovidianissimo Pigmalione, che si innamora della sua creazione, una scultura in avorio che egli vezzeggia come una vera fanciulla e che vera fanciulla diviene, per grazia di Venere.
Senza Ovidio non avremmo il Narciso “caravaggesco” che eternamente si specchia nella fonte; senza Ovidio non avremmo l’amore infelice di Giulietta e Romeo, né la diafana Dafne del Bernini che tende al cielo le mani già coperte di foglie o i dolcissimi Adone e Venere del Canova...
È Ovidio che ha dato forma definitiva a quella tradizione mitica che era il frutto di secoli di elaborazione, da Omero ai tragici greci, ai poeti ellenistici, ai letterati romani: e la mitologia che oggi conosciamo è a noi giunta tramite i suoi versi.
Ovidio è ancora fra noi anche nel linguaggio di ogni giorno: certe formule proverbiali attinenti al mondo dell’amore o della vita quotidiana sono suoi: non posso vivere né con te né senza di te, è un verso di Ovidio... ti odierò se potrò, altrimenti, pur controvoglia, ti amerò (odero, si potero, si non, invitus, amabo) oppure in amor vince chi fugge... La donna è un male così dolce...ma anche vedo il meglio e l’approvo ma seguo il peggio, sono tutte parole del poeta di Sulmona.... Anche il lessico gli è debitore: il narcisismo, male dell’anima che impedisce a chi ne è affetto di amare altri che se stesso, deriva dal suo Narciso; il termine ermafroditismo è coniato sulla storia di Ermafrodito e Salmacide, i cui corpi si sono fusi per sempre in uno; e G.B. Shaw avrebbe dovuto cercare un titolo diverso per la sua commedia, in cui racconta come l’austero professor Higgins trasformò la povera fioraia in una lady, se il Sulmonese non avesse narrato di come la raffinata statua d’avorio creata da Pigmalione, diventò poi una vera dolcissima fanciulla...
E la forza della sua parola è tale che continua a influenzare non solo artisti di avanguardia, come quel Joseph Kosuth la cui originalissima installazione è protagonista della prima sala della mostra, ma anche letterati contemporanei, com Vintila Horia, David Malouf, Christian Ransmayr, Antonio Tabucchi che in vario modo hanno reinterpretato il suo dolore dell’esilio.
Quali vicende hanno segnato la vita e l’opera di Ovidio?
Le vicende che hanno segnato la vita di Ovidio ci sono narrate da lui stesso, perché il poeta è, in un certo senso, l’iniziatore di quel genere autobiografico che di tanta fortuna continua a godere nella letteratura moderna. Ovidio si racconta come mai nessuno prima di lui e attraverso questi racconti fornisce preziose informazioni non solo su se stesso ma anche sulla società e cultura coeve.
Nato a Sulmona da una famiglia equestre di non recente creazione, come egli stesso ripete nei suoi carmi con una punta di orgoglio, passò la sua prima infanzia nel piccolo municipio ai piedi della Maiella, ricco d’acque e verde di tenera erba, dove amava ritornare per ritrovare i profumi e i colori della giovinezza. Ma presto abbandonò la terra natia per trasferirsi a Roma con il fratello a studiare retorica e diritto presso i più illustri maestri del tempo. Tale scelta indica chiaramente come il padre intendesse indirizzare i due figli verso l’avvocatura, primo passo di quella carriera politica a cui potevano aspirare i rampolli di una benestante famiglia equestre. Ma mentre il fratello maggiore fu incline all’eloquenza fin dalla giovane età (Tristia IV, 10, 17), il nostro poeta era affascinato dai misteri celesti, cioè da quella scienza delle stelle, che si era affermata a Roma grazie anche al diffondersi della filosofia stoica, e dalle Muse, che furtivamente lo attiravano, distraendolo da più gravosi impegni (Tristia IV, 10, 20); ed è a quelle Muse, che illuminarono tutta la sua vita e la sua carriera, che dall’esilio il poeta imputa la sua perdizione (Tristia III, 7, 27: i miei versi mi hanno fatto del male; Tristia V, 7, 31-36: ...i miei versi sono stati la mia rovina...).
A Roma frequentò i più illustri ingegni del tempo ed ebbe accesso ai “salotti” più esclusivi; si legò di amicizia con la figlia dell’imperatore, Giulia Maggiore e, dopo che questa fu allontanata da Roma con l’infamante accusa di adulterio, frequentò assiduamente la figlia di lei, Giulia Minore, che, seguendo le orme della madre, era divenuta animatrice della vita gaudente della capitale e sostenitrice di un modello di società ben diverso da quella propugnato dall’imperatore. Quando anche Giulia Minore incorse negli strali del nonno per colpe contro la morale (almeno questa è la versione che gli storici ci hanno tramandato), anche per Ovidio giunse la fine sotto forma di una durissima condanna che cambiò la sua vita per sempre.
Accanto a informazioni sulla sua vita pubblica e sulle sue frequentazioni, nei carmi del poeta troviamo spunti per ricostruire anche la sua vita privata: il suo nucleo familiare era composto da due genitori molto amati (sappiamo che pianse con profondo dolore la morte dell’amato padre -io lo piansi non diversamente da come egli avrebbe pianto la mia morte: Tristia IV, 10- e quella della madre, avvenuta poco dopo) e da un fratello, più anziano di lui di un anno esatto (Tristia IV, 10, 11), che ebbe in sorte una morte precoce e lasciò nel cuore del poeta una disperata desolazione.
Ebbe ben tre mogli, la cosa non desta meraviglia, se si tiene conto che tre mogli ebbero anche Antonio (l’indomabile Fulvia, la fedele Ottavia, l’ammaliatrice Cleopatra), Augusto (la nobile Clodia Pulcra, la discussa Scribonia, l’austera Livia), perfino Cicerone, l’ultima delle quali appena diciassettenne. Della sua prima consorte, sposata in giovane età con un matrimonio combinato (ero ancora quasi un fanciullo quando mi fu data in moglie... Tristia IV, 10, 69), il poeta ci fornisce un fulminante e non lusinghiero ritratto: né degna, né utile (nec digna nec utilis uxor); il disprezzo con cui la ricorda deriva forse dal fatto che la fanciulla, di origine falisca, come suggerisce in Amores III, 14, 1-2, doveva essere di famiglia modesta, non degna quindi di andare sposa all’ambizioso giovane poeta, a cui non diede nemmeno la consolazione di un figlio (nec utilis). L’immagine della seconda resta cristallizzata in un opaco cameo (71: sebbene senza colpa non rimase a lungo nel mio letto); ma è a lei che Ovidio deve l’unica sua discendente, quell’Ovidia, che egli ricorda anche nei Fasti (VI, 219), e che rimpiange di non aver potuto abbracciare al momento della partenza, perché lontana, sulle coste libiche, al seguito del marito, che ricopriva quell’anno la carica di proconsole. Per l’ultima compagna, appartenente all’illustre famiglia dei Fabii, il poeta ha parole di affetto e di gratitudine, per non averlo abbandonato nei momenti bui dell’esilio (Tristia IV, 10, 74); e l’amore che nutriva per lei, lo riverberò anche sulla figlia che ella aveva avuto da un precedente matrimonio, la giovane Perilla, a cui il poeta invia dall’esilio una lunga lettera piena di tenerezza, in cui la invita a non abbandonare gli studi e quella poesia, che pure a lui aveva recato tanto danno (Tristia III, 7).
Ma le informazioni più dettagliate che Ovidio consegna ai suoi lettori si riferiscono ai drammatici eventi che seguirono alla consegna dell’editto che gli ingiungeva di partire immediatamente per la lontana Tomi: era una luminosa notte d’ottobre e la Luna, alta nel cielo, guidava i cavalli della notte (Tristia I, 3), quando il poeta abbracciò per l’ultima volta la moglie in lacrime e i pochi amici rimastigli e abbandonò l’amata capitale per lidi ignoti, il cui solo pensiero incuteva terrore. Lungo e periglioso fu il viaggio, funestato da terribili tempeste, e solo dopo mesi di travaglio l’esule giunse ad una terra desolata dove i locali non parlavano né greco né latino: “qui il barbaro sono io”, dichiara dolorosamente.
Per dieci interminabili anni Ovidio visse ai confini del mondo e di quegli anni bui ci restano un centinaio di lettere scritte ad amici e parenti perché intercedessero presso l’imperatore per una diminuzione della pena. Lettere disperate, talvolta ripetitive, dove la rigogliosa vena poetica che aveva sorretto la sua produzione della giovinezza e della maturità appare meno vivace ma è ancora capace di regalare ai suoi lettori immagini indelebili quale quella dell’Aquilone infuriato, che abbatte al suolo le alte torri e porta via i tetti schiantati, o dell’unghia del cavallo che calpesta le onde consolidate dal freddo (Tristia III, 10), oppure del tempo che inesorabile passa, sintetizzato dalla icastica immagine della dannosa vecchiaia che sopraggiunge senza fare rumore (Tristia III, 7, 35).
Nelle lettere dall’esilio l’animo prostrato del poeta trova anche umilianti parole di cortigianeria, riscattate da lampi di un orgoglio smisurato, che gli fa trovare parole sempre nuove per affermare, con incrollabile certezza, che la sua Musa l’avrebbe reso immortale.
continuazione dal post precedente e fine.
Quella di Ovidio è stata una Musa prolifica e versatile: come si è espresso nelle diverse fasi della sua vita?
Ovidio fu uno dei più prolifici poeti latini: padrone del lessico e della musicalità del verso, ebbe una naturale predisposizione per la poesia, tanto che, come egli stesso ricorda, qualsiasi cosa tentasse di dire assumeva ritmi precisi (Tristia IV, 10 sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos).
Era ancora giovanissimo quando iniziò a declamare in pubblico versi d’amore e l’immediato successo che ottenne lo convinse ad abbandonare la strada che il padre aveva tracciato per lui, rinunciando a imparare a memoria le prolisse leggi e a fare mercato dell’eloquenza nel foro irriconoscente (Amores I, 15, 5-6). Da allora la poesia divenne non solo la sua ragione di vita, ma anche la chiave che gli aprì gli esclusivi salotti della capitale, dove ebbe modo di incontrare i più illustri ingegni del tempo e gli aristocratici più prestigiosi.
La sua versatile Musa lo portò a cimentarsi con i generi più svariati, che egli seppe dominare, innovandoli nei contenuti e nella forma e mostrando di sapere usare da maestro sia il distico elegiaco, l’agile verso prediletto dai poeti ellenistici, sia il più grave esametro, tipico della grande tradizione epica, con cui compose il lungo poema delle Metamorfosi.
La giovinezza e la prima maturità furono per lui il tempo dei carmi erotici, elegiaci, epistolari, didascalici; negli Amores egli si cimentò con le emozioni che agitano il cuore degli innamorati, dal desiderio alla gelosia, dalla conquista al tradimento fino agli infuocati amplessi che descrive con compiacenza unita ad una meditata eleganza. Ma negli Amores sono già presenti in nuce anche gli altri temi che il poeta avrebbe poi sviluppato nella produzione successiva, dal mito, di cui, come d’altronde i suoi contemporanei, era profondamente compenetrato, alla vivida narrazione della realtà che lo circondava. Le fulminee citazioni di eroi ed eroine della grande tradizione epico tragica ben testimoniano della sua padronanza della materia: nelle sue elegie troviamo citate tutte le più importanti protagoniste di amori divini (Io, Danae, Leda, Europa, Semele, Callisto, Amimone: Amores I, 10), spesso vittime della prevaricazione degli dèi arroganti. Ma nei suoi carmi troviamo anche citazioni delle autrici di efferati delitti, come Medea o Procne, che vengono ricordate ora come esempio ora come monito; analoga funzione hanno i grandi eroi dell’epica, come Achille, Ulisse, Aiace, modelli di virtù o di vizi, di coraggio o ingenuità. Né il poeta trascura le eroine delle leggende delle origini di Roma: da Tarpea alle donne Sabine, dalla infelix Dido, autrice anche di una delle epistole amorose che costituiranno la sua seconda fatica, alla Vestale Rea Silvia, quasi impazzita dopo la violenza subita, a cui il poeta restituisce dignità e immortalità, rendendola sposa del dio Aniene.
La grande tradizione epica e mitica, che aveva fatto una cauta comparsa negli Amores, è pienamente protagonista nelle Heroides, una raccolta di fittizie epistole d’amore, scritte, come quasi tutte le opere del poeta, nel verso dell’elegia, così adatto ai moti del cuore (v. anche Remedia 379: la dolce elegia celebri gli Amori armati di faretra). Le prime 15 lettere, pubblicate fra il 19 e il 15 a.C., contengono accorate invocazioni di donne disperate, tradite e abbandonate da amanti bugiardi o semplicemente distratti, a cui si aggiungono i lamenti delle infelici vittime del rigore delle famiglie che impediscono il coronamento del loro sogno d’amore. Nelle ultime 6 invece, datate fra il 4 e l’8 d.C., il poeta, forse per rispondere ad uno scherzo o ad una provocazione dell’amico Sabino che aveva composto lettere di risposta alle missive di Penelope, Didone, Ipsipile, a firma di Ulisse, Enea, Giasone (Amores II, 18, 27-37), rinnova lo schema, proponendo uno scambio epistolare fra amanti, in cui la donna, pur amata dal suo uomo, è vittima del destino o della società; cambia dunque completamente il registro del lamento anche perché con astuto rovesciamento, il poeta fa precedere le lettere maschili a quelle femminili. Si tratta, all’evidenza, di una vera e propria anticipazione del moderno romanzo epistolare.
Con l’Ars amatoria Ovidio indossa nuovamente gli abiti del rinnovatore e affronta il tema d’amore, a lui così congeniale, da una inedita prospettiva: dopo aver cantato patimenti, emozioni, desideri ed amplessi dell’amore “mondano”, dopo aver “inventato” il nuovo genere del “romanzo epistolare”, il poeta nell’Ars amatoria diventa “maestro d’amore”, praeceptor amoris. I primi due libri, pubblicati probabilmente l’1 a.C., contenevano gli ammaestramenti per gli uomini, l’ultimo, che seguì a poca distanza di tempo, fu dedicato, per equità, alle donne (III, 1-2: Ho dato le armi ai Danai contro le Amazzoni, ma restano le armi da dare a te Pentesilea e alla tua schiera), fu probabilmente pubblicato un paio d’anni dopo. La novità dell’Ars è rivoluzionaria: nel poema la materia d’amore viene infatti trasformata da flebile carmen in oggetto di didattica. Ovidio, come un vero “scienziato”, dopo aver sperimentato da protagonista il certame amoroso, ne estrae regole e precetti da condividere con i suoi lettori/discepoli.
Il presupposto da cui il poeta muove è che l’amore non è un fatto naturale, ma è un prodotto della cultura e della società, paragonabile a una qualsiasi attività materiale, e come tale è soggetto a norme e procedure elaborate sulla base dell’esperienza. L’arte d’amare (ars traduce il greco techne) non è per il poeta diversa da qualsiasi altra disciplina e come qualsiasi altra disciplina può essere oggetto di insegnamento. Ed Ovidio, forte di una esperienza, maturata in anni di onorato servizio nelle pratiche d’amore, decide di mettere la sua “cultura” a disposizione dei suoi concittadini, perché ognuno di essi possa divenire un irresistibile seduttore.
Nella maturità provò generi più alti: la poesia civile dei Fasti e quella epica delle Metamorfosi; nell’ultima parte della sua vita, lontano da Roma e dal mondo che aveva amato, la sua Musa fu tutta dedicata al lamento dell’esule, consegnato alle epistole, alle innumerevoli disperate epistole che invocavano la mitigazione di una pena a cui egli non si rassegnò mai. E la forza della sua vena poetica era tale che seppe poetare anche nella lingua dei Geti (Ex Ponto IV, 13, 17-22), guadagnandosi onori di vario genere, fra cui l’esenzione delle tasse e una corona sacra (14, 53-56).
Con le Metamorfosi Ovidio ci ha tramandato il più grande compendio della mitologia classica dell’antichità: quali caratteristiche rendono unica l’opera?
Dopo aver percorso tutti i sentieri della poesia d’amore, Ovidio si confrontò con il genere epico, consacrato da Virgilio nella saga di Enea e delle origini di Roma. Ma con quel gusto per il rinnovamento dei generi che lo aveva portato dall’elegia alla didattica amorosa, che gli aveva suggerito di celebrare le festività dell’anno, illustrando l’eziologia delle cerimonie che affondavano le loro radici in un lontano passato, il poeta di Sulmona seppe rinnovare anche l’epica, creando un poema il cui protagonista non è un eroe, ma il mondo stesso visto dalla prospettiva del cambiamento. Ed è per questo che è difficile trovare per le Metamorfosi una definizione che renda ragione del suo caleidoscopico contenuto: per il poema sono state coniate innumerevoli formule che però non esauriscono la complessità dell’opera, da “storia universale guardata sotto specie metamorfica” a “poema delle meraviglie e del mutamento”, da “storia mitologica narrata dal punto di vista del cambiamento” a “catalogo di miti”; e in ognuna di queste definizioni c’è del vero, ma nessuna esaurisce il significato profondo e polivalente del poema, che Ovidio, con immagine presa a prestito da Orazio (Odi I, 7, 6) definisce carmen perpetuum (Met. I, 4). C’è del vero, ad esempio, nel considerarlo una “storia universale”, perché il poema inizia con la creazione del mondo e finisce con il tempo del poeta; c’è del vero anche nel considerarlo un “catalogo di miti” dal momento che nei quasi 12.000 versi che si dipanano senza indurre stanchezza nel lettore sono presenti, senza ordine apparente, la quasi totalità dei racconti che avevano per protagonisti dèi ed eroi, guerrieri e fanciulle, efebi e ninfe, e poi satiri, menadi, panischi, personificazioni di entità astratte e cielo, terra, fiumi, laghi, come sfondo di azioni e di eventi o come attori nel grande affresco che il poeta compone. E c’è del vero nel definirlo il poema delle meraviglie perché il lettore è trascinato dalla forza del verso in un mondo che cambia in continuazione, e che appare ora luminoso e scintillante, ora cupo e minaccioso, ora dolce ed accogliente, ora duro e terrificante... e comunque sempre fuori della norma.
E’ grazie alla molteplicità delle chiavi di lettura che lo straordinario testo del poeta di Sulmona ha superato indenne la condanna augustea, l’ostracismo dei padri della Chiesa, il trascorrere del tempo e il mutare del gusto, giungendo vivo e vitale fino a noi, e divenendo modello di quel prodigioso fenomeno della metamorfosi del corpo in altro da sé, che affonda le sue radici nelle più profonde paure dell’uomo, e che ha trovato cantori fin dai primordi della letteratura greca.
È nell’Odissea infatti che troviamo la prima trasformazione di esseri umani in animali (X, 237-240): quando la maga Circe tocca i compagni di Ulisse con la verga magica, il loro corpo improvvisamente si copre di setole, mentre le voce diventa un grugnito ed essi, umiliati e piangenti, vengono rinchiusi in un recinto e nutriti di ghiande, di leccio o di quercia, e di corniole.
Da allora il tema della metamorfosi, della mutazione del proprio essere, del divenire altro da sé ha acceso la fantasia e la penna di poeti, letterati, romanzieri, divenendo in molti casi l’oggetto stesso della narrazione: da Nicandro di Colofone, a un non meglio conosciuto Boios, che fu di ispirazione ad Emilio Macro, poeta veronese amico di Ovidio, anche lui autore di un poema sugli uccelli; da Partenio di Nicea ad Apuleio di Madauro, che a Ovidio “rubò” perfino il titolo per il suo romanzo Metamorphoseon libri XI, meglio conosciuto con quella denominazione di Asino d’oro, che gli fu conferita da Sant’Agostino (De civitate Dei XVIII, 18, 1), fino ad arrivare al più noto racconto di trasformazione quel Die Verwandlung di Franz Kafka, che ha popolato incubi di generazioni con l’immagine di quell’enorme insetto, “dal ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati”, in cui si trova imprigionato il giovane Gregor Samsa.
Ma la metamorfosi nel poema ovidiano non è che un astuto espediente per parlare d’altro: è infatti il mondo il vero protagonista, un mondo popolato di creature multiformi, un mondo in cui tutto muta ma nulla muore, un mondo che passa dal Caos (mole informe e confusa) all’ordine augusteo. E questo lungo percorso si articola attraverso narrazioni di miti che mettono in scena eroi ed eroine della grande tradizione classica che Ovidio, da quel raffinato uomo di cultura che era, ben conosceva e sapeva interpretare e tradurre con fantasia, garbo, e straordinaria capacità evocativa. Sono queste le qualità che hanno contribuito a fissare indelebilmente nella mente dei suoi lettori personaggi e racconti a cui egli conferisce una forma definitiva, la sua forma, che è anche la nostra forma.
E solo un grande come il nostro Sulmonese poteva riuscire a dare unità ad un materiale così vario e multiforme attraverso espedienti narrativi che ritroveremo in tante opere moderne: uno dei più consueti è quello della moltiplicazioni delle voci narranti: durante il banchetto che Acheloo offre a Teseo e compagni, ognuno dei commensali prende la parola per narrare episodi diversi a cui è il contesto a dare unità; come non ricordare le cento novelle del Boccaccio, narrate dai giovani fuggiti da Firenze per sottrarsi alla peste che imperversava? E’ sempre il contesto che lega i racconti di amori impossibili, contrastati, contro natura, narrati dalle figlie di Minia, che, sedute al telaio, ingannano il tempo parlando di storie lontane e aprendo scorci sulla vita quotidiana.
Le Metamorfosi hanno la forza di irretire il lettore, imprigionandolo in una ragnatela fatta di parole e immagini, che danno forma e sostanza ai suoi protagonisti, le cui avventure sono in taluni casi narrate nel dettaglio, in altri evocate con icastiche frasi. Passione, desiderio, amore, risentimento, vendetta ogni gamma di sentimenti è raccontata con uno stile elegante e immaginifico che ha dialogato con l’arte figurativa antica e moderna, essendone ora testimone (come quando descrive la Niobe che stringe a sé la figlia più piccola certamente ispirata ad un’opera di tarda arte classica, di cui ci è pervenuta la splendida statua ora agli Uffizi di Firenze), ora invece ispiratore (come nella grande stagione del Rinascimento italiano).
Ed è questa straordinaria forza della parola che ha salvato l’opera del poeta di Sulmona dal naufragio di tanta parte della letteratura antica, offrendola come fonte di ispirazione ad artisti, poeti, romanzieri e letterati di ogni tempo, al punto che non credo sia azzardato considerare il poeta di Sulmona una pietra miliare della cultura europea.
A questo straordinario personaggio ho voluto dedicare una mostra ed un libro, sperando di avvicinare visitatori e lettori al suo mondo fantastico.
Francesca Ghedini è professore emerito di Archeologia presso l’Università di Padova.
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA: RANNICHIARCI NEL SENO DI "DIO"!? LA SAPIENZA DEL GOMITOLO... E IL FILO DI ARIANNA *
L’anima e la cetra/14.
La sapienza del gomitolo
Luigino Bruni (Avvenire, domenica 28 giugno 2020)
«Per i seguaci di storture, non t’inquietare, i fabbricanti di falsità non invidiare... Se in qualcuno vedi la via storta riuscire, non t’indignare» (Salmo 37,1-7). Siamo dentro uno scenario di tentazione. Quella dei giusti, poveri a causa della loro giustizia, circondati da empi che invece ottengono successo e ricchezza. Un tema classico della letteratura biblica sapienziale, al centro della Bibbia, della storia, della vita. Sono le domande di Giobbe, di Qoelet, le domande dei poveri e delle vittime, sono le nostre domande. È sempre stato molto difficile, a volte troppo, perseverare in una vita che pensiamo essere giusta quando i nostri guai aumentano e la prosperità di coloro che crediamo essere iniqui cresce. Qualche volta ci sbagliamo, ci crediamo più giusti di quanto siamo realmente. Altre volte invece non ci sbagliamo, chi "sbaglia" è semplicemente la vita; chi sbaglia, iniziamo a pensare, è Dio.
Il salmista conosce questa tipica crisi-tentazione dei giusti. Parte da qui, non la scarta, la prende sul serio, e come ogni buon accompagnatore usa il fango che ha a disposizione per creare un nuovo Adam. E subito dà al giusto un comando molto importante: resta innocente. Non basta essere poveri per essere giusti, occorre l’innocenza, perché salvare l’innocenza dentro la nostra sventura è la dote che porteremo in dono all’angelo della morte. L’innocenza biblica non è assenza di peccati - altrimenti nessuno sarebbe innocente. È qualcosa di diverso e più importante. È restare attaccati per tutta la vita a quella fede-corda cui ci siamo legati nel tempo della giovinezza. Non averla mollata nelle sterzate e nelle scivolate, aver preferito questa umile corda alle seggiovie che promettevano scalate più facili, veloci e spettacolari.
L’innocenza è l’abbraccio fedele tra una mano e una corda.
«Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti: nel crucciarti nuoci a te stesso» (37,8). Lo sdegno, che in genere è una risorsa etica buona e importante perché attiva processi di cambiamento, può anche innescare circuiti degenerativi quando la rabbia e l’indignazione generano cruccio e le passioni autolesioniste dell’invidia e della vendetta, o quando fanno affiorare nel cuore l’idea peggiore di tutte: "ho sempre sbagliato, non valeva la pena essere giusti". È difficile non cadere in queste trappole (ogni tentazione è una trappola) perché, più o meno consapevolmente, siamo tutti fedeli di un qualche culto economico-retributivo; devoti di una religione fondata sul dogma che la benedizione di Dio si manifesti nella ricchezza e nel successo, e che quindi la sua maledizione prenda la forma della povertà e del fallimento. Anche perché è la stessa Bibbia (e non solo essa) a contenere tradizioni e libri dove questa idea è presente e operante - vedi Abramo o il prologo di Giobbe.
Prima di entrare nel vivo del suo discorso, il salmista ci invita a un movimento, a un gesto del corpo. Invita tutti, ma soprattutto i poveri che si trovano dentro quella tipica e grande tentazione, e in particolare quei poveri che potrebbero non esserlo più se imitassero i disonesti: ma che non lo fanno, perché preferiscono essere falliti da giusti che vincenti da empi.
Ci fa entrare in un luogo. Ci chiede di "rannicchiarci in Dio": «La tua sorte aggomitola tutta intorno al Signore, làsciagliela» (37,5). Il verbo ebraico galàl, come ricorda Guido Ceronetti, rimanda a un avvolgimento, un arrotolamento; richiama il bozzolo del baco, «la nube di zucchero filato attorno alla stecca», l’immagine del rannicchiamento del feto nel ventre materno. Il salmista ci consiglia di aggomitolarci nel seno di Dio, e da lì leggere la vita. È questa l’unica posizione buona.
Il Salmo 37 non è una preghiera. Il suo autore non si rivolge a Dio ma agli uomini. Consigliandoci subito di arrotolarci dentro il ventre di Dio ci svela una dimensione fondamentale della tradizione sapienziale. Il sapiente non è un profeta che parla agli uomini in nome di Dio ("così dice il Signore"); non è il sacerdote, custode della Legge, ministro del tempio e del sacro. Il sapiente non prende la sua autorità né da una parola privata di Dio né dalla Legge-Torah. La sorgente d’autorità delle sue parole è la vita, la storia, l’esperienza umana - «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio» (37,25) -, che il sapiente esplora e penetra per scoprire verità che per la Bibbia assumono un grande valore, tanto che alcuni libri sapienziali sono tra i suoi più amati. Sta qui la splendida laicità biblica.
La Sapienza non è profezia, non è preghiera, non è neanche teologia: è la postura umana per comprendere tutta la «Legge e i profeti», per poter iniziare a pregare veramente, per distinguere i veri profeti dai falsi. Sapienza è la creatura che si pone nel luogo giusto, lo scopre come "sede della sapienza" e pronuncia il suo fiat.
E così, dopo averci posto nella seta di quel bozzolo, il salmista inizia il suo discorso sapienziale. E lo fa con una critica radicale alla religione retributiva e alla teologia della prosperità, all’idea cioè di un Dio che usa il linguaggio della ricchezza e del successo per parlarci della nostra giustizia o iniquità e di quelle degli altri. Il salmo ci mostra potenti, persone di successo e ricche, che sono tali perché sono empi: «I malvagi tendono l’arco per abbattere il povero e il misero, per uccidere chi cammina onestamente» (37,14).
In questo salmo c’è una visione predatoria della ricchezza e del potere. Non tutta la ricchezza nasce dal sopruso, lo sappiamo noi e lo sa la Bibbia; ma noi e ancor più la Bibbia sappiamo anche che molta ricchezza nasce da una qualche forma di sopruso - anche se oggi molte ingiustizie sono mascherate da leggi legittimamente emanate dai parlamenti (il necessario principio di legalità non è mai stato sufficiente per nessuna giustizia). Il solo fatto che alcune ricchezze sono di certo il frutto dell’empietà è sufficiente per non poter leggere la ricchezza nostra e degli altri come benedizione di Dio e le povertà come sue maledizioni: «È meglio il poco del giusto che la grande prosperità dei malvagi» (37,16). Dentro il gomitolo lo possiamo capire.
Molto bello e importante è il discorso sul prestito e sul dono - è sempre commovente trovare l’economia dentro la preghiera biblica: non ci dovrebbe stare, e invece c’è: «Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono» (37,21). La malvagità e la giustizia sono declinate con il linguaggio finanziario. Diversamente da molti passaggi biblici che insistono sul divieto di prestare (a interesse), qui troviamo una condanna dell’altro lato del contratto. Si condanna chi chiede il prestito, non chi lo concede. A ricordarci che non c’è solo l’empietà di concedere prestiti a tassi usurai c’è anche quella di chi prende prestiti con l’intenzione di non restituirli. Perché mentre i poveri insolventi diventano schiavi dei loro creditori, i ricchi avevano e hanno mille strade per uscire indenni da un’insolvenza, e spesso farla diventare occasione di profitto.
Il giusto, invece, è colui che usa i suoi beni con generosità, che li trasforma in dono. L’unica ricchezza buona e giusta è allora quella condivisa e donata? Ma la tesi più sovversiva la ricaviamo mettendo insieme questo versetto 21 con il 26, che parlando del giusto aggiunge: «Ogni giorno egli ha compassione e dà in prestito, e la sua stirpe sarà benedetta». Dà in prestito: prestare può essere attività giusta, espressione di compassione equiparata al dono? Sì: siamo giusti quando condividiamo la ricchezza con doni e quando la condividiamo prestando ad altri i nostri beni. Sbaglia allora chi contrappone, in linea di principio, filantropia e finanza, dono e contratto. Ci sono prestiti giusti che liberano più dei doni, e ci sono doni più velenosi dei contratti. Ieri e oggi, quando nei mercati convivono una finanza che fa vivere i poveri con una che li divora.
Manca ancora una tessera a questo mosaico, quella centrale e più luminosa: «I poveri [i nwym] avranno in eredità la terra» (37,11). La terra come eredità. Stupendo. Quell’antico saggio non promette il successo ai giusti. Promette molto di più: i giusti che salvano la loro innocenza avranno in eredità la terra. Tutta la Bibbia è custode di questa promessa, è shomer (sentinella) di questa parola che fonda la chiamata di Abramo, la sua Alleanza con YHWH, la grande liberazione e l’esodo, la grotta di Betlemme. Una promessa che non si è compiuta con l’arrivo a Canaan, perché se la terra promessa diventa nostra proprietà e possesso, rimane la terra e scompare la promessa.
La promessa dell’eredità della terra - che nel Salmo ricorre ben cinque volte - è allora la promessa di avere un futuro. Non è una ricompensa per qui e ora; questa promessa diversa non appartiene al "già", e anche quando ne assaggiamo qualche boccone questi sono solo la caparra del "non-ancora", che è il luogo del compimento incompiuto della promessa. Il giusto che non cede al consiglio degli empi «avrà un avvenire» (Pr 23,18). La promessa di futuro non è garanzia di successo né di ricchezza, ma di uno sguardo di qualcuno che, come la sorella-bambina di Mosè, ci accompagna mentre la nostra cesta scorre lungo il grande fiume, perché «il Signore ha cura dei giorni dei buoni, tesori di eternità gli prepara» (37,18). Allora il giusto è colui che custodisce la promessa di una terra che sa che non possederà mai, è sentinella dell’utopia, che vive ogni terra come provvisoria e la vita come pellegrinaggio.
C’era il salmo 37 dietro la terza beatitudine, dietro tutte le beatitudini: beati i miti, erediteranno la terra (Mt 5,5). Allora questo salmo è anche una spiegazione di cosa sia la mitezza biblica e cristiana. I miti sono i giusti di questo salmo. Sono quelle e quelli che non seguono la via dell’empio, non lo invidiano, restano legati a doppio filo con la loro corda durante la scalata della vita; per accorgersi, alla fine, che durante il viaggio non erano mai usciti da quel gomitolo custodito da viscere buone e misericordiose. La terra è l’eredità dei miti, perché solo i miti sono capaci di custodire la promessa di una terra senza possederla. Avremo ancora una terra e un futuro se impareremo questa giustizia e questa mitezza, se impareremo ad abitare il pianeta senza sentirci padroni e quindi predatori. Il futuro o sarà mansueto o non sarà: «L’uomo di pace avrà una discendenza» (37, 37).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA : "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo)
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO".
FLS
Filo di lana o filo di lama?
Come si dice: sul filo di lama o sul filo di lana?
Risposta
di Paolo Rondinelli *
Come altri termini caricati di una profonda valenza simbolica, il filo è al centro di numerosi modi di dire, proverbi e locuzioni idiomatiche: dare del filo da torcere, essere attaccato a un filo, fare il filo, filo a piombo, filo logico, guidare con un filo di seta, imbrogliare i fili, inciampare in un filo di paglia, parlare con un filo di voce, passare a fil di spada, per filo e per segno, perdere il filo del discorso (il filo del pensiero, il filo della memoria, il filo delle cose), ridursi a un filo, star ritti coi fili, stare sul filo della schiena, tirare le fila, tre fili fanno uno spago e molti altre ancora, come essere ridotti in fil pendente attestato nell’italiano popolare antico per indicare una condizione di povertà (si veda la raccolta di Francesco Serdonati nella banca dati Proverbi italiani dell’Accademia della Crusca).
Alla base di alcune di queste espressioni vi è l’antichissima metafora del filo inteso come destino, e basti pensare alla mitologia greca che abbonda di riferimenti: dal ‘filo di Arianna’ al ‘fuso di Ananke’ alle Moire (o Parche) che tessono lo stame della vita di ogni essere umano, per svolgerlo durante l’esistenza e infine reciderlo, segnandone la morte. Dal mito di Teseo e Arianna al gomitolo di Andy Warhol, il filo è un elemento simbolico fondativo della storia dell’umanità, e non solo della cultura occidentale.
Nella tradizione delle Upanishad, un insieme di scritti religiosi e filosofici indiani che risalgono al IX-VIII secolo a. C., il filo (sutra) penetra e lega i vari mondi possibili, e al tempo stesso li sostiene e li fa sussistere. È il soffio vitale (prana) che conduce l’uomo alla verità, al centro di tutte le cose rappresentato spesso dal sole.
L’uomo ordisce, la fortuna tesse, dice uno dei proverbi raccolti da Giuseppe Giusti e già presente nella quarta edizione del Vocabolario degli accademici della Crusca (s.v. tessere), per cui, quando parliamo dell’azione simbolica del filo, intendiamo qualcosa che si dispone tanto sul piano sincronico dell’ordito quanto sul piano diacronico della trama. Vengono in mente anche immagini più quotidiane come quella delle mani del burattinaio, ricordata dal Dizionario dei simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant (s.v. filo) e tratta dall’opera del pensatore francese René Guénon: «una marionetta rappresenta l’essere individuale e il burattinaio che lo fa muovere per mezzo di un filo è il Sé» (Simboli della scienza sacra, 2010, p. 351).
Grazie alla sua duttilità il filo segue e regge il corso della vita di ogni uomo ‒ ma anche l’andamento di una competizione ‒ fino al momento finale. Ed è proprio al contesto delle gare podistiche che si lega la competenza dell’uso, ormai perduta, dell’espressione sul filo di lana. Almeno fino all’avvento delle moderne apparecchiature fotografiche (fotofinish), impiegate dai giudici di gara per stabilire con maggiore precisione l’ordine di arrivo, il filo era posto tra due paletti sulla linea del traguardo e veniva tagliato dal corpo del vincitore. Fu introdotto nei primi anni del XX secolo (1906-1908) come strumento di ausilio per il giudice di arrivo e per il cronometrista. Molto presto entrò nella lingua di tutti i giorni per indicare una vittoria ottenuta all’ultimo istante, dopo una lotta serrata.
Sul filo di lana significa quindi “all’ultimo momento, all’ultimo istante, in extremis, di pochissimo, di stretta misura”. Indica la fine di qualcosa all’ultimo respiro, appena prima di una scadenza temporale, o anche l’arrivo immediatamente prima dell’inizio di un determinato evento. In altri termini si parla di un’azione compiuta in seguito a una resistenza che può essere determinata da varie cause, tra cui, spesso, la competizione tra due o più concorrenti. Non a caso la locuzione viene usata soprattutto nel linguaggio sportivo, per commentare una vittoria o una sconfitta, un evento particolarmente sentito, avvincente e incerto. Sul filo di lana si può vincere, arrivare, prevalere, farcela, essere battuti, essere superati o superare. Ancora si può decidere una gara, raggiungere un obiettivo; ci si può salvare e, più in generale, si può vivere sul filo di lana se si vuole dire che la propria vita non è altro che una corsa contro il tempo.
La metafora della tessitura, che è la medesima che spiega la parola ‘testo’ ( textus ) inteso come trama più o meno fitta di parole ‒ a loro volta raffigurabili come fili che si perdono, si allungano e si raccolgono nel corso della storia ‒ induce a riflettere anche sul materiale. È probabile che la scelta della lana sia dovuta a ragioni pratiche, determinate dalla volontà di non fare male a chi rompeva il filo con il petto. Tuttavia il fatto che il filo delle Parche sia lanoso potrebbe non essere casuale. Simbolo di purezza, presente tra le immagini bibliche dell’innocenza per la proprietà di assorbire le impurità, la lana era il materiale delle vesti indossate dai sacerdoti durante i misteri eleusini. Ricorre anche nell’Antico Testamento (Levitico), tra gli strumenti di purificazione dei lebbrosi, insieme al legno di cedro e all’issopo. Il filo di lana è l’essenza del tempo che s’interrompe con l’atto del taglio, al quale è riconducibile il significato ulteriore di una catarsi presente non solo nelle competizioni sportive, ma anche nelle inaugurazioni e in altre cerimonie.
Analogamente, nel caso di sul filo di lama, troviamo, al centro, l’idea di una linea che si colloca all’estremità di qualcosa. Qui però, accanto all’elemento metaforico, si afferma quello metonimico rappresentato dalla lama, che è la parte più tagliente di vari oggetti: rasoi, forbici, coltelli da cucina, spade. La lama rappresenta l’ultima frontiera, la linea di demarcazione che si fa sempre più sottile fino a tagliare e a separare qualcosa da qualcos’altro. Per questo essere (camminare) sul filo di lama o della lama significa ‘muoversi sul crinale’, ‘essere in bilico’, ‘trovarsi sull’orlo di un abisso’, ‘sulla lama dell’equilibrio’, ‘essere in limine’: camminare, appunto, sul filo del rasoio, ossia «passare per una situazione difficile, pericolosa, piena di rischi diversi e che permette solo un equilibrio precario» (Lapucci, 1969).
Siamo allora di fronte a due locuzioni avverbiali, entrambe corrette e registrate da importanti dizionari della lingua italiana (GRADIT e Zingarelli 2019, per quanto riguarda filo di lana; e GDLI). In particolare quest’ultimo registra sul filo di lama citando gli Ossi di seppia di Montale (“Felicità raggiunta, si cammina / per te su fil di lama”). Proprio il carattere di questa citazione, la più antica tra quelle riscontrate, induce a ritenere l’espressione sul filo di lama successiva a sul filo di lana e modellata per assonanza sulla prima.
Non è comunque in discussione il fatto che si possano dire né bisogna scegliere in base a un criterio normativo. Occorre piuttosto valutare quando impiegarle, visto che talvolta gli usi si sovrappongono e sul filo di lama viene usato al posto di sul filo di lana (“vuole togliersi la grossa soddisfazione di precedere sul filo di lama il suo rivale”, si legge nell’articolo E per Balbo il mercato impazzisce di Guido Gomirato, citato dalla “Repubblica”, 9/3/1993, p. 39).
Eppure va detto che al minimo variare del significante (lana-lama) non corrisponde un’altrettanto sottile variazione semantica. Sul filo di lana e sul filo di lama rinviano a concetti molto diversi tra loro: nel primo caso si fa riferimento al filo vero e proprio, mentre nel secondo il filo è un’astrazione, una linea tagliente e particolarmente pericolosa. Tensione e incertezza, rapidità e precarietà, compimento e passaggio, fermezza e indeterminatezza sono alcune delle coppie antitetiche riconducibili a queste espressioni.
A queste si aggiunga quella di competizione e pace. La prima si lega chiaramente a sul filo di lana, mentre la seconda presenta un sia pur marginale legame con un uso specifico dell’espressione filo di lama, riferito alla spada spezzata che, nella Galizia del IX secolo, veniva conficcata in terra e rivolta verso il cielo in segno di pace. “Il filo della lama”, si legge nel romanzo La cattedrale ai confini del mondo di Paloma Sánchez-Garnica, “simboleggia la verità, ed è spezzato per favorire una pace che tutti auspicano, una speranza alla quale si aggrappano sempre più i devoti, convinti della loro fede”. -Frammenti di spade spezzate con valenza cultuale, del resto, sono noti fin dall’Età del Bronzo sull’Appennino settentrionale (Corti, 2012, p. 26, nota 47). Dalla linguistica all’antropologia, alla spiritualità, il passo è breve, ed è reso breve dalla polisemica multiformità di locuzioni così vicine e così lontane di cui la nostra lingua è particolarmente ricca.
Nota bibliografica:
Jean Chevalier - Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli,, Milano, Rizzoli, 2002(5).
Carla Corti, Il culto di Ercole e l’economia della lana a Mutina, in Pagani e cristiani. Forme e attestazioni di religiosità del mondo antico in Emilia, Firenze, Edizioni All’Insegna del Giglio, 2012, pp. 19-40.
René Guénon, Simboli della scienza sacra, Milano, Adelphi, 2010(10).
Giuseppe Giusti, Proverbi, a cura di Elisabetta Benucci, Firenze, Le Lettere - Accademia della Crusca, 2011.
Carlo Lapucci, Per modo di dire. Dizionario dei modi di dire della lingua italiana, Firenze, Valmartina, 1969.
Paloma Sánchez-Garnica, El alma de las piedras, trad. it. La Cattedrale ai confini del mondo, Milano, Piemme, 2012.
Paolo Rondinelli
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E LA CRITICA DELLA RAGION PURA. Prolegomeni ad ogni metafisica futura.... *
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi”; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così: “l’idea elementare è radicata nella psiche; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145); si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali: una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive: “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung: il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo:
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione:
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio”; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione: vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico:
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI" : NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
LETTERATURA, FILOLOGIA, E POESIA DELLA CAVERNA. Ognuno riconosce i suoi...
APPUNTI SUL TEMA. Con "Ulisse" - al di là della "dialettica dell’illuminismo" e della "dialettica della liberazione", per una "seconda rivoluzione copernicana" (T. W. Adorno)! Si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE;
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico;
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica;
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 - E DELL ’89.
Federico La Sala
Margaret Atwood
La vincitrice del Booker Prize 2019 insieme a Bernardine Evaristo
di Cristina Gamberi (il Mulino, 21 ottobre 2019)
Può un libro cambiare il mondo? Nonostante le illusioni di molti, la risposta è chiaramente no. Eppure esistono libri a cui è stato riservato il curioso destino di, se non proprio cambiare il mondo, farsi strumento del cambiamento politico. Sono libri che hanno il potere di offrire un vocabolario e degli strumenti teorici, ma soprattutto narrazioni e immagini che aiutano a comprendere una realtà fino a quel momento sommersa o taciuta, adottando prospettive inconsuete e denunciando la condizione di oppressione in cui vivono le persone. In questo senso, sono libri rivoluzionari.
Uno dei testi che ha saputo innescare una radicale critica al presente su scala globale è Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, la scrittrice canadese che è appena stata insignita del più prestigioso premio letterario britannico, il Man Booker Prize, per il romanzo The Testaments. Edito in Italia da Ponte alle Grazie, I testamenti è l’attesissimo sequel della distopia ambientata nella Repubblica di Galaad, di cui non sappiamo se condividerà lo stesso destino del romanzo originale. Di sicuro, però, sappiamo che si tratta già di un successo editoriale che si colloca al culmine della parabola letteraria di un’autrice che all’età di ottant’anni ha alle spalle una carriera di scrittrice molto letta, molto premiata e saldamente insediata nell’establishment letterario mondiale.
Fin dagli esordi, negli anni Sessanta, Atwood si è infatti misurata con una molteplicità di linguaggi ed eterogeneità di generi letterari, iniziando a scrivere poesie e pubblicando successivamente romanzi, storie per bambini, graphic novel, libretti per opera da camera, saggi critici e contribuendo attivamente all’adattamento delle sue opere in serie televisive, film e documentari.
Una solida formazione accademica - iniziata a Toronto con il teorico della letteratura Northrop Frye e proseguita al Radcliffe College di Harvard - ha fatto di lei una scrittrice colta. Il misurarsi con i grandi classici della tradizione occidentale è infatti uno degli aspetti principali della sua opera.
Succede in The Penelopiad (2005) riscrittura dell’Odissea dal punto di vista di Penelope; nel romanzo Hag-Seed ispirato alla Tempesta di Shakespeare (2016); in Morning in the Burned House (1995) in cui Elena e Cressida prendono parola; e nel Racconto dell’ancella (1985) che trae ispirazione da un versetto biblico del della Genesi. Si tratta di una poetica profondamente intrecciata a quella che Adrienne Rich chiamò re-vision, ovvero il necessario confronto che le scrittrici devono compiere con la tradizione letteraria del passato per rileggere e riscrivere l’immaginario profondamente cristalizzato dal punto di vista del genere con l’obiettivo di entrare nei testi con uno sguardo nuovo: lo sguardo di donna.
Sono infatti la centralità della narrazione al femminile e l’indagine dell’autrice intorno alla soggettività delle donne a costituire il secondo aspetto saliente della scrittura di Atwood. Fin dal primo romanzo The Edible Woman (1969), la sua opera si intreccia con i temi, le rivendicazioni e i desideri espressi dalla seconda ondata del movimento femminista nord-americano, di cui è sempre stata reticente a definirsi parte attiva.
La stessa Atwood ha tuttavia riconosciuto come il movimento delle donne abbia contribuito a espandere i territori a disposizione della scrittura, fornendo un’analisi lucida dei meccanismi di potere che operano nelle relazioni fra i generi e permettendo di esplorare aspetti dell’esperienza delle donne che altrimenti sarebbero rimasti nascosti.
Il legame fra le istanze femministe e la narrativa di Atwood è tuttavia da ricercare nell’uso del genere distopico, scelto dall’autrice perché maggiormente libero dai vincoli imposti dal realismo e quale luogo ideale per esplorare (e far esplodere) la costruzione dei ruoli di genere e gli assetti sociali considerati "naturali". Come era successo prima di lei in Katharine Burdekin e Octavia E. Butler, nel Racconto dell’ancella Atwood usa la distopia come spazio letterario privilegiato in cui la riappropriazione della sessualità e dei corpi femminili è mezzo cruciale per ridefinire l’agency e la soggettività delle donne.
Il disturbante racconto dell’ancella Difred, la donna-schiava che vive asservita all’uomo per scopi riproduttivi in un regime teocratico di ispirazione biblica in un futuro non tanto lontano dal nostro, rappresenta infatti una critica radicale al patriarcato e al totalitarismo. Il suo racconto diventa narrazione capace di rivelare l’indissolubile legame fra il culto della virilità, i regimi totalitari, il controllo della sessualità femminile e la violenza sul corpo delle donne.
Il curioso destino di questo libro non è solo che a distanza di trent’anni il suo messaggio è diventato politicamente urgente, ma è anche che ha prodotto effetti di realtà imprevisti. La narrazione distopica di Atwood ha infatti innescato inaspettate pratiche di soggettivazione radicate nei corpi delle donne. Nel 2017, quando viene trasmessa la prima serie televisiva ispirata al romanzo, nel clima politico seguito all’elezione di Donald Trump e in concomitanza con il dilagare del movimento #MeToo e #TimesUp, l’Ancella da finzione si è trasformata in realtà. La sua iconografia, contraddistinta da una lunga tunica rossa e dal capo coperto da una cuffia bianca, è infatti diventata il simbolo di un movimento vero e proprio e da allora è stata usata dalle donne di tutto il mondo per denunciare le forme di controllo sui propri corpi e la propria sessualità.
Il perché il romanzo sia ritornato oggi così attuale può essere spiegato con le continue violazioni dei diritti riproduttivi e con l’aumento delle forme di violenza contro le donne. Ma ciò che ha permesso alla narrazione di travalicare i confini del successo letterario è stato un doppio movimento. Da una parte il cruciale passaggio dal testo romanzesco alla serie televisiva. Dall’altra il processo dal basso che ha portato alla riappropriazione dell’immaginario distopico dell’ancella come forma di soggettivazione politica femminista e che l’ha trasformata in un potente strumento di critica delle forme di subordinazione non solo sessuale, ma anche economica e sociale del presente.
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Celio Secondo Curione...
L’ ELOGIO DEL RAGNO NELLA LETTERATURA RELIGIOSA DEL CINQUECENTO
di Luigi D’Ascia *
Tra il marmo e il legno dorato dei soffitti e le sontuose volte affrescate, che pascono l’occhio dei signori rinascimentali di mitologia e simbolismo, c’è spazio anche per un ospite umile ma necessario, che nasconde infinite virtù dietro un’apparenza insignificante: il ragno. Pur abituati a maestosi animali araldici, i potenti interlocutori laici ed ecclesiastici di Celio Secondo Curione - piccolo nobile della frontiera piemontese che si proietta con il suo brillante talento oratorio sul grande teatro dell’Italia settentrionale eternamente contesa fra le potenze europee - non si sentono infastiditi dalla presenza di quel minuscolo intruso che aspira a diventare il nume tutelare della casa. Partecipano anche loro - non solo Guillaume Pellicier vescovo di Montpellier, ambasciatore francese a Venezia e destinatario dell’Elogio del ragno - gli illustri protettori che a Pavia (dove poté appoggiarsi all’eminente famiglia Sfondrati), a Ferrara e a Venezia assicurarono a Curione quell’impunità di cui aveva vitale bisogno dopo le sue disavventure con l’Inquisizione cisalpina, di quella tensione religiosa, preparata dalla mistica quattrocentesca e in Italia dalla controversa figura di Pico, che invitava a cercare nel piccolo l’infinitamente grande e nell’allegoria l’unico modo appropriato di avvicinarsi al mistero divino.
Sono quindi disposti a tacitare i ‘cani del Signore’, quegli inquisitori domenicani che fanno la guardia ai palazzi dove si nascondono gli eterodossi e che, per arrivare ai soffitti dove il rinnovamento religioso tesse laboriosamente le proprie ragnatele, non esitano a cambiare il loro aspetto di mastini con quello più spregevole di servi armati di scopa, pronti a ripulire gli spazi loro affidati da qualsiasi contaminazione eretica. Il ragno che si cela sotto il soffitto è metafora del non conformista religioso che dissimula la propria presenza ma intanto resta pronto a catturare qualsiasi preda spirituale venga a cadere nella sua sottile ragnatela propagandistica.
Curione insomma nella sua prima opera a stampa, pubblicata a Venezia nel 1540 senza indicazione d’editore e poi ristampata a Basilea nel 1544 con il titolo Araneus sive de providentia Dei, fa del ragno l’emblema di quell’atteggiamento che in anni successivi verrà detto nicodemismo, dal nome dell’evangelico Nicodemo, che per paura dei farisei si recava a visitare Gesù soltanto di notte, e che implicava la diffusione di un messaggio certamente eterodosso in modi ‘coperti’, simbolici e allusivi, evitando di ‘trarre le illazioni’ che avrebbero sconfessato esplicitamente l’autorità ecclesiastica. [...]
Nel caso dell’Elogio del ragnoil messaggio religioso velato dalla ‘dissimu-lazione onesta’ di un linguaggio complesso e allusivo implicava un attacco a fondo alla base filosofica del concetto fondamentale di una mediazione istituzionale fra uomo e Dio, da cui discendevano culto dei santi, purgatorio e altre credenze della religiosità tardo-medioevale. Curione nega infatti l’esistenza di cause seconde, riconducendo ogni effetto fenomenico all’universale causalità divina.
Per arrivare a questa osservazione sviluppa un’argomentazione fortemente originale prendendo le mosse dal problema aperto dell’intelligenza animale, che rappresenta una sfida alla facile contrapposi-zione fra istinto e ragione, e la identifica con una forma oscura e incosciente dell’onnipotenza divina. Dentro il ragno, l’essere minuscolo e disprezzato, c’è Dio. Tale paradosso era già stato anticipato da Erasmo quando nella sua polemica con Lutero sul libero arbitrio aveva menzionato fra i sublimi misteri teologici da non divulgare al popolo la circostanza che da un certo punto di vista le sfere celesti e l’antro dello scarabeo - equivalente funzionale del ragno di Curione - fossero ugualmente partecipi dell’essenza divina.
L’infinità in potenza della materia collosa che il ragno produce da se stesso per tessere i fili della ragnatela presuppone l’infinità in atto dell’essere divino. La sua posizione al centro della ragnatela che si allarga verso l’esterno, aumentando continuamente lo spazio fra un perimetro e quello successivo, allude chiaramente a un universo teocentrico retto dalla provvidenza. Ma ciò che vale per il ragno vale per la natura nel suo complesso: non esistono cause seconde, cioè processi relativamente autonomi dall’intervento divino, e il principio delnatura non facit saltus, con la sua successione ordinata di cause che si accorda così bene con una visione gerarchica della società cristiana, cede alla libertà dello spirito divino che, essendo operoso, si manifesta dove e quando vuole. [...]
In ogni caso Curione dimostra una notevole capacità di attualizzare, nel contesto teologico della Riforma, una tradizione di teologia simbolica che si presentava strettamente intrecciata alla fortuna del genere letterario del detto pitagorico, inaugurata da Leon Battista Alberti e sviluppata da Ficino e da altri. Risulta agevole sintetizzare l’intero componimento di Curione in un ipotetico ma assai verisimile precetto «araneum incolam ne respuito», invito a non rifiutare la presenza del ragno nelle pie e dotte magioni [...] La figura di Pitagora, la cui rappresentazione deve molto al XV libro delle Metamorfosi ovidiane, è centrale nell’Elogio del ragno e non solo per l’evidente influsso di Zwingli, ma anche e soprattutto per la vicinanza di Curione a quelle fonti italiane cui si era abbeverato lo stesso teologo svizzero. [...]
Il pitagorismo ben interpretato è peraltro parte integrante di una theologia poetica che legge nella mitologia la chiave allegorica di una sapienza comune a tutte le religioni rivelate, facendo confluire sincretisticamente ermetismo e cabalismo nel contesto di un cristianesimo ispirato e profetico. Il riferimento ovidiano alla gara di tessitura fra Aracne e Minerva, che si conclude con la disfatta della prima e la sua trasformazione in ragno, diventa dunque parte integrante della ‘lettura’ del fenomeno della realtà naturale. Il concetto greco di hybris viene assimilato in maniera piuttosto prevedibile a quello di peccato originale, ma ciò che realmente interessa allo scaltrito propagandista della Riforma è ‘far passare’ una distinzione di stampo melantoniano fra il valore sociale e civile delle opere buone e la loro inutilità ai fini della salvezza eter-na, accettando in pieno l’idea di una giustizia divina arbitraria perché onni-potente che dal punto di vista umano diventa giustificazione per sola fede. Ribadire questo punto risulta così importante per l’eterodosso piemontese da indurlo ad accettare una certa incoerenza simbolica del protagonista animale dell’operetta: la condizione del ragno cambia completamente di significato e decade da dimostrazione della provvidenza divina a emblema della degenerazione animale dell’essere umano dimentico della propria dignitas originaria.
L’interpretazione biblica del mito di Aracne illustra la tendenza del Curione a conferire speciale rilevanza alla componente ebraica della sua costruzione sincretistica in quanto scaturigine di un linguaggio simbolico poi ripreso dai filosofi e divulgato dai poeti pagani, come illustra fra l’altro la caratteristica designazione di Salomone come «quel celebre Platone degli Ebrei». Del resto l’idea che «tutto è pieno di Cristo», già chiaramente enunciata nell’Elogio del ragno, si tradurrà nella ‘teologia politica’ del De amplitudine beati regni Dei in un’energica riaffermazione della salvezza finale degli Ebrei solo provvisoriamente privati della loro condizione di popolo eletto. Questo motivo ‘filosemita’ risulta decisamente preponderante rispetto al fugace accenno alla conversione finale dei musulmani e degli abitanti delle regioni recentemente scoperte del Nuovo Mondo. Nell’ambiente veneziano del 1540 dove vede la luce l’Elogio del ragno, contrassegnato da una presenza israelita cospicua e socialmente significativa, è lecito supporre un intrecciarsi di tradizioni profetiche ebraiche e cristiane che proiettano la pacificazione religiosa su uno sfondo escatologico. [...]
Nell’ Elogio del ragno si osserva la fermentazione di una dottrina sincretistica e vagamente esoterica non priva di punti di contatto con la speculazione di Bruno, che nella Cena delle ceneri mette in discussione, non diversamente dal Curione, la categoria di «istinto» animale e che pagò un duro scotto in termini processuali per il suo attaccamento alla dottrina della metempsicosi, che l’eretico piemontese aveva ritenuto potesse conciliarsi con i dati della rivelazione cristiana. [...]"
* CFR. CELIO SECONDO CURIONE, ARANEUS SEU DE PROVIDENTIA DEI, Edizione, traduzione e commento a cura di DAMIANO MEVOLI, Avvertenza di ANGELO ROMANO, Prefazione di LUCA D’ASCIA, Postfazione di LOTHAR VOGEL, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, pp. IX-XIX - ripresa parziale).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025) ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Mostre - Dal 04/06/2019 al 29/09/2019
Per celebrare i cinquecento anni dalla nascita di Cosimo I de’ Medici
Nella sala Bianca e nella sala delle Nicchie di Palazzo Pitti l’esposizione che ricostruisce l’antico allestimento della Sala di Saturno voluto da Ferdinando II
Nove maestosi arazzi in lana e seta raccontano, tra la sala Bianca e la sala delle Nicchie di Palazzo Pitti, i momenti salienti del governo del primo Granduca Medici. La mostra Una biografia tessuta. Gli arazzi seicenteschi in onore di Cosimo I mette in luce come la realizzazione tra il 1653 e il 1668 degli arazzi rappresenti un doppio omaggio di Ferdinando II de’ Medici al fondatore del granducato di Toscana.
“Per celebrare il quinto centenario della nascita di Cosimo I de’ Medici - spiega il Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt - una mostra di arazzi è quanto di più adatto: fu lui infatti a fondarne la Manifattura nel 1545. Inoltre, la serie di arazzi ora esposti ci offre un excursus encomiastico sulla figura e sull’opera del sovrano, con una sequenza di episodi che esaltano la centralità del ruolo di Cosimo nella storia della dinastia medicea e del governo della Toscana”.
Gli arazzi, che misurano da cinque metri fino a oltre otto di lunghezza, furono originariamente concepiti per la sala di Saturno in Palazzo Pitti, cuore del potere del sovrano, consacrata alle Udienze Segrete del granduca Ferdinando II, che con questa commissione legittimava e nobilitava il proprio governo, rendendo omaggio al suo predecessore.
Questa preziosa serie narra in successione cronologica la vita pubblica di Cosimo I e le sue gesta più significative: dall’ascesa al potere, al consolidamento del dominio sulla Toscana, alla trasformazione urbanistica e architettonica di Firenze, ai rapporti con il potere pontificio e alla creazione di un ordine cavalleresco. Disegnati da pittori di fama, ed eseguiti nella manifattura creata dal Duca, gli arazzi dovevano essere esposti in un trionfo decorativo tutto barocco, che anticipava i fasti delle più grandi regge europee. Il risultato doveva essere un’apoteosi del potere mediceo, rappresentato da Cosimo, tra le dorature, gli stucchi di Giovan Battista Frisone e gli affreschi di Ciro Ferri raffiguranti Il Principe ideale che si libra tra la Prudenza e il Valore verso la Gloria e l’Eternità.
Alla fine, degli otto arazzi tessuti ne furono appesi soltanto sei, identificati dalle misure. Il settimo e l’ottavo della serie, con episodi dedicati ai rapporti con le monarchie europee, vengono esposti oggi, per completezza, nella sala delle Nicchie. L’allestimento originale, ricreato nelle immagini in catalogo, mostra tutta l’importanza di questa impresa dedicata a Cosimo: un omaggio del nipote Ferdinando II che voleva celebrare l’avo e con lui tutta la stirpe dei Medici, e che oggi ci ricorda la gloriosa stagione della manifattura degli arazzi a Firenze, istituita proprio da Cosimo I.
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Mostra a cura di Lucia Meoni e Alessandra Griffo.
Catalogo edito da Sillabe
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
DANTE, "L’ALTRA ARGO" (VIRGILIO), E "L’ARCADIA COME PARADIGMA POLITICO" ...*
L’insegnamento politico dell’Arcadia
Per una società felice
di Pietro Pascarelli (Doppiozero, 31.03.2019)
Nell’antichità un popolo di un’impervia regione della Grecia ebbe fama di essere venuto al mondo prima degli astri e della luna, e di aver scoperto le fasi di questa, insieme al calcolo del tempo, rendendo possibile la storia.
Allora gli uomini percepivano nel paesaggio, nelle ombre degli anfratti silvani o nei lucori di improvvise radure, l’aura panica e il fluire irresistibile di eros, la presenza di ninfe e dei.
Paesaggio “ad alta densità mitologica secreta da millenni di convivenza umana” su cui il visitatore, Pausania il Periegeta, gettò nel II secolo d.C. uno sguardo “già archeologico” avvicinandosi alla città di Licosura.
In esso invisibili interstizi fra materia e soffio creatore, fra uomini e cose, accoglievano contrasti e opposizioni entro l’unificazione poetica in un senso superiore e inatteso.
Per intuizione e intelligenza suggerite dal cielo i greci e quel popolo misterioso “in possesso dell’amore del pensiero” riconobbero nel canto degli uccelli, un suono di origine naturale “privo di pensiero e di artificio”, il nomos, il quale corrisponde all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, e a un metro che indica “ogni azione giusta”.
Fu riconosciuta così, come principio teoretico generale, la possibilità di un impulso di conoscenza che dal mondo non umano trapassa come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte.
Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di dike - la Giustizia - venne inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
A dirci qual è questo popolo e a illustrare il suo contributo all’umanità, recuperando fonti storiche e letterarie del mondo antico lungo linee di ricerca ispirate al rigore filologico, è il libro di Monica Ferrando Il regno errante, L’Arcadia come paradigma politico, Neri Pozza 2018, che ci riporta al mito dell’Arcadia e dei suoi abitanti, a quanto si sa di una remota proto-civiltà che dal Peloponneso emerse nel mito e nella storia come modello rilevante di realtà politica, fondato sulla federazione di entità non-statali autoctone “disseminate” di pari rango, accomunate tanto dall’“etnia”, un’etnia “composita” come unità nella reciprocità dei diversi, che da un ideale politico, senza che nessuna dominasse le altre.
Fu Virgilio con le sue Bucoliche, ambientate fra i boschi di quella regione mondana e ultramondana insieme, a tramandare nei secoli con la forza della poesia l’Arcadia come simbolo di una realtà politica ideale, a lungo oggetto di un malinteso che la riduceva a idilliaca e imperturbata oasi di serenità pastorale.
Monica Ferrando si è assunta assai opportunamente il compito, con eleganza e risultati innovatori, di dimostrare che Virgilio adombra, oltre la scena poetica di idilliaci amori agresti, un’eminente organizzazione socio-politica e religiosa, portatrice di principi universali.
L’Arcadia, dove i santuari svolgono una funzione anche politica cruciale, è la terra natale di Ermes, osserva Ferrando, “il dio che mai si farà completamente assimilare dalla religione olimpica ... artefice di ogni singolo dei a possibile varietà di rapporto. ... Affidati a questa figura ... sono i rapporti armonici dei suoni tra loro, espressi dalla lira, e i rapporti psicologici tra parola e azione, i rapporti prodotti dalla parola umana e quelli degli dei tra loro”.
L’Arcadia è anche la terra del regale Pan, dio nomade degli spazi aperti, e simbolo di giustizia cosmica.
Alla concezione di Carl Schmitt di un nomos senza canto e di una dimensione solo letteraria dell’Arcadia virgiliana, Ferrando contrappone, sulla scorta di testi opportunamente vagliati, il nomos cantato e l’Arcadia come idea e nucleo politico germinali rispetto all’organizzazione della vita umana associata, secondo norme derivanti da un principio regolatore che è “uno scarto dalla natura”, cioè il nomos. Esso “riconduce a giustizia la sovranità”, e dunque non legittima ma riconverte la forza, e detta una pratica di vita e una politica dissimile e alternativa rispetto a quella della polis-stato pensata e rappresentata da Atene, potente entità accentrata contrapposta alle disperse poleis arcadiche. Queste erano invece una società modellata come non-polis senza capi, che ricorda un po’ le comunità Guayaki del Paraguay, società “indivise” e “non-Stato” studiate nella seconda metà del Novecento dall’antropologo francese Pierre Clastres, ammiratore di quello stesso Étienne de la Boétie, teorizzatore della pulsione alla servitù volontaria come spiegazione della genesi delle dominazioni, che Ferrando cita in epigrafe alla seconda parte del suo libro.
Mi sembra, alla fine, che l’impostazione di Ferrando inviti a rileggere Virgilio assegnando alla poesia il valore di “unico e autentico compendio dell’umano” e di guida ispirata per convivere in un mondo giusto. E riconoscendo nell’Arcadia la qualità di un nucleo simbolico indistruttibile, destinato a irradiare senza fine il suo insegnamento, in quanto essa “è una realtà topologica” ...paragonabile alle “figure geometriche le cui proprietà non dipendono da quantitativi rapporti di misure, ma dal qualitativo continuum formale che esse consentono”.
In questa realtà si afferma un principio politico materno e di pace, veicolato da Diotima, arcade di Mantinea, che mette al centro l’immagine e il corpo femminile “come simbolo naturale elevato ... scongiurando il sopravvento della logica maschile della forza, ovvero della legge di natura”, e un eros non distorto, non teso al denaro, come ad Atene, che da esso sarà avviata alla decadenza. Un eros invece volto alla sua giusta meta, un bene che coincide con l‘idea stessa del bello, un bello senza immagine, “rifugio di tutte le immagini”, al di là dei corpi concreti, che pone quindi in una regione psichica al di là di ogni seduzione.
Questa nuova interpretazione dell’Arcadia, ben fondata e così necessaria e confortante soprattutto oggi, nelle nostre società in cui il discorso pubblico è sempre più frammentato e povero, ruota intorno al recupero dell’origine poetico-musicale del nomos - poiché era nel canto che si tramandavano le leggi antiche - e del suo rapporto col modo di insediamento umano sulla terra e di distribuzione del nutrimento per uomini e animali, dunque della triplice indissolubile significazione del termine nomos come legge, pascolo, musica.
La legge non si impone con prepotenza né si staglia nel rigore astratto e distante, ma è cantata, e si tramanda con la musica, partecipe di un’armonia cosmica che in tutto si riverbera. Un’armonia in cui si riconosce un ritmo, lo stesso che sta al centro della poesia. Pulsazione che è un battere di piedi sulla terra, o di mani, un risuonare della voce, il respiro, un’intermittenza che segna il passo del cosmo, si ritrova nei metri cantati, nei “piedi” della poesia, e corrisponde all’alternarsi delle stagioni, a momenti dello spostamento nomade, a cicli del raccolto e della riproduzione degli animali.
Perché l’opera di Ferrando, di inesauribile ricchezza di spunti, mi pare importante anche al di là del suo contenuto specifico? Perché essa coglie l’importanza di due cose, la poesia e il mito, capaci di guidare l’umanità, oggi con riferimenti e contenuti diversi, ma sulla scia di metodo e di carisma di quell’antica dottrina, in cui il mito e il canto additano la via per una società non autoritaria, fondata sull’amore (non a caso Diotima, che l’amore illustra nel Simposio platonico, proviene dall’“amorevole” città arcade di Mantinea).
La poesia continua a mantenere una visione unitaria di ciò che i più vedono disgiunto e frammentato: gli uomini separati gli uni dagli altri e dalla natura; l’intelletto disgiunto dalle passioni, il sacro dal profano, l’oblio dalla memoria. Ma è sul tempo che la poesia si dimostra irrinunciabile. Essa dona il futuro quando nell’elaborazione del dolore, che pure ad essa soltanto riesce, sembra incombere assoluto il presente. “Fuori dalla poesia”, suggerisce Ferrando, “il tempo avrebbe totalmente smarrito la sua struttura musicale, cioè la sua forma ritmica, per richiudersi e scadere a quantità numerica senza limite e senza fine. Si sarebbe separato dalla realtà della parola, come scaturigine dei nomi delle cose entro l’accordo fondamentale con physis, che riconosce ad ogni cosa il suo nomos”.
Nella deriva attuale di imbarbarimento, che fa dubitare non di rado che vi possa essere grande udienza per istanze così elevate, anche se preziose adesso più che mai, la nostra società sembra recuperare la natura solo come bene supremo da proteggere (ne va della vita sulla terra) o anche come patrimonio di bellezza, come valore estetico e spirituale. Come qualcosa però di cui fruire, come un bene necessario, più forse che come valore in sé. Come oggetto di scienza, non di contemplazione, e non come sorgente di conoscenza.
Il poeta vede il perdurante rapporto fra uomo e società, natura e mito, senza farsi fuorviare dagli inganni della modernità alienata. Vede senza fumo negli occhi il genuino mito originario come il luogo dove uomo e pensiero tornano per rigenerarsi, e ritrovare e ridire sempre il senso della natura e del sacro, come della propria presenza in essa e fra le cose.
Leonardo Sinisgalli, ispirato dalla sua Arcadia, la Lucania, scrive una poesia, Vidi le Muse, nella raccolta omonima uscita da Mondadori nel 1943:
Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.
C’è una connessione fra mito genuino, non piegato ai fini del potere, poesia e il farsi della realtà e della nostra vita individuale e collettiva in essa, che la poesia strappa all’estraneità raggelante del reale, all’assenza d’etica, al trionfo inumano e violento delle passioni allo stato originario, non rielaborate da nomos e dike e da un più ampio sistema simbolico di saggezza nella regolazione della vita interiore e pubblica.
E la poesia, che crea e riplasma la realtà agli occhi di tutti, quello slancio dello spirito che con esattezza scopre nel canto degli uccelli la misura, il nomos, che orienta nell’universo delle possibilità e detta in musica celeste principi di comportamento, la poesia, dico, non appartiene solo al verso, è inerente invece a ogni forma d’arte. Particolare importanza ad esempio assume la pittura, in cui, ci avverte Ferrando, trova espressione il favoloso, il mitico, respinto dalla storia.
Citerò ancora solo un poeta, William Carlos Williams, figura di spicco della poesia americana del Novecento.
Paterson, il suo capolavoro, è un grande poema in cinque parti composte in decenni, che in italiano comparve nel 1972 per le edizioni Accademia senza essere mai più ristampato, col sottotitolo Un uomo come una città. L’opera è l’epopea di una città (Paterson) e di un giovane Paese (l’America) che non ha un’antica storia mitica alle spalle e perciò ne reclama e ne inventa una, con un simbolismo che la avvicina a The bridge del grande Hart Crane, inno al ponte di Brooklyn metonimico di una New York avveniristica, e all’immensità dell’America.
Paterson parte da un’identificazione del poeta, dell’uomo, con la città, come sua proiezione nel mito e nella storia, come sogno dell’artista che incarna la realizzazione degli ideali suoi e di generazioni di uomini e donne sperduti in un continente sterminato, dove a mano a mano avviene la conoscenza dell’ambiente naturale e in esso dei suoi insediamenti affettivi e civili, e infine di sé.
La città è come il suo “secondo corpo” (come recita l’epigrafe di Saroyan in testa alla terza parte del poema). In essa e attorno ad essa, il ponte, la diga, la biblioteca, la fabbrica, sono altrettanti nuclei di una saga in cui uomo e natura, uomo e donna, forza generativa originaria, e i loro simboli (città, fiume, cascata, colline) si incontrano, amandosi o lottando corpo a corpo, mentre gli uomini si incontrano all’insegna delle emozioni e del diritto, o dei suoi mancati riconoscimenti.
Willams era ugualmente sensibile al fascino delle acque e dei boschi come agli scioperi operai, che seguì con particolare attenzione e coinvolgimento da poeta e pediatra qual era, in posizione di particolare vicinanza ai bisogni e alle sofferenze delle famiglie più povere. Anche Williams, come chi cantò i miti nell’antichità, trovava ispirazione e riscontro nella pittura, che rappresentava quel mondo in divenire nella sua cruda quotidianità e nel suo bisogno di iscriversi in un tempo sacro, da Bruegel, cui dedicò una raccolta (Immagini da Bruegel e altre poesie), ai contemporanei come Georg Luks, Robert Henri e John Sloan, per esempio, che ci indica Alfredo Rizzardi nella sua Introduzione alla traduzione italiana di Paterson.
La città poetica, la Paterson immaginaria di Williams, ha offerto lo spunto del film omonimo di Jim Jarmusch del 2016, che è un grande omaggio alla poesia, all’incrocio fra persona e terreno in cui vive, come rappresentazione trasfigurante del quotidiano e dell’assoluto sulla terra. Non del mondo, come guida per l’uomo, risuona ovviamente anche nelle cosiddette società “tradizionali”. Ad esempio nella narrazione dei prodigiosi eventi delle origini nella notte dei tempi dei Dogon, appartenenti alla civiltà del Verbo vivente e creatore, fatta dal cieco Ogotemmeli, “gran cacciatore di Ogol-basso”, riportata da Marcel Griaule in Dio d’acqua (1966). Ogotemmeli in trentatré giorni dell’anno 1946 narrò al visitatore europeo come in un tempo immemorabile si era costituita la sua civiltà, secondo una scansione di tappe ed eventi che suggerivano il loro senso profondo entro un complesso sistema simbolico. E spiegò come erano comparse quotidiane opere di lavoro e riflessione, dalla filatura alla classificazione delle cose, dall’enumerazione degli antenati e delle discendenze, e dal riconoscimento della natura divina della parola, alla narrazione di ciò che riguarda la “seconda” e la “terza” parola, alla rammemorazione del “sistema del mondo”, alla devozione per la pittura che ospitando acque e stelle aiuta il mondo a perdurare...
Anche il resoconto di Bruce Chatwin, nel libro Le vie dei canti, dicendo del modo di alcune popolazioni aborigene dell’Australia di descrivere col canto aree di territorio da loro abitate, conferma la centralità del canto e della musica nello sviluppo della civiltà. Ad ogni luogo, ad ogni credenza che ad esso è collegata, ad ogni cosa che si trova o si vede lungo una strada di un loro territorio, si associa una particolarità del canto che attraverso il suo ritmo e la sua intonazione, il suo “andamento melodico” al di là delle parole, descrive con frasi musicali e con la loro successione le caratteristiche del luogo, le distanze percorse, i movimenti dei piedi dell’antenato mitico e gli ostacoli che ha superato e quante volte lo ha fatto. La musica fa trovare la via che si cerca.
Metaforicamente, l’indicazione della via va oltre il terreno, mettendo a frutto i doni del contatto creativo ininterrotto fra umano e non umano.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM"): LA "HISTORIA" DI ALESSANDRO MANZONI....*
"I PROMESSI SPOSI. Introduzione":
«L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose.
Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche.
E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti.
Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter.
Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...»
«Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?»
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. [...] **
** Fonte: A. Manzoni, I Promessi Sposi, "Introduzione", classici italiani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
L’ordine dei discorsi
Portare alla luce
di ANTONIO CAPOCASALE *
Quasi non esiste “realismo” senza aggettivi o senza suffissi a precedere o seguire, tanti ne sono gli esempi, le declinazioni, che variano come variano società umane e culture, epoche e latitudini geografiche. Tra i tanti nomi che il realismo ha assunto, ve n’è uno in cui si scoprono legati Caravaggio e Manzoni de I promessi sposi, come emerge dallo studio di Daniela Brogi Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci 2018).
E, a proposito di nomi propri che accomunano: i protagonisti della prima stesura del romanzo di Manzoni si chiamano Fermo e Lucia, e così i genitori di Michelangelo Merisi da Caravaggio, come risulta dal recente recupero dell’atto di battesimo del pittore. Alle nozze dei due, tra i testimoni figurava il marchese Francesco Sforza, la cui famiglia, protetta dagli stessi Borromeo così centrali nella vicenda de I promessi, non era estranea a minacce di annullamenti di matrimoni, vicende romanzesche di doti non rilasciate e fosche storie di figli illeggittimi.
Le assonanze, benché suggestive, tra l’opera di Manzoni e la biografia di Caravaggio e il suo mondo, non dissimile da quello di Renzo e Lucia (pure lombardo e post-tridentino), non bastano da sole a render conto dell’universo del romanzo. Potrebbero, però, come sostiene Daniela Brogi, far da suggestione per interrogare in una nuova prospettiva, uno dei testi fondativi della letteratura italiana, alla cui idea di realismo proprio la pittura del Merisi può fare da termine di confronto e metro di comprensione, tante sono le sostanziali affinità tra i due cosmi, e più profonde. Un romanzo per gli occhi si propone infatti di «Rileggere I promessi sposi [...] in una prospettiva più sensibile ai codici della cultura visuale», indagandone il «“realismo visivo”» (ivi, p. 10).
Si tratta di una lettura nuova del romanzo-cardine dei primi vagiti dell’Italia Stato-Nazione, fatta ai tempi di scenari postnazionali, ma che non suona come rimaneggiamento o forzoso aggiornamento al contemporaneo, né tantomeno come ulteriore musealizzazione di una tradizione. Semmai, vuole ripensarla, nel senso proprio di pensarla di nuovo, interrogarla anche alla luce caravaggesca, e interrogarne il “realismo”, demone che pervade tanta tradizione culturale (pittorica, letteraria, cinematografica) italiana. Ma che realismo è il realismo visivo de I promessi sposi, e perché si può coglierlo da una prospettiva “caravaggesca”, e, in definitiva, di cosa parla? L’operazione di Manzoni, che col romanzo rende protagonista le “genti meccaniche e di piccol affare”, cioè un’umanità altrimenti in ombra, marginale e fuori dalla storia ufficiale, non è in fin dei conti diversa da quella attuata secoli prima dal pittore, dando luce a una simile umanità, fatta di “ultimi” in senso evangelico. Caravaggio-Brogi
È dunque un dare realtà, dare visibilità, a un mondo altrimenti fuori da storia e visibilità, un mondo popolare che interessa tanto Manzoni come Caravaggio, soprattutto di illetterati (contro i quali, infatti, a memoria di lettore, un Don Abbondio o un Azzeccagarbugli innalzano un muro di latinorum per tagliar corto, e tenerli a distanza). Individui di condizione umile, allora, che si servono «delle parole non per pensare ma per guardare la realtà [...] per decifrarla sotto forma di sguardi, di gesti, di “aspetti” e di “apparenze”» (ivi, p. 34). Proprio il romanzo, più di altre forme letterarie, consente di portare alla luce questi mondi “non scritti” e relegati sullo sfondo della storia. Li rende, invece, aggettanti, come la canestra di frutta che nella Cena in Emmaus del Caravaggio sporge fuori dal bordo del tavolo, proiettandovi la propria ombra.
Brogi ricorda per altro che la Canestra di frutta, la più nota natura morta del pittore, era appartenuta proprio al cardinale Federico Borromeo, che nella narrazione manzoniana ha un ruolo cruciale sia in quanto personaggio, sia in quanto il mondo religioso de I promessi sposi è un po’ tutto imbevuto del suo “umanesimo cristiano”, del suo «progetto pedagogico di una cultura popolare fatta di scambi tra racconto, immagine e parola, sotto il segno della fede e della pietà popolare» (ivi, p. 103). Un progetto di cura animarum che, come testimonia la costituzione dell’Accademia Ambrosiana, usa particolare riguardo proprio alla formazione dei pittori, perché con le loro opere veicolino “articoli di fede”, abbandonando scorie manieriste e abbracciando un verbo realista, per cui si crede a un Dio perché lo si vede, fattosi immanente, incarnato tra gli uomini.
È quell’ecosistema di cultura visiva che Brogi ricostruisce e giustamente chiama “costellazione Borromeo”, e che è precisamente lo stesso universo in cui si muovono Renzo, Lucia, e gli altri personaggi, pensando, sentendo e soprattutto vedendo il mondo, gli ambienti e gli oggetti che popolano il romanzo, e che Manzoni rende aggettanti quanto lo è la canestra di frutta del Merisi. Se dunque l’operazione di Caravaggio e più in generale della coeva pittura (lombarda e non solo) mostra una forte affinità con quella del romanzo di Manzoni, è perché la prassi creativa di entrambi si modula secondo un medesimo progetto di realismo cristiano, che molto si alimenta alla costellazione Borromeo.
Realismo (storico) è per Manzoni, allora, anche chiedersi come vedevano i personaggi del 1628, rendendo visibile, nel romanzo, anche il loro vedere, così come nella pittura dell’epoca si rendono visibili (e credibili) la più cupa tavernaccia plebea o il banco di esattore dove un Cristo è sceso tra gli uomini, o addirittura sporgono in primo piano i piedi sporchi di pellegrini (come nella Madonna dei Pellegrini della Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio). Si vede e dunque si crede a una storia, anche nel momento in cui se ne percepiscono con distinto rilievo (aggettanti come nell’arte barocca) gli oggetti che la fanno risuonare per vera (utensili da cucina, scodelle di polenta, ceste di frutta o di panni) di cui è disseminato il testo de I promessi sposi come le illustrazioni che lo punteggiano nell’edizione “Quarantana”, realizzate da Francesco Gonin “sotto supervisione” dello stesso Manzoni.
La descrizione del narratore, pur sapendoli tutt’altro che indispensabili al progresso della vicenda da raccontare, si sofferma su oggetti di uso comune, dettagli spesso (a tutta prima) insignificanti. È un po’ il meccanismo in cui, per Barthes, si sostanzia spesso “l’effetto di reale” (Barthes 1988), colto in quanto è accessorio (il barometro o il pappagallo in Un cuore semplice di Flaubert). Allo stesso modo, il realismo visivo manzoniano non è pura, ingenua mimesis, quanto proprio effetto, ed effetto di una costruzione dove «l’elemento visuale non è solo un codice, ma il principio ispiratore di un orientamento narrativo complessivo» (ivi, p. 77).
Ciò emerge in particolare dall’approfondita analisi che Brogi compie sui capitoli IX e X del romanzo, entrambi incentrati su Gertrude, la monaca di Monza. Che è infatti un personaggio costantemente esposto agli occhi di altri, e la cui volontà è come inesistente se imprigionata nella clausura di altrui sguardi, da quello della famiglia che la decide suora, a quello di Egidio. Nei capitoli in cui si racconta la storia di Gertrude, appare più forte il legame tra l’elemento scritto (già di suo carico di forte tensione visuale) e le illustrazioni di Gonin, in costante dialogo con la scrittura di Manzoni, che del resto pensa e costruisce il proprio lettore (sin da subito: nell’Introduzione) come spettatore. Il lettore è osservatore di un arazzo storico, tramato come romanzo da un narratore filatore come i suoi protagonisti, o il drappo-sipario sollevato nelle Hilanderas di Velázquez o La morte della Vergine di Caravaggio, che invita a farsi spettatori di un tessuto di storia che si vede, e crede. Caravaggio
Riferimenti bibliografici
D. Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Carocci, Roma 2018.
R. Barthes , L’effetto di reale, in Brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988.
A. Manzoni, I promessi sposi, Rizzoli, Milano 2014.
* FATA MORGANA WEB, 20.05.2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
Federico La Sala
Il bisogno della storia delle donne
di Maria G. Di Rienzo (comune-info, 07 Gennaio 2013).
Circa dieci anni fa, tenevo un corso di storia delle donne nella mia città. Lo avevo basato su alcune figure storiche non molto indagate, e poco considerate nonostante la loro importanza, in vari campi dello scibile umano. Nell’incontro dedicato a Ipazia di Alessandra, in cui il mio scopo era parlare di donne e scienza, citai la vicenda di Maria Gaetana Agnesi (foto a lato), l’inventrice o la scopritrice (a seconda di come si veda la matematica) della Curva di Agnesi. Si tratta di una funzione matematica rappresentata graficamente come un «cappello di strega», il che tra parentesi me la rende simpatica anche se sono negata per i numeri.
Una donna fra il pubblico fece un salto sulla sedia e mi interruppe. Era eccitata e commossa. «Io sono un’insegnante di matematica - disse - Ho studiato la “Curva di Agnesi”, ma nessuno mi aveva mai detto che Agnesi era una donna». Perché l’amica fra il pubblico provava un’emozione così forte? Perché aveva dovuto combattere per tutta la vita con gli stereotipi di genere, i quali sostenevano (e sostengono) che le donne non sono portate per le scienze esatte e che quindi lei sarebbe stata un fallimento se si fosse dedicata a ciò per cui provava interesse. E perché nessuno le aveva mai detto che «il matematico italiano Agnesi» era femmina? Perché senza queste omissioni intenzionali nella narrazione storica risulterebbe chiaro che le donne hanno determinato quanto gli uomini il corso degli eventi e le forme dell’umana cultura. Nel bene e nel male, a seconda di che significato si voglia dare a questi due termini.
Abbiamo governato, profetizzato, fondato stati, abbiamo coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i nostri diritti e per i nostri popoli. Siamo state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’eravamo, sempre. Ma le «cronache ufficiali» ne tengono scarso conto. La nostra storia è stata rimpiazzata con un elenco interminabile di uomini in cui fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana. Io ricordo con precisione il mio primo incontro con la storia che si insegna a scuola. All’inizio di tutto sta una figurina sul sussidiario delle elementari: un disegno che avrebbe dovuto rappresentare la preistoria, la vita dei nostri antenati cavernicoli. In primo piano c’è un uomo che lavora una scheggia di selce, in secondo piano un gruppo di uomini insegue un dinosauro con le lance, e sullo sfondo, in lontananza, donne e bambini stanno attorno a una pentola sul fuoco, all’imboccatura della caverna. Osservando le punte delle lance degli improbabili cacciatori si capiva subito che erano punte di selce come quella in primo piano. Il messaggio d’insieme era inequivocabile. Il suo primo tratto era: agli uomini il fuori, l’attività, la lotta, il provvedere sostentamento; alle donne il dentro, la cucina, la cura, i bambini. Il secondo tratto: i primi manufatti umani sono stati pensati solo dai maschi, e principalmente per uccidere. Il terzo tratto: in tutto ciò vi è una gerarchia valoriale, e cioè quel che gli uomini fanno è in primo piano, importante e fondamentale per la civiltà, quel che le donne fanno è meno importante, sta sullo sfondo. Per circa 4.000 anni alle donne si è raccontata questa favola.
Tramite la storia, ma anche tramite la letteratura, la storia dell’arte, e tramite religioni e leggi e usi e costumi. In molte ci crediamo ancora e la perpetuiamo. In molte ci abbiamo creduto, per poi scoprirne i limiti e le menzogne e contestarla. In molte non ci abbiamo mai creduto, e alcune hanno indagato le origini della favola e altre no. Ed è grazie a coloro che si sono prese la briga, e credo anche il gusto, di indagare che noi oggi sappiamo che non è andata come nella rappresentazione grafica che vi ho descritto, e che ad esempio dalla nostra comparsa sul pianeta circa 990.000 anni orsono, per i primi 900.000 anni non abbiamo mangiato carne, e quando ci siamo decisi a farlo le «cacce» non erano ai dinosauri, ma a vermetti, lucertole e animali di piccola taglia. E sempre sulla scala dei 990.000 anni la guerra abbiamo cominciato a farla circa 5.000 anni fa, quindi non c’è modo di considerarla il motore della civiltà e della storia. Se l’umanità è sopravvissuta ai disastri naturali e poi a quelli orchestrati dall’umanità stessa è in virtù della cooperazione e della condivisione, che sono poi i tratti originari delle più antiche civiltà che conosciamo.
Io sono comunque una di quelle donne a cui la favola non suonava giusta, fin da piccola (soprattutto perché produceva un ammontare allucinante di sofferenze). Così mi sono domandata: Eva ha mangiato la mela della conoscenza e poi ha avuto una crisi d’amnesia? È vero che tutto quello che uso, dalla lingua agli attrezzi, è frutto della genialità di una sola parte dell’umanità, mentre l’altra scodellava marmocchi e restava a guardare? Ora, a scanso di equivoci, chiarisco subito che produrre deliziosi marmocchietti e marmocchiette e aver cura di loro, aiutarli a crescere, eccetera, qualora tu lo voglia, ne ricavi piacere e senso, e possa gestire senza intralci la tua fertilità, è semplicemente il continuare la vita umana sulla terra, e direi che è un lavoretto importante.
Comunque, per rispondere alle domande di cui sopra sono diventata una studiosa di storia, e nello specifico di storia delle donne. Che è materia necessariamente interdisciplinare perché le fonti diciamo «standard» sovente non forniscono alcuna informazione sulle vite delle donne e quel poco che si trova è altrettanto sovente venato da pregiudizi, visto attraverso gli occhiali degli stereotipi di genere e in tal modo narrato. La storia delle donne non si può trovare, e non si può raccontare, con il solo ausilio dei libri sugli scaffali, ma necessita che con la stessa accortezza si valutino le storie orali e il folclore, le fiabe e i miti, i diari e le lettere, i reperti archeologici, eccetera. Questo perché cancellazioni e dimenticanze intenzionali, e proibizioni vere e proprie, hanno posto tutta una serie di dati e testimonianze fuori dall’ufficialità. Alle donne europee non fu consentito neppure consultare biblioteche e fonti documentali sino al XVIII secolo e in molte università, europee e non, alcune biblioteche resteranno chiuse all’ingresso delle donne sino al XX secolo (che è l’altro ieri, tanto per dire).
Il mio percorso di ricerca ha seguito, senza volerlo ma fedelmente, quello che è stato il percorso della storia delle donne in senso ampio: il recupero della cultura e della simbologia femminile, l’indagine sui modi e sulle cause dell’oppressione storica delle donne, l’indagine su come l’assortimento di ruoli di genere assunti di volta in volta da uomini e donne, in società e periodi diversi, funzioni come mantenitore dell’ordine sociale o innovatore e trasformatore dello stesso. Più di trent’anni di studi di genere, in tutto il mondo, hanno prodotto una mole immensa di lavoro, di cui però, tristemente, si continua a usufruire molto poco se si eccettuano alcuni ambiti specializzati.
In Italia, poi, rispetto ad altri paesi europei o agli Stati uniti, abbiamo qualche difficoltà particolare nel gestire la faccenda. Un problema sono le esternazioni di alti esponenti del Vaticano, i quali periodicamente (l’ultimo di cui io so è il messo papale Cordes, la data è il 4 febbraio scorso) attaccano il concetto di «genere» come la fonte di ogni male per gli esseri umani di sesso maschile: sapere che i ruoli vengono dalla socializzazione degli individui e non dalla biologia è cosa che secondo il Vaticano ha castrato i maschi (sono le esatte parole del messo), li ha svirilizzati, li induce a lasciare le proprie famiglie, a commettere crimini e addirittura a suicidarsi. Naturalmente la colpa è delle femministe, ed eroicamente lo stato vaticano si oppone a questa tragedia rifiutando ad esempio di firmare la Cedaw, ovvero la Convenzione per porre fine a tutte le discriminazioni contro le donne del 1979, e attaccando, quando può, i paesi che stanno per firmarla (ne mancano un po’ fra le nazioni del mondo, fra cui gli Stati uniti, anche se Obama ha detto che la firmerà). In realtà, queste esternazioni non sarebbero un problema, per gli studi di genere, se a esse non fosse accoppiato un alto grado di sudditanza da parte delle gerarchie politiche italiane. Per cui qualsiasi cosa un cardinale, un vescovo o il papa dicano i politici di tutte le parti si affrettano a dichiararsi d’accordo o ad assicurare che ne verrà tenuto debito conto, e poiché la maggior parte di quel che passa nelle scuole lo decide il ministero della Pubblica istruzione credo che prima di vedere l’educazione al genere come materia della scuola dell’obbligo, o la proliferazione di studi di genere nelle università italiane, dovrà passare ancora del tempo.
Un secondo problema riguarda specificatamente gli studi sulle società matrilineari. C’è una sorta di rigetto, da parte di molte donne magari interessate a periodi storici e studi storici diversi, ed è un rigetto che ha motivazioni molteplici, ma per farla breve il principale è la presenza, o la menzione, di un sacro o di un divino femminile. Tante non ne vogliono sentir parlare perché l’associazione che fanno subito, mentalmente, è quella di un rovesciamento speculare di ciò che conoscono come religione: e poiché ciò che conoscono come religione non è di solito affermativo o positivo per le donne, il loro rifiuto ha una sua logica.
Comunque, non abbiamo tracce di oppressione semplicemente rovesciata di segno in nessuna delle società umane più antiche di cui abbiamo evidenza scientifica, e la presenza di questo divino femminile non si può paragonare in alcun modo alle religioni monoteiste organizzate odierne. Il solo nominare la spiritualità però tende a mettere a disagio alcune persone, soprattutto negli ambiti politici della sinistra, ed è per questo che una partecipante a un circolo di streghe, formatosi nell’ambito di un partito di sinistra, mi ha detto: Facciamo queste cose, ne ricaviamo senso, piacere e conoscenza, indaghiamo la nostra storia passata, ma non ne parleremmo mai con i nostri compagni. Io credo che queste donne sarebbero d’accordo con Bonnie Raitt, quando dice: La religione è per le persone che hanno paura di andare all’inferno, la spiritualità è per chi all’inferno c’è già stato.
Il terzo problema riguarda la legittimazione. E cioè hanno status e valore solo i prodotti che provengono da determinate associazioni, o da particolari persone, o che possono vantare la presentazione o la prefazione di tal madrina o tal padrino. Sarà che in Italia siamo tutti un po’ mafiosi, ma il problema in sostanza è che non si riesce a far senso comune delle cose che gruppi e individui elaborano sulla storia delle donne anche a causa di veti e scomuniche. Alla bambina, o al bambino, che oggi chiedono «Perché non posso far questo e perché devo far quello? Perché va così?», si risponderà ancora, spesso, «Perché è sempre andata così». E se i piccoli seccatori insistono si potrà aggiungere «Queste sono le nostre sacre e originarie e pure tradizioni (laiche o religiose non importa, il confucianesimo è un esempio di patriarcato laico che non ha bisogno di dio per stabilire una gerarchia). Per cui noi facciamo le cose in questo modo e tu ti adegui». Ma c’è un problema.
Chi può davvero dire quando le nostre pure e sacre tradizioni hanno avuto inizio? Vi svelo uno schemino sociologico. Per dare a un uso lo status di «sacra tradizione» ci vogliono grossomodo tre generazioni. La prima è quella dei pionieri, diciamo così, quelli e quelle che stabiliscono: da oggi, nel nostro gruppo la tal cosa la facciamo così. Sono degli innovatori, sostanzialmente: tutti i profeti delle maggiori religioni monoteiste hanno stabilito nuovi costumi atti a sostituire quelli che c’erano già. Se chiedete ai pionieri perché la tal cosa la fanno così, risponderanno: il nostro profeta ci ha detto... è la volontà di dio... i saggi anziani hanno deciso... eccetera, eccetera. Non parleranno di tradizioni, perché sono ancora tutti vivi coloro che potrebbero rispondergli: col fischio che questa è la nostra tradizione, è da giovedì scorso che abbiamo deciso questa cosa. Allora passiamo a chiederlo alla generazione successiva: la quale, ancora, non si azzarderà a parlare di tradizione sacra del nostro popolo, dirà di usi e costumi appresi dai padri e dalle madri. È vero, ammetteranno magari, prima facevamo in altro modo, ma era un modo impuro, eretico, pagano, sbagliato, socialmente dannoso o che ne so: l’uso derogatorio del linguaggio comincia a erodere i fatti, a mischiare interpretazioni, a costruire leggende.
Ma è solo con la terza ondata, diciamo così, che la memoria di ciò che è stato precedentemente, a livello storico, scompare. I nipoti dei pionieri risponderanno alla domanda «perché fate così» con: perché abbiamo sempre fatto così, sono le nostre sacre tradizioni! Marlene Starr, per farvi un esempio, è una discendente degli abitanti originari del Canada, gli indiani canadesi se volete. Se voi oggi esaminate le relazioni tra i sessi nel suo gruppo osserverete uno sbilanciamento a favore degli uomini, la specializzazione dei ruoli, un discreto tasso di violenza di genere. Potreste concludere che sono le loro tradizioni e che volete rispettarle.
Ecco però cosa racconta Marlene: «Nelle società aborigene tradizionali, donne e uomini avevano ruoli di eguaglianza. Questo è stato distrutto dal colonialismo, in special modo dall’Indian Act che ha creato e stabilito le scuole che noi dovevamo frequentare. Ci è stato ossessivamente ripetuto, in queste scuole e altrove, sia tramite insegnamenti diretti, sia tramite la proposta di modelli, che dovevamo accettare come giusta e inevitabile l’inferiorità delle donne. La filosofia de “la forza fa il diritto” ha fatto danni incommensurabili alle nostre comunità, e ci vorranno anni di ri-socializzazione prima che noi si possa riacquistare l’equilibrio che avevamo prima». Generalmente le donne sono state addestrate a non aver relazione con la storia, e a non reclamarla per se stesse.
Il bisogno della storia delle donne
di Maria G. Di Rienzo (comune-info, 07 Gennaio 2013).
La mancanza di una consapevolezza storica ottiene che le donne continuino a fare tutto, invece di cambiare tutto. L’equazione è semplice: se sei senza passato, sei pure senza futuro. Ci sono quattro modi principali in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne. Il primo è la ferma omissione delle donne dalla storia presente, ovvero dalle notizie. Circa il 15 per cento dell’informazione di cronaca riguarda le donne, usualmente come vittime di violenza o come autrici di crimini. Chiunque abbia mai organizzato qualcosa sulle donne e per le donne e delle donne lo sa: se non hai l’aggancio giusto o il seno scoperto sei invisibile. Il secondo modo, complementare, è l’omissione della storia dai giornali e dagli inserti cosiddetti «femminili» (quelle cose che si chiamano «Donna e Mamma», «Donna Moderna» e così via). Si ha, leggendoli, la curiosa sensazione che il tempo non esista. Un cronosisma, come avrebbe detto Kurt Vonnegut. Qui le notizie sono pettegolezzi, chi ha sposato chi, chi ha lasciato chi, eccetera. Il tuo destino come donna è sicuramente nelle tue mani: ci sono diete per te, e cosmetici per te, e test per insegnarti ad acchiappare il principe azzurro. Non hai passato, non hai futuro, è un eterno presente nella casetta di Barbie. Dal che emerge semplicemente il terzo tipo di pressione: ovvero il tema ideologico che se le donne si prendono sul serio perdono la loro femminilità. Questo è un tema ricorrente e sempreverde. Ho perso il conto degli studi psico-socio-tuttologi creati per spiegarci che abbiamo voluto tutto, e quindi abbiamo perso la nostra vera natura, siamo diventate uomini, abbiamo messo in crisi gli uomini e quindi gli uomini scappano da noi e il nostro orologio biologico ticchetta impazzito, solo e triste. «Ormai comandano le donne», di sicuro l’avete sentito o letto da qualche parte. Pensate che qualche tempo prima di Cristo lo diceva pure Catone il censore, e non avrete bisogno che sia io a dirvi che è propaganda. E per chi crede che il termine post-femminismo sia qualcosa di vent’anni fa rendo noto che esso fu coniato già nel 1919, per dare l’avvio a una campagna di denigrazione delle suffragiste. Il quarto modo in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne è l’erosione della memoria.
I libri di testo non riportano la storia delle donne, i media non la conoscono, l’arte la ignora. In grazia di ciò, molte giovani pensano che la discriminazione sessuale sia cosa che non le riguarda direttamente. O che il diritto di voto l’hanno sempre avuto. O che sia sempre stato legale interrompere una gravidanza e divorziare. Ignorano tutte quelle madri, reali e simboliche, che si sono incatenate davanti ai parlamenti, che hanno fatto scioperi della fame, che si sono autodenunciate per aver abortito (anche quando non era vero), che hanno scritto e parlato e proposto e perseverato. E così queste ragazze, quando si trovano di fronte alla lettera di dimissioni in bianco da firmare per essere assunte, o quando al colloquio di lavoro chiedono loro se sono fidanzate o se pensano di far figli sono seccate, ma sono soprattutto scioccate. E pure quelle che non si arrendono, non avendo passato sono costrette ogni volta a ripartire da zero, a reinventare modelli di attivismo e di resistenza, o a fare affidamento su modelli altrui.
Questo è il rischio nel rimanere indifferenti alla nostra propria storia: perdere quel che abbiamo ottenuto, e consegnare un futuro indecente alle bambine di oggi. Forse impareremo, prima o poi, a onorare le nostre eroine, magari mentre sono ancora vive, a pretendere le loro facce sui francobolli, e le loro vicende nella narrazione storica, di modo che le nostre figlie abbiamo qualcosa di meglio da sperare che diventare veline. Spero non vi urti se a questo punto vi recito parte di una poesia. Sono versi del primo poeta della storia umana, della cui esistenza storica siamo scientificamente certi; una persona che visse, scrisse e insegnò 2.000 anni prima di Aristotele. I 153 versi originari furono vergati in caratteri cuneiformi su tavolette di creta e potevano essere letti sia dall’alto in basso che trasversalmente.
Di sicuro a scuola vi hanno parlato dell’alfabeto cuneiforme sumero. Fu creato attorno al 3200 a.C., specificatamente per ragioni contabili (quante pecore, quanti vasi, e via così). Le prime tavolette che contengono liste di nomi datano a circa cento anni dopo. Quando Enheduanna compone le sue poesie (che venivano cantate) la scrittura nel suo paese, l’odierno sud dell’Iraq, ha circa 350 anni e gli ideogrammi sono una novantina. Le precedenti tavolette che abbiamo sono del tutto anonime: Enheduanna è la prima a identificare se stessa nello scritto, ed è la prima a scrivere poesia. Di sicuro a scuola non vi hanno parlato di lei. Il primo poeta della storia umana è una donna. Lo sappiamo dal 1927, ma non sono notizie da dare alla leggera, forse ci stanno ancora pensando su: a che età inserire l’informazione per non sconvolgere le giovani menti? Gli scolaretti potrebbero restare turbati? Le scolarette potrebbero diventare arroganti? Naturalmente nessuno si fa mai gli scrupoli al contrario, e cioè se a sentire ripetere a oltranza «le conquiste dell’uomo», «le scoperte dell’uomo», «le invenzioni dell’uomo», le scolarette pensino di non esistere, o che le donne non sono mai esistite, o che l’essere femmine dev’essere una disgrazia o cattivo karma per le dissolutezze della loro vita precedente.
Scherzi a parte, sono al termine del mio intervento e poiché la forma del cerchio è quella che mi piace di più, tanto che anche il mio corpo tende ad assomigliarle, vorrei chiudere come ho aperto, e cioè con Maria Gaetana Agnesi. Siamo nel 1700, ci sono sette sorelle e un padre che crede nell’istruzione femminile, tant’è che una sorella di Maria Gaetana, Maria Teresa, diventerà anch’ella famosa, come musicista. I maligni dicono che se il padre avesse avuto anche un solo figlio maschio non avrebbe riversato tanta ambizione sulle figlie: comunque, era deciso a «dimostrare» che le donne potevano fare matematica e scelse Maria Gaetana per la sua dimostrazione. Come sappiamo, la ragazza si rivelò più che eccellente in tal campo. Ma quando suo padre morì, Maria Gaetana abbandonò gli studi matematici per fare quello che le piaceva fare, e che sentiva giusto fare, e cioè aiutare gli altri, in particolare le altre donne, a stare meglio. Così si dedicò ad aprire ospedali e asili e in genere a prestare assistenza. Non sappiamo quante vite abbia salvato, e se non fosse per il «cappello da strega» non conosceremmo neppure il suo nome. È l’incursione in un campo considerato «maschile» a lasciare una tenue traccia di lei, nulla di quel che compì dopo.
Perché se la storia è solo storia di guerre, di conquiste economiche o territoriali, di imperi e contro-imperi, di grandi navigatori e nuove frontiere, di mirabolanti congegni sempre più perfetti nell’uccidere (dalla punta di selce all’uranio impoverito o al fosforo bianco), se la storia è storia di mortali e di una valle di lacrime, allora in questa storia non c’è posto per le viventi e i viventi, per chi la vita la dà, la nutre, la gode. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne. (fonte: Womenews.net)
La donna che piange il Messico ferito
di Pietro Barbetta, Gabriella Scaduto *
“Le lacrime sono l’acqua dell’anima, quell’acqua che purifica, che dà un senso alla storia vissuta”, narrava un’antica storia. Dalle storie orali nasce la storia di Chokani, la Llorona - la donna che piange. Chokani è il suo nome in náhuatl, la seconda lingua del Messico. Chokani un tempo era Nahui. Secondo una storia che si tramanda, a Xochimilco, presso Città del Messico, Nahui era una principessa, sorella di Teotécpatl, signore di Xochimilco. Quando, nel 1571, gli spagnoli devastarono Xochimilco, il capitano Jeronimo Quijano violentò Nahui, la principessa che aveva detto al fratello di accogliere gli stranieri con la consueta ospitalità xochimilca. Poi Nahui vide il massacro della sua gente da parte dei soldati spagnoli e uccise il neonato avuto da Quijano.
Così recita il racconto:
Forse la solitudine, l’ira o la tristezza furono i detonatori che la portarono a offrire il proprio figlio, appena nato, ai signori dell’infra-mondo, come scambio per non dimenticare, per rimanere sempre qui a prendersi cura di loro, come Chuacóatl, madre tutelare del popolo xochimilca. Nahui si gettò alle spalle la sua essenza mortale per convertirsi in una Chokani, la Llorona come la conosciamo oggi, un sospiro nel vento, o chissà un sussurro che ci ricorda eternamente che in questa terra non ci fu, né ci sarà mai perdono, e tanto meno oblio!
In questo racconto, la Llorona è una divinità; nasce dalla devastazione spagnola, dall’incontro tra il popolo nahuatl - i figli dei maya, degli aztechi e di tutti gli altri popoli delle Americhe - e il colonialismo spagnolo. È una principessa che si trasforma, protegge il suo popolo e uccide il frutto di una violenza subita per non dimenticare il massacro della sua gente. Questa la storia per cui la canzone recita: “Mi impedirono di vederti, Llorona, ma di dimenticare mai”.
La tradizione orale riporta che in alcune aree del territorio messicano, era necessario imporre il coprifuoco, per evitare che una persona, nell’udire i lamenti della Llorona, venisse rapita dalle grida strazianti e si gettasse nelle correnti fredde del fiume o patisse affezioni mentali irreversibili, impazzendo nel sentire, attraverso il contagio, la tristezza immensa di quel lamento per non dimenticare: lavoro dell’inconscio coloniale.
La Llorona rappresenta il mito della Madre Terra, La Gran Diosa, che è fonte di vita multiforme ed abbondante però, al tempo stesso, pretende la vita. La Llorona appare sulle sponde del fiume o vicino ai canali d’acqua. Acqua e sangue richiamano alla dimensione della vita e della morte, all’origine e alla distruzione. Una madre terra che grida il suo essere violata e conquistata, la terra messicana che non smette di sanguinare, che uccide ma che allo stesso tempo non smette di piangere i corpi dei propri figli.
Non c’è significato più arcaico e più potente della Llorona, rappresenta il femminile puro: la donna, la madre e la figlia. Ma la sua storia può essere distorta: un femminile violato, che trova il coraggio di risorgere, un femminile tramandato attraverso l’oralità, nelle grida, nei pianti e nei lamenti, diventa un femminile stregonesco nella scrittura dei conquistadores. Il potere colonialista trasforma la Llorona da divinità in strega. Così recita ancora la canzone, in una delle tante versioni: “Uscivi da una chiesa Llorona, e mentre passavi ti ho vista. Vestivi un manto ricamato, tanto bello che la Vergine ti ha creduto”.
In questa seconda versione la Llorona è una Medea Maya o Azteca. Come Medea uccide i figli quando l’uomo, che con lei li ha generati, sposa una nobildonna spagnola. Poi però la Llorona, pentita per il misfatto, ruba figli altrui e ripete il gesto infanticida in un delirio radiale infinito. Qui il racconto sulla Llorona si è trasformato in un gesto sincretico: l’incontro della Llorona con la Vergine, che non la riconosce per via di un manto bellissimo che indossa. La Llorona, assume caratteri di una strega e madre infanticida. Il mondo coloniale crea le proprie streghe meticce.
In certe circostanze, per il colonialismo diventa necessario attribuire a un mito femminile la crudeltà. Ciò che guida questa storia distorta, maschile e coloniale, è il terrore nei confronti di una tenerezza che diventa il suo opposto. Si è inventata una Llorona vendicativa per poter squalificare la potenza della tenerezza femminile che, in situazioni devastanti, compie un gesto estremo, per non dimenticare. La Llorona è uno dei fantasmi dell’inconscio collettivo, si trasforma: prima in Messico, in America latina, negli Stati Uniti e poi nel mondo intero.
Il rebozo è uno scialle, un manto, lo stesso manto ricamato che inganna la Vergine in chiesa: “Coprimi con il tuo manto Llorona perché muoio di freddo” (“Tàpame con tu rebozo Llorona porque me muero de frio”). La bellezza del Messico è straordinaria, meravigliose le sue coste, le sue valli, le sue città storiche, le sue chiese tardo gotiche, seicentesche, la piazza arabesca di Guadalajara, i murales di Diego Rivera e di José Clemente Orozco, che cantano la liberazione del Messico, una liberazione sempre in corso, mai compiuta, con i suoi eroi, come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Ma col passare del tempo questa leggenda rivoluzionaria, che si dimena tra Cuba e gli Stati Uniti, si appanna e tornano fuori le vecchie cisti del colonialismo e delle perdite umane e territoriali di questo paese meraviglioso.
Nel 2014 uno di noi arrivò in Messico il giorno dopo la strage di Iguala: 43 giovani, in quei giorni, furono consegnati, dalle forze di polizia locale, ai Guerreros Unidos, un gruppo terrorista criminale che ne fece strage e li seppellì in una fossa comune. Pochi giorni fa l’ANSA, ha dato notizia della morte per violenza in Messico di 8.737 persone nel primo trimestre del 2019. Come nella strage di Iguala, con i giovani interrati in fosse comuni, non si conoscono i nomi di molte persone massacrate. I media non raccontano de los niños trabajadores, (i bambini lavoratori), a cui vengono negati i diritti fondamentali; non raccontano la criminalità che usa l’infanzia e l’adolescenza per il mercato sessuale, dove i bambini diventano oggetto di piacere selvaggio e stupro; non raccontano dell’assassinio di bambine e bambini, per espiantarne gli organi e venderli. Organi mal conservati, che si portano via anche chi li ha comprati per trapiantarli.
Amnesty International riporta che la maggior parte delle donne, quasi il 7% della popolazione, che abita le carceri federali messicane, è detenuta per reati connessi alla droga, dove le confessioni vengono estorte ancora oggi con la tortura e lo stupro è quotidianità.
Questo si aggiunge alla violenza subita dalla terra messicana, più e più volte invasa, torturata e violentata da vari conquistadores. Ci siamo chiesti se la Llorona dei racconti coloniali non sia anche un’allegoria, di segno opposto, nei vicini territori statunitensi. Durante la guerra tra Messico e Stati Uniti del 1846-48 vaste aree del Messico furono annesse agli Stati Uniti. Molte persone in Messico usano ancora l’espressione “rubati” per riferirsi a quei territori: il Texas, la California, il Nuovo Messico, dove - secondo il New York Times del 23 Aprile - altri squadristi, della stessa stoffa dei Guerreros Unidos, stavolta statunitensi, chiamati United Constitutional Patriots, sequestrano famiglie migranti sul confine e li detengono illegalmente. Pretendono di essere padroni di un territorio che hanno sottratto centocinquant’anni fa a chi ora cerca di entrarci per lavorare.
Dopo l’invasione spagnola dei secoli della conquista, il Messico ha subito una seconda devastazione coloniale, in nome di Dio, come la prima, ma di un dio che, stavolta, sceglie gli Stati Uniti come terra promessa. Le conquiste statunitensi vennero giustificate dalla dottrina del Destino Manifesto, proposta da John Louis O’Sullivan (1813-1895), giornalista, militante del Partito Democratico e dipinta da John Gast (1842-1896) nel 1872.
Dottrina espansionista, altrettanto crudele rispetto a quella spagnola di trecento anni prima, presentata in un’immagine di donna casta e puritana, almeno quanto la Llorona cattolica è stata descritta come strega immonda e mortifera. La doppia proiezione dell’allegoria femminile del Progresso Americano e della Llorona, la disfatta messicana e il trionfo statunitense, mostrano il contrasto proiettivo del Mondo Nuovo. Le due parti femminili - quella immacolata e progressista puritana e quella immonda e stregonesca cattolica - sono una cosa sola. Ciò che la donna dell’allegoria di Progresso Americano aggiunge, i nuovi territori, la Llorona lo sottrae. Il Progresso Americano non è altro che una Llorona Messicana invertita. Ma la lingua non mente. I nomi, benché storpiati dall’inglese, sono testimoni di questa nemesi. La Jolla, per esempio: in spagnolo suona la choia, ma i gringos, che ignorano l’esistenza di altre lingue fuori dall’inglese, dicono la giolla.
C’è qualcosa che passa attraverso i muri di confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Un urlo antico e attuale, con la voce delle vittime sequestrate dai gruppi criminali tollerati e protetti dai reciproci governi, le voci dei morti, dal profondo delle fosse comuni, dalla frontiera dove i bambini vengono separati dal petto della madre e dalla famiglia. Urla la Llorona un dolore fatto di sangue, di terra, di lacrime e acqua, urla per i figli del Messico uccisi, per i bambini sequestrati, affinché il loro ricordo viva e non cada in un freddo limbo.
In un certo senso, in tutte le storie, le più antiche e le più attuali, il significato della Llorona non cambia, si configura come il modo, storicamente e collettivamente condiviso, di raccontare le disgrazie di un mondo di disperazione. La storia del Messico dev’essere ricordata in tutte le sue parti. La Llorona, strega del colonialismo ispanico, e la donna pura, che designa il “destino manifesto” della conquista statunitense, sono le versioni oscene di una divinità femminile, una principessa Nahui, che diventa Chokani per non dimenticare i massacri delle conquiste territoriali e morali delle Americhe, quella ispanica e quella statunitense.
* Doppiozero, 08.05.2019 (ripresa parziale - senza immagini)
Filosofi: scomodi e amanti del sapere
Un’attività che nasce dallo stupore, una passione inquieta per la quale nulla è scontato
di DONATELLA DI CESARE *
Che valore ha oggi la filosofia? A quale compito saranno chiamati le filosofe e i filosofi nell’età del tecnocapitalismo e della governance neoliberale? La Regina delle scienze, rimasta sola, dopo il distacco definitivo delle scienze naturali, appare caduta in un grave discredito. E se la senatrice Liliana Segre richiama i politici allo studio della storia, è altrettanto giusto richiamarli allo studio della filosofia.
Il ritmo accelerato sembra bandire ogni riflessione considerata un gioco improduttivo, una fuga irresponsabile in sogni evanescenti. Così il vecchio pregiudizio contro la filosofia si è andato rafforzando. Urgono risposte rapide, soluzioni definitive agli innumerevoli problemi di un’epoca tanto complessa. A che pro la filosofia? A che cosa serve? Che cos’è?
Rispondere implica già accogliere una sfida subdola, accettando i presupposti impliciti nella domanda: cioè che la filosofia sia un mezzo utile a un fine. Eppure la sua inattualità, che la rende così attuale, sta proprio nel sottrarsi all’economia del profitto. In tal senso non servirà forse a nulla. Si potrebbe allora cancellarla con un colpo di spugna - il che poi vorrebbe dire rimuovere il cuore stesso della tradizione occidentale. Tuttavia la filosofia non è solo un patrimonio di testi. È molto di più. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.
Sin dai suoi esordi, nell’antica Grecia, la filosofia è stata chiamata a dimostrare il proprio diritto a esistere. Sennonché anche chi la contesta, chi ne mette in dubbio la legittimità, è già immerso nel movimento del pensiero, già filosofa. Ecco perché il ritornello sulla fine della filosofia è banale e vacuo. Certo nessuno immagina che possano ancora edificarsi quei sistemi che miravano a collegare tutto il sapere in un’immagine unitaria. L’impero hegeliano dello Spirito assoluto si è dissolto. Ma ciò non ha decretato la fine della riflessione. La filosofia non va e non viene, non finisce. Immanuel Kant parla di «attitudine naturale» dell’essere umano. Seppur inconsapevolmente, tutti filosofano. E già i bambini si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è - i filosofi la riconoscono.
Si potrebbe dire con Heidegger che «filosofia è filosofare». Se solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri al pensiero, la filosofia, lungi dall’essere privilegio di pochi, tocca al fondo l’esistenza di ciascuno. Studiare i classici vuol dire anzitutto imparare a interrogarsi. Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda radicale, quella che va alle radici, che non chiede per sapere, ma che, anzi, mette in questione ogni sapere. Non vengono fornite soluzioni definitive. La filosofia non avrebbe altrimenti una storia dove, in forma sempre diversa, si ripropongono le questioni che la assillano: sulla verità, sul bene, sulla libertà. I problemi fondamentali della filosofia sono piuttosto aporie per cui non si danno soluzioni - né ottimali, né univoche, né definitive. Le risposte sono molteplici, le indicazioni differenti. Ecco perché i filosofi tornano ai testi di più di 2.000 anni fa - quelli di Eraclito, di Platone, di Aristotele - e li leggono come se fossero stati scritti ieri.
Sta qui una differenza decisiva rispetto alla scienza. Circoscritte a un ambito del sapere, le scienze non danno conto dei loro presupposti. Kant esorta a non confondere la filosofia con la matematica che, pure, è una costruzione concettuale. Ma già solo interrogandosi sullo statuto della matematica, la filosofia ne valica i limiti, va oltre l’ovvietà dei principi. Così ciò che per la scienza è fuori questione viene innalzato alla dignità della domanda filosofica.
Non c’è fenomeno che sfugga. Neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». Formulata da Leibniz, questa è la domanda esemplare della filosofia, che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l’aura di solenne gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all’interrogare. Persino l’interrogante, il filosofo stesso, che viene così deposto dal suo pulpito.
D’altronde l’inizio aporetico della filosofia è il non-sapere di Socrate, che ha inaugurato la ricerca introspettiva, il «conosci te stesso». Stupore, ma anche struggimento e smania per l’irraggiungibile sophía.
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Ed eccolo quel cittadino, così strambo e fuori-luogo, uno straniero in patria. Chi lo vede da lontano scappa; altri ostentano disprezzo, lo deridono. Socrate mette in dubbio le idee più correnti, non riconosce nessuna autorità, si fa beffe persino del démos sovrano. Soprattutto mostra ai propri concittadini che non sanno quel che pretendono di sapere. Che democrazia potrebbe mai essere la loro? Il risentimento è tale che si traduce nella condanna a morte di quel singolare cittadino che aveva osato, con il dialogo, fare dello stupore una pratica pubblica insinuando il dissenso già nell’anima altrui, prima ancora che nella comunità.
Da allora si è aperto un abisso tra la filosofia e la politica e la tensione non è mai venuta meno. In esilio nella città, quasi stranieri residenti, i filosofi hanno resistito per secoli e millenni, testimoni critici di una pólis altra e migliore. Così questi sublimi migranti del pensiero hanno saputo convertire la perdita irreparabile in una conquista a venire.
* Corriere della Sera, 28 aprile 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
AGONISMO TRAGICO: LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Il filo che unisce scienza e filosofia
È ormai superata l’idea che esistano «due culture» rigidamente separate
di STEFANO GATTEI *
Fin dai primi secoli della Grecia classica, all’alba di quello che è stato definito il «miracolo greco», si comincia a distinguere la scienza (episteme) dall’opinione (doxa). Il primo termine designa un tipo di conoscenza fondata, consolidata nel tempo, e per questo certa; il secondo un tipo di conoscenza privo di ogni certezza, dunque inaffidabile. In un mondo in continua trasformazione, conoscere significa cogliere ciò che non muta nel flusso caotico degli eventi. La filosofia, come ebbe a dire Karl Popper nel 1965, in apertura di uno dei convegni chiave per la filosofia della scienza del Novecento, nasce come ricerca di invarianti.
Alle origini del pensiero occidentale, il problema della conoscenza - che cosa sappiamo davvero, e in che modo arriviamo a sapere ciò che sappiamo? - consiste nell’individuare la via (nelle parole della dea a Parmenide) per giungere alla scienza senza farsi fuorviare, o ingannare, dalle semplici opinioni. Le sole discipline in cui viene raggiunto a giudizio unanime questo scopo sono la matematica e la logica formale. La fisica, intesa come studio dei fenomeni inorganici, e la biologia, intesa come studio del mondo organico, non sono considerate scienze ancora per molti secoli: fino ai contributi, nel Seicento, di Galileo Galilei, da una parte, e di William Harvey, lo scopritore della circolazione del sangue, dall’altra.
A caratterizzare la fisica galileiana, e per certi versi anche le ricerche di Harvey, è il cosiddetto «metodo sperimentale», basato sull’integrazione tra il rigore dell’analisi matematica e l’osservazione scrupolosa della natura. Per oltre tre secoli, la riflessione filosofica sulla scienza si riduce così, da un lato, all’analisi dei fondamenti e dei metodi della matematica, e dall’altro allo studio del metodo sperimentale. I filosofi si chiedono però anche che cosa ci permette di conseguire verità scientifiche, cioè «universali e necessarie», e alla fine del Settecento Immanuel Kant, svegliato dal «sonno dogmatico» dalla sfida scettica di David Hume, ritiene di poter rispondere sostenendo l’esistenza di forme a priori dell’intuizione e dell’intelletto. Nel frattempo si vanno consolidando altre scienze, e il problema centrale della filosofia della scienza si sposta dalla ricerca delle condizioni che rendono possibile il conseguimento delle verità scientifiche alla ricerca dei rapporti fra le varie scienze. Nei vivaci dibattiti sulla classificazione delle scienze che, sulla scorta della proposta di Auguste Comte, attraversano tutto il XIX secolo, si dà ancora per acquisita l’immagine tradizionale della scienza come conoscenza di verità assolute.
Le cose iniziano a cambiare quando (con la scoperta delle geometrie non euclidee) viene evidenziato il carattere convenzionale degli assunti matematici e, successivamente, dei principi delle teorie accettate come scientifiche fino a quel momento. Alla crisi dell’immagine tradizionale della scienza contribuiscono poi anche i profondi rivolgimenti che, all’inizio del Novecento, sconvolgono le basi stesse della matematica e della fisica: la crisi dei fondamenti, la teoria della relatività di Albert Einstein e la nascita della fisica dei quanti.
Nel XX secolo, per la prima volta, la scienza si trova nella necessità di giustificare non soltanto le sue scelte metodologiche o d’indagine, ma anche la sua stessa esistenza, che da un lato richiede sempre maggiori risorse finanziarie, e dall’altro è costretta a operare accanto a (e spesso in conflitto con) difficili decisioni politiche, o complesse questioni etiche. Se nel 1912 Bertrand Russell dichiara il problema della giustificazione della nostra conoscenza come uno dei più difficili in assoluto, alcuni decenni più tardi egli stesso riconosce il definitivo abbandono dell’ideale giustificazionista a favore di quello fallibilista. Poco prima, nel 1934, la Logica della scoperta scientifica di Karl Popper attesta il collasso del programma fondazionista del Tractatus di Ludwig Wittgenstein e mette a nudo l’illusione giustificazionista del positivismo logico, riconoscendo che «non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca, persistente e inquieta, della verità».
Tre secoli dopo Bacone e Cartesio, al Metodo come sinonimo di certezza si sostituisce il «metodo» come (sola) critica: la conoscenza non cresce per accumulazione di verità indiscutibili, ma si evolve per rivoluzioni continue.
Condannate ad aspirare all’episteme e a vivere nella doxa, scienza e filosofia debbono arrendersi a una conoscenza per sua natura congetturale. L’incertezza è tuttavia la condizione della possibilità del cambiamento concettuale, così come l’instabilità è la condizione della vita.
Lungi dall’essere i cardini di «due culture» separate, scienza e filosofia si trovano unite dal comune atteggiamento. Né l’una può esistere senza l’altra: nelle parole di Ludovico Geymonat, padre della filosofia della scienza in Italia, «non si tratterà di stabilire un’alleanza più o meno duratura tra filosofia e scienza, ma di cercare la filosofia nelle pieghe stesse della scienza».
* Corrriere della Sera, 28 aprile 2019 (ripresa parziale)
Socrate, l’essere umano al centro
Mandò in crisi i pregiudizi dell’Ateniese medio. Un esempio contro il dogmatismo
di LUCIANO CANFORA *
A Cicerone dobbiamo la più pertinente definizione del durevole significato del filosofare socratico: Socrate - scrisse Cicerone delle Tusculanae - fu il primo a riportare la filosofia dal cielo sulla terra. Indicava, cosí, il cambio di rotta impresso all’indagine filosofica da Socrate e da chi ne proseguí l’opera: dalle speculazioni (anche folgoranti e precorritrici) sulla realtà fisica alla centralità dell’essere umano, alla sua morale e alla sua individuale coscienza (dove «morale» indica ogni aspetto: dall’etica, alla politica, alla religiosità). E, in altra sua opera (il De oratore), Cicerone definí Socrate «fonte e principio», della filosofia. A ben riflettere, l’unicità di quell’uomo singolare consiste in qualcosa che è capitato soltanto ai grandi fondatori di religioni: di aver conquistato una centralità definitiva e plurimillenaria (tutto il successivo filosofare parte da lui) senza aver mai voluto scrivere un rigo. Praticò soltanto lo scavo dialettico, il dubbio, l’interrogazione mai accomodante, ma non manifestò alcuna volontà di proclamare, e tanto meno imporre, certezze. Se il dogmatismo è, come infatti è un nefasto malanno mentale (e di conseguenza pratico), il «metodo» Socrate è ancora oggi il rimedio e l’antidoto.
Si è per un tempo lunghissimo discusso su chi lui veramente fosse. Domanda apparentemente insensata visto che abbiamo su di lui testimonianze innumerevoli: di contemporanei, di amici e allievi, di denigratori, di discendenti intellettuali. Ma è proprio questa colossale «enciclopedia socratica» che si frappone tra noi e lui che ci costringe a cercare di discernere un residuo di «verità» tra tante riscritture della sua persona e del suo pensiero.
L’Apologia che Platone gli fa pronunciare davanti ai 600 giudici popolari che lo condannarono a morte (399 a.C.) quando aveva da poco compiuto i settant’anni è, con la commedia di Aristofane intitolata Nuvole (423 a.C.), la testimonianza più vicina al personaggio. Allo stesso titolo possiamo considerare squarci biografici autentici le pagine del Fedone in cui Platone dà conto di come Socrate seppe morire filosofando ed il Critone, che documenta il rifiuto, da parte di Socrate, di evadere dal carcere nei giorni precedenti l’esecuzione.
Socrate metteva in discussione le certezze dell’«Ateniese medio» (democratico, bigotto, intollerante). Faceva, cioè, politica e, in dialogo costante soprattutto con giovani appartenenti ad ambienti che si collocavano agli antipodi dell’«Ateniese medio», plasmava un possibile ceto dirigente. In modo grottesco e denigratorio Aristofane, nelle Nuvole, con l’invenzione del ridicolo «pensatoio», intende rappresentare (e denunciare) esattamente questo. Il paradosso è che proprio quella commedia fu un tonfo per il commediografo che amava indossare i panni del vecchio tradizionalista. Ma gli attacchi non scalfivano l’interiore serenità dell’imprevedibile e instancabile conversatore-«tafàno» (cosí Socrate si definisce nell’Apologia). Racconta un biografo che una volta un interlocutore - furioso per la paradossalità esasperante, ai suoi occhi, di ciò che Socrate diceva - lo prese a pugni e a calci. Socrate non se la prese, e ciò stupì gli amici, cui obiettò: se mi avesse preso a calci un asino l’avrei forse portato in giudizio?
Ma perché, dai calci, ad un certo punto si passò alla condanna a morte? Qualche anno prima gli Ateniesi, riuniti in assemblea con funzione giudicante, avevano mandato a morte sei generali, pur vittoriosi, con l’accusa di non aver recuperato i naufraghi. Socrate quella volta era «pritano», presiedeva l’assemblea, ed era stato il solo ad opporsi alla condanna sommaria e giuridicamente mostruosa. Aveva, già allora, rischiato fisicamente. Poi venne la resa di Atene e il governo oligarchico dei «Trenta» (404/403 a.C.). Il capo di quel governo - Crizia - era stato un suo frequentatore-interlocutore.
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Qui la possibilità di esser più precisi viene meno, anche se molto su questa materia incandescente dicono Platone (che di Crizia era il nipote, e per un po’ il seguace) e Senofonte (che agli ordini di Crizia comandò la cavalleria dei Trenta). Sta di fatto che, anche con il governo di questi suoi frequentatori, Socrate entrò in rotta di collisione rischiando ancora una volta la vita. Eppure non può essere dimenticato che proprio Platone, all’inizio del Timeo, fa dire a Crizia una frase, rivolta a Socrate, che sostanzialmente significa: col nostro governo noi abbiamo cercato di mettere in atto le tue idee!
* Corriere della Sera, 28.04.2019 (ripresa parziale)
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili
di Paolo Fabbri (Alfabeta, 31.03.2019).
La memoria è ospite del tempo. Viene ricevuta come lui crede e lo accoglie a modo suo. Di Marcel Detienne, da poco mancato, ho il ricordo a breve termine di qualche momento felice e di alcuni concetti indelebili.
Tra i primi, i soggiorni di ricerca sulla mitologia al Centro internazionale di semiotica e Linguistica di Urbino; la convivenza dei semiologi di A. J. Greimas e gli ellenisti di J. P. Vernant e P. Vidal Naquet al numero 10 rue m. le Prince, Parigi; un memorabile pranzo nella sua casa nella foresta di Fontainebleau, fino ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!
Ricordo infine la dichiarazione di Roland Barthes nella presentazione di una conferenza all’insegnamento del Collège de France: “un grand homme!”
Un grande ellenista infatti che non studiava i Greci, ma voleva pensare con loro. Non condivideva il tacito assunto dell’umanesimo occidentale, che fa della Grecia classica la referenza originale di valori senza tempo, misura metaculturale di ogni civiltà. Sulla scorta dello strutturalismo levi-straussiano, voleva distogliere l’occhio fisso dei filologi ellenisti (“tra i filologi c’è chi pensa e che se ne dispensa”) per indirizzarlo in una prospettiva comparativa e iscriverne la tradizione in un progetto antropologico sperimentale e costruttivo. Ad esempio, per spiegare la cosiddetta invenzione della democrazia, comparare l’esperienza italiana dei comuni medioevali e alcune comunità etiopi!
Il “dovere di comparatismo” descritto nel libro mastro Noi e i Greci, Cortina 2007, non è quello della forma originaria di un etimo con successive alterazioni, ma la ricerca della configurazione che prende un concetto una volta inserito in un corpus di culture altre. Un esperimento mentale ed empirico di laboratorio nel tessuto incessantemente ordito del politeismo per riconoscere, nel confronto delle loro filosofie implicite, l’originalità, i saperi taciti o l’impensato della Grecia classica. A questo scopo ha aperto i dossier sulla terra; sulla guerra e la caccia - che permettono l’elaborazione della metis, l’intelligenza scaltra - e soprattutto sulla scrittura, la cui invenzione era delegata a un personaggio minore, Palamede, facile vittima del versatile Ulisse.
Il confronto interculturale e l’approccio etnografico ha suscitato tenaci resistenze in luoghi recintati (“i greci non sono dei selvaggi come gli altri!”), ha permesso però a Detienne di rivedere pratiche inveterate come l’etimologia, i racconti scontati e molti concetti disciplinari “chiavi in mano”. Per lui erano centrali i rapporti tra Mito e Pensiero; Oralità e Scrittura; Filosofia e Saggezza, in rapporto alla Verità; Origine Politica e appunto, Invenzione della Democrazia.
Ne ho mandato a mente - ma preferisco il francese par coeur, - alcuni aspetti, a cui tengo e che mantengo.
In primo luogo la sua Archeologia della Verità che nel rapporto tra religione e filosofia e sofistica traccia una genealogia diversa dal logos ermeneutico e dai filosofemi heideggeriani. (“la verità epica è un oggetto culturale, non un concetto filosofico”). Nella introduzione del 1994 al suo I maestri di verità nella Grecia arcaica, Mondadori 1992, Detienne ricapitola un’epistemografia che va dalla parola sacra ed efficace del poeta, del veggente e del re fino a alla retorica laicizzata e il dibattito argomentato. Dal contarla - e cantarla - giusta al dimostrarla vera.
Quanto al Mito, oltre a Dumézil e Lévi- Strauss, è stata la ricerca insistente di Detienne a darne un’ immagine inedita e una nuova base di studi. Non ne ha cercato il senso all’interno o in allegorie esterne e neppure nell’inesprimibile che la ragione non riesce a formulare. E non lo ha studiato nel solo genere biografico degli dei e degli eroi: ha preferito riscrivere l’opposizione ottocentesca tra apollineo e dionisiaco fi cui ha ridefinito i tratti distintivi. L’energia vulcanica degli umori vitali di Dioniso e i suoi celesti misteri e l’arte troppo umana con cui Apollo dà forma, cioè taglia per fondare ed per escludere; il “Bell’ Omicida”, obliquo e agente epidemico, crea infatti e recide. (Apollo con il coltello in mano. Un approccio sperimentale al politeismo greco, Adelphi 2002)
È il concetto di Autoctonia, antica e moderna, che ha occupato gli ultimi anni dell’antropologo (Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali, Sansoni 2004). Un problema politico che Heidegger aveva evitato attribuendo a “polis” la falsa etimologia di “essere”. Per Detienne non c’era autoctonia in Atene e in Roma, e il concetto è l’esempio d’una “mitideologia” impiegata nella costruzione dei nazionalismi passati e, purtroppo, presenti e futuri. Il suo libro ha come sottotitolo “dal puro ateniese al francese radicato”. Uno studio rigoroso del discorso nazionalista e della sua semiurgia che investe i vaneggiamenti celtici della Lega italiana e l’immaginario sciovinista dell’accademia storica francese, che il belga Detienne trattava da “clero dell’Esagono” e in cui includeva horribile dictu! l’intoccabile F. Braudel. Per fare una nazione, motteggiava, bastano i cimiteri e degli storici inventori di tradizione.
Nella temperie attuale, che dibatte sui diritti d’asilo, e gli ius soli o sanguinis, queste pagine meritano orecchie. A Detienne fruttarono dopo lo spostamento dall’ EPHE alla Johns Hopkins di Baltimora una tenace ripulsa accademica.
La categorie epistemiche, come semplicità, coerenza, rigore ecc. sono anche virtù caratteriali dei ricercatori. Detienne era graffiante come la sua scrittura e la sua grafia. Gli era congeniale prestare l’orecchio alla “musica della dissonanza”. Fare la scelta di “di privilegiare le figure di rottura e di trasformazione radicale”. Radicalizzare strutturalmente le differenze. Non gli garbavano quanti indossavano “le tee-short con la scritta post-strutturalisti”.
Non saprei come dargli torto, io, semiologo, che gli devo la interdefinizione del sema: poros e del tekmor, nelle due accezioni di senso: quella estensiva della morfologia e quella intensiva della direzione. E la divertita scoperta che nella Grecia della geometria e della logica, le dicerie avevamo una loro dea, Femé.
I miei ricordi personali si assumono l’ovvia responsabilità del silenzio e dell’oblio che sono l’ombra inseparabile della memoria. Ci penserà la storia che della memoria è nemica giurata.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
MITO, FILOLOGIA, TESSITURA. UN PREZIOSO SPIRAGLIO SUI TEMPI CHE “BERTA FILAVA” ....
DIALETTI SALENTINI: “ÈRTULA”. PREMESSO E CHIARITO CHE il filologo tedesco [il Rholfs] ha utilizzato il suo [di Nicola Vacca] contributo «in II, p. 208″: vertularu (L ces) m. venditore di roba fatta al telaio [cfr. il calabrese vèrtula bisaccia, dal latino averta idem] v. vèrtula [...] Apprendiamo così che all’epoca in cui il Rholfs raccoglieva sul campo, e di persona, i fiori del nostro dialetto, le tre voci erano in uso solo nel Leccese e più precisamente: vertularu a Santa Cesarea Terme (L ces), vèrtule ad Aradeo e Ruffano (L ar, ru), èrtula a Lecce e Squinzano (L l, sq) con citazione dell’articolo del Vacca (L 19)», SI PUO’ DIRE CHE i motivi addotti sono buoni e si può ritenere, sicuramente, «che la latina averta, da voce comune, abbia assunto una sorta di nobilitazione giuridica e come tale si sia diffusa nel mondo bizantino con la trascrizione “Ἀβέρτα/βέρτα”».
AVERTA/BERTA. SE LE COSE STANNO così, la preziosa indagine del prof. Polito sollecita non solo a riflettere di più e meglio sul significato del modo di dire “ai tempi che Berta filava”, ma anche a pensare alle molte allusioni di Rino Gaetano quando cantava “E Berta filava”, e, al contempo, a ripensare a quali e quanti prodotti - oltre le “vertule” - i “vertulari” vanno a comprare alla bottega di Atena (Minerva), ma non di Aracne (Ovidio, “Metamorfosi” - VI) - non ieri, ma oggi! *
Federico La Sala
* SUL TEMA, CFR. LA LUNA (“LA SCIANA”), IL DESIDERIO (“LU SPILU”), E IL FILO DI ARACNE. Quanti millenari pregiudizi.
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA...
LA LUNA (“LA SCIANA”), IL DESIDERIO (“LU SPILU”), E IL FILO DI ARACNE.
Quanti millenari pregiudizi ... *
CONSIDERATO CHE “SCIANA”, sinonimo di “umore”, «è in uso in locuzioni del tipo “osce sto ti sciana” (oggi “sto di umore giusto”, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (“sto ti bona sciana”) o negativo (“sto ti malesciana”). Il derivato “scianaru” (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile “scianara”) come sinonimo di “volubile” [...]» (cfr. Armando Polito, “Dialetti salentini: sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 10.03.2019); E CHE “SCIANA” è «deformazione dell’italiano “Diana”, dea della luna e della prima luce del mattino oltre che della caccia, dal latino “Diàna(m)”, da dius=divino, connesso con dies=giorno e con Iùppiter=Giove [da Iovis=Giove (a sua volta dal greco Zeus/Diòs)+pater=padre]» (cfr. Armando Polito, “Lu spilu e la sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 16.12.2011).
E’ BENE RICORDARE CHE «Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona ...» (op. cit.).
MILLENARI PREGIUDIZI. Per non scivolare nel “terreno viscido” e perdersi nell’aria nebulosa di ingegnosi labirinti e, al contempo, riuscire a districarsi tra millenarie “incrostazioni irrazionali” , forse, è opportuno tenere ben aperti gli occhi dinanzi ai bagliori emessi “dalla rete dell’oro” del SOLE dell’OLIMPO (“Dalla rete dell’oro pendono - così epigrammaticamente Salvatore Quasimodo - ragni ripugnanti”). e riguardare con attenzione gli ARAZZI tessuti da Atena, da Aracne, e da Filomela (cfr. Ovidio, “Metamorfosi”: La tela di Aracne apre il libro sesto, la storia di Filomela lo chiude ... Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare).
FORSE solo così si potrà uscire dal labirinto, senza perdere il filo, senza abbandonare Arianna, e tornare ad Atene con le vele bianche - non nere!
*
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Due note ...
A)
L’opera s’inquadra in una antropologia filosofica, che ritiene urgente riproporre la domanda capitale “che cos’è l’uomo?”, a partire da un complesso di filologiche e dotte Note sul "poema " di un ignoto Parmenide carmelitano ritrovato a Contursi Terme, Salerno, nel 1989. Siamo nei luoghi dove la metafisica è nata, con la sua primazia dell’Essere e dell’Uno, nei luoghi degli enigmi parmenidei e della loro sapienza unilaterale; e qui in particolare nella cappella dedicata alle dodici Sibille, che il frate carmelitano del primo Seicento accosta, nel suo poema pittorico, all’alleanza di Dio Padre con la Figlia, Maria mediatrice di nuovo pensiero profetico per l’uomo nuovo, ma ribadendo, nell’assetto figurale, una volta di più l’esclusione della Donna dalla creazione, dal sacro e dal Pensiero che è solo Padre, e onnipotente Maschio-Padrone.
Da questo viluppo di grecità e cristianesimo l’autore riesamina globalmente nel suo excursus filosofico, che solca anche l’eclettismo ermetico- cabalistico-neoplatonico rinascimentale, le radici del pensiero moderno ritrovando fin nell’uomo del presente quella mutilazione della comunione complessa e assolutamente originaria Uomo-Donna. Padre-Madre, che ha mutilato il pensiero e l’esperienza dell’uomo stesso, che storicamente non ha potuto costruirsi e gioire di ciò che veramente è : un Terzo cui ha dato nascita un Due, un Padre e una Madre e un Figlio, generatore a sua volta in armonia circolare di nuova storia debitrice pariteticamente sia alla Madre che al Padre.
Occorre, di conseguenza, nel pensare, oltre che in ogni esperienza vitale, compiere un salto : quel salto che, accantonando grecità esclusiva e cattolicità esclusiva, e traendo l’uomo dal suo stato di minorità, permetta di riconoscere la filosofia (e le religioni) come maschile e femminile, patema e materna, e così la terra come l’armonia movente e commovente che congiunge le donne e gli uomini e i figli e le figlie.
R. G.
"BIBLIOGRAPHY OF PHILOSOPHY" (Vol. 44 Fase. 1 p. 14, PARIS 01/03-1997).
B)
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
E. C.
Preti pedofili, j’accuse del vescovo Marx: il Vaticano ha insabbiato
Corpus demoni. Al Sinodo l’alto prelato tedesco schierato con Bergoglio: «Dossier sulle violenze distrutti o mai creati». Scontro con i conservatori
di Luca Kocci (il manifesto, 24.02.2019)
La Chiesa ha messo in atto un’azione sistematica di copertura degli abusi sessuali commessi dal clero per proteggere i preti pedofili, «calpestando» le vittime
La severa accusa alle gerarchie ecclesiastiche è arrivata dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca, intervenuto ieri mattina in Vaticano, all’incontro mondiale sulla «Protezione dei minori nella Chiesa». Una relazione, quella di Marx, in sintonia con il grido che, fuori dall’aula del Sinodo dove sono riuniti i 190 presidenti delle conferenze episcopali e superiori generali di tutto il mondo, si è levato dalle vittime degli abusi riunite nel network internazionale Eca global (Ending clerical abuse) le quali, in una marcia da piazza del Popolo a piazza San Pietro, hanno chiesto «tolleranza zero», invocando «la fine dell’impunità e degli insabbiamenti degli abusi da parte della Chiesa». «Gli abusi sessuali nei confronti di bambini e giovani sono dovuti all’abuso di potere», ha detto Marx. L’amministrazione ecclesiastica, ha aggiunto, «non ha compiuto la missione della Chiesa, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. I procedimenti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, anzi cancellati o scavalcati.
I diritti delle vittime sono stati calpestati». Si riferiva in particolare alle diocesi tedesche, ha precisato in conferenza stampa, sottolineando però che «la Germania non è un caso isolato».
Sono indispensabili «trasparenza e tracciabilità», per chiarire «chi ha fatto cosa, quando, perché e a quale fine, e cosa è stato deciso», ha proseguito l’arcivescovo di Monaco, secondo il quale non ci sono obiezioni che tengano: né rispetto al «segreto pontificio» (non vale per «i reati riguardanti l’abusi di minori») né alla preoccupazione di «rovinare la reputazione di sacerdoti innocenti o del sacerdozio e della Chiesa»: la «presunzione di innocenza», la «tutela dei diritti» e «la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda». Anzi «non è la trasparenza a danneggiare la Chiesa, ma gli abusi commessi, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento».
È stata anche la volta delle donne.
Prima la testimonianza (venerdì sera) di una vittima che ha subito abusi da quando aveva undici anni da parte di un prete della sua parrocchia: «Da allora - ha raccontato - io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata non sono più esistita», «restano incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui lui bloccava me bambina con una forza sovrumana, io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse». «Dobbiamo trovare il coraggio di parlare e denunciare - ha concluso -, pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena», «non può e non deve essere più così».
Poi la relazione di Veronica Openibo, religiosa nigeriana, superiora della Società del santo bambino Gesù, che ha rimarcato l’esistenza di un fenomeno conosciuto già da qualche anno ma ancora in ombra: la violenza subita dalla suore da parte di preti e religiosi, soprattutto in Africa. La Chiesa sta facendo qualcosa, ma «non è ancora abbastanza», ha aggiunto suor Openibo, che ha indicato alcuni problemi da affrontare, come «l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere», e alcune prassi da abolire: nascondere «per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito sulla Chiesa»; e «la scusa che si debba rispetto ad alcuni sacerdoti in virtù della loro età avanzata e della loro posizione gerarchica».
Oggi il summit termina, con la messa e l’intervento del papa. Le posizioni sono emerse con chiarezza. I conservatori puntano il dito sull’omosessualità: sarebbe questa la causa degli abusi sessuali (però così non spiegano le violenze sulle donne). La maggioranza filo-Francesco indica invece nel clericalismo e nel potere la radice degli abusi e chiede creazione di strutture di ascolto autonome con il coinvolgimento di laici e donne, collaborazione e denuncia alle autorità civili, riforma del segreto pontificio, rimozione di preti colpevoli e vescovi collusi o complici.
Nemmeno sfiorato il tema del celibato obbligatorio - per molti osservatori il vero nodo del problema -, ma su questo punto anche Francesco è inamovibile. Proposte concrete, però, sono state avanzate. L’incontro non ha valore deliberativo, si tratterà quindi di vedere se ora diventeranno regole scritte. «Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate», ha concluso la giornata, con la celebrazione penitenziale. il vescovo ghanese Philip Naameh.
Il vertice
Il consigliere del Papa: «Distrutti i dossier sugli abusi nella Chiesa»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 24.02.2019)
CITTÀ DEL VATICANO «Ora cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo». Un giovane cileno che fu abusato da un prete racconta la sua storia, chiude gli occhi e imbraccia il violino, le note di Bach risuonano nel silenzio della Sala Regia e delle gerarchie ecclesiali di tutto il mondo riunite per la «celebrazione penitenziale» guidata da Francesco. Prima del mea culpa del Papa («dobbiamo dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato») e di cardinali e vescovi («confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e ridotto al silenzio chi ha subito del male»), il Pontefice ha invitato all’«esame di coscienza» spiegando che «si rendono necessarie azioni concrete per le chiese locali»: l’incontro mondiale sulla protezione dei minori finisce con la messa di oggi ma l’essenziale si vedrà da domani.
La questione centrale è quella che ieri il cardinale Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti del Papa, ha scandito senza perifrasi: «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare». Il cardinale, presidente dei vescovi tedeschi, ha spiegato più tardi che si riferiva in particolare a ciò che la Chiesa tedesca ha scoperto nella ricerca, durata tre anni, sugli abusi nelle sue diocesi. Ma «presumo che la Germania non sia un caso isolato», ha aggiunto.
La denuncia di Marx è la premessa di una serie di riforme, a cominciare dall’abolizione o almeno revisione del «segreto pontificio», definito dal documento «Secreta continere» del 1974.
Il cardinale Marx spiega che la «trasparenza» si deve accompagnare alla «tracciabilità» delle «procedure amministrative», in modo che chiunque possa sempre sapere «chi ha fatto che cosa, quando, perché e a quale fine, e che cosa è stato deciso, respinto o assegnato». E aggiunge: «Ogni obiezione basata sul segreto pontificio sarebbe rilevante solo se si potessero indicare motivi convincenti per cui il segreto pontificio si dovrebbe applicare al perseguimento di reati riguardanti l’abusi di minori. Allo stato attuale, io di questi motivi non ne conosco».
In questi giorni si è parlato di «nuove strutture legali» di controllo - legate ai metropoliti (le diocesi più grandi) e composte anche da laici, donne e uomini - cui i vescovi debbano «rendere conto». E di centri di ascolto per raccogliere denunce in ogni conferenza episcopale e diocesi. Ma soprattutto sono state le donne a scuotere le gerarchie. Dalla canonista Linda Ghisoni alla suora nigeriana Veronica Openibo, che ieri ha parlato di «mediocrità e ipocrisia» e avvertito: «Questa tempesta non passerà. Spero e prego che alla fine di questa conferenza sceglieremo deliberatamente di spezzare ogni cultura del silenzio». Suor Veronica, parlando accanto al Papa, ha evocato il cambio di linea nello scandalo cileno, all’inizio sottovalutato: «La ammiro, fratel Francesco, per essersi preso del tempo, da vero gesuita, per discernere e per essere abbastanza umile da cambiare idea, chiedere scusa e agire: un esempio per tutti noi».
La giornalista messicana Valentina Alazraki non l’ha mandata a dire, a cardinali e vescovi: «Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici».
Doc.:
DREWERMANN. L’ INCONSCIO DI DIO
di MARCO POLITI (la Repubblica, 05 marzo 1994)
Roma - Se il teologo è "studioso di Dio", il tedesco Eugen Drewermann non ha l’ aria un po’ triste del chiosatore di testi sacri. Drewermann, nato nel 1940, prete a ventisei anni, sospeso a divinis a cinquantuno, è un ricercatore avventuroso di Cristo, appassionato di psicanalisi, di etologia, un creatore di immagini, un narratore, un affabulatore che incanta gli ascoltatori con il miraggio di gettare un ponte su quell’ abisso che lui definisce "l’ immenso fossato di angoscia tra l’ uomo e Dio, creato dalla Chiesa e riempito con angeli, santi, madonne, pellegrinaggi e la dottrina dell’ infallibilità papale".
Drewermann respinge la psicoterapia senza Dio e la cura d’ anime senz’ anima. Vuole che psicoterapia e pastorale possano rendere l’ uomo un essere unitario, non scisso. Ricorda che Freud, ottant’ anni fa, si accorse che i suoi pazienti parlavano di Dio solo per evocare angosce infantili. Una religione mostro."Ciò che dovrebbe liberare - spiega - serve invece per violentare l’ uomo. La questione centrale per l’ uomo è come trovare un essere umano che lo ami. La Chiesa cattolica, invece, ha il terrore che gli essere umani si amino e ciò nonostante afferma che Dio è amore". Quando nel 1923, prosegue, Freud si occupò di psicologia di massa, si accorse che due sistemi erano sopravvissuti nel XX secolo a livello di orda arcaica: l’Esercito e la Chiesa, "perché tutti e due non hanno interesse a far maturare le persone come esseri umani, poiché intendono indirizzare il singolo verso la centrale di comando: i generali in un caso, il papa come sostituto di Dio nell’ altro".
Allora la psicanalisi sarà il nuovo Verbo? Drewermann sorride: "Non servono nuovi credenti. La psicanalisi è solo un mezzo. D’ altronde Buddha diceva che la zattera serve per raggiungere l’ altra sponda del fiume, mica per portarla in testa una volta arrivati".
Sulla Chiesa cattolica il teologo è senza ambiguità: "Nel vangelo è detto con chiarezza che nessuno si faccia chiamare padre, rabbi o maestro. L’ idea di un Santo Padre, vicario di Dio, è inconcepibile. Abbiamo a che fare con un sistema spirituale totalitario, perfettamente organizzato, che trasferisce nel nostro secolo la figura del faraone. Uno solo, come Ekhnaton, è rivolto verso Dio e da quest’ unico tutti gli altri ricevono le benedizioni divine. Sulle tombe degli imperatori la Chiesa romana ha edificato i suoi templi. Ora si tratta di scegliere tra Cristo e Cesare Augusto!".
Il linguaggio iconoclasta non inganni, Drewermann crede profondamente nella Buona Novella e nella Resurrezione. A Roma per un seminario organizzato dall’ A.r.c.o (oggi parlerà nell’ aula magna della facoltà di psicologia alla Sapienza), il teologo si sottopone all’ interrogatorio di un’ intervista nella sede dell’ Adista, a due passi dal Cupolone.
Chi è Cristo per lei, professore? "Il miracolo di Gesù è che all’ odio contrappone amore, alla violenza contrappone la comprensione, alla disperazione la speranza. Lui credeva che la vita e l’ amore siano più forti del potere della morte e così ci ha insegnato a non averne paura. Ci prende per mano e ci porta alla resurrezione prima della morte".
Lei afferma che i miti egiziani dell’ Oltretomba hanno influenzato fortemente le concezioni cristiane. "Il Vecchio Testamento non conosceva praticamente una vita dopo la morte. Solo più tardi quest’ idea è penetrata nell’ ebraismo. Concetti come rinascita e resurrezione provengono dall’ antico Egitto e soprattutto ha giocato un grande ruolo la ricchezza delle immagini egiziane: l’ idea di un’ anima personale immortale, il giudizio dei morti, cielo e inferi. Dal culto solare deriva anche l’ immagine del Sole Invitto, che ha originato il nostro Natale".
In altre parole il cristianesimo non nasce come fenomeno separato dalle altre religioni mondiali. "Esattamente. C’ è una connessione stretta con le altre religioni. La Rivelazione non si limita alla Bibbia, ma direi che attraversa tutta la Creazione e la storia culturale dell’ umanità".
Da dove le viene questa sicurezza? "E’ che le immagini religiose sono radicate nella psiche umana ed esse indicano una grande somiglianza fra le diverse religioni".
Per accettare questo discorso la Chiesa dovrebbe cambiare radicalmente la sua visione antropologica. "Ma non ce la fa e non ce la farà mai. Perchè dal catechismo universale e dall’ enciclica Veritatis Splendor si ricava che la Chiesa sa solamente che l’ anima è immortale e razionale. Tutto il resto, i sei settimi che costituiscono l’ inconscio dell’ anima sono ignorati dalla Chiesa. Ed è anche chiaro perché. In tal modo si può esercitare la censura morale sui sentimenti e le pulsioni dell’ uomo. D’ altra parte, secondo i papi, anche la ragione e la coscienza hanno valore solo in quanto in sintonia con il magistero ecclesiastico".
Perché questa paura dell’ inconscio? "Se si riconosce l’ inconscio, finisce l’ eteronomia, il comando che viene dall’ esterno. La Chiesa non vuole l’ Io libero: Cristo è stato sacrificato alla croce e così noi dobbiamo sacrificare la nostra felicità".
Allora le chiedo di nuovo: chi è Cristo per lei? "E’ colui che prende gli infelici per mano e li riporta ad un paradiso perduto. Cristo non voleva soffrire, voleva ripulire il tempio. La Chiesa cattolica, invece, ha paura della felicità, della libertà, dell’ individuo. Ha paura della libertà dei fedeli".
Forse questa Chiesa è riformabile? "Non credo. Che può fare ancora? Nel Cinquecento ha perso gran parte dell’ Europa del nord pur di raccogliere i soldi per costruire la basilica di san Pietro, nel Settecento ha perso gli intellettuali, nell’ Ottocento gli operai, in questo secolo i giovani e nel Duemila probabilmente perderà le donne. Il problema non è come, quando, se la Chiesa cambierà, ma come riusciamo a vivere noi. Nel Don Carlos di Schiller c’ è un momento in cui il protagonista si rivolge al duca d’ Alba e dichiara: ’ Sire, dateci libertà di pensare’ . A questo punto nei teatri tedeschi scoppia sempre l’ applauso".
Qual è il destino del clero in questa situazione? "D’ ufficio i chierici hanno il potere di portare agli uomini salvezza e verità, ma in realtà nessun ragazzo nel ventesimo secolo crede a una persona solo in ragione del suo ufficio. Non servono sacri uffici bensì persone credibili".
Lei, ex chierico, chi è professor Drewermann? "Immagino che la psicanalisi mi permetta di essere medico e poeta insieme. E perciò vicino a Dio".
Recensione
H.K. Bhabha, The location of culture, Routledge, London-New York 1994, trad. it. I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, ISBN 88-8353-066-7
di Orazio Irrera *
Il complesso testo di Homi K. Bhabha cerca di esaminare, dalla prospettiva propria degli studi cosiddetti "postcoloniali", i temi della differenza culturale e dell’agire subalterno e marginale in rapporto alla riproduzione dell’autorità sociale e alle pratiche di discriminazione politica.
Il risultato è il tentativo di una "ri-scrittura" della storia della modernità da una prospettiva non eurocentrica che si propone di «disturbare quei discorsi ideologici che tentano di assegnare una normalità egemonica allo sviluppo diseguale e alle differenti vicende di nazioni, razze, comunità, popoli» (p. 237).
Si tratta infine di individuare quelle strategie di resistenza - legate ad un concetto di cultura come istanza irregolare creatrice di significato e valore - messe in scena dai vari antagonismi sociali allorquando sono in gioco l’emancipazione sociale e la sopravvivenza culturale.
La migrazione, l’esilio, la marginalità sociale e culturale sono accomunate da quella che Bhabha chiama «estraneità al domestico», ovvero da quel fenomeno che si riferisce alla tendenza a sradicarsi e a perdere la propria identità "di partenza" o "originaria", ma anche alla possibilità di ri-scrivere attivamente la propria storia personale a partire dall’esperienza della ridislocazione.
Il concetto di identità che ne deriva non risulta un «riflesso di tratti etnici e culturali già dati, ma una negoziazione complessa e continua che conferisce autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica e sociale» (p. 13).
Quest’esperienza di ri-scrittura e di ibridazione incrina il discorso storicistico della modernità eurocentrica, che si fonda su un’autorappresentazione tramata dagli ideali di progresso morale e civile, oltre che materiale; il presente storico risulta essere infestato da passati non nominati e non rappresentati che aprono la possibilità discorsiva di ridefinire i luoghi in cui vengono prodotte quelle soggettività cui finora è stato negato un sostanziale riconoscimento.
All’interno dell’economia del discorso di Bhabha, e degli studi postcoloniali in genere, un ruolo fondamentale è giocato dal concetto di "ibridità" (e dalle nozioni equivalenti di "imitazione", "cortesia astuta", "re-inscrizione") che fanno riferimento a quegli incroci inattesi che sono impliciti nel processo di riproduzione dell’autorità coloniale e che contribuiscono a indebolirla, favorendo delle dinamiche di negoziazione culturale che portano alla creazione imprevedibile e incontrollabile di soggettività alternative ed antagoniste in grado di sovvertire le relazioni di dominio da cui sono germinate.
Solo a titolo di esempio è possibile ricordare le vicende relative all’assimilazione "parziale" della Bibbia da parte dei nativi indiani - trattate da Bhabha nel cap. 6, «Segni premonitori» - per cui attraverso la diffusione di questo libro "inglese" si tentava di nascondere le sue particolari condizioni di enunciazione, ovvero il progetto del piano Burdwan che mirava ad indurre i nativi a partecipare alla distruzione della propria cultura e religione per creare «una classe di persone, indiane di sangue e di colore, ma inglesi nei gusti, le opinioni, la moralità e l’intelletto», come diciassette anni più tardi si esprimerà a proposito di questo progetto Th. Macaulay nella sua Minuta sull’educazione.
Ma nella ripetizione di questo "significante" dell’autorità coloniale si verifica un’appropriazione e uno slittamento del simbolo dell’autorità che viene appunto "ibridizzato" e deformato dalle domande e dalla ricezione nativa. Il simbolo dell’autorità coloniale viene così de-contestualizzato dal sistema differenziale di segni di matrice coloniale, volto ad affermare la propria autorità e a legittimare la situazione di dominio e subordinazione dei nativi, e viene così re-inscritto in un nuovo sistema differenziale, assumendo un significato che sovverte la strumentalità e le strategie di potere sottese al significante Bibbia (appartenente al "vocabolario" dell’autorità coloniale).
L’esercizio del potere da parte dell’autorità coloniale, soprattutto per quel che riguarda la dimensione culturale, chiama in causa per la. «l’attitudine nella pratica politica a creare immagini o a rappresentare» e a coinvolgere l’immaginario nel processo di identificazione sociale e psichica.
Le complesse spiegazioni di Bhabha si sviluppano allora su una sorta di doppio registro che tiene conto sia delle tematiche psicanalitiche, con particolare riguardo alle teorie di J. Lacan e F. Fanon, sia di quelle semiotiche implicite nella dimensione discorsiva dell’esercizio dell’autorità. I soggetti sia individuali che collettivi formatisi nei diversi processi di identificazione sociale e culturale risultano essere inscritti contemporaneamente «nell’economia del piacere e del desiderio e nel discorso del dominio e del potere» (p. 99).
Le analisi di Bhabha vengono quindi condotte sui sistemi di rappresentazioni del potere coloniale e sulle dinamiche inerenti alla costruzione ideologica dell’alterità; in particolare nel cap. 3, «La questione dell’Altro», viene affrontata quella modalità di conoscenza e potere che è lo "stereotipo", che agisce bloccando la rappresentazione della differenza fissandola entro «coordinate di conoscenza» (soprattutto di natura razziale e sessuale) che producono al contempo differenziazione, fissazione, gerarachizzazione e difesa, articolando sul piano della rappresentazione le strategie discorsive del dominio coloniale.
La modalità di conoscenza stereotipica attraversa i vari discorsi eurocentrici «che creano "l’Oriente" come una zona del mondo unitaria da un punto di vista razziale, geografico, politico e culturale» (p.104) e garantisce un sistema coerente di rappresentazioni, unificato in virtù di un intento politico e ideologico: «creare un’immagine dei colonizzati come popolazione composta da tipi degenerati in base alle loro origini razziali, per potere in tal modo giustificare la conquista e fondare dei sistemi di amministrazione ed istruzione» (p.103).
Allo stesso tempo lo stereotipo è indagato «sotto forma di feticcio», come l’oggetto "buono" che facilita i rapporti sessuali in base ai meccanismi rassicurativi che ripudiano la differenza sessuale; l’ansia di castrazione e il riconoscimento della differenza sessuale in quanto minacce all’identità sono frenate dal feticcio da un lato grazie ad un gioco di metafore (come sostituzioni che mascherano l’assenza e la differenza) e di metonimie (che registrano la mancanza percepita attraverso contiguità), e dall’altro attraverso due forme di identificazione complici nell’Immaginario, ovvero il narcisismo e l’aggressività.
La conoscenza stereotipica è dunque - proprio come il feticcio - sempre ambivalente e oscilla fra l’affermazione arcaica di pienezza e somiglianza col già noto o con un’origine ritenuta "pura" e l’ansia che si associa alla mancanza ed alla differenza. A livello di formazione degli enunciati, che costituiscono il versante discorsivo del potere coloniale, la conoscenza si scinde in modo complementare in dati "ufficiali", vagliati scientificamente e "fantasie", determinate da operazioni aggressive/difensive di natura inconscia.
L’"evidenza del visibile", che fonda le pratiche discriminatorie e blocca il gioco delle differenze, risulta essere costruita da queste complesse e ambivalenti strategie di potere, l’"effetto di verità" o la "trasparenza discorsiva" sono obiettivi strategici di primaria importanza nell’esercizio dell’autorità coloniale. La posizione teorica di Bhabha è caratterizzata proprio dall’articolazione di tali dinamiche relative al sapere/potere con dei meccanismi proiettivi e introiettivi che si riferiscono all’inconscio.
Posizione di rilievo all’interno delle tematiche esposte nel testo assume il rapporto fra nazione, narrazione e temporalità. Nelle analisi sulla genesi della nazione moderna il ruolo attribuito alla letteratura è fondamentale, produzione culturale e identità politica si intrecciano di continuo dando vita a strategie di identificazione che si compiono in nome del popolo o della nazione.
La costruzione dell’unità nazionale moderna attraverso gli apparati di potere simbolico - che Bhabha riassume con la formula al di là dei molti, uno - presuppone inoltre un particolare tipo di temporalità sincronica e cumulativa (che si richiama al tempo "omogeneo e vuoto" dello storicismo di cui parla Walter Benjamin) che ha il compito di omogeneizzare culturalmente territori e gruppi di individui diversi, trasformando la differenza di spazio in identità di tempo, costruendo narrativamente il mito di un origine pura e comune.
Tuttavia questa temporalità continua e cumulativa, che il nostro chiama "pedagogica", è solo un tratto di un movimento narrativo duplice e ambivalente; infatti la richiesta di rappresentatività sempre presente nel tessuto sociale provoca delle crisi nel processo di significazione narrativa, proprio perché la riproduzione dei simboli dell’attività nazionale è messa in atto sempre e di continuo e soprattutto da soggetti diversi che contribuiscono in modo molteplice e con elementi culturali nuovi a quell’integrazione marginale di individui che per Bhabha è il movimento fondamentale della vita della nazione moderna.
La ripetizione dei segni della cultura nazionale implica perciò un elemento "performativo" che apre uno spazio di significazione alle "pratiche emergenti" prodotte da soggettività storicamente decentrate; il proliferare della differenza turba la temporalità sempre identica del pedagogico e inaugura un presente tramato di "indecidibilità", simile allo Jeztzeit di Benjamin, in cui un evento imprevedibile può sconvolgere o sovvertire la temporalità omogenea e vuota di una nazione. La vita della nazione, allora, non sarà più delimitata dai confini spaziali che la separano da altre nazioni, ma dovrà far i conti con una «polemica marginalità interna». Motivo per cui le proiezioni paranoidi rivolte all’esterno tornano a tormentare il luogo stesso da cui hanno preso forma, mentre l’aggressività che prima veniva indirizzata all’esterno si riversa ora nello spazio identitario della nazione. Se il simbolo dell’identità nazionale garantisce un’identità stabile con ciò che simboleggia, esso viene sconvolto e trasformato in segno, il cui continuo movimento traduttivo lo fa slittare senza fine da una posizione sociale ad un’altra.
La ripetizione del segno porterà sempre con sé uno scarto temporale, un ritardo, che veicola tutta la novità delle posizioni sociali emergenti da una complessa dinamica di negoziazione, in cui - come abbiamo sopra visto nel caso della Bibbia - si verifica un’appropriazione "parziale" che incrina il sogno stesso dei soggetti sociali dominanti, ovvero un’imitazione da parte dei subordinati. Questa mimesi infatti è sempre parziale e costituisce quell’Unheimlich che destabilizza le strategie identitarie ed assimilazioniste dei soggetti egemoni. Il popolo come unità è costretto a ridefinirsi in un movimento impresso di continuo dalla marginalità; il processo omogeneizzante di sedimentazione storica (pedagogico) è sempre turbato dalla tendenza a perdere la propria identità in seguito al contatto con l’Altro (performativo).
Questo "terzo spazio di enunciazione" - fondamentale per la scrittura della nazione moderna - situato in quella dimensione inter-stiziale o inter-media (in-between) in cui si svolge la negoziazione e l’emergere di nuove soggettività alternative è il "luogo" in cui la differenza culturale ri-articola «la somma di conoscenze dalla prospettiva della singolarità significante dell’"altro" che resiste alla totalizzazione - la ripetizione che non si trasforma nell’identico, la carenza originaria che dà luogo a strategie politiche e discorsive in cui l’aggiungere-a non significa sommare, ma serve a turbare il calcolo del potere e della conoscenza producendo altri spazi di significazione subalterna» (p. 225).
* Fonte: Jura Gentium
* Alcune pagine (in rete) da: H.K. Bhabha, I luoghi della cultura.
FLS