Al Cern di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc, il più grande acceleratore di particelle del mondo. Siamo andati a visitare quest’opera straordinaria
Nella Macchina del Tempo
All’origine dell’universo
di FABRIZIO RAVELLI
GINEVRA - A cavallo della frontiera franco-svizzera, fra il lago Lemano e il paese di Voltaire, la storia del mondo si prepara a una svolta. In mezzo a paesini ordinati coi loro campanili, i prati ben rasati, i vigneti e le mucche che brucano, l’umanità intera sta per fare un passo avanti, un salto forse, nella conoscenza dell’universo, della materia e delle forze sconosciute che lo tengono insieme. "Sappiamo che qualcosa succederà - dice Fabiola Gianotti, milanese -. È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremo potrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la possibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costituisce il venticinque per cento dell’universo".
Quando sente parole del genere, un povero profano ha due scelte. O si arrende, volta le spalle e torna alla sua esistenza semi-animale, alle prese con forme di materia rozza (carta, benzina, asfalto, pastasciutta). Oppure passa i cancelli del Cern, si affida a una serie di gentili scienziati compatrioti che qui lavorano, e prova - se non a capire - a immaginare almeno, a percepire le vibrazioni del momento storico. Mancano poche settimane. Poi il più grande acceleratore di particelle del mondo, l’Lhc (Large Hadron Collider), verrà avviato.
Due fasci di protoni cominceranno a viaggiare, nei due sensi, lungo il tunnel di ventisette chilometri a cento metri sotto terra. Si scontreranno in quattro rivelatori, sorta di colossali macchine fotografiche che fisseranno le immagini dell’impatto.
Vedremo l’origine dell’universo, che cosa è successo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, perché quelle sono le condizioni che verranno ricreate. Un progetto simile non è mai stato tentato, ed è il più ambizioso al mondo. Non poteva succedere che qui al Cern, il più importante laboratorio planetario per la fisica delle particelle, l’impresa che (dal 1954) tiene insieme venti stati membri europei, e circa sessanta di tutto il mondo, impegnando ogni giorno ottomila scienziati. Da luglio in avanti, e per i prossimi anni, ci si aspetta di scoprire qualcosa che non è mai stato visto, ma solo immaginato coi modelli teorici. Oggetti misteriosi come la materia oscura, l’antimateria, le supersimmetrie "Susy", o il bosone di Higgs, ipotetica particella elementare che il Nobel Leon Max Lederman ha chiamato (facendo storcere la bocca a molti colleghi) "la particella di Dio".
L’attenzione (non eccessiva) della gente normale verso questo progetto è stata risvegliata poco tempo fa dall’iniziativa di due personaggi che hanno tentato di bloccarlo. Con un appello al tribunale delle Hawaii (uno dei due abita lì, e vi ha fondato l’orto botanico), Walter Wagner e Luis Sancho hanno sostenuto che l’Lhc è una sorta di "arma fine di mondo" come quella del Dottor Stranamore, che può produrre "buchi neri" in grado di inghiottire Ginevra e poi l’intero pianeta.
Tesi bizzarra, che gli scienziati considerano un’autentica fesseria. Già in passato esperimenti simili (ma più limitati) avevano fatto gridare al pericolo di fine del mondo, e poi non era successo niente. Ma, paradossalmente, la boutade di Wagner-Sancho ha avuto il merito di ricordare che qui al Cern qualcosa di sensazionale sta per avvenire. Non "fine di mondo" ma, casomai, la messa in scena del suo inizio.
Nella sala controllo del Cern un fisico italiano, Roberto Saban, tiene d’occhio sui monitor l’anello sotterraneo che si avvia verso il momento dello start. È il responsabile del collaudo. "Il fascio di protoni viaggia all’interno di una conduttura sotto vuoto, e viene guidato da magneti che gli danno la curvatura necessaria lungo l’anello. Sono 1232 magneti superconduttori, ognuno un bestione lungo 15 metri e pesante 32 tonnellate, alimentati a 12mila ampére. Specie di thermos, che all’interno hanno una massa raffreddata a 1,9 kelvin, cioè meno 271 gradi". A quella temperatura, le bobine di niobio-titanio non presentano resistenza. Se si usassero magneti "caldi", per raggiungere la stessa energia l’anello dovrebbe essere lungo 120 chilometri, e consumerebbe 40 volte tanta elettricità. "Sono magneti "di frontiera", che lavorano al limite della loro progettazione - spiega Saban - Così come la criogenia, cioè il sistema di raffreddamento".
Tutto qui è di frontiera, innovativo, avanti: l’ingegneria, i materiali, i progetti. In ogni campo, la sperimentazione produce ricadute che fanno fare passi avanti alla vita di tutti i giorni. La tecnologia degli acceleratori trova applicazione in campo tumorale e nella diagnostica medica, così come nello studio dei superconduttori, o nei sistemi di screening delle merci negli aeroporti. Il Cern è, insomma, anche un buon affare per gli Stati che lo finanziano, Italia compresa.
Ma vediamo l’anello che Saban sta collaudando. I fasci di protoni (cento miliardi di protoni, in 2800 "pacchetti") viaggeranno all’interno di un condotto (dieci cm di diametro interno) dove viene creato l’"ultravuoto", più vuoto che nello spazio, un decimillesimo di miliardesimo della pressione al livello del mare. I protoni andranno alla velocità della luce, e faranno il giro dei 27 chilometri undicimila volte al secondo. Alla massima potenza dell’Lhc, ogni fascio avrà un’energia pari a quella di un auto lanciata a 1600 chilometri orari. Ogni protone 7 tev (tera elettrovolt), quindi ogni collisione raggiungerà i 14 tev: una soglia mai raggiunta, e considerata necessaria per liberare e riconoscere particelle mai viste. Saban si prepara a controllare l’anello, i magneti che guidano, ripuliscono e concentrano il fascio, le temperature di esercizio: "All’inizio, succederà che non sapremo pilotare la macchina, ma ci aggiusteremo presto".
Lungo il percorso, dentro enormi caverne sotterranee, ci sono i rivelatori, quattro in tutto. Due (Atlas e Cms) sono "general purpose", hanno cioè compiti di osservazione più larghi, seppure con tecnologie diverse. Gli altri due (Alice e Lhcb) sono indirizzati a obiettivi più specifici. Paolo Giubellino, fisico torinese dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare), è uno dei responsabili di Alice (A Large Ion Collider Experiment): "Alice studia la materia nucleare ad alta densità, e cioè il momento in cui si è passati dalla pappa di quark-gluoni alla formazione di protoni e neutroni. Circa venti milionesimi di secondo dopo il Big Bang".
Sarà la prima fase dopo l’avviamento del grande acceleratore, quando per creare Qgp (il plasma di quark-gluoni) si faranno scontrare nuclei di piombo: "Alice è progettata per lavorare a intensità più bassa, quindi per il primo anno lavorerà bene. A bassa intensità, gli eventi sono più rarefatti. Poi gli altri si metteranno a correre. Ma tutti e quattro continueranno a prendere dati insieme. Qui è come se si lavorasse in grandi esplorazioni geografiche, con un gran numero di persone: per ogni rivelatore c’è il contributo di cento istituti di una trentina di paesi diversi".
I rivelatori sono macchine enormi, costruite intorno alla condotta centrale dove passerà il fascio. Fabiola Gianotti lavora ad Atlas, un arnese lungo 46 metri con un diametro di 25 e pesante circa settemila tonnellate: "Qualunque sia la fisica nuova che si rivelerà, Atlas e Cms la vedranno. Oggi conosciamo bene il mondo delle particelle elementari, descritte dalla teoria del Modello Standard. Il modello spiega bene, ma non risponde a tutte le domande. Sappiamo che nell’universo c’è un venticinque per cento di materia oscura, e un settanta di energia oscura. Nessuna delle particelle che conosciamo può spiegare la materia oscura". Il Modello Standard è una teoria che disegna la situazione delle nostre conoscenze. Ma la cosa che sembra sensazionale (a un profano) è che tutto quello che si conosce, la cosiddetta materia ordinaria di cui noi e ogni oggetto sulla Terra sono costituiti, non rappresenta che il sei per cento della materia ed energia dell’universo.
La nostra ignoranza è sconfinata: "Al di là del Modello Standard ci sono molte teorie, e fenomeni che oggi non conosciamo, anche se abbiamo qualche idea. La soglia in cui il Modello Standard comincia a dare segni di cedimento è proprio a quella scala del tev, di energia, che l’acceleratore Lhc per la prima volta raggiungerà. Il termine materia oscura indica anche la nostra ignoranza. Siamo di fronte a un muro, e abbiamo moltissime domande. In questo senso, ci si può aprire un nuovo mondo, e la posta in gioco è bellissima".
Tutti i libri di testo potrebbero finire in archivio. Dietro quel muro si potrebbe scoprire l’esistenza del bosone di Higgs, finora solo ipotizzata: un campo di energia che determina le diverse masse delle particelle. O delle particelle supersimmetriche dette "Susy", che potrebbe spiegare la materia oscura, e di massa abbastanza elevata da non poter essere state prodotte finora artificialmente. Non con il Lep, l’acceleratore del Cern che ha preceduto l’Lhc.
Guido Tonelli, fisico pisano, è uno degli scienziati responsabili del Cms, l’altro grande rivelatore. Ha gli stessi obiettivi, grosso modo, di Atlas, ma con tecnologie diverse. E ciascuno dei due, in pratica, verifica i risultati dell’altro. "Osserveremo un miliardo di collisioni al secondo. Fra queste ne sceglieremo centomila che potrebbero essere interessanti, e alla fine solo cento da immagazzinare su disco. E un flusso di informazioni paragonabile, in quell’istante, all’intero flusso di informazioni del mondo". Ecco quindi che, in un caverna adiacente a quella di Atlas, c’è una grandissima "farm" di computer per selezionare i dati prima di inviarli al centro di calcolo.
Il tunnel sta per essere chiuso, in preparazione dello start. L’ultimo segmento aperto è quello che ci mostra Francesco Bertinelli, ingegnere milanese, che per andare avanti e indietro sotto terra usa la sua mountain-bike: "Questa che vediamo al Punto 4 è la cavità di radiofrequenza, in pratica il pedale dell’acceleratore. Ad ogni passaggio il flusso di protoni aumenta la sua energia". Moltissima tecnologia è di produzione italiana: un terzo degli enormi magneti, per esempio, o i tubi senza saldature della Dmv di Costa Volpino. Infine l’ultimo rivelatore, l’Lhcb: "Questo è diverso dagli altri - spiega Carlo Forti, romano - perché non è circolare ma asimmetrico. Osserverà i mesoni B, che dopo la collisione vanno da una parte sola. E studieremo l’asimmetria materia-antimateria, un miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. A una temperatura di dieci milioni di miliardi di gradi".
Tutti i dati degli esperimenti finiscono al Computer centre: "L’analisi è la parte finale - spiega Massimo Lamanna, udinese - Ma qui è anche il punto di ingresso nella struttura del Grid". Qui, nel 1990, Tim Berners-Lee inventò il web, quel www che tutti ora conoscono: c’è ancora, in vetrina, il pc marca Next che venne usato. E qui si è creato adesso il Grid: "La necessità di calcolo era enorme, e si è pensato a una "griglia" che funzionasse come la rete elettrica. L’Lhc produrrà 15 milioni di gigabytes di dati ogni anno, qualcosa come tre milioni di dvd". Questa capacità di calcolo, e di stoccaggio dati, è stata distribuita in circa duecento centri sparsi per il mondo, e interconnessi. In Italia il nodo è Bologna, a sua volta collegato con altri nove istituti.
Bene, qualche settimana e l’Lhc comincerà a funzionare. Ma c’è qualcos’altro, al di là delle probabili rivelazioni in grado di sconvolgere la conoscenza, che impressiona qui al Cern. Si sono fatte tesi di sociologia e di antropologia per capire come può funzionare tanto bene: "Qui lavora gente di culture diverse, senza avere una struttura coercitiva - dice Paolo Giubellino -. E si cerca, quindi, ogni volta il consenso". "C’è competizione, ma in assoluta trasparenza e totale condivisione dei dati - dice Guido Tonelli -. È qualcosa che in una struttura privata non esiste". Uscendo dal Cern, dopo questa sbornia di eccitazione per il futuro in arrivo, c’è solo da chiedersi: perché non esiste un Cern per la cura del cancro o dell’aids?
* la Repubblica, 25 maggio 2008
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
SUPERATA LA VELOCITA’ DELLA LUCE. «Siamo piuttosto certi dei nostri risultati ma abbiamo bisogno che altri colleghi li confermino», ha dichiarato il ricercatore italiano, Antonio Ereditato, che lavora al centro di fisica delle particelle del Cern
AL DI LA’ DELLA TEORIA RELATIVITA’. I neutrini battono la luce di 60 nanosecondi sulla distanza di 730 km, tra Ginevra, sede del Cern, e il Gran Sasso, sede del laboratorio dell’Istituto di Fisica Nazionale (Infn).. Materiali sul tema.
I gatti di Schrödinger dal mondo quantistico alla vita reale di Philip Ball/Quanta Magazine
FLS
Cosmologia dell’invisibile
di Emilia Margoni (Doppiozero, 29 Luglio 2023)
A chi avesse voglia di una lezione d’umiltà, basterà farsi un giro per i territori della fisica contemporanea. A dispetto dei radicati convincimenti di fine Ottocento, secondo cui la fisica aveva raggiunto un’invidiabile completezza, i rissosi strepiti di inizio Novecento ruppero ogni illusione. È probabile che, a loro volta, le nuove generazioni, a lavoro per colmare le insospettate lacune, credessero di trovarsi a un passo dal compimento. Eppure, a cento anni di distanza, più si va avanti in questo campo più cresce la percentuale di dati che ci mancano: il 95% circa, secondo le stime dei modelli ad oggi più accreditati. E il problema più grande è che non si sa dove guardare. Se non fosse bastata la ridda di misteri che ancora annebbiano il territorio della meccanica quantistica - e di lì tutti i paradossi, di gatti vivi e morti, e di monete che a grandissima distanza puntualmente si accordano sulla propria condotta - pare al momento che una delle chiavi per la comprensione del nostro universo sia un tipo di materia che nessuno degli strumenti attualmente in uso sarebbe in grado di rendere percettibile e quindi misurabile - non fosse per le sue relazioni ambigue con qualcosa che invece conosciamo piuttosto bene, la forza gravitazionale. Si tratta della cosiddetta materia oscura, la quale, in base alle stime odierne, rappresenterebbe più dei cinque sesti di materia complessiva disponibile nel nostro universo.
A fare il punto su tutto questo è un recente libro di Ersilia Vaudo, Mirabilis (Einaudi 2023). Il testo offre una ricostruzione sintetica, in uno stile che aspira all’autoriale, degli snodi più rilevanti per la definizione degli attuali modelli astrofisici e cosmologici. Tra questi: lo sviluppo della meccanica newtoniana e la conseguente equiparazione dei moti celesti e terrestri; la pubblicazione nel 1905, a firma Albert Einstein, dell’articolo Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui il principio di relatività galileiana e il postulato di invarianza della velocità della luce vengono combinati in una teoria, la relatività speciale, che ha come principale conseguenza la caduta del concetto di simultaneità; la sua successiva intuizione, nel 1907, del principio di equivalenza, secondo cui essere vincolati al suolo in presenza di gravità è equivalente a muoversi nello spazio in una navicella che accelera, e viceversa trovarsi in caduta libera all’interno di un ascensore che precipita è equivalente a viaggiare in una navicella che si muova nello spazio a velocità costante; la formalizzazione di tale intuizione, nel 1915, attraverso la pubblicazione di quattro articoli, successivamente raccolti con il titolo Le equazioni di campo della gravitazione, in cui il campo di gravità viene identificato con lo spaziotempo (quest’ultimo ripensato quale struttura elastica, opportunamente modulata dalla presenza di materia ed energia); la messa a punto, a partire dagli anni Venti del Novecento, sulla base dei tentativi e delle riflessioni dello stesso Einstein, dei primi modelli cosmologici, sino all’ipotesi del Big Bang, suggerita da una serie di osservazioni sperimentali, come l’espansione delle galassie e la radiazione cosmica di fondo; la “spectacular realization”, nel 1979, a opera di Alan Guth, di un’ipotesi utile a risolvere alcuni dei problemi aperti dallo scenario del Big Bang, vale a dire il modello di inflazione cosmica, secondo cui l’universo, nelle sue primissime fasi di vita, avrebbe attraversato una fase di espansione rapidissima in grado di spiegarne la vastità e l’omogeneità rispetto alle condizioni prossime al Big Bang; le bizzarre conseguenze che l’equazione di Dirac, introdotta dall’omonimo fisico britannico nel 1928 come punto di congiungimento tra relatività speciale e meccanica quantistica, sembrava implicare circa l’esistenza, accanto a ciascuna particella di materia sino ad allora nota, di una “gemella” di antimateria dotata di pari massa ma carica opposta.
Come si anticipava, l’impressione che se ne trae - al di là dei meritevoli sforzi di attori e attrici che hanno ricoperto un ruolo cruciale negli sviluppi di tale branca di ricerca della fisica contemporanea - è che la messe di dati, formalismi, ipotesi, modelli accumulati non consente di sciogliere un complessivo senso di spaesamento: “Nella storia che ne emerge, l’invisibile è la regola. Ciò che possiamo osservare, solo un’eccezione [...] Siamo quindi immersi, più o meno consapevolmente, in una realtà cosmica che non si manifesta, che non possiamo vedere” (p. 132). Ed è in effetti un problema di visione quello che attraversa gli sviluppi più recenti della disciplina, se è vero che le osservazioni astrofisiche finora raccolte, perlopiù basate su tecnologie (telescopi, rivelatori, strumenti) utili a misurare la radiazione elettromagnetica nello spettro inaccessibile a noi esseri umani, nulla possono dirci su quel 95% cui sopra si faceva riferimento, mentre una qualche risposta potrebbe forse giungerci dalla gravità.
Se pure ci si concentra sulla sola materia, si trova che appena il 15% di essa corrisponde a quella che forma l’insieme di galassie osservabili, con i loro miliardi di stelle, pianeti, comete, meteoriti e asteroidi. Il restante 85% costituisce a tutt’oggi una presenza invisibile. Le prime ricerche a dar credito all’ipotesi della materia oscura risalgono agli inizi degli anni Trenta del Novecento, quando l’astronomo svizzero Fritz Zwicky si avvide di alcune incongruenze sui calcoli relativi alla massa di un agglomerato di galassie a diversi milioni di anni luce dalla Terra (le cosiddette galassie della Chioma).
La stima della massa di tali agglomerati venne effettuata secondo due metodi: il primo teneva conto della loro luminosità; il secondo, basato su un teorema della meccanica statistica, calcolava la massa delle galassie a partire dalla loro velocità. Zwicky si rese allora conto che la velocità di moto delle galassie risultava essere molto più significativa rispetto a quella compatibile con la quantità di materia visibile osservata. Fu così che, nel 1933, egli avanzò l’ipotesi secondo cui le galassie, e così lo spazio intergalattico, fossero permeati da un nuovo tipo di materia dalle proprietà affatto singolari, da lui denominata Dunkle Materie (materia oscura) - là dove il termine “oscura” sta a indicare che essa, oltre a non emettere né assorbire alcuna forma di radiazione elettromagnetica, sembrerebbe non interagire con la materia ordinaria, se non appunto attraverso la gravità.
Tale ipotesi venne accolta con una certa diffidenza, fin quando, quasi quarant’anni dopo, l’astronoma Vera Rubin e il suo collega Kent Ford si accorsero di una seconda anomalia: mentre la relatività generale, e così le osservazioni registrate sul Sistema Solare, implicano che la velocità di rotazione delle stelle nelle galassie cresca in senso proporzionale dal centro alla periferia, i dati da loro raccolti sembravano indicare che, da un certo punto in poi, la velocità di allontanamento delle stelle dal centro rimanesse costante. Di nuovo, era come se ciascuna galassia fosse permeata da una componente non visibile ma gravitazionalmente attiva.
L’ipotesi della materia oscura verrà infine accettata negli anni Ottanta, dopo la morte del suo primo fautore, sebbene ad oggi non esista un modello considerato soddisfacente, atto cioè a spiegarne l’origine e il comportamento. Ciononostante, come ricorda Vaudo nel capitolo conclusivo di Mirabilis, i modelli attuali offrono alcune importanti stime: estesa nello spazio intergalattico e nelle galassie stesse, conferirebbe loro la struttura che rileviamo, dacché si suppone svolga un ruolo decisivo nella formazione ed evoluzione dell’universo. Risulterebbe inoltre più stabile della materia ordinaria, poiché si ritiene non interagisca con il campo elettromagnetico, portando così alla formazione di strutture compatte più durature. La sua influenza gravitazionale, tra l’altro, avrebbe consentito alla Via Lattea e alle altre galassie di sopravvivere all’espansione complessiva dell’universo, impedendone la disgregazione.
L’interpretazione della materia oscura è oggi al centro di un vivace dibattito, affidato soprattutto a chi lavora nel campo della fisica delle alte energie. Il modello cosmologico standard, che offre una sintesi di quanto sappiamo sulla formazione e l’evoluzione delle strutture cosmiche, propone di concepire la materia oscura come composta di particelle “fredde”, a bassa energia, debolmente interagenti. Ma non mancano proposte alternative, come i cosiddetti modelli di dinamica newtoniana modificata (cui ci si riferisce con l’acronimo MOND), che tentano di introdurre variazioni sul secondo principio della dinamica, quello cioè che lega l’effetto di una forza esercitata su un sistema al prodotto tra la sua massa e l’accelerazione impressa. Questi modelli provano così a rendere conto delle anomalie menzionate eludendo ogni riferimento alla materia oscura (per un’interessante discussione sul tema, si veda l’articolo dell’astrofisico e scrittore Ramin Skibba). O ancora, progetti avveniristici, quale quello avanzato dai fisici Lasha Berzhiani e Justin Khoury, che tentano di conciliare le due prospettive.
Ma la partita su come si sia originato l’universo, su quale la sua evoluzione e sulle componenti che vi figurano, è tutt’altro che chiusa. A rendere la scommessa ancora più ardimentosa sta il fatto che, oltre alla materia oscura, sembrerebbe necessario, affinché i modelli cosmologici restituiscano dei parametri compatibili con le osservazioni sperimentali, postulare l’esistenza di una forma di energia oscura che agisce quale pressione negativa, favorendo l’espansione dell’universo. Questa forma di energia, che nell’ipotesi si ritiene mantenga la stessa densità nello spazio e nel tempo, oltre a permeare il cosmo nella sua interezza, costituirebbe il 69% circa della densità energetica totale. Insomma, la sfida volta a rintracciare l’origine e le proprietà di materia ed energia oscura è tutt’altro che completata, e questo tanto più perché “[l]e componenti oscure emergono dal cosmo mostrandosi attraverso i propri effetti, lasciando qualche indizio qua e là, ma nessuna prova della propria natura, finora” (pp. 145-146). Questo, va da sé, in parte solletica, in parte sgomenta. Con tutte le dovute discrepanze, vale quanto Julien Green sostiene in Parigi (Adelphi 2023, p. 14), allorché ricorda che “[p]er un romanziere ogni esistenza, foss’anche la più semplice, serba il suo irritante mistero, e la somma di tutti i segreti che una città racchiude ha qualcosa che a volte lo stimola e a volte lo schiaccia”.
UNO STUDIO DEL 2019 IPOTIZZAVA UNA CURVATURA POSITIVA
Eppur è piatto? Così l’universo torna euclideo
Per misurare la curvatura dell’universo, bisogna trovare il righello giusto. È quanto sono riusciti a fare tre cosmologi usando i “cronometri cosmici”: un insieme di galassie massicce e passive lontane fino a dieci miliardi di anni luce. Grazie al ticchettio dell’espansione dell’universo scandito da questi cronometri, è possibile misurare la curvatura: nonostante i precedenti risultati del satellite Planck, risulterebbe piatto. -Media Inaf ha intervistato il primo autore, Sunny Vagnozzi
di Valentina Guglielmo*
Se cerchiamo il termine “crisi” nel dizionario, troviamo che - in un contesto economico, politico o sociale - essa denota un’uscita improvvisa e traumatica da uno stato di equilibrio seguita da uno stato più o meno permanente di disorganicità, mancanza di uniformità e coerenza. Anche nel mondo scientifico si può entrare in crisi: succede quando viene messa in discussione una teoria, una credenza, un modello invalso. È quanto successo, ad esempio, nel 2019, dopo che alcuni cosmologi, analizzando nelle mappe Planck - il satellite incaricato di misurare le fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo con una precisione senza precedenti - il lensing gravitazionale e altri parametri, erano giunti a proporre l’ipotesi che l’universo avesse curvatura positiva. O meglio: che non fosse possibile considerarlo piatto senza introdurre una “tensione” - una crisi, appunto - nella cosmologia. Fra chi ha deciso di affrontare il problema e cercare una soluzione c’è Sunny Vagnozzi, un giovane ricercatore italiano originario di Terracina, in provincia di Latina, che deve il proprio nome al sole che splendeva il giorno della sua nascita, dopo settimane di incessante pioggia. Amante delle stelle sin da piccolo grazie alla madre (di origine taiwanese) e al padre, a 17 anni si è trasferito a Trento per studiare fisica, per poi trascorrere un periodo a Londra, e ancora in Australia, Danimarca, Svezia, e infine a Cambridge. Viaggiatore nel mondo così come nella fisica, ha cominciato la sua carriera studiando le particelle elementari e si trova ora a voler capire che forma ha l’universo nel suo insieme, che cosa contiene e come è evoluto nel passato, nel presente e nel futuro. Media Inaf l’ha intervistato per farsi raccontare la storia di questa crisi cosmologica e di come sia stata risolta.
Come è nata l’idea di questo studio?
«Dopo il paper di Di Valentino, Melchiorri e Silk pubblicato su Nature Astronomy nel 2019 - che portava alla luce i risultati e i problemi sollevati da Planck - c’è stata molta discussione nel campo su quali fossero le implicazioni dei loro risultati, e il mondo della cosmologia, semplificando un po’, è come se si fosse spaccato in due: da un lato, chi diceva che i risultati non potevano essere corretti e l’universo non poteva essere sferico - certamente non così tanto sferico come suggerivano i dati; altri che dicevano che bisognava dar loro più credito, che non fosse il caso di nascondere queste anomalie sotto al tappeto. Io, anche per motivi personali, mi trovo un po’ a metà strada».
In che senso?
«Da un lato collaboro con gli altri autori di quell’articolo di Nature Astronomy - e ho ascoltato e studiato attentamente il loro lavoro - dall’altro lato lavoro qui a Cambridge, circondato da persone che lavorano su Planck e che dicono che non vi sono dubbi, che l’universo è piatto e Planck non riporta anomalie. Entrando nel dettaglio, il problema è il seguente: se prendiamo i dati di Planck da soli, questi direbbero effettivamente che l’universo è chiuso (o sferico) - e tra l’altro direbbero che è molto sferico, perché la curvatura viene rivelata con un livello di confidenza superiore al 99 per cento. Un risultato, per certi versi, davvero sorprendente».
Quindi, l’universo può essere più o meno sferico? Che significa?
«Sì, c’è un parametro - il parametro di curvatura Omega-k - che quantifica quanto l’universo si discosta dall’essere piatto. Omega-k uguale a zero significa universo perfettamente piatto, valori negativi significano universo curvo, sempre più curvo quanto più negativo il valore del parametro. Possiamo pensare che l’inverso di Omega-k sia il raggio di curvatura e, quindi, più Omega-k cresce verso valori negativi più l’universo è curvo su una scala piccola. Funziona bene se lo paragoniamo alla Terra: noi non percepiamo la curvatura terrestre perché la scala su cui essa si piega è troppo grande per i nostri occhi. La scala che suggerisce Planck è invece molto piccola in senso relativo - parliamo pur sempre dell’intero universo».
Piccola tanto da potersene accorgere direttamente?
«Sì, così piccola che Planck lo ha visto. O almeno questo secondo alcuni».
Dove sta il problema, dunque?
«Il problema è che, se prendi le misure effettuate da Planck sulla radiazione cosmica di fondo, è difficile riuscire a credere al valore di curvatura che si estrae. C’è un motivo subdolo che si chiama “degenerazione geometrica”, e provo a spiegartelo con un esempio che uso spesso ed è molto attinente all’esperienza quotidiana. Immagina di vedere l’immagine di una persona su uno sfondo completamente bianco, ecco lei è la nostra radiazione cosmica di fondo: in particolare, la sua distanza da noi rappresenta la distanza fra noi e il fondo cosmico, mentre la sua altezza è il cosiddetto orizzonte sonoro - cioè la massima lunghezza percorribile dalle onde sonore nell’universo primordiale. Le onde sonore, infatti, iniziano a propagarsi pochi istanti dopo la nascita dell’universo e si interrompono quando si forma il fondo cosmico a microonde. Tornando alla nostra persona decontestualizzata, se la guardiamo così com’è non riusciamo a dire contemporaneamente quanto è alta e quanto è lontana: ci sono infinite combinazioni di distanza e altezza che sottendono, ai nostri occhi, lo stesso angolo. Abbiamo, per dirla in matematichese, una sola equazione con due variabili».
Non si può risolvere.
«Esatto. Se vogliamo capire, poi, quanto è curva la Terra fra noi e questa persona dobbiamo riuscire a distinguere e misurare queste due variabili - altezza e distanza - separatamente. L’angolo da solo non basta, bisogna aggiungere dei riferimenti fra noi e la persona. Potremmo posizionare questa persona nel contesto di un viale alberato, ad esempio, e sfruttare i riferimenti forniti dagli alberi».
Come si collega questo alla radiazione cosmica di fondo misurata da Planck?
«Nel caso della radiazione cosmica di fondo - chiamiamola Cmb - gran parte dell’informazione che abbiamo viene dallo spettro di potenza. È questo l’osservabile che misura Planck, e ci dice quanto le fluttazioni della Cmb sono correlate guardando due punti separati da scale angolari più o meno grandi (più vado verso destra, nel grafico qui sotto, più l’angolo sotteso è piccolo). L’elemento più importante di questo spettro è il primo picco, quello più alto, perché è una delle impronte lasciate dalle onde sonore nell’universo primordiale: trattandosi di oscillazioni armoniche, corrisponde all’armonica fondamentale. Ci sta dicendo, per tornare all’esempio di prima, che i nostri occhi vedono la persona sotto un angolo di un grado. Quindi, per capire quanto è curvo l’universo - a questo punto - ci servono degli alberi fra noi e la persona.
E cosa sono gli “alberi”, nell’universo?
«Gli alberi sono degli osservabili, nell’universo, che fungono da righelli cosmici. Tradizionalmente, le oscillazioni barioniche acustiche - Bao. Si confronta la lunghezza nota di questi righelli con quella apparente in cielo, e dal confronto si calcola la distanza dei righelli. Se ne misuro un numero sufficiente, riesco a definire quanto lontana è la Cmb».
Quindi ci sta dicendo che la distanza fra noi e la radiazione cosmica di fondo non è conosciuta, se capisco bene. Credevo che il suo redshift fosse ben noto...
«Esatto, occorre conoscere la sua distanza - comunque quantità direttamente collegate alla distanza, come il tasso di espansione dell’universo nelle varie epoche cosmiche. Quello che conosciamo precisamente è, appunto, il redshift della Cmb. Se prendiamo l’informazione che proviene dalla Cmb, la luce, questa parte con una certa energia - o lunghezza d’onda - e per effetto dell’espansione dell’universo, durante il suo viaggio nelle epoche cosmiche perde energia - o viene stiracchiata, se pensiamo alla forma di un’onda. Quanta energia perde - o di quanto si dilata la sua lunghezza d’onda - dipende, appunto, dal redshift. La distanza, invece, non è necessariamente una quantità nota: per conoscerla, dovremmo sapere quanta materia c’è fra noi e la Cmb, quanta energia oscura, quanta curvatura e qual è il tasso di espansione attuale (H0, la costante di Hubble). Diventa un problema un po’ circolare: se vogliamo dire quanto lontana è, dobbiamo assumere un certo modello cosmologico e determinati valori per i parametri detti sopra. Quel che noi vogliamo fare, invece, è l’opposto: usare la Cmb per definire come è fatto l’universo».
Torniamo alla curvatura, allora.
«Certo. Dicevamo che sì, è possibile ottenere una misura di curvatura usando solamente la Cmb, ma - primo problema - questa misura non sarà precisa per via della degenerazione geometrica e - secondo problema - probabilmente non sarà nemmeno affidabile, cioè accurata. Bisogna rompere la degenerazione geometrica: questo ci porta al problema sollevato dal paper di Di Valentino et al.».
Quale?
«Si può provare a rompere questa degenerazione usando le Bao, ad esempio, e facendolo si ottiene come risultato che l’universo è piatto. Il problema è che, nel contesto di un universo non piatto, i risultati provenienti dalle Bao e da Planck - dalla Cmb, quindi - sono molto in tensione, e diventano non confrontabili. E se due dati vogliono due cose molto diverse, la verità - in cosmologia - non sta nel mezzo. In parole semplici, Cmb e Bao non possono essere combinati».
Facciamo un passo indietro. Nel paper di Di Valentino e colleghi, però, vengono usate proprio le Bao. Non è corretto il loro procedimento, dunque?
«Loro hanno usato le Bao, esattamente, ma proprio per portare alla luce questa tensione. Il ragionamento seguito nel loro lavoro è il seguente: i risultati di Planck vorrebbero un universo molto sferico, le Bao insieme a Planck vogliono un universo piatto. Problema risolto? No, perché in realtà non possiamo metterle insieme».
È per questo che loro asseriscono che l’universo sia sferico?
«Non proprio: loro non dicono che l’universo è sferico. Dicono piuttosto che questi risultati di Planck portano alla luce delle tensioni e aprono una crisi nella cosmologia. Questo è il messaggio che ha generato disaccordo e discussioni nella comunità».
Planck, comunque, è il satellite che finora ha misurato la Cmb nel modo più preciso finora...
«Se intendiamo “preciso” nel senso che ha riportato barre d’errore sulle misure molto piccole, allora sì, sono d’accordo. Se invece vogliamo dire accurato, cioè centrato sul valore giusto, allora molti sono d’accordo sul fatto che, per quanto riguarda la curvatura, Planck non sia stato accurato».
Spieghiamo meglio questa incompatibilità, però. Se prima dicevamo che Planck da solo non può misurare la distanza della Cmb, e che occorrono dei righelli - come le Bao - che aggiungano dei riferimenti adeguati, com’è che ora le Bao non vanno più bene?
«Perché bisogna trovare dei righelli adeguati. Le Bao sono un esempio, ma in questo caso non sono il righello giusto. Si possono combinare due metodi solo se le informazioni che danno da principio non sono troppo discordanti».
Cosa manca alle Bao per essere il righello giusto?
«Non direi che manca loro qualcosa. Direi piuttosto che, nel caso di Planck, e soprattutto nel contesto di un universo non piatto, non vanno bene. Quando noi facciamo cosmologia, dobbiamo sempre e comunque assumere un certo modello di universo a priori. Quindi, quando parlo di accordo fra due misure, ne parlo in relazione al modello adottato. In questo caso, se consideriamo un modello di universo piatto, allora le Bao sono il righello giusto e posso combinarle con la Cmb. Questo è quello che hanno fatto alcuni satelliti prima di Planck (come Wmap, ad esempio). Se invece cambio contesto, e non mi fisso su una curvatura piatta ma le consento di variare, allora non possiamo più confrontare questi due metodi. Ecco il messaggio del paper di Di Valentino et al.: quando voglio combinare due misure, devo essere sicuro che abbia senso farlo nel contesto in cui mi trovo».
Veniamo al vostro lavoro. Se ho capito bene, voi avete usato un altro metodo per stimare la curvatura, e questo metodo vi porta al risultato di un universo piatto, senza scontrarsi con nessuna delle due fazioni di cui parlavamo prima. Avete dunque risolto questa crisi cosmologica?
«Noi siamo riusciti a trovare quello che in inglese chiameremmo golden dataset, che ci ha permesso di mettere dei righelli fra noi e la Cmb senza entrare in forte tensione con Planck, nel contesto di un universo non piatto. L’obiettivo era quindi vedere se i nostri “cronometri cosmici” - così abbiamo chiamato i nostri righelli - ci potevano aiutare a stimare la curvatura e risolvere le tensioni».
Cosa sono questi cronometri cosmici?
«Possiamo pensarli come il ticchettio dell’universo: sono degli oggetti che ci sanno dire quanto invecchia l’universo al variare del redshift. Sappiamo che più il redshift è alto, più guardiamo indietro nel tempo: ma quanto lontano? Lo scopo dei cronometri cosmici è, in seconda istanza, misurare il tasso di espansione dell’universo nel presente e nel passato - fino a un redshift circa pari a due, direi un terzo della distanza fra noi e la Cmb, la stessa distanza che si raggiunge anche con le Bao. È molto difficile, però, trovare dei cronometri cosmici adeguati».
E, precisamente, di che oggetti parliamo?
«Si tratta di galassie passive e molto massicce, che si sono formate molto anticamente e hanno avuto una storia di formazione stellare molto breve. Da allora, hanno continuato a evolvere passivamente. Quel che facciamo noi è misurarne l’età in funzione del redshift - osservando molte di queste galassie in diverse epoche cosmiche - e dalla loro differenza di età risaliamo al tempo intercorso e al tasso di invecchiamento dell’universo».
State quindi assumendo che queste galassie, osservate a diverse distanze da noi, siano tutte parte della stessa primordiale famiglia?
«Sì, esattamente, anche se in realtà imparentiamo galassie fra loro molto vicine in redshift. Esiste una relazione che lega età dell’universo, redshift e tasso di espansione, e il nostro scopo è quello di invertirla per ricavare il tasso di espansione dell’universo nel tempo. Per fare questo, però, siccome la relazione si può invertire solo considerando piccole differenze in età e redshift (è una relazione differenziale), ci occorrono galassie molto vicine le une alle altre. Questo lavoro di collezione del campione, selezione delle galassie giuste e analisi delle loro proprietà per calcolare l’età è stato fatto da un nostro coautore esperto, Michele Moresco. Lui ha passato gran parte della sua carriera cercare questi cronometri cosmici, e a dimostrare che possiamo usarli in maniera robusta».
Quando è nato questo concetto di cronometro cosmico?
«È un’idea nata alcuni anni fa - la prima pubblicazione risale al 2002, sono passati ormai vent’anni - ed è stata proposta da due scienziati fra cui proprio il secondo autore del nostro studio, Avi Loeb. Lui è davvero un genio, un pozzo di idee. Ha proposto moltissimi studi e fatto predizioni cosmologiche che poi si sono rivelate corrette, oltre agli altri studi meno tradizionali per i quali è noto - come ad esempio quello sui dinosauri o sui possibili segni di vita aliena».
Come avete capito che queste galassie sono il righello giusto?
«Semplicemente, abbiamo provato. Abbiamo provato a confrontare le due misure e abbiamo visto che non erano in disaccordo nel contesto di un universo non piatto - o meglio, non fissando a priori alcun parametro di curvatura. Nonostante ciò, quando poi siamo andati a misurare il parametro di curvatura risultante dalla combinazione delle due misure, abbiamo trovato che è consistente con un universo piatto entro le barre d’errore. Questo ci porta finalmente alla nostra conclusione: è vero che Planck vuole un universo sferico, ma è anche importante aiutare la misura proveniente dal solo Planck in un modo adeguato e che non entri in tensione con esso: i nostri cronometri cosmici. Facendolo, troviamo un universo piatto».
Si tratta di un risultato definitivo o va perfezionato?
«Noi speriamo che già da ora questo risultato ponga fine alla diatriba cosmologica generata dai dati di Planck. C’è comunque margine di miglioramento nelle misure e nei risultati, questo è innegabile. Ci saranno altri esperimenti di Cmb dopo Planck - parliamo dell’Atacama cosmology telescope ad esempio, del Simons observatory e di Cmb-S4 - e poi esiste un altro metodo, completamente indipendente da qualunque modello cosmologico, che consente di ricavare la curvatura. Ci stiamo lavorando e i risultati sono buoni, magari ve li racconto appena pubblichiamo l’articolo».
Per saperne di più:
*Fonte: MEDIAINAF, 01/03/2021 (ripresa parziale).
Fisica.
Al Cern il futuro è ad alta luminosità
L’acceleratore Lhc che ha permesso di individuare il bosone di Higgs si prepara a diventare ancora più potente: con il progetto HiLumi gli studi sulle particelle si aprono a nuovi scenari
di Luigi Bignami (Avvenire, martedì 7 agosto 2018)
Esattamente 10 anni fa, il 10 settembre 2008, al Cern di Ginevra veniva acceso ufficialmente per la prima volta l’Lhc ( Large Hadron Collider). Da allora, al suo interno, vengono accelerati protoni (le particelle di carica positiva che costituiscono i nuclei degli atomi) e ioni (atomi a cui è stato tolto un elettrone) fino a più del 99 per cento della velocità della luce, al fine di farli scontrare con un’energia che negli ultimi anni ha raggiunto di 13 teraelettronvolt (l’unità di misura dell’energia che viene guadagnata o persa da un elettrone che si muove nel vuoto ed equivale a 1.000 miliardi di elettronvolt).
Tutto questo avviene a 100 metri di profondità dalla superficie terrestre in un tunnel sotterraneo circolare lungo 27 chilometri, situato al confine tra Francia e Svizzera. Durante questa prima decade di lavori, lo scopo era quello di studiare alcune problematiche del mondo subatomico, ossia di quelle forze e particelle che governano il mondo invisibile di cui è costituito l’Universo intero.
Nel 2012 l’Lhc ha avuto il massimo della sua notorietà quando si è rilevato per la prima volta il bosone di Higgs che era stato teorizzato nel 1964, la particelle associata al «campo di Higgs», che secondo la teoria permea l’Universo intero conferendo la massa alle particelle elementari. Da allora vi sono state altre scoperte, forse meno eclatanti della prima, ma che hanno aiutato i fisici a capire il mondo subatomico. Tra queste ad esempio, la conferma della particella Xi, una nuova luce sui «monopoli magnetici » e indizi dell’esistenza di altre particelle subatomiche, scoperte che richiederebbero lunghi approfondimenti per descrivere cosa significano.
Ma negli ultimi anni si è fatta una profonda riflessione per capire se questa «macchina» potesse essere ancor più migliorata per raggiungere nuove mete e i lavori hanno portato a voler realizzare un nuovo progetto che sarà il più grande nel mondo della fisica dei prossimi 10 anni: la costruzione dell’High Luminosity Lhc, chiamato anche HiLumi Lhc e la cui prima pietra è stata posta a metà giugno. Al termine dei lavori l’Lhc sarà molto più «luminoso» rispetto ad oggi, un aggettivo che sta a indicare il numero di collisioni tra particelle che possono avvenire per unità di superficie in un dato intervallo di tempo.
Oggi l’Lhc è in grado di produrre fino a un miliardo di collisioni tra protoni al secondo, quando HiLumi Lhc sarà pronto, presumibilmente entro il 2026, la macchina aumenterà questa «luminosità» da 5 a 7 volte. Spiega Fernando Ferroni, presidente dell’Inf: «È iniziata una nuova fase di questa spettacolare macchina. Presto si avranno molti più “eventi” di scontri tra particelle e questo permetterà di esplorare le proprietà del bosone di Higgs in profondità e scoprire, qualora la natura le abbia previste, nuove particelle».
Una macchina più potente richiederà anche rilevatori di quel che avviene al suo interno molto più precisi. Ed è per questo che anche i grandi rilevatori di scontri tra particelle collocati lungo l’anello del Lhc nei punti di collisione, dovranno essere potenziati in vista delle nuove prestazioni della macchina.
Questo gigantesco lavoro vede l’Italia in prima fila e Lucio Rossi come project manager di HiLumi Lhc: «Per ottenere le elevate prestazioni previste non è sufficiente migliorare la macchina, è necessario che anche gli esperimenti che raccolgono i dati siano potenziati. Per osservare qualcosa, infatti, non basta fare luce, bisogna che anche gli occhi siano efficienti, altrimenti è come quando ti puntano una luce intensa dritto in faccia: rimani abbagliato, non vedi più nulla. Stiamo quindi lavorando a un sostanziale potenziamento sia dell’acceleratore sia dei rivelatori».
I rilevatori che osservano e studiano i prodotti delle collisioni sono macchine gigantesche i cui nomi sono Atlas, Cms, Alice e Lhcb, e i più piccoli Totem e Lhcf. «Un altro punto di forza di questo progetto sono i magneti basati su una nuova tecnologia superconduttiva - continua Ferroni - che permetterà, tra l’altro, di avere ricadute in nuove applicazioni nel campo della medicina nella risonanza per immagini». I «magneti» di cui parla Ferroni, sono delle gigantesche «calamite» che creano un campo magnetico molto intenso necessario a mantenere in orbita i protoni con la velocità prevista senza che vadano a sbattere contro le pareti della macchina prima del loro scontro reciproco.
Dal 2026 i fisici saranno in grado di entrare nel cuore di fenomeni fisici molto rari e raccogliere misure più accurate di quelle dei nostri giorni. E così se Lhc ha permesso di scoprire la reale esistenza del bosone di Higgs, il progetto HiLumi Lhc contribuirà a chiarire le proprietà di quella particella in modo più accurato e descrivere così con maggiori dettagli come viene prodotta, come si trasforma e interagisce con altre particelle.
Inoltre, saranno messi alla prova scenari che vanno al di là del Modello Standard (l’attuale ipotesi che descrive l’insieme delle caratteristiche e delle forze che regolano le interazioni delle particelle che costituiscono la natura nel suo insieme), tra cui, per esempio, la supersimmetria (Susy), le teorie con extradimensioni, la struttura dei quark (le particelle che, al momento, sembrano essere le più piccole in assoluto) e molto altro ancora.
“Così al Cern si farà luce sull’Universo oscuro”
Fabiola Gianotti è leader del laboratorio n°1 al mondo
“Ci stiamo preparando a decifrare il 95% del cosmo”
di Stefano Massarelli (La Stampa, TuttoScienze, 14.02.2018)
La conoscenza dei componenti della materia, dell’Universo e di noi stessi è solo agli inizi. Ciò che osserveremo al Cern di Ginevra nei prossimi anni potrebbe spalancare le porte a una nuova fisica e a un nuovo modo di osservare la realtà, a partire dai minuscoli quark. A guidare questo cammino saranno i 17 mila ricercatori di 110 Paesi che collaborano agli esperimenti dell’acceleratore di particelle tra Francia e Svizzera sotto la guida di Fabiola Gianotti. È lei che nel 2012 ha annunciato la scoperta del Bosone di Higgs, un risultato reso possibile - ha spiegato nella lezione all’Accademica dei Lincei a Roma - anche dalle tecnologie futuristiche della mega-macchina «Lhc», il «Large hadron collider».
Torniamo a quel 4 luglio 2012, quando lei era responsabile del test «Atlas»: quali prospettive ha aperto l’Higgs?
«La scoperta ha rappresentato allo stesso tempo un grande traguardo e un nuovo inizio. Un grande traguardo perché ci ha permesso di completare il disegno del Modello Standard, che è la teoria che descrive i componenti fondamentali della materia e le loro interazioni. Un nuovo inizio perché ci ha permesso di aprire le porte verso una nuova fisica. Il Modello Standard, infatti, seppure verificato a livello sperimentale, non è in grado di rispondere a tutte le domande ancora aperte della fisica. Il Bosone di Higgs rappresenta proprio uno degli strumenti attraverso cui indagare questa nuova fisica. Oggi, per esempio, stiamo misurando con attenzione i suoi comportamenti e le interazioni con le altre particelle: se dovessimo effettuare osservazioni che si discostano dal Modello Standard, ciò significherebbe che stiamo entrando in un terreno inesplorato».
A quali altre domande si tenta di dare una risposta con «Lhc»?
«Uno dei grandi interrogativi riguarda la comprensione dell’Universo oscuro. Ciò che riusciamo a vedere è solo il 5% della materia che compone l’Universo, che per il restante 95% è composto di materia ed energie a noi sconosciute. Tra i nostri obiettivi c’è quello di scoprire l’identità della materia oscura che costituisce circa il 25% dell’Universo. Abbiamo prove indirette della sua esistenza, ma non si è rivelata. Oltre a “Lhc”, numerose altre strutture nel mondo le danno la caccia, tra cui i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn».
Un’altra questione riguarda l’origine dell’Universo: cosa sappiamo del Big Bang?
«Quello che osserviamo con i telescopi si ferma a circa 380 mila anni dopo il Big Bang, perché in epoche precedenti la luce è rimasta intrappolata in un gas opaco di particelle e quindi non è potuta giungere fino a noi. Per indagare oltre dobbiamo ricorrere agli acceleratori di particelle, attraverso cui si replicano le reazioni nei primi istanti dell’Universo. Con gli esperimenti attuali abbiamo studiato fenomeni che sono avvenuti un milionesimo di milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Ma andare oltre è difficile: ci sono fenomeni che ancora non conosciamo».
Quali saranno i prossimi sviluppi dell’acceleratore «Lhc»?
«L’attuale ciclo, il “Run2”, terminerà a fine 2018. In seguito sarà effettuato un potenziamento e l’acceleratore riprenderà l’attività nel 2021, con fasci più intensi e maggiori energie. La quantità di dati aumenterà di 20-30 volte e ci permetterà di cogliere maggiori opportunità, effettuare possibili nuove scoperte e fornire anche risposte alle domande ancora irrisolte».
Al momento della nascita dell’Universo esistevano quantità pressoché simili di materia e antimateria, dopodiché quest’ultima è scomparsa. Sappiamo che fine abbia fatto?
«“Lhc” lavora anche per rispondere a questo quesito. Uno dei test - “LHCb” - si occupa di effettuare ricerche proprio sull’asimmetria tra materia e antimateria e di spiegare il perché quest’ultima sia scomparsa. Inoltre abbiamo a disposizione l’unica installazione al mondo per la produzione di antiprotoni e antielettroni, i quali vengono sintetizzati a formare molecole di anti-idrogeno: studiamo il comportamento di questo “equivalente” dell’idrogeno nell’antimateria e questo sembra comportarsi esattamente come l’idrogeno conosciuto».
Intorno al 2035 «Lhc» terminerà la sua attività. E dopo?
«Cominciamo a proporre nuove idee per quello che potrebbe essere il successore: si pensa a un super-acceleratore più grande e sempre circolare, anche se sono state avanzate ipotesi di infrastrutture lineari. È un momento strategico, in cui pianificare il futuro in previsione della nuova fisica».
Il dibatttito delle idee
LA SCUOLA DEVE USARE IL CERVELLO
Lettera aperta di Guido Tonelli, scienziato del Cern di Ginevra, fisico delle particelle che ha partecipato alla scoperta del bosone di Higgs, alla responsabile dell’Istruzione Valeria Fedeli.
L’appello di Tonelli sulla scuola
nel nuovo numero de «la Lettura»
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: "CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?"!
FRANCESCO TARTAGLIONE, nato nel 1921, docente di Storia e Filosofia nei Licei, ha insegnato nel Liceo di S. Maria C.V., nei licei classico e scientifico di Taranto e a lungo, da titolare, nel Liceo Classico “Costa”di La Spezia; in un Annuario ha pubblicato un ampio lavoro Sul terzo libro del saggio sull’intelletto umano di Locke. I suoi interessi principali riguardano la storia e la psicologia. Ha scritto: L’infezione nazista, sui postumi del nazismo nel mondo; Le forme vuote, sugli equivoci del linguaggio; Ad majorem Dei gloriam, sull’anticristianesimo della chiesa cattolica; La questione socratica, un breve scritto sulla personalità di Socrate; Citazioni e riflessioni, un’ampia silloge di pensieri vari; L’agonia della libertà: genesi delle guerre mondiali e dei totalitarismi e Domande, un breve lavoro polemico. Inoltre ha pubblicato vari articoli su giornali e riviste, partecipando vivamente alla polemica ambientalista.
* LA SPEZIA OGGI, 06.10.2015 (ripresa parziale).
Nobel per la Fisica a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss
Menzionate le collaborazioni internazionali Ligo e Virgo. Gli Applausi e i brindisi dei fisici italiani
di Redazione ANSA *
l Nobel per la Fisica 2017 è stato assegnato alla scoperta delle onde gravitazionali. Il Nobel è stato assegnato a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss. Sono state menzionate le collaborazioni internazionali Ligo e Virgo.
Una metà del premio va a Rainer Weiss, mentre l’altra metà è stata assegnata congiuntamente a Barry C. Barish e Kip S. Thorne "per il contributo decisivo al rivelatore Ligo e all’osservazione delle onde gravitazionali". Per tutti e tre i premiati la Fondazione Nobel ha indicato come affiliazione le collaborazioni Ligo-Virgo.
Weiss (85 anni), è nato nel 1932 a Berlino. Ha preso il dottorato nel 1962 negli Stati Uniti, nel Massachusetts Institute of Technology (Mit), dove ha continuato a insegnare.
Barish (81 anni) è nato nel 1936 negli Stati Uniti, a Omaha. Dopo il dottorato nell’Università della California a Berkeley, ha insegnato nel California Institute of Technology (Caltech).
Thorne (77 anni) è nato negli Stati Uniti, a Logan. Ha studiato nell’università di Princeton e ha avuto la cattedra di fisica teorica nel California Institute of Technology (Caltech). E’ diventato celebre per il grande pubblico dopo la sua consulenza scientifica per il film Interstellar.
Emozione e commozione, un grande abbraccio all’Infn
Un grandissimo applauso e un brindisi ha accolto, nella sede dell’Infn a Roma, la notizia del Nobel per la Fisica 2017 alla scoperta delle onde gravitazionali, "Questa volta è stata premiata la globalità della scienza", ha detto il direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), Federico Ferrini, dedicando il brindisi al papà del rivelatore Virgo, Adalberto Giazotto.
D’Amico, apre nuovi orizzonti studio cosmo
Un riconoscimento che apre nuovi orizzonti di indagine dell’Universo e i telescopi italiani sono già all’opera per catturare le prime fotografie delle sorgenti di onde gravitazionali. Così il presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), Nichi D’Amico, commenta l’assegnazione del Premio Nobel 2017 per la Fisica alla scoperta delle onde gravitazionali. ’’Un grande e meritato riconoscimento per la fisica moderna, che apre nuovi orizzonti di indagine dell’Universo’’ ha detto D’Amico. I telescopi dell’Inaf ha aggiunto ’’sono già all’opera per produrre le prime ’fotografie’ delle sorgenti di onde gravitazionali, a tutte le lunghezze d’onda, da terra e dallo spazio’’.
Ferrini, grande successo per Europa ed Italia
"E’ una giornata storica, è meraviglioso": il direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), Federico Ferrini, è entusiasta del Nobel alla scoperta delle onde gravitazionali. "E’ stata un’attesa trepidante e piena di speranze, che alla fine non sono andate deluse", ha detto subito dopo il brindisi e gli abbracci con gli altri protagonisti italiani della collaborazione Virgo, riuniti a Roma, nell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Il Nobel assegnato oggi "è un grandissimo successo per l’Europa: Virgo - ha aggiunto - è il risultato della collaborazione fra sei Paesi europei, che ha sviluppato una tecnologia in modo indipendente dal punto di vista tecnologico rispetto a quella del rivelatore americano Ligo, anche se in modo parallelo. Tanto - ha rilevato - da arrivare a suggerire a Ligo delle scelte tecnologiche e a prendere dati insieme".
Le collaborazioni Ligo e Virgo
Le due collaborazioni Ligo e Virgo menzionate nel premio Nobel per la Fisica 2017 sono il risultato corale di una ricerca che nasce dalla partecipazione di 1.500 fisici di tutto il mondo, almeno 200 dei quali sono italiani. Da un’idea italiana, del fisico Adalberto Giazotto, è nato il rivelatore Virgo, costruito nella campagna alle porte di Pisa, a Cascina. Nato dall’idea lanciata a meta’ degli anni ’80 da Giazotto e Alain Brillet, Virgo fa parte dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), fondato nel 2000 dall’Italia, con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dalla Francia, con il Consiglio nazionale della ricerca scientifica Cnrs.
La sensibilità del rivelatore è stata aumentata grazie alla nuova versione di Virgo (Advanced Virgo), che ha appena concluso la prima fase congiunta di osservazione con Ligo: i due rivelatori hanno lavorato insieme come un unico, potentissimo strumento. Le due antenne di Virgo si trovano negli Stati Uniti sono entrati in funzione nel 2004 negli Stati Uniti (ad Handford, nello Stato di Washington, e a Livingston, nella Louisiana). Recentemente sono stati potenziati ed e’ stata questa nuova versione, chiamata Advanced Ligo, ad ascoltare per la prima volta le vibrazioni dello spazio-tempo. Diretta da Gabriela Gonzales, la collaborazione Ligo (Laser InterferometerGravitational-WaveObservatory) e’ condotta congiuntamente dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e dal California Institute of Technology (Caltech), insieme ad altri centri di ricerca e universita’ degli Stati Uniti, e comprende oltre 900 ricercatori di tutto il mondo.
Che cosa sono le onde gravitazionali
Previste un secolo fa dalla teoria della relatività di Albert Einstein, le onde gravitazionali sono state scoperte da due grandi collaborazioni internazionali, l’americana Ligo e l’europea Virgo, alla quale l’Italia collabora con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Le onde gravitazionali sono le ’vibrazioni’ dello spazio-tempo provocate dai fenomeni più violenti dell’universo, come collisioni di buchi neri, esplosioni di supernovae o il Big Bang che ha dato origine all’universo.
Viste per la prima volta nel settembre 2015, la loro scoperta è stata annunciata l’11 febbraio 2016 e adesso è stata finalmente premiata da un Nobel molto atteso. Come le onde generate da un sasso che cade in uno stagno, le onde gravitazionali percorrono l’universo alla velocità della luce creando increspature dello spazio-tempo finora invisibili. Poiché interagiscono molto poco con la materia, le onde gravitazionali conservano la ’memoria’ degli eventi che le hanno generate.
La scoperta delle onde gravitazionali è stata anche la conferma definitiva della teoria della relatività generale. Erano infatti l’unico fenomeno previsto da questa teoria a non essere stato ancora osservato.
* ANSA 03 ottobre 2017 (ripresa parziale).
Cosmologia. L’universo in un saggio del fisico e divulgatore Jim Al-Khalili
In viaggio tra i prodigi dello spazio-tempo
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.2018) *
Ci sono regali di compleanno che lasciano il segno. In occasione dei settant’anni di Albert Einstein, nel 1949, il grande logico matematico Kurt Gödel decise di rendere omaggio al padre della relatività, suo compagno di passeggiate e di meditazioni a Princeton, con un singolare lavoro scientifico, contenente un nuovo modello cosmologico. Gödel era convinto che il tempo fosse un’illusione e pensò di dimostrarlo concependo un universo perfettamente coerente con le leggi della relatività generale ma dotato di una caratteristica inaudita: la possibilità di viaggiare indietro nel tempo, visitando il proprio passato.
L’universo di Gödel è molto diverso da quello che conosciamo: per esempio, non si espande, ma ruota. Nessuna legge fisica, però, lo vieta, e se fosse reale, creerebbe non pochi problemi. Provate a immaginare che cosa potrebbe succedere se foste in grado di tornare indietro nel tempo. Il paradosso più eclatante in cui incorrereste è quello del nonno: supponete che, viaggiando nel passato, decidiate di uccidere vostro nonno prima che abbia la possibilità di conoscere vostra nonna e di concepire i vostri genitori. Non sareste quindi potuti nascere; ma, d’altra parte, se non foste nati, non potreste oggi tornare nel passato e uccidere vostro nonno.
Come ricorda il fisico e divulgatore Jim Al-Khalili in Buchi neri, wormholes e macchine del tempo, che esce ora in un’edizione italiana aggiornata, l’articolo di Gödel segnò il momento in cui i viaggi nel tempo, in precedenza appannaggio solo della letteratura di fantasia, conquistarono il palcoscenico della fisica. Era l’inizio dell’investigazione scientifica dei territori estremi ed esotici, ma ammissibili, dello spazio-tempo.
C’era stato, a dire il vero, un precedente: lo stesso Einstein, assieme a Nathan Rosen, aveva immaginato nel 1935 un modo per connettere, attraverso una sorta di scorciatoie cosmiche, due universi paralleli. I«ponti di Einstein-Rosen» sono gli antesignani dei wormholes, i cunicoli spazio-temporali che collegano regioni lontane dello stesso universo (invece che universi distinti, come nella proposta di Einstein e Rosen).
A inaugurare la moderna ricerca su queste intriganti strutture cosmologiche è stato negli anni Ottanta del secolo scorso un fisico di grande ingegno, Kip Thorne, su richiesta dell’amico Carl Sagan, il famoso astronomo e scrittore, che intendeva introdurre i wormholes nella trama del suo romanzo Contact. Sagan aveva bisogno di wormholes stabili, sufficientemente grandi e percorribili nei due sensi, in modo da dare la possibilità a una missione terrestre di entrare in contatto con una civiltà aliena e di tornare indietro. Thorne si mise al lavoro e, con sua grande sorpresa, scoprì che lo spazio-tempo relativistico ammetteva effettivamente collegamenti di questo genere.
L’intreccio tra scienza e finzione si è ripetuto di recente ancora con Thorne, il quale ha contribuito come soggettista e produttore esecutivo alla realizzazione di Interstellar, uno dei più interessanti film di fantascienza degli ultimi anni, diretto da Christopher Nolan.
I “protagonisti” scientifici del film sono - in una cornice fantastica - gli stessi del libro di Al-Khalili: un buco nero supermassiccio, simile a quelli che popolano i centri di molte galassie (compresa la nostra), un wormhole, che si apre improvvisamente vicino a Saturno, e, soprattutto, una macchina del tempo. Quest’ultima è pensata da Thorne come un ipercubo che si muove in una quinta dimensione, ma, come spiega Al-Khalili, in linea di principio si possono concepire macchine del tempo anche nel nostro solito universo, senza aver bisogno quindi di dimensioni extra o di modelli di tipo gödeliano: basta (si fa per dire) che si combinino opportunamente dei wormholes attraversabili, nella speranza che non sia vero quanto congetturato da Stephen Hawking, e cioè che non si scopra qualche nuova legge della natura a protezione del corso ordinario degli eventi.
Curiosamente, tra tutti i prodigi spazio-temporali, in Interstellar ne mancava uno, di cui abbiamo oggi evidenza diretta: le onde gravitazionali. Sebbene non fossero state ancora osservate, Thorne le aveva inserite nel soggetto originario del film, risalente al 2004, ma alla fine il regista aveva deciso di eliminarle. Ironia della sorte, appena un anno dopo l’uscita del film, all’inizio del 2016, l’esperimento statunitense Ligo e l’omologo italo-francese Virgo hanno annunciato la scoperta delle prime onde gravitazionali (per questo risultato Thorne, co-fondatore e responsabile teorico di Ligo, è stato insignito l’anno scorso del premio Nobel per la fisica assieme ai colleghi Rainer Weiss e Barry Barish).
In cosmologia, come si vede, l’osservazione e l’invenzione si rincorrono e si sostengono a vicenda, disegnando un’immagine dell’universo a dir poco stupefacente. Quella che è in corso sotto i nostri occhi, e che ci regala quotidianamente sorprese, è una straordinaria avventura, che Al-Khalili racconta con la sua riconosciuta abilità divulgativa, accompagnando il lettore tra i più misteriosi abitatori del cosmo e nelle pieghe nascoste del tempo, in un viaggio vertiginoso ma sempre sul solido terreno della scienza.
*Questo articolo è una versione modificata della prefazione di Vincenzo Barone a Jim Al-Khalili, Buchi neri, wormholes e macchine del tempo (Dedalo, Bari, pagg. 320, € 13,60) nei prossimi giorni in libreria
UNIVERSO, SPAZIO, ONDE GRAVITAZIONALI ...
Questo scontro tra due buchi neri cambia la storia dell’astronomia gravitazionale
La collisione è stata registrata contemporaneamente da due interferometri diversi, uno italofrancese e uno statunitense. Un evento fondamentale
di SERGIO GAUDIO *
La notizia è davvero rilevante. Per la prima volta due strumenti molto particolari, gli interferometri LIGO E Virgo, sono riusciti a vedere nello stesso momento, le perturbarzioni del campo gravitazionale prodotte da un evento cosmico. È una novità assoluta che ci aiuterà non solo a comprendere meglio l’origine del fenomeno, ma anche a spiegare e a interpretare meglio le leggi che regolano l’Universo. Le onde che sono state osservate sono il prodotto della collisione di due buchi neri di massa circa 31 volte l’uno e 25 volte quello della massa del sole, dando vita a un unico buco nero di circa 53 volte la massa del nostro sole, con una perdita di circa tre masse solari che sono state convertite in onde gravitazionali.
Avevo quindici anni quando per la prima volta lessi qualcosa di relatività: era l’esposizione divulgativa della relatività di Einstein, un libro breve in cui per la gran parte si esponevano i concetti, non certo la matematica. Ci capii poco allora, forse poco anche adesso, ma per un ragazzino di quell’eta’ fantasticare era tutto. Ecco, penso che a tutti sia capitato di alzare lo sguardo al cielo, di domandarsi cosa ci sia oltre cio’ che riusciamo a vedere.
Fino alla prima rilevazione di LIGO, eravamo limitati a quello. Oggi, lo spazio, l’Universo intorno ci parla, lo possiamo ascoltare. Il “chirp” ascoltato la prima volta nel 2015 è stato entusiasmante: abbiamo ascoltato l’eco del rumore prodotto da una vibrazione dello spazio-tempo.
Ecco, lo spazio-tempo: quando insegno ai ragazzi del primo anno all’università la prima cosa che faccio è stravolgere la nozione di uno spazio immutabile, di un tempo assoluto.
Sapevamo già che lo spazio si potesse curvare, lo sapevamo seguendo la deflessione del cammino della luce, lo sapevamo dalla correzione del periodo dell’orbita di Mercurio intorno al Sole, non avevamo mai verificato sperimentalmente, che quello spazio potesse subire delle fluttuazioni, in modo molto approssimato, ma per capirci, alle onde che l’acqua forma quando cade un sasso in uno stagno.
Finalmente, noi possiamo sentire quel rumore, possiamo ascoltarlo, grazie alla rilevazione delle onde gravitazionali. Fino al 14 di agosto di quest’anno, però riuscivamo ad avere solo una vaga idea da dove quel suono provenisse.
L’entrata in funzione di Virgo dà nuove prospettive. Non solo Virgo ha visto esattamente lo stesso evento di LIGO, la fusione di due buchi neri, confermando, se mai ce ne fosse stato bisogno, le sue osservazioni, ma ha ristretto per triangolazione, il campo di origine delle onde e dunque la posizione dell’evento: da circa 1000 gradi quadrati, che era l’area individuata dal solo LIGO, a circa 60 gradi quadrati con la contemporanea rilevazione di Virgo. Le cose miglioreranno sicuramente quando anche gli altri rilevatori in India, in Giappone e anche LISA (in orbita nello spazio intorno alla Terra), saranno in funzione perché sarà possibile una triangolazione più precisa.
Questo è dunque il primo evento osservato con tre interferometri diversi.
Apriamo dunque una nuova frontiera nell’astronomia. Fino ad oggi le osservazioni astronomiche si erano sostanzialmente basate sulla radiazione elettromagnetica. Questa può essere assorbita o irradiata. Le onde gravitazionali, al contrario, interagiscono pochissimo con la materia e dunque non vengono diffuse o assorbite. Questo consente di ottenere informazioni non accessibili altrimenti della sorgente.
La rilevazione in contemporanea di Virgo ha prodotto un altro risultato importante: grazie ai tre interferometri, alla particolare geometria, al disallineamento dei bracci del suo interferometro rispetto a quelli di LIGO, è possibile la ricostruzione delle polarizzazioni delle onde gravitazionali, presenti così come prescritto dalla relatività generale. Fino ad oggi, con il solo LIGO questo non era possibile.
La ricostruzione delle caratteristiche della polarizzazione è uno degli aspetti più importanti perché ci consente di testare la relatività generale come mai prima. Per esempio, teorie alternative della relatività generale assumono delle asimmetrie nello spazio che farebbero propagare in modo diverso le onde gravitazionali con polarizzazione diversa; uno sfasamento tra le polarizzazioni inconsistente con il moto “inspiral” di un sistema binario indicherebbe una nuova frontiera da esplorare anche nelle equazioni fondamentali dello spazio tempo.
Insomma, questo è un momento storico per il campo dell’astronomia gravitazionale e questo rilevamento non può che far gioire francesi e italiani che su Virgo hanno investito grandi risorse per rendere operativo l’interferometro di Cascina (Pisa) ed è non solo il coronamento di un lungo viaggio nato dalla visione di pionieri come Adalberto Giazotto ma soprattutto apre la via per le esplorazioni future.
astrofisica / 1
I nuovi confini del cosmo
Da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha ricominciato a mappare lo spazio
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)
«Dove sei?» è diventata, con l’avvento dei cellulari, la domanda d’esordio di ogni conversazione telefonica. Possiamo d’altra parte rispondere alla curiosità dei nostri interlocutori con una precisione inimmaginabile fino a qualche anno fa, grazie a sistemi come il GPS, che incorporano tanta splendida fisica. E non solo il nostro posto sulla Terra, ma anche quello nell’universo è ormai molto ben individuato. Viviamo su un confortevole pianeta a 150 milioni di chilometri da una stella di media grandezza, il Sole, collocata a 27.000 anni luce dal centro di una galassia a spirale, la Via Lattea (centomila anni luce di diametro), che fa parte del Gruppo Locale (dieci milioni di anni luce di diametro), un insieme di galassie appartenente al Superammasso della Vergine (cento milioni di anni luce di diametro), una delle componenti del Complesso dei Pesci-Balena, che si estende per un miliardo di anni luce.
Riusciamo insomma a collocarci precisamente in un universo che è miliardi di miliardi di miliardi di volte più grande di noi. È una conquista mirabile, la cui storia (ben illustrata nel libro di Tommaso Maccacaro e Claudio Tartari, Storia del dove, Bollati Boringhieri, recensito da Patrizia Caraveo sulla Domenica del 20 agosto) coincide in definitiva con la storia del pensiero e della scienza. Le frontiere della conoscenza e quelle fisiche del mondo si sono ampliate di pari passo, e il cosmo ha infine assunto proporzioni enormi, che sappiamo quantificare, ma facciamo fatica a concepire e a esprimere in termini familiari.
«Un indice del progresso della civiltà umana - osserva il fisico teorico e scrittore Alan Lightman in un piccolo e godibile saggio, L’universo accidentale, che racconta l’universo attraverso sette suoi attributi - è la scala crescente delle nostre mappe». In effetti, tra la tavoletta di argilla babilonese conservata al British Museum, che identifica il mondo con la regione dell’Eufrate, e la mappa della radiazione cosmica di fondo della missione Planck, che fotografa l’intero universo nella sua infanzia, 380mila anni dopo il Big Bang, si dispiega tutta l’avventura del pensiero umano - un’avventura che ha subìto un’accelerazione decisiva nei quattro secoli della scienza moderna.
Dal Cinquecento a oggi l’universo noto si è dilatato di sedici ordini di grandezza (cioè di dieci milioni di miliardi di volte): un numero impressionante, che dà l’idea dell’impresa compiuta dagli astronomi. Alla vigilia della Rivoluzione Scientifica le stime delle distanze celesti erano ancora quelle di Tolomeo (II secolo d.C.) e dei suoi predecessori (Eratostene, Aristarco, Ipparco). Tolomeo attribuiva alla distanza Terra-Sole il valore di 1.200 raggi terrestri (venti volte meno del dato reale) e riteneva che la sfera delle stelle fisse, adiacente a quella dell’ultimo pianeta noto, Saturno, avesse una dimensione di 20.000 raggi terrestri, più o meno dieci milioni di chilometri.
Non era mancato, a dire il vero, chi già in epoca precedente aveva sfidato le stime tolemaiche. Nel Trecento, per esempio, Il rabbino catalano Levi ben Gershon (Gersonide) aveva sostenuto l’estrema lontananza delle stelle, collocate da lui a milioni di miliardi di chilometri dalla Terra (decine o centinaia di anni luce, in unità moderne). Le sue idee non ebbero però alcun seguito. Con diffidenza furono anche accolte, tre secoli e mezzo dopo, stime simili dovute a Huygens e Newton. Solo nell’Ottocento, con la misura della parallasse di 61 Cygni da parte di Friedrich Wilhelm Bessel, le distanze stellari cominciarono a essere determinate in maniera diretta, e la frontiera degli anni luce venne definitivamente varcata.
Nel frattempo, William Herschel aveva prodotto nel 1785 il primo modello della Via Lattea: un disco appiattito largo dieci milioni di miliardi di chilometri (cento volte meno del reale). Modelli sostanzialmente dello stesso genere, più raffinati, vennero proposti fino all’inizio del Novecento. Si pensava ancora che l’universo coincidesse con la nostra galassia, e alcuni - in assenza di prove contrarie - collocavano il Sole in posizione centrale (ultimo residuo di antropocentrismo).
A cambiare tutto arrivò dapprima un’astronoma di Harvard, Henrietta Leavitt, che con le cefeidi - stelle di luminosità assoluta nota - fornì finalmente un “metro” affidabile e universale per misurare gli spazi siderali, e poi un altro scienziato statunitense, Edwin Hubble, che rivoluzionò la cosmologia, mostrando che la Via Lattea è solo una delle tante galassie disseminate in uno spazio sterminato (con il Sole, peraltro, in posizione defilata), e soprattutto che l’intero quadro è dinamico: l’universo si espande e ha una storia. L’attualità è nota. Sappiamo di essere abitanti di un cosmo in espansione accelerata, globalmente piatto, vecchio di 13,8 miliardi di anni. Quanto più ci addentriamo nelle sue profondità, tanto più indietro andiamo nel tempo. Esiste quindi un orizzonte - alcune decine di miliardi di anni luce - che limita il nostro sguardo, giacché non possiamo ricevere segnali da un tempo anteriore all’inizio dell’universo.
Per il frontespizio dell’Instauratio Magna, del 1620, che conteneva il Novum Organum, manifesto metodologico della nuova filosofia naturale, Francesco Bacone scelse un’immagine emblematica: due navi a vele spiegate che oltrepassano le Colonne d’Ercole. Era al tempo stesso una raffigurazione di ciò che stava accadendo realmente, con le imprese dei grandi navigatori, e una metafora della scienza moderna, come conquista di nuovi territori del sapere. Il versetto biblico che accompagnava l’immagine - Multi pertransibunt et augebitur scientia («Molti passeranno e la scienza crescerà») - è una profezia ampiamente realizzatasi, al di là di quanto il Lord Cancelliere potesse immaginare. Dopo aver a lungo scrutato l’universo dalla finestra di casa, con strumenti sempre più raffinati (e ingombranti), da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha cominciato a mandare le proprie navi oltre le Colonne d’Ercole.
La sonda Voyager è laggiù: ha fotografato quel «puntino celeste» (definizione di Carl Sagan) che è la Terra vista dalla periferia del Sistema Solare e oggi, a 20 miliardi di chilometri di distanza da noi, è l’oggetto artificiale più lontano. E già qualcuno progetta di andare a vela - spaziale - verso Alpha Centauri, più di 4 anni luce da percorrere in una ventina d’anni (è l’idea del miliardario russo Yuri Milner, sostenuta da Stephen Hawking). Il bello delle frontiere dell’universo è che sono sempre in movimento.
astrofisica / 2
Nell’oscurità dell’Universo
di Patrizia Caraveo (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)
Uno dei risultati più spettacolari dell’astrofisica del secolo scorso è stata la scoperta dell’espansione dell’Universo. La conosciamo come legge di Hubble ma è la somma del lavoro di molti, primo fra tutti l’abate Lemaitre. Tuttavia fu Hubble a costruire il semplicissimo grafico dove riportava su un asse le distanze delle galassie e sull’altro le loro velocità. Era il 1929 e, con poche decine di galassie osservate in modo approssimativo, Hubble seppe intuire una profonda verità: le galassie sembravano allontanarsi con una velocità che è proporzionale alla distanza. Quelle più lontane si muovono con velocità sempre più grandi. In effetti, oggi sappiamo che è lo spazio che si espande e le galassie non possono fare altro che seguire questo moto universale. Ad Einstein non piacque per niente e ci mise del tempo ad accettare questo fatto.
L’esistenza dell’espansione ha implicazioni profondissime perché ci dice che l’Universo ha avuto un inizio, quando lo spazio ha iniziato a crescere e il tempo ha cominciato a scorrere. Stiamo parlando di uno dei pilastri della cosmologia moderna: nessuno dubita della sua veridicità ma ci sono state dispute infinite sull’entità dell’espansione. La proporzionalità tra velocità e distanza è un aiuto fondamentale per gli astronomi che, data una quantità, possono ricavare l’altra. Infatti, mentre la distanza di un oggetto celeste è notoriamente difficile da misurare, la sua velocità può essere stimata direttamente misurando lo spostamento delle righe presenti nello spettro della luce che emette. La conoscenza precisa della costante di proporzionalità, la famosa costante di Hubble, è quindi di fondamentale importanza.
I cosmologi, scherzosamente descritti come una genia di scienziati often in error, never in doubt (spesso in errore, mai in dubbio) si sono insultati sanguinosamente per decenni a proposito dell’esatto valore della costante che, legando velocità e distanza, ha le dimensioni di una velocità (km al sec) diviso una distanza (che gli astronomi misurano in Megaparsec).
Sbagliando clamorosamente, Hubble stimò il suo valore in 500, cosa che implicava che l’universo avesse poco più di 2 miliardi di anni, un’età inferiore a quella delle stelle più vecchie che conosciamo. Quando entrò in funzione il telescopio di Monte Palomar, la qualità dei dati migliorò decisamente e il valore scese, ma non in modo univoco. La comunità astronomica si divise tra coloro che sostenevano che la costante di Hubble fosse 100 e quelli che preferivano il valore di 50. Ci sono voluti lunghi programmi dedicati dello Hubble Space Telescope, coordinati con tenacia da Wendy Freedman, per ridurre gli errori e sedare gli animi, facendo convergere i valori al numero magico di 72, recentemente aggiornato a 73,24.
La pace cosmologica ha avuto vita breve perché, nel frattempo, era stato sviluppato un modo indipendente di calcolare la costante di Hubble partendo dalle mappe del rumore cosmico di fondo, quello che resta del primo vagito dell’Universo. E’ una mappa molto importante perché contiene informazioni preziose sulla geometria dell’Universo che è direttamente legata alla massa totale. È esaminando la mappa del fondo cosmico che abbiamo capito che siamo azionisti di minoranza in un Universo dominato da componenti ignote, quindi oscure. Le stelle, le galassie e tutto ciò che è fatto della materia della quale siamo fatti noi arriva a malapena al 5% del totale della materia che viene mappata dalla geometria. Il 25% è dovuto a materia che pesa ma non sappiamo cosa sia, mentre il restante 70% è oscuro di nome e di fatto.
Il satellite europeo Planck, forte della mappa più precisa mai ottenuta del rumore di fondo del cielo, ha assegnato alla costante di Hubble il valore di 67,8. Gli errori di misura sono molto piccoli e la differenza tra 73,24 e 67,8 non può essere ignorata. Visto che si tratta di valori ottenuti da due gruppi indipendenti utilizzando dati completamente diversi, è legittimo chiedersi se non ci sia qualche errore nascosto nell’analisi dei dati, errore che deve essere sottile perché è sfuggito a innumerevoli verifiche.
I planckiani sostengono che l’errore l’hanno fatto gli ottici e dicono che riprenderanno in mano tutti i dati dello Space Telescope per rifare l’analisi dall’inizio. Wendy Freedman, invece, confessa che sperava di potersi occupare di qualche altro problema, ma non si tira certo indietro. Così progredisce la scienza. D’altro canto, è possibile che entrambi i gruppi abbiano ragione e che sia invece l’espansione e giocare qualche brutto scherzo, obbligandoci ad esplorare nuovi orizzonti. Dopo tutto, lo Hubble Space Telescope misura l’espansione in epoche “recenti” mentre Planck la misura quando l’Universo aveva appena 380mila anni, un’inezia rispetto ai 13,7 miliardi di anni attuali.
Se accettiamo questa visione, ci troveremmo a vivere in un Universo che ha premuto sull’acceleratore. Dal momento che, per accelerare qualcosa bisogna spingere, cosa potrebbe fornire l’energia necessaria? Il pensiero va subito alla parte più misteriosa del nostro Universo, che è anche la parte maggioritaria, quella che noi chiamiamo energia oscura. Variando la quantità dell’energia oscura in funzione dell’età dell’Universo si potrebbe spiegare la differenza nelle misure ottenute in diverse epoche. Giusto quello che ci voleva per ravvivare il fuoco che covava sotto le ceneri e fare ripartire le dispute tra i cosmologi.
Se vi siete persi nell’oscurità di questa affascinante storia, potreste trovare uno spiraglio di luce nel libro l’Universo Oscuro di Andrea Cimatti che ha fatto prodigi di valore per rendere comprensibile un argomento veramente difficile. Con un linguaggio molto chiaro, di chi si è spesso trovato a spiegare queste tematiche al grande pubblico, Andrea parte dalla contemplazione di una notte stellata per arrivare a fare apprezzare al lettore la complessità del sistema che noi ammiriamo e cerchiamo di capire. Ci sfugge il 95% di ciò che lo compone, ma ci stiamo lavorando.
Scienza e Filosofia
La particella dal doppio «charm»
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 24 luglio 2017)
«Three quarks for Muster Mark!». Nel 1964 il fisico statunitense Murray Gell-Mann si ispirò a questa misteriosa frase tratta da Finnegans Wake di James Joyce per battezzare i mattoni fondamentali della materia, i quark. La parola cruciale nella frase è la prima, three: tre erano infatti i quark (denominati u, d, s) che, sulla base di una precisa simmetria matematica, riuscivano a spiegare le particelle note all’epoca (a partire da quelle più familiari, come il protone, costituito da due u e un d). Nel giro di qualche anno il quadro si arricchì di nuovi elementi. Nel 1970 Sheldon Glashow, John Iliopoulos e Luciano Maiani - con quella mossa tipica dei fisici teorici che inventano cose che si rivelano poi reali - proposero l’esistenza di un quarto quark, il quark c, caratterizzato da una proprietà quantistica chiamata, con una certa dose di fantasia e di ironia, charm («fascino»).
La verifica della teoria GIM (come è comunemente nota dalle iniziali degli autori) giunse quattro anni dopo, nel corso della cosiddetta «Rivoluzione di Novembre» del 1974, quando due collaborazioni sperimentali scoprirono - cioè produssero alle macchine acceleratrici - la prima particella dotata di «fascino», la J/psi, contenente il quarkc (gli scopritori, Samuel Ting e Burton Richter, furono premiati con il Nobel nel 1976). -La peculiarità del c è di essere un oggetto elementare piuttosto pesante, centinaia di volte più degli altri quark, e persino più pesante di un oggetto composto come il protone. In seguito i quark sono diventati definitivamente sei - ai tre di Gell-Mann e al c si sono aggiunti il b (beauty, o bottom) e il t (top), anch’essi di grande massa (quella del top è addirittura mostruosa) - e lo studio dei quark pesanti è diventato uno dei rami più fecondi della fisica delle particelle (chi volesse approfondire questi argomenti può farlo su un ottimo libro di Antonio Ereditato, appena uscito per il Saggiatore).
Di particelle contenenti il quark c ne sono state scoperte nel frattempo molte altre, ma l’ultima, annunciata qualche giorno fa da LHCb, un grande esperimento del CERN di Ginevra di cui è responsabile Giovanni Passaleva, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, è degna di nota, oltre che lungamente attesa. -Si tratta infatti di una particella che contiene due quarkc, oltre a un quarku. Una particella dal «fascino» doppio, insomma, con una carica elettrica anch’essa doppia e una massa che è circa quattro volte quella del protone.
Il suo nome, già pronto prima che venisse scoperta, è Xi (più precisamente «Xi-cc», perché le Xi sono una dozzina): la peculiarità della sua struttura è che il piccolo u si muove nel campo dei due grossi c come un pianeta attorno a una stella binaria, a differenza di quel che accade nelle altre particelle pesanti conosciute, in cui i «pianeti» sono due e la «stella» una.
L’utilità della Xi e delle altre particelle dotate di «fascino» e di «bellezza» che ancora mancano all’appello sta nelle preziose informazioni che esse forniscono su una delle quattro forze fondamentali della natura, la forza forte, quella che tiene assieme i nuclei e i loro costituenti (protoni e neutroni), e che in definitiva ci dà sostanza e massa. Non bisogna dimenticare infatti che, mentre il famoso bosone di Higgs è responsabile delle masse dei quark, queste rappresentano solo una piccolissima frazione della massa dei corpi ordinari (compresa la nostra). Il 99% di ciò che misuriamo con la bilancia è in realtà energia: l’energia di interazione dei quark, dovuta alla forza forte. Capire come funziona questa forza significa dunque, in ultima analisi, capire un aspetto di noi stessi. La teoria della forza forte, la cromodinamica quantistica (QCD), è potente ed elegante, ma in molti casi non è facile risolvere le sue equazioni. Per ricostruire il protone a partire dai quark, per esempio, bisogna ricorrere a modelli fenomenologici o a stratagemmi di calcolo. Lo studio delle particelle contenenti i quark c e b permette allora di affinare questi metodi e di estendere l’applicabilità della QCD.
La scoperta della Xi non è eclatante come quella di altre celebri particelle del passato (la stessa J/psi, i bosoni W e Z di Rubbia, il bosone di Higgs), ma non si deve pensare che la fisica proceda saltando da un colpo sensazionale a un altro. C’è una fisica normale e paziente, che verifica nei minimi dettagli anche le teorie consolidate, che effettua misure di precisione, che va alla ricerca di eventi rari e proibiti (come fa LHCb, per comprendere l’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo). La storia, d’altronde, insegna che le novità nascono spesso da piccole crepe nei vecchi edifici. All’inizio del Novecento nessuno poteva immaginare che da misure della radiazione in una fornace, condotte con teutonico rigore per verificare la vecchia termodinamica e la vecchia teoria elettromagnetica, sarebbe scaturita la meccanica quantistica.
Il modo migliore per rendere omaggio ai moderni cacciatori di particelle è ricordare quanto è complicato scoprire una nuova particella. Non è come frugare in una scatola piena di oggetti cercandone uno dalla forma particolare. Particelle come la Xi vivono per un tempo molto breve, disintegrandosi in tanti frammenti - altre particelle più piccole che vengono catturate dai rivelatori. La scatola è piena di cocci, quindi, e i fisici sperimentali devono farne combaciare alcuni ricostruendo l’oggetto frantumato. Ma dato che i cocci possono combaciare anche fortuitamente, per essere sicuri dell’esistenza dell’oggetto in questione bisogna raccogliere tanti mucchietti di pezzi che collimano. Osservando trilioni di urti di protoni, LHCb ha trovato un eccesso di eventi (qualche centinaio) che corrispondono alla disintegrazione della Xi: il picco è bellissimo, da manuale, e la particella con doppio charm è inequivocabilmente là. O meglio, era là, perché è vissuta meno di un milionesimo di milionesimo di secondo: il fascino, si sa, non può durare a lungo.
Fabiola Gianotti, il bosone Higgs è una porta verso il futuro
Particella straordinaria, capaci di portare a una nuova fisica
di Redazione ANSA *
Sono in arrivo risultati interessantissimi per la fisica, grazie alla straordinaria quantità di dati che sta producendo l’acceleratore di particelle più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. E’ entusiasta, Fabiola Gianotti, la prima donna che nel gennaio 2016 è salita alla direzione del Cern e "bellissimo" è il termine con cui descrive quanto sta accadendo nella fisica, con i dati che ogni giorno arrivano più numerosi. "E’ una soddisfazione vedere una macchina capace di spingersi al di là dei suoi limiti", ha detto Gianotti all’ANSA riferendosi all’intensità raggiunta dai fasci che scorrono e collidono all’interno dell’acceleratore, "del 50% superiore a quella prevista dal progetto".
In questi giorni il direttore generale del Cern è a Venezia per la conferenza internazionale della Società Europea di Fisica (Eps), organizzata da Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e università di Padova. Almeno un migliaio i fisici arrivati da tutto il mondo per conoscere gli ultimi risultati prodotti dall’acceleratore Lhc e i dati che rendono sempre più preciso il ritratto del bosone di Higgs, la particella grazie alla quale esiste la massa e la cui scoperta era stata annunciata nel 2012 come la tessera che confermava la teoria di riferimento della fisica, il Modello Standard. Questa stessa particella potrebbe mostrare qualcosa di radicalmente nuovo.
"Il bosone di Higgs è una particella molto speciale: potrebbe essere una porta verso una nuova fisica", ha detto Gianotti, che all’epoca della scoperta era a capo di uno dei due esperimenti che l’hanno vista, Atlas. Il Modello Standard descrive nei dettagli tutti i possibili modi con cui il bosone di Higgs può accoppiarsi con altre particelle, "e proprio per questo l’osservazione sperimentale di una deviazione, anche piccola, rispetto a quanto prevede la teoria, potrebbe fornire l’evidenza di una nuova fisica".
Continuare a studiare il bosone di Higgs è quindi "un grande capitolo delle ricerche in corso al Cern - ha rilevato - e l’altro grande capitolo sono le domande ancora aperte", sull’asimmetria fra materia e antimateria, la natura della materia oscura, ossia la materia invisibile e misteriosa che costituisce circa il 25% dell’universo, e lo stato della materia primordiale (il cosiddetto plasma di quark e gluoni) prodotto subito dopo il Big Bang.
In questo momento così entusiasmante per la fisica, essere a capo del Cern, spiega, "è un lavoro bellissimo", un nuovo punto di vista da cui si ha "uno sguardo globale" che abbraccia "eccellenza della ricerca, innovazione tecnologica, formazione promozione dei giovani" e una "collaborazione internazionale che comprende ricercatori di tutto il mondo, all’insegna della pace". Una realtà quella del Cern, nella quale l’Italia ha avuto e continua ad avere "un ruolo fondamentale" attraverso l’Infn e le università collegate. Basti pensare che, sui 13.000 ricercatori del Cern gli italiani sono 2.000".
Come direttore generale del Cern, infine, per Fabiola Gianotti il tempo libero è ancora meno che in passato, con poco spazio da dedicare alla sua passione di sempre, la musica, e poi allo sport: correre, nuotare e soprattutto la montagna. "Non c’e’ niente di più gratificante che imparare qualcosa di nuovo, e - ha concluso - grazie al mio lavoro questo mi succede ogni giorno".
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
La vita futura della particella Xi
Quali sono gli scenari che si disegneranno dopo la scoperta di Ginevra? Un puzzle da completare: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure». Al Cern stanno già progettando il prossimo acceleratore, che entrerà in funzione nel 2040
di Andrea Capocci (il manifesto Alias, 09.07.2017)
Per la prima volta, nei laboratori del Cern di Ginevra è stata rilevata la particella Xi, un’importante conferma del «modello standard» della fisica delle particelle. Lo ha annunciato Giovanni Passaleva, che dirige il gruppo di ricerca che ha compiuto la scoperta, all’annuale conferenza europea sulla fisica delle alte energie (si tiene in questi giorni a Venezia). Il gruppo di Passaleva lavora presso l’acceleratore di particelle Lhc lo stesso che ha permesso la scoperta del bosone di Higgs. Per dare l’idea della complessità di un esperimento del genere: la lista degli autori occupa da sola tre pagine dell’articolo scientifico che riporta la scoperta.
Il «modello standard» è la teoria che descrive le particelle fondamentali con cui si spiega la materia di cui è composto l’universo e le sue interazioni. Come ipotizzarono Murray Gell Mann e George Zweig nel 1964, le particelle più pesanti presenti nel nucleo degli atomi che strutturano la materia, i protoni e i neutroni, sono composte da particelle ancor più elementari, dette «quark». I quark sono di sei tipi diversi, distinti per massa e carica elettrica. I quark possono aggregarsi tra loro, ma soltanto se la loro combinazione rispetta alcune regole. Protoni e neutroni sono l’esempio di aggregazione più comune. Altre combinazioni sono possibili, ma si trasformano (i fisici dicono «decadono») in altre particelle molto rapidamente e normalmente non sono osservabili con gli strumenti tradizionali. Una particella Xi, ad esempio, decade dopo meno di un millesimo di miliardesimo di secondo. Alle energie elevate che possono essere raggiunte al Cern (14 TeV), però, si possono generare moltissime particelle di questo tipo, misurandone le proprietà fisiche con precisione.
A QUESTO SCOPO, l’acceleratore Lhc del Cern studia le collisioni tra fasci di protoni lanciati a velocità prossime a quelle della luce. In queste collisioni, le particelle ne formano alcune più instabili, che decadono a loro volta dando vita ad altre particelle. In questo modo, gli scienziati ritengono di poter rilevare anche le particelle, come la Xi, la cui esistenza è prevista dalle leggi della fisica ma che di fatto sono talmente instabili da non poter essere individuate con altre tecniche. Come previsto dal Modello Standard, la particella Xi è composta da due quark del tipo «charm» e un quark «up» e pesa come quattro protoni, le particelle atomiche con la massa maggiore. La sua esistenza non è un’assoluta novità. Già nel 2002, al Fermilab di Chicago era stata avvistata una particella con caratteristiche simili, ma con una massa inferiore a quella teorica. Ma la misura di allora fu accolta da una certa diffidenza. L’esperimento descritto a Venezia invece rimette a posto le cose. Dunque, l’idea che abbiamo sul funzionamento della cosiddetta «interazione forte» che tiene insieme le particelle elementari, è corretta.
È L’ENNESIMA CONFERMA di una teoria che dagli anni ’60 ha sbagliato poche previsioni. Molte di queste sono state verificate proprio al Cern, anche con gli acceleratori delle generazioni precedenti rispetto al Lhc. Fu una scoperta simile, l’osservazione dei bosoni W e Z previsti dalla teoria, a meritare a Carlo Rubbia il premio Nobel del 1984 insieme a Simon van der Meer. Pochi anni fa, sempre all’Lhc, la scoperta del bosone di Higgs (altro premio Nobel) fu effettuata in maniera analoga. In quel caso, la scoperta era ancor più rilevante. Il bosone di Higgs, oltre a confermare il Modello Standard, gioca un ruolo decisivo anche nelle teorie sull’origine dell’universo nei primi momenti successivi al Big Bang.
Questo tipo di scoperte lasciano un’impressione da «fine della storia»: il modello standard funziona, gli esperimenti non fanno altro che confermarlo e dunque non c’è motivo di andare avanti alla ricerca di nuove teorie. Ma è davvero così? Ovviamente, no. Il modello standard, nonostante la sua efficacia, lascia insoddisfatte molte domande. Ad esempio: il modello si basa su ben 19 costanti, il cui valore è fissato dagli esperimenti: è possibile capire l’origine di questi numeri con una teoria ancor più elementare? Oppure: come conciliare le interazioni fondamentali descritte dal modello standard (l’interazione «forte» e quella «elettrodebole») con la forza di gravità, mirabilmente studiata da Einstein ma in un quadro teorico completamente diverso?
INFINE, FORSE IL QUESITO più importante: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure», cioè non sappiamo di cosa siano fatte. Il Modello Standard, dunque, ci racconta solo un piccolo pezzo della realtà. Riusciremo un giorno a completarlo? Sono domande molto difficili, e che non interrogano solo gli scienziati del Cern. La fisica delle alte energie si rivolge sempre più spesso verso lo spazio alla ricerca di risposte adeguate. Sulla Terra, l’atmosfera ci protegge da fenomeni fisici intensi come quelli provocati da protoni lanciati alla velocità della luce. Ma nelle stelle e nelle galassie lontane avvengono reazioni che coinvolgono energie inaccessibili persino ai laboratori del Cern.
MOLTI STUDIOSI di fisica delle particelle oggi utilizzano telescopi spaziali o osservatori posti in luoghi inusuali, sotto al Gran Sasso o a due chilometri di profondità nel ghiaccio dell’Antartide, come l’osservatorio IceCube. In quelle condizioni, la schermatura dall’esterno è tale da permettere di isolare i neutrini, altre particelle ancora misteriose e provenienti dalle zone più remote e irrequiete dell’universo.Lo stesso Cern, in questo momento, è impegnato nella ricerca delle particelle che potrebbero semplificare il Modello Standard con le sue 19 costanti ancora da spiegare. Tale «ineleganza» potrebbe essere superata dalla teoria detta «Supersymmetry» o «SuSy», secondo cui ogni particella elementare possiede una compagna «super-simmetrica». Al Cern finora queste particelle non sono state avvistate. Potrebbe trattarsi della bocciatura della teoria SuSy, o l’indicazione che le particelle supersimmetriche devono essere cercate a livelli energetici ancora maggiori: su questo, solo gli esperimenti futuri potranno darci qualche indicazione in più, se Lhc sarà in grado di raggiungere energie ancora superiori ai 14 TeV attuali.
NEL FRATTEMPO, AL CERN stanno già lavorando alla progettazione del prossimo acceleratore, ancora più grande e potente dell’Lhc attuale. Per ora, il progetto si chiama Future Circular Collider (Fcc). Si tratterà di un tunnel lungo cento chilometri (rispetto ai ventisette attuali) in cui a collidere saranno fasci di protoni, elettroni e delle loro controparti di anti-materia, gli anti-protoni e i positroni. Nel Fcc si potranno raggiungere energie dell’ordine dei 100 TeV, sette volte più dell’acceleratore attuale.
Dato che l’acceleratore Lhc, entrato in funzione nel 2008, proseguirà la sua attività ancora per una ventina d’anni, per vedere in funzione il Fcc occorrerà aspettare il 2040, o giù di lì. Sembra un orizzonte temporale lunghissimo, in un’epoca dominata dalla precarietà delle cose e delle persone. Lo sforzo finanziario a carico degli stati europei genererà legittime discussioni sulle priorità da assegnare ai sempre più magri bilanci nazionali. Ma gli studi sull’impatto economico del Lhc, come quello dell’economista Massimo Florio dell’Università di Milano, suggeriscono che anche un laboratorio di fisica teorica può creare ricchezza: a patto che le tecnologie e le conoscenze prodotte al Cern circolino senza barriere poste da brevetti e copyright.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
Scoperta al Cern la particella Xi, inseguita da anni
Mai vista una simile, aiuta a capire colla che unisce la materia
di Redazione ANSA 06 luglio 2017
Scoperta al Cern la particella Xi: inseguita da decenni, potrà aiutare a studiare la ’colla’ che tiene unita la materia, ossia per capire una delle quattro forze fondamentali della natura: la forza forte. La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia e in via di pubblicazione sulla rivista Physical Review Letters, è avvenuta grazie all’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc).
Vista dall’esperimento chiamato Lhcb, la particella appartiene alla famiglia dei barioni, la stessa di cui fanno parte protoni e neutroni che costituiscono la materia visibile, e come tutti i barioni è composta da tre quark, come prevede la teoria di riferimento della fisica chiamata Modello Standard. Tuttavia nei barioni finora noti si trova al massimo un solo quark pesante, mentre la particella Xi ha due quark pesanti.
"E’ la prima volta che si osserva una particella simile: un barione con due quark pesanti", ha detto Donatella Lucchesi, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dell’università di Padova e membro della collaborazione Lhcb. "Osservare una particella del genere - ha detto ancora Donatella Lucchesi - è stato possibile grazie alla grandissima quantità di dati che sta producendo l’acceleratore Lhc. Questo - ha rilevato - permette di raggiungere un obiettivo non facile, come è riuscire a riprodurre la materia in tutti i suoi stati possibili".
Nella particella Xi un sistema planetario in miniatura
La particella Xi appena scoperta al Cern è già generosa di sorprese, al punto che i mattoni della materia che la costituiscono, i quark, potrebbero comportarsi come un sistema planetario in miniatura. I due quark pesanti, che sono l’elemento distintivo della nuova particella avrebbero infatti movimenti più lenti e solenni rispetto a quelli dei quark leggeri presenti in protoni e neutroni, che ricordano una danza. Lo ha rilevato il britannico Guy Wilkinson, che ha coordinato la collaborazione Lhcb fino al 30 giugno, giusto in tempo per assistere alla scoperta. "In contrasto con gli altri barioni finora noti, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario", ha osservato Wilkinson. In questo sistema planetario in miniatura, ha aggiunto "i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno al sistema binario".
Dalla particella Xi la chiave per capire la ’colla’ della materia
La particella Xi promette di essere una chiave senza precedenti per scoprire i segreti della ’colla’ della materia, ossia il comportamento delle forze che agiscono nel mondo dell’infinitamente piccolo. Per il nuovo coordinatore della collaborazione Lhcb, l’italiano Giovanni Passaleva, c’è grande speranza nelle nuove conoscenze che la particella Xi potrà rendere possibili. "Trovare un barione con due quark pesanti - ha rilevato - è di grande interesse perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica", ossia il campo di ricerca che studia come l’intensità delle forze si riduce quando le distanze tra le particelle diventano molto piccole e che si chiama così in riferimento alle otto cariche che prendono il nome dai tre colori che descrivono i quark: rossi, gialli e blu.
E’ un campo di ricerca molto importante, nato grazie alle ricerche inaugurate 1963 fa dal fisico Nicola Cabibbo con il teorema che porta il suo nome, l’Angolo di Cabibbo, e che ha gettato le basi per comprendere come i mattoni della materia, i quark, si mescolano dando origine alle particelle elementari.
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Cern, scoperta la particella Xi: "Inseguita da anni, ci aiuterà a capire cosa tiene insieme la materia"
La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia è avvenuta grazie all’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc)
di ELENA DUSI *
VENEZIA - Scoperta al Cern la particella Xi: inseguita da decenni, potrà aiutare a studiare la ’colla’ che tiene unita la materia e capire una delle quattro forze fondamentali della natura: la forza forte, la più intensa ma anche quella con il raggio di azione più piccolo, che agisce solo a livello delle particelle subatomiche. La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia e in via di pubblicazione sulla rivista Physical Review Letters, è avvenuta grazie all’acceleratore più potente del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc), in particolare a uno dei suoi quattro rivelatori: LHCb, coordinato dall’italiano Giovanni Passaleva dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
La particolarità di "mister Xi" è di avere al suo interno due quark pesanti. Pur essendo prevista dalla teoria, la presenza di due "pesi massimi" all’interno della stessa particella è stata osservata solo oggi per la prima volta. La sua massa, di conseguenza, è particolarmente grande: oltre 3.600 Mev, quasi quattro volte quella del protone. Anche la carica elettrica positiva è doppia rispetto al protone. Quindici anni fa il laboratorio americano Fermilab annunciò un’osservazione simile (ma con margini di incertezza molto più alti rispetto a oggi), ma con una massa molto diversa rispetto a quanto teorizzato. L’osservazione del Cern invece rispetta esattamente le previsioni, e dissipa le ansie che il precedente americano poteva aver sollevato.
"Trovare una particella con due quark pesanti è di grande interesse perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali", spiega Passaleva. "Queste particelle contribuiranno così a migliorare il potere predittivo delle nostre teorie". La "nuova arrivata" non esiste normalmente in natura. "E’ molto instabile" conferma Passaleva. "Viene prodotta negli acceleratori o quando i raggi cosmici, ad esempio protoni prodotti da una supernova che viaggiano nello spazio, raggiungono l’atmosfera e la colpiscono con tutta la loro energia". La vita di questa particella è molto breve: circa un millesimo di miliardesimo di secondo. Poi "mister Xi" decade in particelle più leggere.
La maggior parte della materia che vediamo intorno a noi è composta da barioni, particelle comuni composte da tre quark. I più noti sono protoni e neutroni, ma poiché in natura esistono sei tipi di quark diversi, teoricamente le combinazioni di barioni possibili sono molto numerose. Non tutte, però, sono state osservate nella realtà. All’appello mancavano proprio le particelle composte da più di un quark pesante (detto quark charm). Il terzo componente della nuova particella (il cui nome completo è Xicc++) è un quark up. "Trovata questa particella, ora cercheremo di osservare anche le sue due sorelle" aggiunge il fisico fiorentino che guida LHCb. "Quella con il terzo quark di tipo down oppure di tipo strange".
"In contrasto con le altre particelle finora note, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario, dove i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno a questo sistema binario", ha aggiunto Guy Wilkinson, ex-coordinatore della collaborazione. Proprio ieri, il 4 luglio, cadeva il quinto anniversario dell’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, sempre grazie all’acceleratore di particelle Lhc del Cern di Ginevra.
* la Repubblica, 06 luglio 2017 (ripresa parziale - senza note).
C’è vita nell’universo, molta vita
Gli scienziati di Kepler, un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, hanno da poco annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari (o esopianeti), cioè pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dalla nostra. Tutto fa immaginare che ce ne siano miliardi, alcuni «ospitali». Il mondo sta entrando in una nuova epoca
di Guido Tonelli * (Corriere della Sera, La Lettura, 26.06.2016)
Stiamo entrando in una nuova epoca e nessuno sembra rendersene conto. Di tanto in tanto giornali e televisioni riportano qualche notizia; se ne parla per un paio di giorni poi tutto viene macinato dal tritacarne dell’attualità. L’ultima, di qualche settimana fa, riguarda Kepler, una sonda della Nasa che prende il nome dal grande astronomo tedesco. La sua missione è la scoperta di esopianeti, o pianeti extra-solari, che orbitano cioè attorno ad altre stelle; il fine ultimo è quello di identificare pianeti abitabili, simili alla nostra Terra.
Le primissime ricerche risalgono addirittura agli anni Quaranta, ma utilizzavano tecniche di osservazione piuttosto grossolane. Usando i migliori telescopi allora disponibili si cercavano nuovi sistemi solari sperando di osservare una perturbazione periodica nella posizione della stella-madre. È ben noto che, per le leggi della gravitazione, in presenza di un pianeta la stella-madre non sta ferma, ma compie anch’essa una piccola rotazione intorno al centro di massa del sistema.
Tanto più massiccio è il pianeta tanto maggiore è lo spostamento periodico della stella. Il metodo, detto astrometrico, non ha portato a risultati di rilievo; sono stati identificati un gruppo di potenziali candidati ma nessuno è mai stato confermato. Risultati molto più interessanti si sono avuti con il metodo della misura della velocità radiale. Il principio è lo stesso, si cerca di osservare il minuscolo spostamento periodico della stella-madre, ma la tecnica è basata su misure spettroscopiche che consentono maggiori precisioni. Si analizza lo spettro di emissione luminosa della stella e si controllano nel tempo le righe corrispondenti alle varie frequenze. Se la stella presenta un piccolo movimento orbitale causato dalla presenza di un pianeta, si misura una piccola variazione periodica in frequenza della sua emissione luminosa dovuta all’effetto Doppler.
Quando la stella ha una velocità radiale positiva - cioè si avvicina al nostro punto di osservazione sulla Terra - le righe di emissione si spostano verso il blu, per poi passare dal lato opposto, verso il rosso, quando la stella si allontana. È lo stesso metodo che ci permette di riconoscere, dal suono della sirena, se un’ambulanza si sta avvicinando o si sta allontanando. Con la misura della velocità radiale della stella possiamo calcolare il periodo del moto orbitale del pianeta e la sua massa. I primi pianeti extra-solari sono stati scoperti, con questo sistema, negli anni Novanta. Si trattava di enormi corpi celesti, simili al nostro Giove. Giganti caldi, per lo più gassosi, che gravitavano molto vicini alle loro stelle-madri e avevano quindi una temperatura superficiale spaventosa.
Il metodo della velocità radiale è limitato dal fatto che si deve osservare una stella per volta ed è efficace solo per stelle relativamente vicine a noi, si fa per dire, entro una distanza di circa 160 anni luce, mentre la stragrande maggioranza delle stelle della nostra galassia sta a distanze maggiori.
La vera rivoluzione nella caccia ai pianeti extra-solari è venuta da quando è stato messo a punto il metodo dei transiti. È una tecnica basata sulla fotometria di precisione, cioè si tiene sotto controllo la luminosità della stella e si misura la lievissima attenuazione della luce prodotta dal pianeta che le transita davanti. Anche in questo caso si richiede che la perturbazione, il segnale di transito, abbia carattere periodico. La forma caratteristica del disturbo permette di misurare le dimensioni del pianeta e questa informazione, combinata con la misura della velocità radiale che dà la massa, permette di conoscerne la densità. In questo modo, da alcuni anni, la ricerca di nuove «Terre» ha ricevuto un impulso incredibile e si sono identificati i primi pianeti rocciosi simili al nostro.
Il grande vantaggio del metodo dei transiti è che si possono tenere sotto osservazione, in contemporanea, centinaia di migliaia di stelle e la sensibilità raggiunta dagli strumenti più moderni è tale che il campo d’azione si può estendere fino a distanze di migliaia di anni luce. La sensibilità del metodo è talmente spinta che si possono identificare pianeti addirittura più piccoli di Mercurio. Occorre poi considerare che, nel caso che il pianeta abbia una atmosfera, la luce della stella-madre giunge fino a noi dopo averne attraversato gli strati superiori. Misure accurate della polarizzazione della luce emessa dalla stella permettono quindi di ricavare informazioni essenziali sulla presenza di atmosfera nel pianeta.
L’unico problema del sistema dei transiti è che, per produrre segnali il punto di osservazione deve appartenere al piano delle orbite, cosa che statisticamente avviene solo per una frazione delle stelle osservate. Se poi si cercano pianeti simili alla Terra, che hanno una massa compresa fra metà e due volte quella del nostro pianeta, e che compiono una rivoluzione completa intorno alla loro stella in circa un anno, occorre aspettare molti anni per essere sicuri di avere visto un transito periodico.
Kepler è un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, che sorveglia da anni una piccola zona del cielo compresa fra le costellazioni del Cigno e della Lira. L’apparato tiene sotto controllo circa 150 mila stelle della nostra galassia, distribuite in una regione di dimensioni paragonabili a quella che copriamo con il palmo della nostra mano, se tendiamo il braccio verso il cielo.
La zona di osservazione copre un cono di circa duemila anni luce intorno al nostro Sole che si trova in Orione, un piccolo braccio secondario della spirale che costituisce la nostra Via Lattea. Il telescopio è ottimizzato per misure di fotometria e utilizza un sistema di camere fotografiche molto sofisticate, da 95 milioni di pixel, ma concettualmente simili a quelle che usiamo nei nostri cellulari.
Un mese fa gli scienziati di Kepler hanno annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari. La maggior parte dei nuovi corpi celesti sarebbero posti assolutamente inospitali, caratterizzati da atmosfere molto dense, composte essenzialmente da elio e idrogeno, e temperature torride alla superficie. Ma la novità davvero eclatante è la scoperta che pianeti simili alla Terra sono corpi celesti molto comuni fra quelli che orbitano intorno alle stelle.
Fra i nuovi venuti almeno nove dovrebbero essere pianeti rocciosi che si trovano nella fascia cosiddetta abitabile, cioè a una distanza dalla stella-madre tale da consentire temperature simili a quelle che abbiamo qui da noi. Se un pianeta roccioso si trova nella fascia abitabile e contiene acqua, questa potrebbe formare laghi e oceani come quelli che sono così diffusi sulla nostra Terra. Ecco che, di colpo il numero dei nostri potenziali cugini è quasi raddoppiato. E la cosa sorprendente è che Kepler ha osservato soltanto una piccola porzione della nostra galassia. Si stanno già preparando nuove missioni e nuove campagne di osservazioni e nel prossimo futuro si costruirà una mappa sempre più dettagliata delle «nuove Terre». Nel giro di un paio d’anni sarà lanciato un nuovo telescopio per tenere sotto osservazione le 200 mila stelle più vicine a noi fra le quali ci si aspetta di scoprire 500 pianeti rocciosi simili al nostro.
La nostra Via Lattea contiene circa 200 miliardi di stelle ed è soltanto una fra cento miliardi di galassie che popolano il nostro universo. I numeri fanno impressione: se soltanto una stella su diecimila ospitasse pianeti rocciosi nella fascia abitabile dovremmo accettare l’idea che il numero di «Terre» della nostra galassia, quindi astronomicamente vicine a noi, potrebbero essere decine di milioni. Se si considerano i 100 miliardi di galassie dell’Universo intero si potrebbe raggiungere la cifra fantastica di miliardi di miliardi. Insomma c’è pieno di pianeti abitabili intorno a noi ed è molto probabile che ci sia abbondanza di forme di vita nell’universo. Non c’è alcun motivo di credere che acqua e materia organica siano componenti ultra rari.
Fra qualche tempo saremo in grado di analizzare la composizione dell’atmosfera dei nuovi pianeti che orbitano nelle fasce abitabili per cercare eventuali composti organici, chiari indizi della presenza di forme di vita simili a quelle che ci sono familiari. Non mi interessa qui discutere il problema delle distanze e neanche la tecnologia con cui potremo stabilire una comunicazione o un contatto. Sarebbe sciocco argomentare oggi intorno a questioni che, ne sono sicuro, faranno sorridere gli scienziati del futuro.
Vorrei invece sottolineare la necessità di prepararsi a quello che sarà sicuramente un grosso choc culturale. Un’umanità che fa fatica a convivere con se stessa, sarà in grado di superare la crisi di valori legata alla scoperta di altre forme di vita? Che rapporti instaureremo fra noi, per prepararci a queste prime forme di contatto con «gli altri»? Noi che nella colonizzazione della terra non siamo stati capaci di praticare altro che depredazione e spoliazione delle popolazioni con cui siamo venuti in contatto, accetteremo di essere «i primitivi» al cospetto di civiltà che si sono sviluppate qualche milione di anni prima di noi?
E viceversa, quali relazioni saremo in grado di instaurare con forme di vita, magari simili alle nostre, ma che ci potranno apparire a un livello di sviluppo primordiale? È pensabile che si cominci a ragionare dei problemi etici connessi a questo passaggio? Noi che non siamo in grado di gestire l’integrazione di alcuni milioni di rifugiati o di emigranti che sfuggono la guerra o precarie condizioni di vita, con quali strumenti culturali arriveremo a questo appuntamento che ci chiama a un salto di civiltà?
I nostri pronipoti vedranno un mondo che noi, oggi, possiamo solo immaginare. Riusciremo ad attrezzarci nel giro di qualche generazione a questo cambio di paradigma sul piano antropologico?
Collisioni record nell’Lhc, sono una porta sull’ignoto
Verso fenomeni nuovi, da materia oscura a nuove dimensioni *
di Redazione Ansa *
Prime collisioni da record nell’ acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra, dove fasci che contengono 300 ’pacchetti’ di particelle scorrono stabilmente nell’anello di 27 chilometri all’energia di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV).
Scontrandosi, fasci del genere possono produrre particelle finora sconosciute, alzando il sipario su fenomeni fisici inediti, come la composizione della materia oscura che occupa il 25% dell’universo o l’esistenza di più dimensioni.
"Una grande emozione": per il direttore del Cern, Fabiola Gianotti, veder ripartire l’acceleratore più grande del mondo è sempre straordinario, ma quest’anno è davvero un’occasione unica: "con i dati che potranno raccogliere nel 2016, gli esperimenti permetteranno di ottenere misure più precise del bosone di Higgs, come di altre particelle e fenomeni noti", ha osservato in una nota del Cern. Nello stesso tempo, ha aggiunto, i dati "ci permetteranno di guardare ad una nuova fisica, con un accresciuto potenziale di scoperta"
"La nave è salpata verso terre sconosciute": per il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Fernando Ferroni, con le collisioni record avvenute nell’Lhc la fisica ha ormai cominciato il viaggio più avventuroso di sempre, che potrebbero portarla a toccare territori completamente sconosciuti.
"La macchina sta funzionando, nonostante le faine", ha detto Ferroni riferendosi all’incidente a un trasformatore provocato da una faina, che ha provocato qualche giorno di ritardo. "Sono state raggiunte le collisioni di particelle all’energia più alta cui abbia mai funzionato una macchina, adesso - ha aggiunto Ferroni - dobbiamo avere pazienza e sperare che la natura abbia deciso di darci una mano".
Il primo compito dell’acceleratore, importantissimo, è studiare nei dettagli il bosone di Higgs", la particelle grazie alla quale ogni cosa ha una massa scoperta nel 2012. Ma la speranza, ha concluso, è di riuscire a vedere fenomeni completamente nuovi.
Un miliardo di collisioni al secondo per centimetro quadrato: è l’obiettivo ambizioso che il Cern ha in programma di raggiungere entro l’anno, con la nuova fase del funzionamento dell’Lhc.
Da questo momento in poi la macchina comincia una corsa senza precedenti, con fasci di particelle destinati a diventare sempre più ricchi. Già nel 2015 l’acceleratore Lhc aveva raggiunto l’energia record di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV), ma i fasci di particelle che vi scorrevano non erano ricchi come quelli attuali. Era stata una sorta di "prova generale", ha osservato il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Fernando Ferroni.
"Più i fasci di particelle sono ricchi, ossia più ’pacchetti’ i particelle contengono, più aumenta il numero delle collisioni che si possono ottenere ogni secondo e aumenta di conseguenza la quantità di dati che riusciamo a collezionare", ha spiegato Mirko Pojer, uno dei responsabili delle operazioni di Lhc. E più dati ci sono, più aumenta la probabilità di fare scoperte: "è come avere un telescopio che permette di guardare sempre più lontano", ha aggiunto.
Per avere un’idea dell’intensità dei fasci di particelle, basti pensare che quelli attuali comprendono 300 pacchetti di particelle; il prossimo passo, probabilmente a giorni, sarà arrivare a 600, quindi a 1.000, 1.500, 2.000. L’obiettivo è arrivare a circa 2.800 entro l’anno, ma se ci saranno le condizioni tecniche si saprà soltanto dopo il fermo per la manutenzione previsto in giugno.
* Ansa, 09 maggio 2016 (ripresa parziale).
Onde gravitazionali, concepibili i viaggi nel tempo
Attraverso i buchi neri, come quello al centro della Via Lattea *
Viaggiare nello spazio e nel tempo, tuffandosi nei buchi neri e sfrecciando all’interno di un cunicolo spaziotemporale, un wormhole come quelli immaginati nel film Interstellar: sembra fantascienza, ma molto probabilmente tutto questo "diventa concepibile" dopo la scoperta delle onde gravitazionali. "Si apre un mondo per la ricerca. Anzi, si potrebbero aprire più mondi", ha detto Salvatore Capozziello, dell’università Federico II di Napoli, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e presidente delle Società Italiana di Relatività Generale e Fisica della Gravitazione (Sigrav).
"Le onde gravitazionali che adesso siamo in grado di intercettare sono direttamente connesse con la struttura degli oggetti che le emettono, vale a dire - ha spiegato l’esperto - posso desumere da un’onda gravitazionale le caratteristiche dell’oggetto che la emette". Diventa possibile costruire una nuova mappa del cielo: finora avevamo solo quella basata sulla luce visibile, o sui raggi X, o sull’infrarosso, e adesso si può costruire la mappa basata sulle onde gravitazionali.
"E’ appena l’inizio di una lunga storia", ha rilevato Capozziello, perchè una mappa del genere potrebbe essere fatta di una miriade di oggetti che finora sono stati invisibili. Non solo: finora i buchi neri erano solo oggetti teorici previsti dalla teoria della relatività generale; adesso sono oggetti reali. Ne sono state appena visti due, distanti 1,3 miliardi di chilometri, fondersi in un nuovo buco nero. E’ stato ascoltato il loro suono, ne sono state calcolate dimensioni e distanza. Che cosa significa tutto questo, a che cosa potrebbe servire? Sicuramente sono conoscenze senza precedenti e rivoluzionare, ma potrebbe esserci altro".
"Sappiamo - ha detto l’esperto - che i buchi neri sono così densi che non emettono luce e che qualsiasi cosa cada al loro interno non può più uscire". A questo punto bisogna fare i conti con il principio di conservazione dell’energia, per il quale "tutte le grandezze nel buco nero vengono preservate. Vale a dire che tutto ciò che viene ingoiato dal buco nero finisce da un’altra parte a formare un buco bianco".
All’interno del buco nero si forma un cunicolo spaziotemporale, un wormhole. Anche questi oggetti fantascientifici sono previsti dalle equazioni di Einstein, proprio come le onde gravitazionali. Queste ultime aiuteranno a trovarli, per esempio confermando o meno se il buco nero Sagittarius A che si trova al centro della Via Lattea è in realtà un wormhole, come alcuni calcoli indicano.
Viaggiare al loro interno, ha spiegato, potrebbe deformare l’ordine in cui siamo abituati a vivere passato, presente e futuro. "Tutto questo - ha aggiunto - è pura fisica teorica, ma se un domani si riuscisse a vedere un wormhole, significherebbe aver trovato il modo di viaggiare non solo nello spazio, ma nel tempo".
Einstein vince 100 anni dopo
di Giovanni Bignami (la Repubblica, 12.02.2016)
L’AFFASCINANTE paradosso dell’Universo è che è tenuto insieme, anzi dominato, dalla forza più debole che ci sia: la gravità. È QUELLA che fa cadere i sassi, tiene legata la Luna alla Terra, fa girare le stelle nella Galassia e le galassie nell’Universo. È anche quella che ci fa soffiare quando portiamo il sacco in salita (e allora non ci sembra così debole...). Insomma, dai tempi di Newton pensavamo di conoscerla bene. Poi venne Einstein un secolo fa e cambiò tutto. Capì che il mondo in cui viviamo è un continuo spazio-temporale, dove il tempo è una dimensione come lo spazio. E la gravità influenza in modo palpabile il nostro mondo: stando in riva al mare vediamo salire la marea, cioè la prova che gli oggetti celesti si influenzano a vicenda attraverso la gravità.
Adesso abbiamo finalmente l’evidenza dello tsunami gravitazionale: quando in cielo avviene una perturbazione abbastanza forte dello spazio tempo, Einstein disse, partono delle onde, appunto di gravità, che si propagano alla velocità della luce e causano deformazioni misurabili (appena appena). Abbiamo aspettato un bel po’, ma il gruppo Usa (in realtà di 25 nazioni) di Ligo ieri ha annunciato di averle misurate. Complimenti, a loro e ad Einstein...
Il punto centrale, adesso, è capire da dove provengono. Perché sono un fenomeno astronomico, prima di tutto. Secondo gli autori, gli oggetti responsabili erano due, diventati uno: due buchi neri pesanti circa 30 volte il Sole che si sono fusi in uno solo, stiracchiando in modo evidente lo spazio intorno a loro e poi via via fino a noi, alla velocità della luce.
A prima vista, ci vuole fortuna. Perché buchi neri di quella massa, nella storia della astronomia, non erano mai stati osservati. Né tantomeno un sistema binario di due buchi neri così, ancora più raro. Osservarlo poi proprio nel momento finale della sua vita, è ancora più raro. E che questo succeda appena hai acceso il tuo rivelatore nuovo di zecca... Ma la fortuna aiuta gli audaci, si sa, e quelli di Ligo sono proprio bravi e hanno lavorato bene. Hanno visto le onde gravitazionali, ma anche dimostrato l’esistenza di oggetti celesti sconosciuti.
La rivelazione apre una nuova astronomia, su un nuovo Universo, perché non è basata su onde elettromagnetiche (vedi la luce), come l’astronomia tradizionale. Proprio qui nascono le difficoltà. Le onde gravitazionali passano e non tornano più, sono come il gatto che sorride in Alice nel Paese delle Meraviglie. Per una conferma, che nella scienza non guasta mai, bisognerebbe trovare il gatto, o quel che ne resta, che pure deve essere nascosto da qualche parte. Ma il pezzo di cielo dal quale le onde sembrano provenire è enorme, e andrebbe scandagliato a fondo: un po’ come cercare un ago in un grosso pagliaio, guardandolo attraverso una cannuccia da bibite. Gli astronomi hanno una lunga esperienza di ricerche un po’ folli, e sono già al lavoro.
Eppure le onde gravitazionali avevano ereditato una enorme energia dall’abbraccio mortale dei due buchi neri: 50 volte quella di tutte le stelle dell’Universo, anche se solo per un cinquantesimo di secondo. Al loro arrivo sulla Terra, dopo un viaggio di più di un miliardo di anni, è bastata per deformare, anche se di pochissimo, i due rivelatori di Ligo, uno in Louisiana e una nello Stato di Washington. Tra l’altro, il tempo intercorso tra le due rivelazioni è giusto il tempo che ci vuole a traversare gli Usa alla velocità della luce.
Una nuova astronomia, dunque, nata anche grazie alla fortuna. Speriamo ci siano presto altre rivelazioni, che aiuterebbero molto a credere a fondo nella prima. A parte Ligo, altri rivelatori, in Italia (Virgo, in collaborazione con la Francia) come in Giappone e in Australia, saranno presto in azione, e poi l’Esa andrà a cercarle nello spazio, con la missione Lisa. Ieri abbiamo forse visto la decisione su un premio Nobel in diretta (sono stati attenti a dire che i padri della scoperta erano giusto tre...) e comunque abbiamo vissuto un momento storico per l’astronomia e per la scienza.
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Presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica fino al 2015, è membro dell’Accademia dei Lincei. Il suo ultimo libro è “ Oro dagli asteroidi e asparagi da Marte”, edito da Mondadori
di Giovanni Amelino-Camelia (la Repubblica, 12.02.2016)
Dopo il bosone, ecco le onde gravitazionali: due scoperte che ci aiutano a capire le nostre leggi della natura. Questi ultimi anni sono stati molto fortunati per la fisica: se la particella di Higgs era uno dei tasselli mancanti del formidabile “modello standard” (che descrive le interazioni non gravitazionali tra particelle), queste onde erano, fino a ieri, il tassello mancante nella nostra descrizione dei fenomeni gravitazionali, che con Einstein abbiamo imparato a basare sulla relatività generale.
Le aspettavamo da un secolo esatto: la loro esistenza era stata infatti una delle prime predizioni ottenute lavorando con la relatività generale. Einstein aveva completato la formulazione matematica della sua celebre teoria alla fine del 1915 e tra le ipotesi che ricavò pochi mesi dopo c’era già quella delle onde gravitazionali.
Per illustrare intuitivamente quanto è centrale il ruolo che hanno nella struttura logica della relatività generale uso un’analogia già proposta su queste pagine. Fino a quel 1915 lo spazio e il tempo erano visti come un’entità statica: con la relatività generale si capisce, invece, che lo spaziotempo ha una sua dinamica ed in particolare che la materia curva lo spaziotempo.
Questo aspetto dei fenomeni gravitazionali è analogo al caso in cui si tiene ben teso un telo piuttosto grande e si gioca a piazzare delle sferette sul telo. Se si posizionano due sferette sul telo, una magari molto leggera, l’altra più pesante, si nota con facilità che quella più pesante curva il telo (in realtà anche quella meno pensante curva un pò il telo ma in maniera non apprezzabile). La sferetta meno pesante “cade” su quella più pesante proprio a causa di come quella pesante ha deformato il telo.
Le onde gravitazionali hanno un ruolo centrale nel confermare la struttura matematica della relatività generale: se davvero lo spaziotempo è come un telo deformabile, allora, in determinate condizioni, si dovranno produrre delle onde di spaziotempo, proprio come giocando con un telo non è difficile produrre delle onde che lo attraversano.
La sfida di verificare questa fondamentale predizione è stata la sfida più grande che la scienza abbia affrontato con successo, anche se ci ha impiegato un secolo. Ed è stata così ardua perché la “tensione del telo spaziotemporale” è elevatissima, molto più grande di quanto la nostra immaginazione possa contemplare.
La matematica della relatività generale predice queste onde ma predice pure che la loro intensità sia bassissima, anche quando la materia che le produce è molto pesante ed in brusca evoluzione, come nel caso della furiosa danza finale che si verifica quando due buchi neri collassano l’uno sull’altro.
Ce l’abbiamo fatta grazie alle migliori tecnologie finora disponibili, grazie a un apparato di misura che essenzialmente si sviluppa su due tubi, ciascuno lungo 4 chilometri, e grazie alla dedizione di un migliaio di fisici di tanti paesi, con un ruolo molto importante per quelli italiani.
La particella di Higgs e le onde gravitazionali sono due importantissime “scoperte attese”: non ci hanno sorpreso ma averle finalmente raggiunte ci rassicura che le teorie che stiamo utilizzando siano davvero un punto di partenza affidabile per le sfide future della fisica.
Per rendere straordinario questo periodo ci vorrebbe adesso una “scoperta inattesa”, un nuovo fatto sperimentale che allo stesso tempo ci sorprenda e ci indichi la strada da seguire per andare oltre i modelli teorici che stiamo utilizzando. Qualcosa che ci avvicini alla risposta delle grandi questioni irrisolte, come la materia oscura e la gravità quantistica.
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L’autore è un fisico. Insegna all’Università La Sapienza di Roma
Fabiola Gianotti a capo del Cern
’Non vedo l’ora di scoprire che cosa la Natura ci riserva’ *
Eccellenza e innovazione, attenzione alla formazione dei giovani e l’emozione di trovarsi sulla soglia di qualcosa di nuovo e imprevisto: Fabiola Gianotti è da oggi la prima donna alla guida del Cern nei 61 anni di storia del laboratorio europeo di fisica delle particelle. "Non vedo l’ora di scoprire che cosa la Natura ci riserva", ha detto all’ANSA il nuovo direttore generale del Cern.
Con Fabiola Gianotti per la terza volta un italiano è a capo del più importante laboratorio di fisica delle particelle a livello internazionale. Il primo era stato il Nobel Carlo Rubbia, dal 1989 al 1994, seguito da Luciano Maiani (dal 1999 al 2003). Un altro italiano, Edoardo Amaldi, era stato tra i fondatori del Cern. Al momento della sua nomina, annunciata nel novembre 2014, Gianotti aveva detto di voler lavorare in nome di scienza e pace, ed ora è pronta a realizzare il suo programma: "mi adopererò - ha detto - per espandere l’eccellenza del Cern nella ricerca scientifica in fisica fondamentale e nello sviluppo di tecnologie innovative. La formazione dei giovani e la collaborazione pacifica di migliaia di scienziati di tutto il mondo sono altri aspetti cruciali della missione del Cern".
Nata a Roma 53 anni fa, Fabiola Gianotti ha studiato a Milano ed è stata fra i protagonisti della scoperta del bosone di Higgs, annunciata nel luglio 2012. E’ stata un’avventura indimenticabile, ma il periodo che si sta aprendo al Cern promette di non essere da meno. Il più grande acceleratore di particelle del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) ha infatti cominciato a funzionare all’energia record di di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV), aprendo territori inesplorati della fisica. Le attese sono grandissime, come dimostra il fermento che sollevato dai dati preliminari che sembrerebbero indicare una nuova particella, ma tutti da confermare. "La prudenza è d’obbligo - ha rilevato Gianotti - perché le indicazioni che abbiamo finora sono estremamente deboli; potrebbero essere il primo vagito di una nuova particella o semplicemente una fluttuazione statistica. Ne sapremo di più a metà del 2016".
Al di là di questi indizi, i dati dell’Lhc potranno rispondere a molte domande cruciali della fisica. "L’Lhc - ha osservato Gianotti - è stato concepito e costruito per affrontare numerose questioni aperte nella nostra comprensione della fisica fondamentale. La scoperta del bosone di Higgs ci ha permesso di far luce su uno dei misteri che ci hanno accompagnato per decenni: l’origine delle masse delle particelle elementari.
Altre domande importanti e affascinanti attendono risposte. Fra queste la composizione della materia oscura, che costituisce circa il 23% dell’universo. E poi: perché l’universo è fatto prevalentemente di materia, mentre l’antimateria é scarsissima. Ma ce ne sono molte altre, ed è difficile dire a quali fra queste domande saremo in grado di rispondere più rapidamente, perchè le risposte sono nelle mani della Natura". Senza contare che "l’Lhc potrebbe anche aprire nuovi quesiti di cui oggi non siamo consapevoli".
C’è moltissimo da scoprire, tanto che ormai si parla di una ’nuova fisica’ alle porte: di che cosa si tratta? "Ci sono molte teorie di nuova fisica e fra queste la Supersimmetria è fra le più affascinanti", ha detto la direttrice del Cern riferendosi alla teoria secondo la quale ogni particella ha una particella speculare e nascosta. "Ma uno scienziato - ha concluso - deve porsi di fronte alla Natura senza idee preconcette. E la sorpresa, scoprire qualcosa di veramente inatteso e non previsto, è la più bella ricompensa per chi fa ricerca. Non vedo l’ora quindi di scoprire che cosa la Natura ci riserva".
* ANSA, 31 dicembre 2015, 18:11
Gianotti dal primo gennaio alla guida del Cern
Tra attese ed entusiasmi per le nuove ’sorprese’ della Natura *
Da domani Fabiola Gianotti sarà alla guida del Cern, il centro che si è affermato come il cuore internazionale della fisica delle particelle, e lo fa sulla spinta di una grandissima curiosità, un forte entusiasmo, tanta voglia di innovazione e una grande attenzione alla formazione dei giovani ricercatori.
’’Mi adopererò per espandere l’eccellenza del Cern nella ricerca scientifica in fisica fondamentale e nello sviluppo di tecnologie innovative’’, ha detto all’ANSA la prima donna alla direzione generale del laboratorio europeo di fisica delle particelle negli oltre 60 anni di storia del Cern. Nata a Roma 53 anni fa, ha studiato a Milano ed è stata fra i protagonisti della scoperta del bosone di Higgs. Tra i suoi programmi per il Cern: "la formazione dei giovani e la collaborazione pacifica di migliaia di scienziati di tutto il mondo".
Al Cern si sta vivendo un momento di grandi attese grazie ai dati prodotti dalle collisioni avvenute all’energia record di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV), tanto che si sospetta di aver intravisto una nuova particella. "La prudenza è d’obbligo - ha rilevato Gianotti - perché le indicazioni che abbiamo finora sono estremamente deboli; potrebbero essere il primo vagito di una nuova particella o semplicemente una fluttuazione statistica. Ne sapremo di più a metà del 2016". Al di là della particella ’intravista’, le attese sono tantissime in molti campi: "scoprire qualcosa di veramente inatteso e non previsto è la più bella ricompensa per chi fa ricerca".
* ANSA 31 dicembre 2015, 13:42
Fabiola Gianotti
“Il mio 2016 di nuove particelle e collaborazione tra i popoli”
La scienziata italiana sarà dal 1° gennaio alla guida del Cern
“Dopo la scoperta dell’Higgs, la sfida è la materia oscura”
Figlia di un geologo astigiano e di una letterata siciliana, Fabiola Gianotti è nata a Milano. Nella foto è accanto alla gigantesca macchina del test «Atlas» di cui è stata leader
intervista di Gabriele Beccaria (La Stampa, 29.12.2015)
Le particelle invisibili che corrono e si scontrano nel suo mega-laboratorio, l’anello sotterraneo di 27 chilometri al Cern di Ginevra, raggiungono velocità che sfidano l’immaginazione. Sono prossime a quelle della luce, vale a dire 300 mila chilometri al secondo. Fabiola Gianotti, dal 1° gennaio 2016 direttore generale del più grande laboratorio di fisica del mondo (e probabilmente non solo di fisica), le conosce così bene da sembrare di volerle eguagliare: parla rapidamente, come se i pensieri sopravanzassero le parole, e si muove tra un impegno e l’altro con altrettanta disinvoltura.
Strapparle un’intervista è difficile, quasi impossibile. Significa sottrarle istanti preziosi, per lei che è in corsa contro il tempo, e infliggerle domande che ha già sentito troppe volte. Ieri, in uno dei suoi blitz, si è materializzata (per poco) ad Asti e a Isola d’Asti, che l’hanno celebrata con la cittadinanza onoraria: suo padre, Agostino, era nato nel piccolo centro di Isola. E lei, tra gli scienziati più famosi al mondo, ha raccontato la propria emozione: «Erano anni che non tornavo qui, nei luoghi della mia infanzia e che hanno contribuito alla mia formazione».
Professoressa, lei è nota per non fermarsi mai: quante ore lavora al giorno?
«È difficile dirlo, perché il nostro è un lavoro che non ha orari. Dipende dai giorni, comunque, sì, dedico molto tempo alla ricerca».
Tra i suoi impegni, c’è la gestione della celebrità: ha guidato l’esperimento «Atlas», che ha contribuito alla scoperta del Bosone di Higgs, e «Time» le ha dedicato la copertina.
«È vero che c’è grande interesse da parte della società, ma è positivo: vuol dire che c’è interesse nei confronti della ricerca. Soprattutto da parte dei giovani. Ma per fortuna la mia attività principale resta sempre quella scientifica. Al Cern».
È vero che lei al Cern si sente come «una bambina in un negozio di dolci»?
«Sì. Il Cern è per un fisico un grande negozio di dolci . È un paradiso per qualunque fisico delle particelle».
Pochi giorni e sarà direttore: qual è la parola d’ordine che dirà ai colleghi o - come dite in gergo - la «mission» per le prossime ricerche?
«Continuare a inseguire l’eccellenza in campo scientifico prima di tutto, ma anche nello sviluppo tecnologico, nell’educazione dei giovani e nella collaborazione pacifica tra i popoli e tra gli scienziati che provengono da tutto il mondo».
Mentre si aspetta la ripartenza dell’acceleratore «Lhc» in primavera, c’è eccitazione per la possibile individuazione di una nuova particella che cambierebbe le nostre idee sull’Universo: siete sull’orlo di un’altra clamorosa scoperta?
«Diciamo che al momento c’è solo qualche piccola indicazione che potrebbe consolidarsi nel segnale di una nuova particella, ma tutto potrebbe anche scomparire ed essere semplicemente una fluttuazione statistica».
«Lhc» dà vita a quattro mega-esperimenti che studiano problemi immensi, dai mattoni della materia alle origini del cosmo, ma c’è una domanda-chiave che lei preferisce tra tutte?
«In realtà, no. Noi abbiamo di fronte l’intero spettro delle domande aperte, dalle caratteristiche della materia oscura alla prevalenza nell’Universo della materia sull’antimateria. Affronteremo tutte le domande e vedremo se è possibile trovare delle soluzioni. Speriamo!».
Intanto il numero dei ricercatori al Cern non smette di crescere: quanti siete ora?
«Siamo quasi 12 mila scienziati di 100 nazionalità».
È vero che siete diventati l’icona della «Big Science», la scienza dei grandi numeri, dalle persone impegnate alle macchine in funzione?
«Senz’altro la nostra è una scienza globale, che coinvolge ricercatori da tutto il mondo, ma non è l’unico esempio. Anche la fisica astroparticellare è un altro caso: coinvolge collaborazioni di tipo globale e richiede strumenti talmente complessi che non possono essere realizzati in un solo Paese o addirittura in un solo continente».
Lei è la prima donna a dirigere il Cern: si sente un po’ sola o le sue colleghe stanno aumentando?
«Siamo all’incirca il 20%».
È tanto o poco?
«È un grande passo avanti: ormai sono molte le donne che hanno posizioni di responsabilità: ci sono capo progetto e leader di gruppi di ricerca».
Un attimo di pausa, quasi impercettibile, e poi l’arrivederci. «Ora, mi scusi, ma devo proprio andare».
Dal Gran Sasso alla materia oscura
Il suo mistero appassiona gli scienziati da quasi un secolo.
Una massa che c’è ma non si vede, per spiegare il moto delle galassie.
Ma anche di che cosa è fatto l’Universo
Ora, dalle profondità dei laboratori abruzzesi, si prova a “catturarla”. E l’Italia è ancora una volta in prima linea nella ricerca fisica. Come è avvenuto per la scoperta della “particella di Dio”
Stare al di sotto di 1.400 metri di roccia permette di schermare altri segnali
Le ipotesi fin dagli anni Trenta dopo l’osservazione della Chioma di Berenice
di Silvia Bencivelli (la Repubblica, 7.12.2015)
IL MISTERO cominciò con la Chioma di Berenice. Era il 1933: l’astronomo svizzero americano Fritz Zwicky la stava osservando nel cielo. E lei, che è una costellazione tra la Vergine e il Leone, si lasciava guardare. Solo che c’era una cosa che a Zwicky non tornava: le galassie là dentro correvano tutte insieme e velocemente. Troppo, per quello che diceva la teoria. Zwicky allora formulò un’ipotesi: ci deve essere una massa che tiene quelle galassie vicine tra loro ma che noi non vediamo. Solo che questa massa, secondo i calcoli, doveva essere quattrocento volte superiore a quella visibile. Un’enormità. Possibile che ci fosse un mistero così grande nell’Universo?
Possibile, e quel mistero c’è ancora: si chiama materia oscura. Oggi quattro esperimenti la cercano nell’Universo partendo dalle profondità della Terra: dall’interno del massiccio del Gran Sasso, una montagna che sotto 1.400 metri di altezza nasconde i laboratori sotterranei più grandi del mondo, i Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn, e una scommessa epocale per la scienza. Quei quattro esperimenti, infatti, sono alcuni dei corridori di una corsa che oggi, dopo settant’anni, potrebbe essere vicina al traguardo: la corsa a vedere che cosa tiene insieme la Chioma di Berenice. Cioè a osservare per primi la materia oscura.
Tra questi, nel gruppo di testa c’è Xenon 1T: un progetto internazionale che coinvolge 126 scienziati di 21 istituzioni di America, Europa e Asia e che investe 20 milioni di dollari. La sua leader si chiama Elena Aprile ed è una fisica italiana, professoressa alla Columbia University dal 1986: «Ho cominciato come studentessa di Carlo Rubbia nel 1977 - racconta con un forte accento americano - sono stata ad Harvard per il dottorato e poi sono venuta qui in America, dove sono rimasta. Ma sono contenta che oggi il mio esperimento sia al Gran Sasso: quello è il miglior laboratorio al mondo per la nostra ricerca».
Xenon 1T è oggi il rivelatore più sensibile di quelli al lavoro nei Laboratori del Gran Sasso, almeno a sentire chi ci sta lavorando. «Il nostro esperimento - spiega Gabriella Sartorelli, dell’Università di Bologna e della sezione Infn della stessa città, a capo dei ricercatori italiani - cerca le particelle di cui pensiamo che sia composta la materia oscura: le cosiddette Wimp (Weakly Interacting Massive Particle)».
Il rivelatore di Aprile e Sartorelli tenta di catturarle usando una “trappola” a base di xenon. Cioè: la Wimp dovrebbe interagire con lo xenon, che nel rivelatore è in forma sia liquida sia gassosa, e produrre due segnali luminosi che ci permettono di capire come e dove l’interazione è avvenuta.
Siccome però queste Wimp sono rare e deboli, c’è bisogno di una lunga serie di accorgimenti, come quello di usare un gas nobile (lo xenon, appunto) che si separa più facil- mente dalle impurità. O come quello di stare sotto i 1.400 metri di roccia, che scherma la pioggia incessante di altre particelle capaci di disturbare i rivelatori. E poi c’è la dimensione del rivelatore: 1T significa una tonnellata, di xenon s’intende.
«La probabilità di interazione tra Wimp e materia ordinaria è piccola, per cui c’è bisogno di rivelatori grandi - prosegue Sartorelli - Prima abbiamo avuto Xenon 10, poi Xenon 100 (chili), ma non abbiamo visto niente. Intanto gli americani hanno costruito Lux, che ha dentro 300 chili di xenon. E ancora niente. Adesso con una tonnellata speriamo di farcela, ma chissà. Intanto gli americani hanno in progetto un rivelatore da dieci tonnellate. Ma anche noi nei prossimi due anni vogliamo aumentare, e possiamo farlo facilmente».
La corsa alla rivelazione della materia oscura vede in pista anche DarkSide50, che sempre al Gran Sasso utilizza una trappola a base di un altro gas nobile, l’argon. Anche il suo leader è un italiano in America: Cristian Galbiati, professore di fisica a Princeton. Lui, ovviamente, scommette sul suo rivelatore: «I rivelatori a base di argon sono i più promettenti, perché sono gli unici privi del rumore di fondo della radioattività naturale». Infine, gli altri due esperimenti a caccia della materia oscura. Uno è Cresst, che cerca di osservare le interazioni tra le Wimp e i nuclei atomici di cristalli assorbitori: la responsabile del progetto è Federica Petricca, ricercatrice del Max Planck Institute for Physics di Monaco. L’altro è Dama/Libra, diretto da Rita Bernabei dell’università e della sezione Infn di Roma Tor Vergata: nel 1998 vide un segnale che fu interpretato come un’evidenza di materia oscura, e ha continuato a vederlo per quindici anni, ma non esistono altri esperimenti in grado di confermarlo.
Ma ci sono anche altri rivelatori europei, americani, canadesi, coreani, russi, giapponesi, cinesi, quelli al Cern di Ginevra (che però potrebbero rivelare solo segnali indiretti) e quelli nello spazio, come Ams, lo strumento per lo studio dei raggi cosmici che dal 2011 vola sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Cioè: se non si fosse capito «qui, la questione è di arrivare primi: nessuno gioca per partecipare », dice senza mezzi termini Elena Aprile. Ma poi precisa anche: «In realtà è una strana competizione: tutti ci auguriamo che anche gli altri si muovano bene, perché chiunque arrivi primo, poi, avrà bisogno di conferme».
Il mistero della Chioma di Berenice potrebbe dunque essere vicino alla soluzione. Dopo Zwicky, negli anni Ssettanta l’astronoma Vera Rubin aveva osservato che anche all’interno delle galassie le stelle si comportano come se nell’Universo ci fosse una massa invisibile ai nostri occhi.
Da allora altre evidenze hanno mostrato che questa materia oscura rappresenta circa l’85 per cento della materia dell’universo ed è completamente diversa da quella ordinaria: «Come si fa a resistere all’idea di cercarla?», sorride Elena Aprile.
In palio c’è almeno un Nobel («ma non si va a Stoccolma così in fretta!»). E in questa corsa, sostiene Aprile che è venuta qui dall’America apposta, i Laboratori del Gran Sasso sono in testa: «Non possiamo dire che cosa succederà: è possibile che la prima Wimp sia dietro l’angolo oppure che l’abbiamo appena mancata. Ma la mia scommessa è che la vedremo proprio lì, al Gran Sasso».
FISICA E METAFISICA. "La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere" (Giovanni Amelino-Camelia).
Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività.
Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola»
intervista di Andrea Capocci (il manifesto, 27.11.2015)
Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media.
Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. T ra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie.
«Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre». In che senso, professore?
C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle grandi intuizioni...
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica.
A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle...
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle.
E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica.
Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
Carlo Rubbia
“Insieme con Einstein a un passo dai segreti del Big Bang”
“Tra neutrini e materia oscura vi racconto le prossime sfide”
“Ma l’Europa rischia di perdere la gara con Usa e Giappone”
intervista di Gabriele Beccaria
(La Stampa - TuttoScienze, 4.11.2015)
Carlo Rubbia, un Nobel di Fisica alle spalle e tanti progetti davanti agli occhi: nel suo ufficio di senatore a vita, a Palazzo Giustiniani, spiega che tra Einstein e la generazione dei fisici del XXI secolo c’è una grande differenza. Quella che passa tra le brillanti teorie del genio che ideò la Relatività e la Big Science di oggi che gli esperimenti traducono in realtà. Arrivando perfino a un passo dal Big Bang, l’inizio di tutto ciò che è fisicamente osservabile.
«Fino a un decennio fa la fisica di Einstein, ad esempio quella dei primi istanti dopo il Big Bang, era essenzialmente teorica. Einstein e i suoi collaboratori dell’epoca hanno considerato due ipotesi alternative, quella di un Universo infinito nel tempo o di uno formatosi con il Big Bang: ha prevalso infine questa seconda alternativa, ma solo come ipotesi. Recentemente, poi, con una serie di esperimenti, è stato portato avanti lo studio della cosiddetta “astroparticle physics”, in cui si mettono insieme informazioni provenienti dall’astronomia e dalla fisica delle particelle elementari».
Professore, da questa unione che cosa si sta scoprendo che Einstein non avrebbe immaginato?
«Ci sono due motivi che rendono importante questa fisica. Primo: l’Universo, all’inizio, era estremamente uniforme e quindi studiarne una piccola parte equivale a studiarlo nella sua interezza. Da qui sorge la possibilità di quello che vorrei chiamare un “Little Bang”, ricreando le stesse condizioni sperimentali delle origini con collisioni tra particelle di alta energia e per tempi brevissimi. Secondo: si è capito che in quei primi momenti l’Universo era estremamente prolifico di eventi straordinari e di fenomeni che non possono essere visibili semplicemente osservando le stelle con l’astronomia. Adesso, quindi, passare al processo di ricreazione con le particelle elementari rappresenta un programma di fisica e uno straordinario metodo di ricerca. Il Big Bang è, oggi, una realtà sperimentale con molteplici aspetti».
Tra tanti altri esperimenti c’è anche uno di cui lei è protagonista e che si chiama «Icarus»: ce lo racconta?
«La situazione è delicata. L’Europa e il Cern hanno prodotto risultati fondamentali sulla fisica dei neutrini per mezzo secolo. Tuttavia, con una decisione che non esito a definire autoritaria, nel futuro ne faremo a meno: a occuparsene saranno principalmente gli “altri”: americani, giapponesi e cinesi. Almeno per i prossimi 30 anni. Eppure non dimentichiamoci che per i neutrini sono stati assegnati almeno quattro Nobel per la fisica, compreso quello di quest’anno. Oggi sono il fulcro dell’attenzione».
Perché l’Europa si ritira da un campo così fondamentale?
«La posizione europea di rinunciare a portare avanti i propri programmi in prima persona è, secondo me, un errore. Alcuni anni fa avevo proposto al Cern un piccolo esperimento per verificare l’esistenza dei neutrini sterili, un’idea che risale a Bruno Pontecorvo: questi, se avessero una massa opportuna potrebbero avere una relazione profonda con l’energia oscura. Oggi, invece, con “Icarus” si è preferito prendere la strada per l’America, portando il nostro rivelatore al Fermilab di Chicago. Negli Usa, infatti, è stato lanciato un programma specifico sul neutrino e, quindi, le 730 tonnellate del rivelatore che trasporteremo oltreoceano diventeranno il cuore per la ricerca dei neutrini sterili».
Quali sono i tempi?
«Il programma va avanti: siamo nella fase della preparazione e delle modifiche, in accordo con le richieste americane. Il Cern ci ha offerto spazio e risorse, poi alla fine del 2016 l’esperimento si insedierà negli Usa. Estenderemo la collaborazione a ben otto gruppi statunitensi e ad alcuni dei maggiori laboratori».
È quindi una sconfitta per l’Europa?
«Di esperienze come Lhc non se ne possono fare due, ci vuole collaborazione. Ma per la fisica dei neutrini, che richiede installazioni di dimensioni più ridotte, la partita è aperta: ci sono anche i giapponesi, che hanno appena meritato un Nobel con Takaaki Kajita. Dopo l’esperimento Kamiokande e quello Super-Kamiokande, vorranno fare un Iper-Kamiokande. Il programma sui neutrini, così, non è soltanto americano. Semmai non è più europeo».
Lei parla di Big Science: è stato un pioniere, al Cern, con la scoperta delle particelle W e Z. Poi nel 2012 è arrivata quella del Bosone di Higgs: qual è il prossimo obiettivo?
«Il Modello Standard è stato uno dei grandi risultati di fisica degli ultimi 50 anni e descrive con precisione la fisica astroparticellare. Da qui la domanda: è il tutto? No, non può essere il tutto. Ci deve essere ancora altro da scoprire. L’obiettivo, quindi, è andare “beyond”, oltre il Modello Standard».
Come si riesce in pratica?
«Le faccio un esempio partendo da W e Z. Ci sono state al Cern due fasi: una di scoperta e un’altra di analisi e misura. Queste particelle furono scoperte con un’esperienza adronica, con il “collisionatore” di protoni e antiprotoni. Ma poi il tutto fu ripreso da un altro acceleratore più grande, il Lep, che ha prodotto centinaia di migliaia di eventi singoli e “puliti”. Ora siamo arrivati all’Higgs: per rispondere all’interrogativo si deve fare di nuovo un altro passo».
Quale nuovo passo?
«L’attuale “collisionatore”, Lhc, fa scontrare su una scala più grande protoni di alta energia. Vediamo un segnale, ma non ricaviamo tutte le informazioni possibili. Ecco perché è necessario costruire un’altra esperienza che realizzi l’equivalente del Lep con W e Z».
«il sogno è quello di produrre milioni di Higgs, in condizioni di assoluta pulizia e cercare quindi di capire se il Modello Standard rimane quello che è o se ci sono ulteriori segnali. E per essere significativo un cambiamento deve essere dimostrato entro un adeguato limite di garanzia».
“Ora nuovi enigmi: c’è un altro Bosone?”
-***A parlare è Stefano Ragazzi, direttore dei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
di Valentina Arcovio (La Stampa TuttoScienze, 07.10.2015)
«Le scoperte di Kajita e McDonald hanno cambiato un pezzo importante del Modello Standard e hanno aperto la strada a nuovi interrogativi su cui stiamo lavorando». A parlare è Stefano Ragazzi, direttore dei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il più grande laboratorio sotterraneo al mondo dedicato alla fisica astroparticellare, dove si svolgono ricerche di punta proprio sulla fisica del neutrino.
Professore, quale pilastro del Modello Standard hanno abbattuto i due nuovi Nobel?
«Il Modello Standard prevedeva l’esistenza di tre famiglie di neutrini con massa nulla. Il lavoro di Kajita e McDonald ha dimostrato, invece, che tutti i neutrini hanno una massa, che varia leggermente a seconda delle famiglie».
In che modo questa scoperta cambia la nostra visione dell’Universo?
«Non ha cambiato le nostre conoscenze sulla cosmologia, ma ha aperto un capitolo nuovo della fisica delle particelle. Grazie al lavoro dei due Nobel abbiamo aggiunto un altro pezzetto all’identikit di una delle particelle più elusive dell’Universo. Il neutrino, infatti, è ancora qualcosa di misterioso e Kajita e McDonald ci hanno dimostrato che il Modello Standard non lo descrive correttamente».
Che cosa manca oggi per completare l’identikit del neutrino?
«Sappiamo dove i neutrini vengono prodotti, a quante famiglie appartengono e che possono cambiare durante il loro percorso. Grazie ai due Nobel sappiamo che hanno una massa diversa a seconda della famiglia. Ma quello che ignoriamo è ancora tanto. Non sappiamo, per esempio, se la massa del neutrino è uguale a quella della sua antiparticella o meno. Se fosse così, potremmo avere un indizio importante che la massa del neutrino non è generata dallo stesso meccanismo delle altre particelle, il campo di Higgs. È possibile, ad esempio, che esista un’altra “particella di Dio”, oltre al famoso bosone di Higgs. E non è escluso che il neutrino sia simile alle particelle descritte da Ettore Majorana, cioè che coincidono con la propria antiparticella».
Anche i fisici italiani sono impegnati nello studio dei neutrini: su cosa ci concentrano?
«Innanzitutto, prima di Kajita e McDonald, era stato Bruno Pontecorvo a suggerire che i neutrini potessero oscillare, cioè cambiare famiglia. E oggi l’impegno dell’Italia nello studio di questa particella è davvero importante: i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn hanno contribuito con l’esperimento “Macro” allo studio dei neutrini atmosferici, mentre le misure del test “Opera” hanno dimostrato l’esistenza dell’oscillazione dei neutrini dalla seconda famiglia alla terza, completando quindi gli studi di Kajita e McDonald. Ma non meno importante è il ruolo dell’esperimento “Gallex” nella comprensione dei neutrini solari e le successive misure di precisione condotte da “Borexino” sulle componenti del loro flusso».
Il Nobel della fisica ai detective del neutrino
“Hanno scoperto come si trasforma e che possiede una massa”
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 07.10.2015)
Si chiamano neutrini e con i fotoni (le particelle della luce) sono la «cosa» più abbondante del nostro Universo. Sono ovunque, ci investono e ci attraversano - 60 miliardi al secondo, per ogni centimetro quadrato della Terra - eppure non ce ne accorgiamo e sono così elusivi da sfuggire volentieri a chi si sforza di acchiapparli. Ecco perché chi li studia merita un Nobel, soprattutto se ne ha svelato uno (dei tanti) misteri. Così ieri l’Accademia di Stoccolma ha deciso di dare il premio per la fisica al giapponese Takaaki Kajita e al canadese Arthur B. McDonald.
Che cos’hanno scoperto? Che i neutrini, contrariamente a quanto molti colleghi avevano ipotizzato per anni, possiedono una massa, anche se minima. E l’hanno dedotto perché i neutrini - che sono davvero particelle bizzarre - non restano mai uguali a se stessi, ma sono dei camaleonti. Addirittura possono assumere tre forme diverse, note in gergo come «l’elettronico», «il muonico» e «il tauonico». E, non contenti, i neutrini hanno anche origini multiple: furono prodotti all’inizio di tutto, durante il Big Bang, e continuano a essere «sparati» da stelle (come il nostro Sole) e da altre molto più energetiche (come le supernovae) e a generarsi sopra le nostre teste, quando i raggi cosmici interagiscono con l’atmosfera terrestre.
Teorizzati nel 1930 dal futuro Nobel Wolfgang Pauli, i neutrini furono battezzati così da un altro cervello destinato al Premio, Enrico Fermi, e finalmente scoperti nel 1956 da due americani, Frederick Reines e Clyde Cowan, anche loro benedetti dal Nobel. Un’avventura accidentata che nel 2015 approda a Takaaki Kajita e ad Arthur B. McDonald, autori di due diversi test, ma complementari: i loro team, impegnati in gigantesche strutture sotterranee in Giappone e in Canada, chiamate Super-Kamiokande e Sudbury Neutrino Observatory, hanno svelato i comportamenti del neutrino, vale a dire le sue tre «oscillazioni», elettronica, muonica e tauonica (un fenomeno ipotizzato nel 1957 da un altro italiano, Bruno Pontecorvo).
E non basta. Portando alla luce la massa dei neutrini, i due scienziati hanno messo in crisi il Modello Standard, che regge (in modo sempre più imperfetto) l’edificio della fisica contemporanea. Tanto che «queste particelle misteriose, strutturalmente diverse da tutte le altre che conosciamo, potrebbero essere la porta su una nuova fisica», ha commentato ieri il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Fernando Ferroni. Come cambieranno le idee sulla materia e sull’Universo, sulle sue origini e sulla sua evoluzione? È un’ulteriore avventura, degna di molti altri futuri Nobel.
I neutrini hanno una massa
Quei neutrini da Nobel
L’eredità di Pontecorvo
di Paolo Giordano (Corriere della Sera, 07.10.2015)
I neutrini hanno una massa. Irrisoria rispetto a quella delle altre particelle e di origine ancora ignota. L’evidenza di questa massa è stata provata dagli esperimenti valsi il Nobel a McDonald e Kajita (nella foto l’osservatorio dei neutrini in Giappone, in una miniera a 1.000 metri sottoterra)
All’inizio degli anni sessanta John Updike, lo scrittore della saga di Coniglio, dedicò una poesia ai neutrini. S’intitola Cosmic Gall, «Sfacciataggine cosmica», e comincia così: «I neutrini son piccolini. / Non hanno carica né massa / e non interagiscono per niente. / La Terra per loro è una palla demente / in cui passare semplicemente».
La poesia di Updike, pur nella sua irriverenza (l’originale rima in continuazione con «ass»), contiene alcune verità sui neutrini e almeno altrettante falsità. I neutrini sono effettivamente privi di carica elettrica e interagiscono poco volentieri con la materia. Di tutte le particelle conosciute (elettroni, quark, fotoni...) sono le più capricciose, le più difficili da rilevare negli esperimenti, tanto che la loro presenza è assai più spesso evidenziata come deficit di qualcosa. Possono attraversare spessori ragguardevoli - la Terra stessa, come dice Updike - senza subire alcun cambiamento, tanto che ce ne piovono addosso in continuazione, circa cinquantamila miliardi attraversano il nostro corpo ogni secondo, senza che ce ne accorgiamo.
Ciò che Updike non poteva sapere è che i neutrini, per quanto fantasmatici, possiedono una massa, irrisoria rispetto a quella delle altre particelle note e la cui origine è ancora sconosciuta, ma comunque una massa. L’evidenza di questa massa è stata provata dagli esperimenti per i quali, ieri, Arthur B. McDonald e Takaaki Kajita hanno vinto il premio Nobel per la fisica. L’idea stessa di dimostrare che una particella capace di bucare un pianeta abbia un peso dovrebbe dare la misura di quanto gli esperimenti guidati da McDonald e Kajita negli anni novanta fossero delicati e complessi.
Entrambi i laboratori esistono ancora: il Sudbury Neutrino Observatory (SNO) di McDonald in Canada, e Super-Kamiokande di Kajita in Giappone. Sono strutture di bellezza cinematografica: serbatoi di acqua pesante rivestiti in acciaio e punteggiati da migliaia di rivelatori, sferico il primo e cilindrico il secondo, dove gli scienziati entrano con tute sterili solo dopo essersi fatti la doccia. E sono interrati a profondità abissali per ridurre le interferenze. In una lezione a Berkeley, McDonald ha scherzato sul fatto che ogni Paese abbia bisogno di illustrare quelle profondità usando come scala un proprio monumento. Lui ha scelto l’Empire State Building. Per noi, il serbatoio di SNO si trova a circa tredici Moli Antonelliane sotto la superficie terrestre.
In realtà, la massa dei neutrini non è stata rivelata «direttamente» dagli esperimenti, bensì dedotta da un altro fenomeno, chiamato «oscillazione di neutrino». Consiste più o meno in questo. In natura sembrano esistere tre specie diverse di neutrini: i neutrini elettronici, muonici e tauonici. Se fossero davvero privi di massa, come la teoria (e anche Updike) li ha voluti per lungo tempo, ognuno resterebbe quello che è per sempre. L’elettronico resterebbe elettronico, il muonico muonico, il tauonico tauonico.
Negli esperimenti di McDonald e Kajita è stato invece dimostrato che i neutrini possono «oscillare» da un tipo all’altro. Attraversata una certa distanza alla folle velocità a cui viaggiano, diviene addirittura probabile che un neutrino elettronico diventi muonico, per esempio. E questo è possibile soltanto in presenza delle masse. Il sospetto che una simile metamorfosi fosse possibile si ebbe per la prima volta misurando la quantità di neutrini elettronici provenienti dal Sole, e accorgendosi che ne arrivavano a noi meno del previsto. Dov’erano finiti gli altri? Si erano persi per strada oppure si erano trasformati in qualcosa di diverso? McDonald e Kajita, insieme ai loro colleghi, hanno dimostrato che la seconda ipotesi era quella vera.
Ho sempre trovato un po’ meschino, quando si parla di successi della scienza, volerli associare a tutti i costi al proprio Paese, un campanilismo simile a quello che, secondo McDonald, si applica alla misura delle lunghezze. La ricerca ha uno sguardo assai più ampio di quello nazionale. Ma è doveroso, in questo caso, ricordare che la fisica dei neutrini ha alle spalle una tradizione italiana importante. Dopo che Dirac ne postulò l’esistenza, fu soprattutto Fermi a descrivere i processi ai quali i neutrini prendevano parte. Majorana ne diede una descrizione matematica nuova, che lasciò quesiti tuttora aperti. E l’idea germinale che condusse allo studio delle oscillazioni di neutrino fu presentata da Bruno Pontecorvo in un lavoro del 1957. La poesia scientifica di Updike si conclude con questi versi: «La notte (i neutrini) entrano in Nepal / e perforano l’amante e la sua amata / da sotto il letto, voi chiamatelo / stupendo; io lo chiamo idiota». Il Comitato del premio Nobel non era d’accordo con lui.
Perché siamo alla ricerca dei segreti nascosti in quegli istanti iniziali
Il fascino di un nuovo passo che proietta verso l’ignoto
di Paolo Giordano (Corriere della Sera, 04.06.2015)
«A mouth-watering prospect», una prospettiva da far venire l’acquolina in bocca: così, in una mail al personale, il direttore generale del Cern, Rolf Heuer, ha definito l’esplorazione della regione di energie fino a 13 TeV, inaugurata ieri a Lhc.
Il Large Hadron Collider venne concepito trent’anni fa (l’idea risale al 1984) proprio con l’intenzione di raggiungere questa scala di energie, quindi si può ben intuire il senso di trionfo, di commozione e di lieve sgomento che pervade nelle ultime ore le migliaia di persone coinvolte. L’evento non è molto diverso dal lancio in orbita di un nuovo veicolo spaziale, meno scenografico forse, perché qui tutto avviene nelle profondità della terra e in uno spazio minuscolo, invisibile agli occhi - ma non molto diverso -. Se una sonda spaziale ci permette di visitare regioni inesplorate dello spazio, infatti, aumentare l’energia delle collisioni in un acceleratore come Lhc ci permette di visitare regioni inesplorate del tempo. L’analogia è ben chiara a tutti i fisici e discende da una formula alquanto semplice. In sostanza, più si aumenta l’energia delle collisioni, più indietro nel tempo ci si spinge, ricreando artificialmente gli istanti fatidici successivi al Big Bang, come se si guadagnasse ogni volta qualche fotogramma di una pellicola che ha filmato l’evoluzione dell’Universo dal principio.
Nel caso di Lhc, decenni di lavoro, una quantità abnorme di tempo, di energie intellettuali, fisiche ed economiche ci permettono di guadagnare qualche frazione infinitesimale di secondo. Sembra poco, sembra non valerne quasi la pena, ma non è così. Il tempo non ha tutto lo stesso valore nell’evoluzione dell’Universo: per i fisici, ci sono forse più misteri cruciali da risolvere nel primo centesimo di secondo preistorico di quanti ce ne siano nei miliardi di anni seguenti.
La fatica che agli scienziati è richiesta per strappare un’altra piccola porzione di passato aumenta esponenzialmente mano a mano che si procede all’indietro, come se il mistero dell’Inizio ci prendesse in giro, o volesse a tutti i costi restare inconoscibile. Ora, il salto dall’energia della prima presa dati di Lhc - 8 TeV, quanto è bastato per rivelare il bosone di Higgs - all’energia attuale servirà, forse, a chiarire di che cosa sia fatto quel venticinque percento di materia del cosmo che non vediamo, non percepiamo, ma sappiamo essere lì (venticinque percento: non proprio un’inezia). E servirà, forse, a svelare per quale meccanismo, dopo una fase brevissima di sostanziale parità, la materia abbia prevalso sulla sua gemella eterozigote, l’antimateria.
L’aspetto inedito, affascinante, di questo nuovo passo è che stavolta non si va a caccia di qualcosa di troppo definito. Il bosone di Higgs, l’ultimo pezzo nel puzzle della fisica «standard» delle particelle, era lì dove lo si aspettava, adesso si tratta di misurarne meglio le caratteristiche, ma delle energie più alte si conosce poco o nulla, si hanno a disposizione soltanto ipotesi discretamente vaghe, al punto da riassumerle tutte nell’espressione anodina «Nuova Fisica». Perlopiù, si cercherà di scovare qualche anomalia nei processi. Dopodiché, ammesso di trovarne, si farà di tutto per interpretare quelle anomalie con i vari modelli predisposti dai fisici teorici. È iniziata quindi una specie di peregrinazione in un luogo estraneo e imprevedibile, proprio il genere di attività che agli scienziati fa veni re «l’acquolina in bocca».
Una precisazione importante: 13 TeV non è di per sé un’energia spaventosa. Diviene tale quando è condensata in un volume di spazio ridotto quanto quello delle collisioni a Lhc, tanto da farci ipotizzare che negli scontri si raggiunga la temperatura più alta presente nell’Universo attuale.
È possibile che in futuro mancheranno i mezzi e la fiducia per realizzare una macchina capace di superare le prestazioni di Lhc, che le collisioni a 13 TeV restino il massimo mai osato dall’ingegno umano, ma i dati a nostra disposizione smentiscono una supposizione del genere. Finora, l’uomo ha sempre trovato il modo di spingersi ancora un po’ oltre - un po’ più lontano nello spazio, un po’ più indietro nel tempo.
Il Cern come Galileo alla massima potenza nei segreti della materia
di Carlo Rovelli (la Repubblica, 04.06.2015)
NEL 1993, nonostante il fatto che in Texas parte del tunnel sotterraneo fosse già stata scavata, il Senato americano taglia i fondi per la costruzione del grande acceleratore di particelle che i fisici chiedevano. Il progetto americano si ferma e la fiaccola della ricerca sperimentale estrema in fisica fondamentale passa nelle mani dell’Europa. La costruzione della grande macchina di Ginevra, che rappresenta la punta avanzata di questa ricerca, è stata lunga e sofferta, ma ha funzionato.
GIÀ alla prima accensione, a metà potenza, il “Large hadron collider”, cioè il “Grande scontratore di particelle subatomiche” - Lhc per gli amici - ha dato un bellissimo risultato: la rivelazione del “bosone di Higgs”, che conferma una predizione di trent’anni prima. Oggi finalmente l’Lhc parte a piena potenza, pronto per esplorare qualcosa di veramente nuovo: aspetti della Natura che non abbiamo mai osservato prima.
L’attesa fra i fisici è forte. È la stessa emozione di quelle sere di Padova di quattro secoli fa, quando Galileo Galilei ha alzato uno dei primi rudimentali cannocchiali verso il cielo, per vedere cose che nessun occhio umano aveva prima mai visto. Galileo vide le fasi di Venere, le lune di Giove, le montagne della Luna, le macchie sul Sole... Cosa vedremo noi? Non lo sappiamo e questa è la vera magia dell’avventura di Ginevra. La Natura ci sorprende. Non si adatta ai nostri pensieri.
L’Lhc ci ha già sorpreso. Alla sua prima accensione, tre anni fa, non ha prodotto quello che molti fisici si aspettavano. Ricordo una visita al Cern poco prima dell’accensione e una lunga chiacchierata con un collega della divisione teorica, uno dei più bravi. Mi diceva: “Vedrai, Carlo, appena partiamo con l’Lhc troviamo le particelle supersimmetriche”. E invece no, le particelle supersimmetriche non sono saltate fuori. L’Lhc ha confermato con spettacolare puntualità quello che già sapevamo della Natura: il cosiddetto “modello standard delle particelle elementari”, ma per ora si è rifiutato ostinatamente di confermare anche uno solo dei tentativi dei fisici teorici di indovinare cosa succede più in là.
La grande pubblicità che è stata data alla rivelazione della particella di Higgs è servita ai fisici per dire al mondo che i soldi spesi non sono stati inutili (tutto sommato, confrontato con una portaerei, un’autostrada o un’olimpiade, l’Lhc costa spiccioli), ma forse ancora di più per coprire la delusione di non aver trovato quello che molti si aspettavano: le particelle supersimmetriche. Intere costruzioni teoriche, la vita di ricerca di molti scienziati, è appesa all’esistenza di queste particelle: se ora l’Lhc le trova, molti potranno dire “visto, avevamo ragione”. Se non le troviamo, gli argomenti per prendere sul serio molte teorie si indeboliranno. È questa incertezza che rende viva la scienza.
I comunicati ufficiali del Cern suonano qualche volta un po’ trionfalistici e magniloquenti: “Studiamo i lati oscuri dell’universo! Esploriamo l’inizio del Cosmo!”. La realtà, vista da vicino, è più sobria. Per molti la vera questione è: “Queste equazioni su cui ho passato la vita, hanno qualcosa a che vedere con la realtà, oppure niente?” Le troveremo oggi, le particelle supersimmetriche? Vedremo qualcosa di nuovo, forse inaspettato, oltre a quello che già è ben descritto dal modello standard? Non lo sappiamo, restiamo in attesa. Andiamo a vedere. È proprio perché chiede conferma alle risposte della Natura, che il sapere della scienza è poi così affidabile. È proprio perché non sappiamo cosa vedremo che tutto questo è interessante.
Il sogno di Fabiola Gianotti
«Raggiunti i limiti della tecnologia. Esiti imprevedibili»
«Finalmente possiamo affrontare grandi questioni della fisica rimaste finora senza risposta» ammette soddisfatta Fabiola Gianotti, che dopo aver diretto uno dei due esperimenti chiave (Atlas) per la scoperta del bosone di Higgs nel 2012 (l’altro era Cms) ora si prepara alla guida del Cern, il laboratorio europeo oggi più importante al mondo per le ricerche sulla natura della materia, nato a Ginevra mezzo secolo fa.
Quali saranno le nuove opportunità offerte da Lhc?
«Guardando nel mondo primordiale ricostruito all’interno della macchina cercheremo di capire di che cosa sia formata la materia oscura che caratterizza il 25 per cento dell’Universo, oppure l’antimateria sulla quale all’inizio ha avuto il sopravvento la materia di cui anche noi siamo costituiti, e non sappiamo ancora il perché. Compiamo un viaggio alle origini entusiasmante solo al pensiero».
Tra le altre domande in attesa di risposta c’è anche l’esistenza o meno della supersimmetria.
«Questa è una teoria ipotizzata e dobbiamo vedere se, così come è stata formulata, corrisponda alla realtà. Magari non è corretta e ha bisogno di modifiche. Comunque se non l’abbiamo trovata nella prima fase degli studi potrebbe significare che le particelle di cui è formata come il neutralino o il fotino si manifestano a energie superiori. E adesso lo verificheremo».
Il fascino dei nuovi strumenti di indagine deriva anche dalla facoltà di portare dove nessuno aveva previsto.
«Infatti potremmo scoprire particelle nemmeno immaginate; delle realtà nuove perché Lhc, macchina meravigliosa, ci spalanca la porta di un giardino incantato nel quale le sorprese possono essere numerose. Siamo ricercatori. Cerchiamo, e le scoperte più belle sono quelle inattese. Di certo l’acceleratore consente di affrontare una nuova fisica per la quale ci siamo preparati in questi anni. Bisogna però ricordare che è la natura a decidere e spesso è in grado di sorprenderci con visioni a cui nessuno aveva pensato».
Prospettive esaltanti permesse da uno strumento unico al mondo. È lecito, dunque, attendersi risultati altrettanto eccezionali?
«Lhc e i quattro esperimenti sono ai limiti della tecnologia e consentono di indagare la natura al meglio, come mai era stato possibile. È come per un pittore disporre di nuovi colori, per uno sculture di un marmo eccezionale o per un musicista disporre di un nuovo Steinway a coda: i risultati sono potenzialmente straordinari».
Come si sente uno scienziato davanti a queste eccezionali possibilità? «Posso dire di vivere assieme ai miei colleghi un’emozione profonda. Trovarsi in questo modo sulla soglia di una nuova epoca della conoscenza ti fa sentire anche la responsabilità di un’impegno che hai sognato a lungo e finalmente diventa una realtà».
* Corriere della Sera, 04.06.2015
Prime collisioni record al Cern, è la rivoluzione della fisica
Possibile esplorare fenomeni sconosciuti *
E’ cominciata al Cern di Ginevra la ‘rivoluzione’ della fisica, con le prime collisioni di particelle all’energia record di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV). Diventa possibile osservare un mondo di fenomeni completamente nuovi, che la fisica tradizionale finora non era in grado di descrivere.
’’Un passo storico per la fisica e la tecnologia’’: così Fabiola Gianotti, direttore designato del Cern, ha detto all’ANSA, commentando le prime collisioni avvenute nell’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) all’energia record di 13.000 miliardi di elettronvolt (13 TeV). ’’Un passo - ha aggiunto - reso possibile anche dall’importante contributo dell’Italia’’. Per Gianotti le prime collisioni record costituiscono ’un passo in avanti senza precedenti, reso possibile anche dall’importante contributo da parte dell’Italia, con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e con l’Ansaldo, che ha costruito oltre un terzo dei magneti superconduttori dell’acceleratore’’. Per la ricerca, ha aggiunto, ’’è un passo in avanti storico perché le collisioni a questa energia ci permettono di affrontare questioni di fisica fondamentale e diventa possibile trovare risposte a domande aperte, come quella relativa alla natura della materia oscura’’, ossia la materia invisibile e sconosciuta che occupa circa il 25% dell’universo.
’’Diventa anche possibile scoprire perché l’universo è fatto prevalentemente di materia’’, ha detto ancora riferendosi alla mancata simmetria fra materia e antimateria. Nonostante si annientino reciprocamente e siano state prodotte in uguale misura dopo il Big Bang, non si sa spiegare infatti perché una piccola quantità di materia abbia avuto la meglio sull’antimateria.
’’Un risultato fantastico!’’, è stato il commento entusiasta del direttore generale del Cern, Rolf Heuer, alle prime collisioni avvenute all’energia record di 13 TeV nell’acceleratore più grande del mondo. ’’Adesso - ha aggiunto rivolgendosi ai ricercatori - non dobbiamo avere fretta: i risultati non arriveranno domani, nè fra una settimana, ma sicuramente arriveranno e saranno straordinari’’.
* ANSA, 03 giugno 2015, 15:12 (ripresa parziale).
A Ginevra
Cern: ripartito il superacceleratore
Alla caccia della materia oscura
Dopo due anni di lavori per arrivare a una potenza doppia di quella che ha permesso di scoprire il bosone di Higgs
di Paolo Virtuani (Corriere della Sera, 05.03.2015 - ripresa parziale).)
Dopo due anni di lavori di potenziamento, a Pasqua è stato riacceso l’Lhc (Large Hadron Collider), il superacceleratore del Cern di Ginevra che ha già al suo attivo la scoperta del bosone di Higgs. «Sono contentissimo, come lo sono tutti qui al centro di controllo del Cern», ha commentato il direttore generale Rolf Heuer, che il 31 dicembre lascerà il posto a Fabiola Gianotti. «Ora si apre la porta su un universo sconosciuto e imprevedibile», ha spiegato Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).
Due anni di pausa
I due anni di intervallo sono serviti per una manutenzione della complicatissima macchina e per interventi necessari a ottenere la garanzia di poterla spingere ai limiti per i quali è stata costruita. L’obiettivo è ora quello di arrivare - prima dell’estate - alla potenza di 13 mila miliardi di elettronvolt (TeV), circa il doppio della potenza raggiunta nella prima fase di lavoro. Intanto nei mesi scorsi, dopo il raffreddamento a meno 271 gradi sotto zero, sono state effettuate accensioni parziali facendo scorrere i protoni solo in alcuni settori dell’anello sotterraneo di 27 chilometri a cento metri di profondità. Nel dicembre scorso sono entrati in azione fasci di particelle a 6,5 TeV e all’inizio di marzo si sono condotti test con gli esperimenti Lhcb e Alice.
Materia oscura
Ora l’obiettivo degli scienziati è arrivare ai limiti del cosiddetto Modello standard, ossia la teoria che spiega l’origine dell’universo. In modo particolare cercare di comprende cosa sia la materia oscura, che occupa il 25% dell’universo, e l’energia oscura che ne costituisce il 70%. «La materia oscura è stata ipotizzata per spiegare le anomalie del Modello standard, cioè il modello che spiega l’origine dell’universo. La scoperta della natura della materia oscura è il fronte più attivo sul quale punta l’Lhc», aveva detto nei giorni scorsi lo scienziato italiano Luciano Maiani, che è stato tra i padri dell’Lhc .«Con la ripartenza di Lhc l’avventura ricomincia, ci stiamo lasciando alle spalle il bosone di Higgs e ora si apre per noi una porta su un mondo che non conosciamo», ha affermato Ferroni. «Confidiamo che questa nuova esplorazione possa aiutarci a gettare un po’ di luce sulle componenti oscure dell’universo, ma speriamo anche in sorprese inaspettate».
Il sogno del Cern, trovare la «supersimmetria»
Gli scienziati: con un po’ di fortuna sarà una scoperta più importante del bosone di Higgs *
Dalla California arrivano ventate di ottimismo sul futuro della nostra conoscenza: «Entro la fine dell’estate con un po’ di fortuna potremo essere in grado di “acchiappare” il gluino», ha detto infatti alla Bbc Beate Heinemann, la scienziata di Berkley portavoce del progetto Atlas del Cern.
C’era la nostra Fabiola Giannotti nel ruolo dell’americana Heinemann quando nel 2012 venne trovato il bosone di Higgs. E adesso che LHC, l’acceleratore del Cern, il più potente del mondo, sta per riaccendere i motori (probabilmente in marzo), il nuovo obiettivo è trovare il «gluino», ovvero la particella supersimmetrica del gluone (la particella colla dei quarks). «Sarebbe come la scoperta dell’America per Colombo», dice Luciano Maiani, l’accademico dei Lincei che da direttore del Cern (tra il 1999 e il 2003) mise per la prima volta in moto L’ LHC.
Trovare il gluino vorrebbe dire spalancare le porte su un mondo nuovo. Primo perché si potrebbe finalmente provare la teoria della supersimmetria. E, soprattutto, perché si potrebbe partire alla scoperta della natura della Materia oscura. Non è esattamente un dettaglio la conoscenza della Materia oscura che, infatti, costituisce oltre il 90 per cento del nostro universo.
È più di una ventata di ottimismo quella che arriva dalla California: «La scoperta di questo nuovo mondo per me è molto più eccitante di Higgs», gongola la dottoressa Heinemann.
* Corriere della Sera, 16.02.2015
Fabiola Gianotti
Io, tra Dio e il Big Bang
Guiderà diecimila scienziati alla scoperta della materia oscura: “Ma l’uomo non potrà mai sapere tutto”
Si può essere fisici e credenti però è meglio che scienza e fede mantengano la giusta distanza
È un mestiere simile all’artista: anche noi dobbiamo andare oltre la realtà davanti ai nostri occhi
E ora vi spiego a cosa serve il bosone di Higgs
colloquio con Dario Cresto-Dina (la Repubblica, 28.12.2014)
GINEVRA LE INSEGNE RISPLENDONO e annunciano: Snacks, Salades, Desserts, Drinks. Sotto, quasi ogni ben di dio. I manifesti di due film, Bridget Jones e Angeli e Demoni. La locandina della sesta “Higgs Hunting”, la caccia, la conferenza che si svolgerà dal 30 luglio al primo agosto 2015 a Orsay, Francia, su risultati e prospettive dell’EWSB (ElectroWeak Symmetry Breaking) accanto a quella di un corso di danza scozzese. Stinchi pelosi spuntano da un kilt.
Le lingue del mondo si immergono e risalgono nel vociare di decine di ragazzi di colore e sguardi diversi che si mischiano in un gruppo, poi in un altro, qualcuno sulle code di una donna o di un uomo appena un poco più grande, qualche filo di grigio nei capelli, nessuno in tailleur o giacca e cravatta. Crocchi di tre o quattro in posa per un selfie sillabano prima dello scatto «higgs boson» che qui, ha sostituito il «cheese» conservandone la stessa funzione propedeutica al sorriso. Il tutto sorvegliato, sotto la cupola dello stabilimento principale del Cern, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, dalla gigantografia del rivelatore Atlas che a prima vista sembra una stazione spaziale, ma in realtà è un colossale microscopio capace di fotografare la collisione di particelle con una potenza di fuoco di quaranta milioni di scatti al secondo e una risoluzione di cento milioni di pixel.
Tutto è rotondo al Cern: edifici, piazze, uffici, corridoi. Quasi a rappresentare plasticamente come questo sia un luogo che smussa, arrotonda appunto, le antinomie, i conflitti. Passato e futuro, giovani e vecchi, uomini e donne, scienza e fede. Il direttore attuale, Rolf Dieter Heuer, tedesco del Sud di sessantacinque anni, in carica dal 2009, uno scienziato che ama la danza artistica, le sculture di Giacometti e i poemi di Neruda messi in musica da Mikis Theodorakis, è stato paragonato a Re Artù per la ieratica somiglianza con il sovrano della leggenda portata sugli schermi e perché qui come spirito ci si sente un po’ tutti cavalieri della tavola rotonda.
Mesi fa, allo svizzero Le Temps, Heuer ha detto: «La scienza non è esotica, gran parte della nostra vita ha a che fare con la fisica. I giornali dovrebbero essere più attenti alle belle notizie, quelle che ci danno gioia, ravvivano la mente, stimolano il sapere. Non dovremmo mai dimenticare che scoprire è un piacere». Nel gennaio 2016 Heuer passerà il testimone a Fabiola Gianotti.
SARÀ IL TERZO DIRETTORE ITALIANO DEL CERN, dopo Carlo Rubbia e Luciano Maiani (Edoardo Amaldi fu invece tra i fondatori, nel ‘54, e segretario generale). La prima donna a ricoprire questa carica. «Lei e Rolf - raccontano i colleghi - hanno un’esperienza molto simile. Entrambi sono stati spokesperson di un grande progetto, Atlas e Opal, entrambi sono stati staff Cern, quindi hanno sviluppato una cultura comune».
Fabiola Gianotti ha cinquantaquattro anni e una voce argentina ed entusiasta da liceale. Una vita tra Roma e Milano, studi classici, le canzoni di Baglioni, il pianoforte, Bach e Schubert, Flaiano, Dostoevskij, Zola e la Némirovsky, Van Gogh e i pittori del Rinascimento italiano. Ha appena visto Torneranno i prati di Olmi e le è piaciuto moltissimo, si è commossa, ha ricordi indelebili di Lezioni di piano, Il postino e Pallottole su Broadway . Conserva i rimpianti della ballerina classica, la passione per la cucina, per le scarpe e per una domanda: «Perché la mela cade dall’albero?».
L’incontro fatale con la fisica l’ha avuto nel cuore grazie a una biografia di Marie Curie, nelle mani a Milano in un capannone della facoltà di Fisica a Città Studi, l’alternativa professionale sarebbe stata nelle neuroscienze perché non c’è poi così tanta differenza tra i misteri dell’universo e quelli che si nascondono nella mente umana. Magrissima e timida fino alla diffidenza, indossa una maglia arancione, una collana di pietre d’acqua e un paio di jeans. Un’eleganza sdrucciola che tende a scivolare via distrattamente dagli occhi di chi la osserva. Eppure la prima sensazione che si percepisce è quella di una donna felice: «Il Cern è il laboratorio del mondo. Tra queste mura mi sento come una bambina in un negozio di dolci. Non c’è altro luogo in cui desidero stare».
La felicità porta con sé un’aura di bellezza. Che cos’è la bellezza?
«Attingo dalla fisica: la bellezza è la simmetria imperfetta. La fisica ha una sua estetica che si può contemplare nelle leggi della natura fino agli esseri microscopici. Comprenderla è un gioco intellettuale relativamente semplice. Pensi che le equazioni fondamentali del Modello standard delle particelle elementari si possono scrivere su una t-shirt. Sono tre righe appena ».
La fisica si muove tra passato e futuro. Siete esploratori. Il prossimo obiettivo è proprio la super simmetria dell’Universo. L’ipotesi che ciascuna delle 17 particelle elementari finora scoperte abbia un partner “supersimmetrico” non ancora osservato. Quando vi rimetterete in viaggio?
«In primavera, quando tornerà operativo il Large Hadron Collider. Il più grande acceleratore mai costruito, un tunnel circolare di ventisette chilometri localizzato a circa cento metri di profondità nella campagna tra la Svizzera e la Francia. Ha funzionato con successo tra il 2009 e il 2013, ci ha portato alla scoperta del Bosone di Higgs. Per consentirci di affrontare domande molto importanti sulla materia oscura, che è circa il venti per cento dell’Universo, un’energia più elevata potrebbe essere fondamentale. Passeremo da otto a tredici tera-elettronvolt, l’unità di misura dell’energia delle particelle. Un TeV equivale all’energia di volo di una zanzara, ma il protone è circa mille miliardi di volte più piccolo della zanzara».
Che cosa succede sotto terra quando l’LHC e i suoi esperimenti sono in operazione?
«Due fasci di protoni vengono accelerati attraverso campi elettrici. Campi magneti superconduttori di altissima tecnologia li intrappolano nell’anello e li guidano in collisione. I protoni si scontrano in quattro punti del tunnel dove apparati sperimentali ci permettono di studiare il prodotto delle collisioni».
Come definirebbe filosoficamente la materia oscura?
«La misura della nostra ignoranza. Nessuna particella elementare fin qui scoperta presenta le caratteristiche della materia oscura. Ci serve una teoria più ricca, come quella della super simmetria, ma, chissà?, magari la natura ha segretamente in serbo un’altra soluzione».
In campo scientifico ogni risposta produce nuove domande. Almeno per ora. Arriverà un tempo in cui sapremo tutto?
«Non credo. La conoscenza è un cammino senza fine. Possono privarci del lavoro, dello stipendio, della casa ma nessuno può portarci via il nostro cervello».
Quanto siete vicini al Big Bang?
«Siamo lontanissimi. Siamo riusciti a capire quello che è successo a partire da un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, circa quattordici miliardi di anni fa. Ma siamo lontani dal capire che cosa è successo al tempo del Big Bang».
Cercate Dio?
«No. Non credo che la fisica potrà mai rispondere alla domanda. Scienza e religione sono discipline separate, anche se non antitetiche. Si può essere fisici e avere fede oppure no. È meglio che Dio e la scienza mantengano la giusta distanza».
Ma avete chiamato il Bosone di Higgs “la particella di Dio”.
«Mai uno scienziato ha avuto l’ardire di definirla così. Lo dobbiamo all’editore del libro scritto dal premio Nobel Leon Lederman. Voleva rivestire l’opera con un velo letterario di sicuro effetto. Lederman aveva suggerito un altro titolo, La particella dannata , perché ci aveva fatto disperare, l’avevamo cercata per decenni. È senza dubbio una particella speciale, ma avvicinarla a Dio è una sciocchezza».
Rispetto la sua opinione. Ma un suo collega di fede anglicana che insegna nanotecnologia a Oxford, Andrew Briggs, dice che non è neppure il caso di scegliere tra Dio e scienza. Li tiene assieme e cita il salmo all’ingresso del laboratorio Cavendish dell’università di Cambridge: «Grandi sono le opere dell’Eterno, ricercate da tutti coloro che si dilettano in esse». Suona come un inno alla vostra professione. Chi non è aiutato dalla fede può esserlo da qualche grammo di follia?
«Non follia, ma creatività. Forse le due cose hanno confini che possono sembrare comuni quando si addentrano nello spazio del sogno. Lo scienziato deve essere capace di sognare. Ho sempre pensato che il mestiere del fisico si avvicini a quello dell’artista perché la sua intelligenza deve andare al di là della realtà che ha ogni giorno davanti agli occhi. Credo che la musica e la pittura siano le arti più prossime alla fisica ».
Nel suo lavoro quanto sono decisive le mani?
«Per quanto mi riguarda sono fondamentali. Da bambina mi piaceva modellare il pongo, oggi mi piace costruire rivelatori. Avverto il bisogno fisico di essere vicino alla sperimentazione. Ho partecipato allo sviluppo dei rilevatori di particelle, per esempio il calorimetro ad argon liquido di Atlas, un cilindro lungo circa quattro metri e con un raggio interno di oltre uno. Le mani restituiscono al lavoro un aspetto familiare della ricerca. Nella scienza come in cucina ci vogliono regole matematiche e rigore. La termodinamica, la fluidodinamica... Ma ci vogliono anche creatività e fantasia. Un soufflé non riesce se la temperatura del forno e la durata della cottura non sono precise, ma seguire una ricetta in maniera pedissequa non è per nulla interessante ».
Ogni passo avanti del sapere prima o poi produce progresso. In che modo la ricerca sulle particelle elementari ha influito e influirà sulla nostra vita?
«Guardi, mi limito a un elenco di tre punti. Il primo: la realizzazione di un desiderio primario dell’umanità, la conoscenza, una delle ragioni più elevate della nostra specie. Il secondo: l’indispensabilità di fare ricerca di base per proseguire sul cammino del progresso, dell’evoluzione. Senza la meccanica quantistica e la relatività non avremmo avuto transistor e gps. Il terzo, lo sviluppo di tecnologie di punta che ci migliorano l’esistenza e diventano patrimonio dell’umanità com’è scritto nell’atto fondativo del Cern. Gli acceleratori di particelle sono già usati in fisica medica per bombardare i tumori con fasci di protoni o ioni-carbonio. Esistono due centri in Europa, a Heidelberg e a Pavia. Il Cnao fondato da Ugo Amaldi ha finora curato oltre quattrocento pazienti».
Un suo collega ha detto: «Anche nel nostro mestiere quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. E di solito sono donne». Le si attaglia questo aforisma?
«Il Cern è un luogo che celebra la diversità. Vi lavorano undicimila scienziati di cento nazionalità differenti, studenti che operano gomito a gomito con premi Nobel. Il genere, l’etnia, l’età e il passaporto contano poco. Sono qui perché sono un buon fisico, non perché sono donna».
Madre palermitana laureata in filologia romanza, papà piemontese di Isola d’Asti, geologo. Siamo tutti il risultato di un padre e di una madre. Cosa le hanno trasmesso i suoi?
«Devo loro moltissimo. Con il loro esempio mi hanno insegnato l’onestà, il rigore morale e intellettuale, la generosità, il sacrificio, l’apertura mentale verso tanti campi e interessi. Ma, soprattutto, mi hanno dato molto amore».
Lei non è sposata. È della stessa idea di Rita Levi Montalcini che diceva: «Sono io il marito di me stessa»?
«Assolutamente no. Da ragazzina avrei voluto avere cinque figli. È semplicemente andata diversamente».
La Caverna numero cinque è stata scavata a Cessy, villaggio francese a una ventina di chilometri dal Cern. Piove sui prati, sui cavalli e le vacche al pascolo. L’ascensore scende di cento metri in pochi secondi. Sopra c’è una montagna bellissima e famosa che si chiama Jura. È la caverna delle meraviglie dove si dibatte la nostra ignoranza. Qui si scontreranno tra pochi mesi i protoni liberati da una bottiglia di idrogeno. Decine di ragazzi si aggirano tra migliaia di cavi, li conoscono uno a uno. Dice Gigi Rolandi, fisico sperimentale e professore alla Normale di Pisa: «Negli ultimi trent’anni è cambiato tutto. Prima si lavorava a piccoli gruppi, oggi ci sono tremila scienziati su ogni singolo progetto. È la Dottrina delle Formiche».
Domando a Fabiola Gianotti come guiderà un esercito di oltre diecimila persone. Mi risponde così: «Non siamo un’azienda. Guai a soffocare con il controllo e un’organizzazione pesante l’essenza della ricerca, che si basa sulle idee. Penso a una direzione leggera, attraverso il consenso. Se il più giovane degli studenti ha l’idea giusta si proverà a fare ciò che il suo intuito ha suggerito. Siamo spinti dalle idee, non dalle gerarchie».
“Il bosone non basta: c’è ancora da scoprire il 95% dell’Universo”
La conferenza alla Normale di Pisa per la serie “Virtual immersions in science”
Dall’elettrone alla super-simmetria: perché la storia delle particelle è aperta
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 26.11.2014)
A metà della conferenza Riccardo Barbieri, fisico della Scuola Normale Superiore di Pisa, mostra quanto di più vicino ci sia alla rappresentazione del Tutto. Non è un disegno e non è un grafico. È la «slide» di una lunga equazione.
È l’equazione che racchiude tutte le altre, in grado di spiegare il comportamento delle particelle, i «mattoni» di cui l’Universo è fatto e con cui si crea la realtà. «E’ un quadrante della Natura, le cui leggi si possono scrivere in poche righe con precisione assoluta»: la descrive così Barbieri, ricordando che al Cern di Ginevra c’è chi l’ha fatta orgogliosamente stampare sulla t-shirt. Come un manifesto della potenza della ricerca nel XXI secolo.
E allora si arriva al titolo della sua conferenza, organizzata a Pisa il 12 novembre scorso nell’ambito del programma «Virtual Immersions in Science»: «Dall’elettrone al bosone di Higgs: una storia incompiuta?». Risposta. Sì. La storia è ancora aperta. Moltissimo lavoro aspetta i fisici, mentre si aspetta la riaccensione dell’acceleratore «Lhc». Da una parte c’è il Modello Standard - la teoria che racchiude le particelle e le loro interazioni - e dall’altra c’è la cascata delle scoperte delle particelle stesse: dall’elettrone, individuato nel 1897, fino al bosone di Higgs, rilevato nel 2012 proprio al Cern. Ma nel mezzo galleggiano molti interrogativi senza risposta.
«Ci sono delle ragioni fattuali per cui la storia non è affatto conclusa», ha spiegato Barbieri. E queste hanno a che fare con la «torta cosmica»: oggi gli studiosi che indagano l’Universo ne vedono e capiscono all’incirca il 5%. Appena. Il resto è materia oscura ed energia oscura. Un 95% di realtà alternativa che - almeno al momento - non rientra nelle armonie del Modello Standard. Ed è in questo oceano misterioso che il bosone di Higgs si prende il suo ruolo di protagonista, quello che l’ha reso una star sui media del mondo da quando fu annunciata la prova della sua esistenza, due anni fa.
Lo si capisce quando si comincia a descriverlo, seguendo la logica controintuitiva della fisica dell’infinitamente piccolo. Ricordando come nel mondo sub-atomico particelle e onde non siano distinguibili, Barbieri ha spiegato che il bosone di Higgs rappresenta «un campo», vale a dire «una zuppa, estesa in ogni punto dello spazio e in ogni istante del tempo». E il suo «condensato» - così lo si definisce in gergo - dà origine alla massa delle particelle. Il bosone, quindi, è piccolo, piccolissimo, tanto da manifestarsi con una certa riluttanza perfino nelle collisioni all’interno di «Lhc», ma allo stesso tempo è decisivo per tenere insieme il cosmo nella sua vastità, stelle e galassie comprese.
Il bosone di Higgs appare quindi come la colla perfetta per mettere in comunicazione scale di grandezza opposte. Peccato che «il rompicapo» - come lo chiama Barbieri - resti, eccome. «Il valore di questo campo è stato definito nell’esperimento di “Lhc” . Ma, se vogliamo capirlo, spingendoci oltre il Modello Standard, dai calcoli si ottiene un altro valore, decisamente più grande». Il rompicapo va sotto il nome di «Problema della naturalezza» o «della gerarchia» e cerca di spiegare - senza riuscirci - perché la forza gravitazionale sia tanto insignificante nel mondo microscopico rispetto alle forze elettriche. Insomma: «C’è un evidente conflitto tra valori misurati e valori calcolati». Altissimi nel primo caso, piccolissimi nel secondo caso. «Due facce - osserva Barbieri - di una stessa realtà».
A questo punto qual è la strada da imboccare? «Lhc» sta scaldando i suoi iper-tecnologici motori: 27 km di magneti ad anello, che dal 2015 ospiteranno nuove collisioni di protoni. «Vedremo se scoprirà altre particelle. Ogni volta che si aumenta il regime di energia c’è la possibilità di vedere cose nuove. In produzione diretta». Barbieri è uno dei fisici che lavora alla teoria della super-simmetria ed è questa una possibile risposta al rompicapo dei valori troppo grandi e troppo piccoli: se si trovassero altre particelle, «speculari» a quelle già note, ma decisamente più pesanti, si potrebbe dire di aver messo fine al mistero.
«Il meccanismo che ha nascosto fino a oggi le particelle “super-simmetriche” potrebbe essere analogo a quello che spiega un apparente paradosso: mentre nello spazio vuoto le leggi fisiche prevedono che non ci sia distinzione tra elettroni e neutrini, in presenza del campo di Higgs la “simmetria” tra elettroni e neutrini svanisce e di conseguenza i primi e i secondi riprendono una spiccata identità». Ridiventano particelle decisamente diverse. I primi molto comuni e i secondi molto elusivi.
Mezzo secolo dopo, nella stessa sala della Normale dove entrò per la prima volta, Barbieri ha tenuto la sua lezione, spiegando che quando uno scienziato si trova davanti a un pubblico di non specialisti riemerge sempre una domanda, quella finale: «A cosa serve tutto questo?». E le risposte - ha concluso - «sono due. La prima è classica: a molti follow-up, da Internet alla medicina. Ma io preferisco la seconda: Non lo so!». Poi dopo una pausa termina così: «E’ la curiosità per ciò che è superfluo a renderci pienamente umani».
Regina della fisica
La “particella di Dio” nelle mani di Fabiola, Lady Cern
di Roberta Zunini (il Fatto, 5.11.2014)
L’esploratrice dell’invisibile, Fabiola Gianotti, due anni fa era finita sulla copertina del Time. Ritratta di profilo, sembrava una sovrana rinascimentale. La corona le è stata ufficialmente consegnata ieri quando è stata nominata direttrice generale del Cern di Ginevra. La scienziata 52enne italiana, già candidata al Nobel nel 2013 è ora a tutti gli effetti la regina della Fisica, perché il Cern è il regno della ricerca scientifica mondiale dove è stata provata l’esistenza del bosone di Higgs. Ed è stata proprio questa elegante signora, diplomata anche in pianoforte al Conservatorio di Milano, a coordinare gli esperimenti che hanno permesso di catturare la cosiddetta “particella di Dio”, il mattone sub atomico che costringe tutte le componenti della materia ad aggregarsi.
È la prima volta che una donna viene scelta per dirigere il laboratorio europeo di fisica delle particelle fondato 60 anni fa da alcune nazioni tra cui l’Italia e ancora oggi uno dei pochi fiori rimasti all’occhiello del nostro disastrato Paese, vista la costante presenza nel ruolo che è stato assegnato a Gianotti di “cervelli” laureati nelle università italiane: Edoardo Amaldi, Luciano Maiani e Carlo Rubbia, Nobel nell’’84.
Fabiola Gianotti è entrata al Cern appena laureata, distinguendosi fin dall’inizio anche per la sua abilità nel far interagire al meglio le squadre di ricercatori. Il successo è arrivato con l’ideazione e il coordinamento di “Atlas”, uno dei mega-esperimenti lungo l’anello sotterraneo di 27 chilometri del Large Hadron Collider.
IN UN’INTERVISTA HA DETTO: “La leadership nasce per consenso e non può essere imposta dall’alto. Credo nelle organizzazioni leggere, dove le gerarchie servono per essere più efficienti, ma non diventano un elemento di rigidità che soffoca l’iniziativa e la creatività delle persone”. Renzi, che ha subito chiamato Gianotti per congratularsi, dovrebbe riflettere su queste parole e anche sui profitti in immagine e indotto che l’Italia ricava dal Cern. La nostra partecipazione quest’anno ci costerà circa 100 milioni di euro, più o meno 2 euro a contribuente. Molto meno del Senato: 540 milioni, e considerato che la fisica atomica ci ha regalato non solo Internet - sviluppato proprio al Cern - ma anche gli strumenti che hanno permesso a milioni di malati di cancro di salvarsi. È grazie agli esperimenti condotti al Cern se oggi disponiamo di strumenti di diagnosi e cura come Tac, Pet e radioterapia.
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Non sprechiamo un’occasione irripetibile
di Gabriele Beccaria (La Stampa, 5.11.2014)
«Cosa c’è là fuori?». È la domanda delle domande che ossessiona i fisici e che da ieri ha un’eco ancora più profonda nel cervello di Fabiola Gianotti, ora Direttore del Cern. Dal 2015 l’acceleratore «Lhc» cercherà di dare una risposta definitiva a domande finora impenetrabili, come la materia e l’energia oscura.
Fabiola Gianotti è stata considerata la scienziata migliore per questa avventura nell’Universo profondo che ha un’aura grandiosa, da far impallidire la trama di un kolossal come «Interstellar». Leader di uno dei due esperimenti che nel 2012 ha scoperto il Bosone di Higgs, ha dimostrato capacità multiple: la creatività della ricercatrice di razza e l’abilità - molto femminile - di motivare vasti team internazionali, spesso affollati di maschi che vorrebbero essere tipi «alfa», cioè dominatori.
Altri due grandi italiani l’hanno preceduta, Carlo Rubbia e Luciano Maiani. E il Cern stesso ha avuto tra i suoi padri fondatori, 60 anni fa, un’altra star tricolore, il «ragazzo di Via Panisperna» Edoardo Amaldi. Ora Fabiola Gianotti continua una tradizione di visione e genialità che il mondo ci riconosce e che non si è mai avvizzita: un made in Italy di formule, teoremi e tecnologie non meno elegante e seducente delle giacche e delle scarpe di cui sempre ci entusiasmiamo.
L’Italia, poi, è il quarto contribuente di quella scintillante impresa europea che è il Cern e da anni invia tra Svizzera e Francia pattuglie di fisici che sono diventati personaggi di spicco di molti dei test che si conducono nell’anello sotterraneo dell’«Lhc». Ma la sfida è così impegnativa che, adesso, occorrono nuove risorse e nuove motivazioni.
La nomina di una «First Lady» della fisica come Fabiola Gianotti è un’occasione unica per l’Italia: per ripensare il nostro posto nella scienza mondiale. E renderlo un po’ più grande e promettente. Il nostro passato dice che ce lo meritiamo.
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Signora delle particelle
Il sogno di ballare alla Scala e l’amore per il pianoforte
«Esploro l’infinita bellezza della musica della scienza»
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 5.11.2014)
«Sognavo di diventare una ballerina del teatro Bolshoi o della Scala. Mi attirava danzare, disegnare figure nell’aria, ma ero anche una bimba curiosa, cercavo mondi nella fantasia. E così arrivai alla scienza».
Fabiola Gianotti, protagonista della scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di Dio», ha appena ricevuto la notizia della nomina a direttore generale del Cern di Ginevra. «È capitato tutto all’improvviso e la giornata è diventata frenetica». Ma la voce è sempre calda, le parole veloci: «Avrò molto lavoro da fare», dice, come se dovesse affrontare uno dei tanti normali compiti che già affollano la sua agenda quotidiana.
Il Cern, il laboratorio europeo di ricerca nucleare, è oggi il luogo più importante al mondo per indagare la natura e, grazie al super acceleratore Large Hadron Collider, per volare in quel nuovo mondo inseguito da bambina. «Studiavo e leggevo la biografia di Marie Curie e la sua passione, la sua dedizione mi hanno contagiato portandomi a studiare fisica». Da allora ha dedicato la vita alla ricerca. Fabiola Gianotti, 52 anni, romana d’origine, si è formata all’Università Statale di Milano e vent’anni fa, scienziata dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, è entrata al Cern studiando alcune parti del superacceleratore con il quale avrebbe più tardi lavorato.
Quando guidava l’esperimento Atlas era a capo di tremila ricercatori di ogni nazionalità. «La fisica al Cern ti porta a vivere in una dimensione umana straordinaria senza differenze di sesso, età, nazionalità. Qui ci si misura con le capacità che si è in grado di esprimere e per certi aspetti potrei dire che al Cern la scienza è donna, perché ognuna di noi gode delle stesse opportunità, senza timori, in un confronto di cultura e valori individuali che forse non ha pari altrove. Bisogna solo credere e vivere fino in fondo ciò che abbiamo scelto».
E con questa consapevolezza guarda con entusiasmo al futuro. «So di avere davanti prove difficili da affrontare, dovrò compiere scelte ardue, ma sogno di mantenere il Cern al vertice dell’eccellenza scientifica mondiale. La fisica fornisce basi della conoscenza che possono trasformarsi in tecnologie preziose. Chi pensa che la fisica quantistica sia presente nelle telecomunicazioni per codificarle, ad esempio, oppure che nel Gps ci sia l’applicazione della teoria della relatività di Einstein? Eppure è così. Lo stesso Web è nato al Cern».
Quando racconta le sue ricerche, Fabiola usa con disinvoltura la parola «bellezza» per comunicare il fascino delle dimensioni che esplora con la mente. «La nuova fisica è un giardino incantato», spiega facendo scivolare le parole verso le altre passioni che l’accompagnano. Ha un unico rammarico: la sfida di cui è stata protagonista l’ha allontanata un po’ dalla musica, dall’amato pianoforte. «Le note di Schubert, il mio autore preferito, mi riempivano l’animo. Ora il mio tempo è tutto nella musica della nuova fisica».
«Non so se riuscirò a eguagliare i grandi italiani che mi hanno preceduto alla guida del Cern: Edoardo Amaldi, che ne è stato uno dei fondatori; Carlo Rubbia, che qui ha conquistato il Nobel; Luciano Maiani, che ha dato il via alla costruzione del nuovo acceleratore Lhc. Avverto la grande responsabilità del mio compito, il prestigio che l’accompagna, ma non sono preoccupata e sono cosciente della modestia con la quale devo guardare al mio impegno. Qui si può far progredire la scienza, ma il Cern ha anche valore come luogo di educazione, e come laboratorio di straordinaria interazione sociale nella quale il concetto di pace è alla base dello studio, della convivenza e dell’esplorazione».
Fabiola Gianotti ha conquistato la copertina del settimanale americano Time come donna dell’anno, la rivista Forbes l’ha inclusa tra le cento donne più influenti del mondo, il suo nome è di prestigio in tanti comitati internazionali, e numerosi sono i riconoscimenti attribuiti al suo lavoro. Lei sorride e accompagna le parole verso l’amore per la fisica ricordando con orgoglio di appartenere a una preziosa tradizione italiana che con Enrico Fermi ha avuto il suo caposcuola.
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La «regina» della fisica e la lezione da capire
di Elena Cattaneo (Il Sole-24 Ore, 5.11.2014)
Dopo l’emozione e la soddisfazione per il premio Nobel andato l’anno scorso ai fisici Higgs e Eglert, che avevano previsto la particella scoperta nel luglio scorso al Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, la quale aveva guidato uno dei team protagonisti di quella scoperta, consegue un traguardo di ulteriore prestigio. A lei, infatti, sarà affidata la guida del Cern per i prossimi cinque anni.
È un riconoscimento formidabile per la collega, laureatasi in Fisica nella mia stessa Università, la Statale di Milano, che sarà la prima donna a guidare l’importante laboratorio internazionale, e l’indicazione di una qualità scientifica indiscussa della tradizione italiana nel campo della fisica sperimentale.
Essere scelta per coordinare ricerche complesse e che vedono coinvolti numerosi e diversificati gruppi capaci di produrre masse ingenti di dati, significa avere dimostrato grandi doti scientifiche, cioè una efficace padronanza delle più avanzate e sofisticate teorie che stimolano esperimento capaci di affascinare ancora l’uomo della strada, come quello che ha portato a dimostrare l’esistenza della cosiddetta "particella di Dio".
Ma vuole anche dire che Fabiola Gianotti ha dimostrato superiori capacità organizzative, ovvero di saper mediare dinamiche politiche e governare una comunità di individui altamente competitivi, come sono gli scienziati che raccolgono e affrontano alcune delle più avanzate sfide della conoscenza. L’auspicio è che ai riconoscimenti internazionali che gli scienziati italiani stanno raccogliendo, nonostante il perdurante scarso interesse della politica per la ricerca scientifica, faccia quanto prima seguito un’inversione di tendenza sul piano del sostegno alla scienza in questo Paese.
Segnali come questo dovrebbero essere amplificati dal Governo e dal Parlamento, per mandare ai giovani e al Paese messaggi di fiducia negli investimenti culturali e per costruire competenze specialistiche nei settori scientificamente e tecnologicamente più avanzati. I successi professionali e culturali di scienziati come Fabiola Gianotti dovrebbero altresì ispirare meglio i progetti di riforma della scuola, perché in un sistema economico e civile globale fondato sulla conoscenza, la "buona scuola" sarà tale solo se saprà dare la giusta centralità al metodo di produzione delle conoscenze scientifiche.
Niente illusioni, l’universo non è matematico
Per quanto possano apparire coerenti e ragionevoli i modelli aritmetici o geometrici, la rappresentazione del cosmo non è oggettiva
Risponde comunque alla nostra realtà cerebrale
di Sandro Modeo (Corriere della Sera La Lettura, 30.03.2014)
Narrazione saggistica serrata e avvolgente, il recente libro del fisico del Mit Max Tegmark (Our Mathematical Universe ) è un ambizioso tour de force sulle più aggiornate conoscenze fisico-cosmologiche, dalle fluttuazioni quantistiche all’estensione spazio-temporale dell’universo osservabile.
Insieme concreto e speculativo fino all’azzardo, Tegmark incrina il rigore teorico-sperimentale (Big Bang e Big Crunch, energia e materia oscura) con troppi cedimenti alla fisica fanta-new age (il multiverso e i mondi paralleli); ma fatta la tara a queste concessioni meta o patafisiche, il libro ha il merito indubbio di rilanciare con forza l’ipotesi, riassunta nel titolo, di un universo intrinsecamente fisico-matematico. Pur poggiandosi sulle più recenti teorie della coscienza, Tegmark vede infatti il cervello come una soglia più passiva che attiva, una mini-specola da cui osservare e scoprire - passo a passo - la rete immutabile di relazioni numeriche entro cui si organizzano stati e dinamiche della materia, dalle galassie più remote agli alberi di una foresta, dai moti dei pianeti al traffico urbano.
Nella sua versione hard - come quella di certi matematici «formalisti» - questa visione si spinge a rendere la trama matematica (aritmetica, geometria, algebra e topologia) totalmente autonoma non solo rispetto al Soggetto (al cervello), ma anche alla materia stessa. Questo senso di onnipotenza - come mostra il matematico Steven Strogatz nel suo La gioia dei numeri - è dovuto sia alle proprietà della disciplina (la sua coerenza, che si traduce spesso in concisione e bellezza), sia soprattutto alla sua efficacia descrittivo-esplicativa, tutt’altro che «irragionevole», come vorrebbe l’adagio di Eugene Wigner: vedi i nessi tra le equazioni differenziali e le leggi del moto, tra il calcolo infinitesimale e i cambiamenti di stato (dalle epidemie all’«effetto» di una palla), tra la logica binaria (0 e 1) e la codifica di suoni e immagini su un tablet. Vertice di questa efficacia sono forse le onde sinusoidali, che troviamo nelle dune desertiche, nelle vibrazioni della voce umana e nelle «increspature» della materia da cui si è originato il cosmo che abitiamo.
Eppure, ricorrendo a uno scienziato cognitivo come Stanislas Dehaene o alle riflessioni di un neurobiologo come Jean-Pierre Changeux (in un dialogo memorabile con il matematico Alain Connes), possiamo ribaltare la prospettiva, e vedere gli oggetti matematici (teoremi, proposizioni, assiomi) come «oggetti mentali stabili» prodotti dall’evoluzione, selezionati e aggregati via via proprio per la loro adeguatezza nell’aderire alle regolarità del mondo esterno, di cui il nostro cervello è incessantemente vorace per meglio adattarsi all’ambiente.
Questa continuità tra biologia e cultura è ben riassunta dalla simmetria, proiettata in tempi preistorici dalla nostra morfologia bilaterale in schemi di orientamento e giudizio estetico (la scelta del partner) e poi eletta a pattern artistico (come in un quadro di Piero della Francesca o in una fuga di Bach) e a principio di teorie matematiche come quella dei «gruppi», oggi decisiva nel tentativo di armonizzare la dimensione «macro» della gravitazione con quella «micro» dei quanti.
È una continuità che tocchiamo, ancora più concretamente, nel «senso dei numeri» di cui siamo tutti, più o meno, dotati: riscontrato anche in altri animali (le capacità di conteggio nei ratti e nei colombi) e nei bambini già tra 2 e 6 mesi, questa predisposizione ha prodotto, in vari periodi e regioni geografiche, sequenze sempre più complesse e astratte, dalle tacche sulle ossa neolitiche per conteggiare i successi di caccia ai recenti oggetti elastici della topologia (i nastri di Moebius usati per raddoppiare certe memorie informatiche), passando per le misurazioni astronomiche babilonesi o la trigonometria usata dagli agrimensori.
Ed è proprio questa storicità uno degli argomenti contro il platonismo matematico: perché se è vero che la matematica non patisce i vincoli delle scienze sperimentali - che le sue teorie non smentiscono le precedenti ma le integrano, com’è successo per le geometrie non euclidee con le euclidee - il suo processo cumulativo è ugualmente sottoposto a spietati scarti di ipotesi e a congetture tormentate, come conferma la «possessione» patologica di tanti grandi matematici.
E anche se Connes insiste nel distinguere l’immenso paesaggio matematico dai suoi esploratori (la Realtà matematica dagli strumenti che la decifrano), non bisogna dimenticare che quegli strumenti sono antropomorfici, vincolati alla categorie dell’immaginazione e della logica del cervello umano. Se così non fosse, l’adeguatezza descrittiva della matematica risulterebbe davvero «irragionevole».
Inoltre, indagare proprio le basi neurofisiologiche del «senso dei numeri» dissolve un altro equivoco: quello sulla glacialità anaffettiva della disciplina. Se è infatti innegabile che l’attività matematica coinvolga soprattutto aree corticali (in particolare la corteccia parietale inferiore), una simile specializzazione, come per tutte le funzioni cerebrali, va collocata in un contesto più plastico e distribuito.
Lo vediamo bene nella creazione-scoperta del matematico: da un lato (esemplare il caso «proustiano» di Poincaré, che vede emergere d’improvviso la soluzione d’un problema al rientro da un’escursione geologica, dopo averlo lasciato in stand-by ) anche le intuizioni matematiche seguono un processo di incubazione-ruminazione, per lo più inconscio, in cui l’illuminazione irrompe come risonanza di elementi preesistenti. Dall’altro, l’illuminazione stessa scatena un’intensa gratificazione del cervello «limbico» (affettivo-emotivo), tanto da essere paragonata da diversi matematici all’estasi mistica.
Potente in quanto linguaggio universale e privo di ambiguità, la matematica non può però trascendere limiti e vincoli; quelli intrinseci al suo stesso linguaggio (ben descritti da Gödel) e quelli dei matematici che lo producono, così come la fisica, nelle misurazioni subatomiche, ha dovuto affrontare l’interferenza dell’osservatore.
Non può cioè descrivere il mondo «dal punto di vista di Dio»: le sue complesse elaborazioni si adattano ma non coincidono con gli oggetti fisici: le traiettorie dei pianeti - ricorda Dehaene - non sono ellittiche, e la Terra non è perfettamente sferica. La realtà della materia conserva sempre un margine irriducibile di irregolarità, verso cui l’astrazione matematica è insieme approssimata e idealizzante, come un guanto elegante, ma - anche di poco - troppo stretto o troppo largo.
In quanto attività umana, la matematica può solo mediare tra le estensioni di materia «là fuori» (entità, proprietà e relazioni di un mondo senza etichette) e le elaborazioni che avvengono «là dentro», nella coscienza e soprattutto nell’inconscio della nostra materia cerebrale. In questo senso, e solo in questo senso, è lo strumento privilegiato che ci permette di essere «la misura di tutte le cose».
Meraviglie della fisica
La felice fatica di capire il mondo
Le tracce di onde gravitazionali captate oggi, intuite da Einstein 98 anni fa, confermano che la scienza è un’attività visionaria. Carlo Rovelli lo dimostra in maniera esemplare
di Franco Lorenzoni (Il Sole Domenica, 23.03.2014)
Questa settimana la fisica ci ha regalato due grandi emozioni. La prima riguarda la profondità dello spaziotempo, in fondo a cui sono state scoperte tracce di segnali più antichi di qualunque cosa ascoltata fin’ora, la seconda la profondità della mente umana. È nella mente di Albert Einstein, infatti, che quasi un secolo fa sorse la "visione" di quelle onde gravitazionali che ci raccontano qualcosa sull’origine dell’Universo. Ci sono poi voluti 98 anni di calcoli ed esperimenti, condotti da centinaia di scienziati di tutto il mondo, per potere verificare la verdicità di quella visione, che peraltro non è ancora certa.
A chi desiderasse entrare dentro la metafora di quei primi vagiti dell’Universo, captati da un gruppo di scienziati nel cielo del Polo Sud, consiglio di leggere l’ultimo libro di Carlo Rovelli, fisico teorico che i lettori di queste pagine conoscono bene. La realtà non è come ci appare delinea infatti un’ambiziosa sintesi dell’evoluzione della fisica. E ciò che rende appassionante la lettura è la fatica, richiesta al lettore non esperto, di entrare in un mondo che si presenta diverso da come lo pensiamo abitualmente.
È un libro da regalare subito a un diciottenne che si domandi cosa studiare e da consigliare vivamente a chi insegna, non solo materie scientifiche. Tratta infatti di un tema cruciale: lo sforzo necessario per tentare di capire il mondo e la bellezza di questo sforzo.
Non è facile, infatti, immaginare il Cosmo come un mollusco che si curva di continuo visto da dentro (la metafora è di Einstein). Non è facile intendere e accettare che l’Universo sia finito pur non avendo confini e scoprire che, se osiamo viaggiare attorno a un buco nero e riusciamo a non caderci dentro, al ritorno ci troveremo in un futuro lontano. Ancora più difficile è arrivare alla conclusione a cui più tiene Rovelli, che sostiene che il tempo non esista, o meglio esista solo nel nostro attraversare il mondo, non nel minimo tessuto granulare che compone l’Universo, né nell’insieme dei cento miliardi di galassie che oggi riusciamo a vedere e a contare.
L’invito è a «ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo, rivederla a fondo. Come era successo con Anassimandro, che aveva compreso come la Terra voli nello spazio ... o con Einstein, che aveva capito come lo spaziotempo si curvi e si schiacci e che il tempo passi diversamente in luoghi diversi». Per introdurci a questo ripensamento radicale Rovelli parte da lontano, dal viaggio che Leucippo fece dalla libera Mileto di Talete e Anassimandro fino a Abdera, dove eresse, con il suo allievo Democrito, «la vasta catterdale dell’atomismo antico».
Parte da lì perché è su quelle coste che nacque un modo di cercare risposte «nella natura stessa delle cose», accantonando miti, spiriti e dei, che Rovelli aveva già narrato in un altro bel libro dedicato alla rivoluzione di Anassimandro: Che cos’è la Scienza (Mondadori Università, 2012, pagg. 224, €. 18). Ed è in quell’aurora della scienza che che si scopre «uno stile di pensiero nuovo, dove l’allievo non è più vincolato a rispettare e a condividere le idee del Maestro».
Attraversando i secoli da Archimede a Galileo, da Copernico a Newton, a Faraday a Dirac, Rovelli cerca di avvicinare il lettore all’idea che si è fatto del suo lavoro. «Alcuni filosofi della scienza riducono la scienza alle sue previsioni numeriche. Secondo me non hanno capito nulla perché confondono gli strumenti con l’obbiettivo. ... L’obiettivo della ricerca scientifica non è fare previsioni: è comprendere come funziona il mondo. Prima di essere tecnica, la scienza è visionaria. Le predizioni verificabili sono l’arma affilata che ci permette di dire quando abbiamo capito male». «Teorie come la relatività generale e la mecanica quantistica, che inizialmente lasciavano molti perplessi, si sono conquistate credibilità via via che tutte le loro previsioni, anche le più inaspettate, e apparentemente strampalate, venivano confermate da esperimenti e osservazioni».
Presentare la scienza come attività visionaria è cosa a cui Rovelli tiene molto e le pagine più intriganti sono forse quelle in cui affiora il complesso legame tra le visioni della fisica e le architetture cristalline della matematica. Esemplare a questo proposito il racconto dell’incontro tra Faraday e Maxwell. Il primo «la fisica la vede con gli occhi della mente, e con gli occhi della mente crea mondi». Ma il giovane «poveraccio londinese senza educazione formale, che diventa il più grande sperimentatore e il più grande visionario della fisica dell’Ottocento», ha bisogno delle equazioni del ricco aristocratico scozzese Maxwell, uno dei più grandi matematici del secolo. «Pur separati da un’abissale distanza di stile intellettuale, oltre che di origine sociale, riusciranno a intendersi e, insieme, unendo due forme di genio, apriranno la strada alla fisica moderna».
Leggendo queste pagine, che ci portano così vicino al senso più profondo di due discipline che si studiano a scuola, mi domando a quanti ragazzi sia data la possibilità di cogliere la bellezza di questi linguaggi, creati dall’ingegno umano per intendere la natura. Se gli iscritti alle facoltà scientifiche si sono drasticamente ridotti negli ultimi decenni non sarà anche perché troppo raramente la scuola riesce a fare assaporare il gusto dello scoprire, intrecciando l’insegnamento della fisica e della matematica con la loro appassionante evoluzione nella storia? Solo se si sente la scienza come cosa viva, come ricerca aperta che continua, si può trovare il senso che giustifichi lo sforzo a cimentarsi con linguaggi e procedimenti tanto difficili.
Carlo Rovelli ha passato la vita cercando di comprendere i segreti dello spazio quantistico e ci confida quanto segua «con attenzione, inquietudine e speranza l’affinarsi continuo delle nostre capacità di osservazione, misura e calcolo», e aspetti «il momento in cui la Natura ci dirà se avevamo ragione, o no».
Ma mentre attende e continua a ricercare, si interroga sulle tante connessioni di cui hanno bisogno gli scienziati per immaginare altri modi di vedere il mondo. «Non so se il giovane Einstein avesse incontrato il Paradiso durante i suoi bighellonaggi intellettuali italiani, e se la fantasia sfrenata del nostro sommo poeta abbia avuto una influenza diretta sulla sua intuizione che l’universo possa essere finito e senza bordo. Ma che ci sia stata o no influenza diretta credo che questo esempio mostri come la grande Scienza e la grande Poesia siano entrambe similmente visionarie, e talvolta possano arrivare alle stesse intuizioni. La nostra cultura, che tiene Scienza e Poesia separate, è sciocca, perché si rende miope alla complessità e bellezza del mondo, rivelate da entrambe».
«Certo, la tre-sfera di Dante è solo una vaga intuizione dentro a un sogno. La tre-sfera di Einstein prende forma matematica e Einstein la inserisce nelle sue equazioni. L’effetto è molto diverso. Dante arriva a commuoverci profondamente, toccando la sorgente delle nostre emozioni. Einstein apre una strada che ci porta alla sorgente del nostro Universo. Ma sono l’uno e l’altro tra i voli più belli e significativi che sa fare il pensiero».
«Ci vuole un percorso di apprendistato per comprendere la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica con la quale leggere completamente l’equazione di Einstein. Ci vogliono impegno e fatica, ma meno di quelli necessari per arrivare a percepire tutta la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell’altro, lo sforzo, una volta fatto, vale la pena: scienza e arte ci insegnano qualcosa di nuovo sul mondo dandoci occhi nuovi per guardarlo, per capirne lo spessore, la profondità, la bellezza. La grande fisica, come la grande musica: parla direttamnente al cuore e apre gli occhi alla bellezza, alla profondità, alla semplicità della natura delle cose».
In piccole note al margine Rovelli ci informa che i numerosi apporti di scienziati italiani alle scoperte della fisica più avanzata provengono da ricerche svolte in università straniere. È una constatazione triste, che ci dice quanto sia necessario e urgente investire in Italia, per riconnettere e dare respiro alla relazione tra educazione, cultura e ricerca.
Il libro di Carlo Rovelli è tante cose. Si può leggere come romanzo di formazione di uno scienziato, come lettera a un giovane che voglia entrare nel mondo della scienza, come storia della litigiosa ed efficace convivenza di matematica e fisica, come cronaca colta della singolar tenzone tra looppisti e stringhisti, giocata rincorrendo l’ultima particella, o come un inno alla capacità visionaria di alcuni uomini che hanno cambiato alla radice il modo di vedere il mondo, allargando sempre più i nostri orizzonti.
Nella prima pagina l’autore confessa di amare la fisica perché apre finestre e si allontana dai tanti saperi che girano e rigirano sempre e solo intorno all’uomo. Forse è anche per questo che elude, nella sua narrazione, le interrogazioni che le applicazioni della fisica hanno posto e pongono agli scienziati. Cioè il rapporto tra scienza e potere e, più in particolare, tra ricerca fisica, armamenti e controllo dell’energia e del territorio. Ma per questo ci vorrebbe un altro libro, cha aspettiamo.
Mi spiace, ma, come è sempre successo, sarà ancora una volta un cervello umano a regalarci ulteriori informazioni sull’Universo ed a cancellare quelle infondate che ultimamente circolano.
Una brutta pagina della scienza contemporanea è esposta in questo link:
http://www.fisicamente.net/portale/modules/news2/article.php?storyid=2393
Saluti.
Leonardo.
Un Bosone da Nobel
Il riconoscimento assegnato a François Englert e Peter Higgs
di Pietro Greco (l’Unità, 09.10.2013)
PREMIO NOBEL PER LA FISICA 2013 AL BELGA FRANÇOIS ENGLERT E ALLO SCOZZESE PETER W. HIGGS «per la scoperta teorica del meccanismo che contribuisce alla comprensione dell’origine della massa delle particelle subatomiche, recentemente confermata dalla scoperta della prevista particella fondamentale da parte degli esperimenti Atlas e Cms presso il Large Hadron Collider del Cern».
L’Accademia delle scienze di Stoccolma ha, dunque, premiato il «bosone di Higgs», il padre che gli ha dato il nome, Peter W. Higgs, e un altro, François Englert, degli altri quattro o cinque padri che gli hanno dato vita, sia pure per via teorica: (Robert Brout, Phil Anderson, Gerald S. Guralnik, Carl R. Hagen e Tom Kibble).
Ma la motivazione del Nobel fa anche esplicito riferimento (e, dunque, riconoscimento) ai gruppi di fisici sperimentali che il «bosone di Higgs» lo hanno rilevato per via empirica: i gruppi Atlas e Cms, il primo guidato dall’italiana Fabiola Gianotti e il secondo a lungo guidato dall’italiano Guido Tonelli.
L’esistenza di svariati padri testimonia di come la storia del meccanismo che ha portato a ipotizzare una particella, il «bosone di Higgs», capace di donare la massa a tutte le altre e, dunque, all’universo intero sia piuttosto complessa. Il meccanismo si chiama BEH, dai cognomi di Brout, Englert e Higgs. È stato ipotizzato all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, prevede l’esistenza nell’universo di un campo, chiamato campo di Higgs. Proprio come esiste un campo elettromagnetico o un campo gravitazionale. In questo campo le particelle si muovono come in un liquido viscoso, più le particelle lo sentono più diventano pesanti, ovvero acquistano massa. Alcune particelle lo sentono moltissimo e, di conseguenza, sono pesantissime. Altre, come i neutrini, lo sentono pochissimo e dunque sono leggerissime. Il meccanismo è stato ipotizzato in maniera indipendente dalla coppia Brout ed Englert (sulla base di ipotesi formulate da Anderson) e da Peter Higgs.
Tuttavia Higgs è stato il primo a ipotizzare l’esistenza di bosone di gauge, ovvero di una particella che trasporta l’informazione del campo a cui è associato, proprio come fa il fotone per il campo elettromagnetico. Il bosone che media il «campo di Higgs» è noto come «bosone di Higgs». Tuttavia l’esistenza del bosone e del campo di Higgs prevede che il vuoto risponda a specifiche leggi di simmetria, che prevedono la rottura spontanea di simmetria. Per questo, come nota il fisico e divulgatore Gian Francesco Giudice, il premio Nobel di ieri è un piccolo monumento alla simmetria, alle sue leggi e al ruolo che esse giocano nelle fisica delle alte energie.
Ora, la teoria della rottura spontanea di simmetria e dell’esistenza di particelle di gauge, su cui si basa il meccanismo BEH è stata messa a punto, sempre all’inizio degli anni ’60 da Guralnik, Hagen e Kibble. Ecco perché il campo e il bosone di Higgs hanno sei o sette padri. Di cui solo due sono stati premiati.
Ma la storia non finisce mezzo secolo fa. Anzi prosegue nel tempo, disegnando due strade diverse. Una teorica. Il meccanismo funziona così bene, mette a posto tante cose nell’universo della fisica fondamentale che diventa la base del Modello Standard delle alte energie, che porta Stephen Weinberg, Sheldon Glashow e Abdus Salam a formulare, poco dopo, la cosiddetta teoria elettrodebole, che unifica due forze fondamentali della natura (l’elettromagnetismo e l’interazione debole) e prevede l’esistenza di altri bosoni intermedi (W+, We Z0), rilevati poi al Cern di Ginevra da Carlo Rubbia e dal suo gruppo.
Il meccanismo di Higgs o Brout, Englert, Higgs (BEH) o di Brout, Englert, Higgs, Anderson, Guralnik, Hagen, Kibble (BEHAGHK) regge per cinquant’anni il vaglio della teoria e, anzi, diventa la base fondamentale della fisica delle alte energie, secondo cui in natura esistono quattro forze fondamentali e due gruppi di particelle, gli adroni (a loro volta composti da quark) e i leptoni (tra cui vi sono l’elettrone e i neutrini). Intanto il secondo percorso intrapreso dal meccanismo di Higgs, attraverso la verifica sperimentale e la cattura del bosone di Higgs, resta vuoto per oltre mezzo secolo.
La particella, piuttosto pesante, sfugge a ogni tentativo di intrappolarla. Cosicché per tutto questo tempo abbiamo una teoria solida (ma non completa), addirittura un Modello Standard, senza una decisiva prova sperimentale. Gli scienziati sanno che una situazione del genere non può durare a lungo, pena il discredito stesso della teoria. Per questo soprattutto per questo è stato costruito il Large Hadron Collider (LHC): per catturare, finalmente, il bosone di Higgs e validare con un fatto empirico il modello teorico.
Come tutti sanno, ormai, l’impresa è riuscita a due gruppi, Atlas e Cms, dei sei che lavorano ad LHC. Il primo, Atlas, è guidato dall’italiana Fabiola Gianotti; il secondo, Cms, è stato a lungo guidato da un altro italiano, Guido Tonelli, e ora dall’americano Joe Incandela. I due gruppi hanno individuato una particella in un range di energia compreso tra 125,2 e 126,0 GeV e che ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere il bosone di Higgs. La grande maggioranza della comunità dei fisici delle alte energie ritiene che quella sia la particella di Higgs. Tutto questo è avvenuto esattamente un anno fa e la conferma è stata dato poco più di sei mesi fa.
I due percorsi, quello della teoria di successo e quello della verifica sperimentale, dopo mezzo secolo si sono incontrati. E, dunque, non c’era Nobel più atteso e meritato. Ovviamente quando si attribuisce un premio a un lavoro che non è individuale, ma il frutto di un’impresa cui hanno partecipato in molti, resta qualche interrogativo.
Perché sono stati premiati solo Higgs ed Englert? Beninteso, i due lo meritano. Ma non lo meritano un po’ anche gli altri quattro o cinque teorici? E poi gli sperimentali, meritano solo una citazione o forse avrebbero dovuto avere qualcosa di più? Va detto che spesso a Stoccolma i teorici e gli sperimentali coinvolti in una scoperta importante sono premiati separatamente. Spesso a qualche anno di distanza l’uno dall’altro. Dunque, dopo il riconoscimento c’è speranza che anche i leader dei due gruppi, pieni zeppi di italiani, che hanno catturato il bosone di Higgs al Cern ottengano il Nobel. Non resta che attendere.
Che cos’è e perché apre la strada a una nuova scienza
a cura di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 09.10.2013)
1. Che cos’è il bosone di Higgs?
È la particella che ancora mancava alla teoria quantistica nota come «Modello Standard» che descrive l’architettura di base della natura formata da varie particelle (elettroni, protoni ecc.) e tre delle quattro forze fondamentali (interazione forte, debole ed elettromagnetica). Rimane fuori, ad esempio, la forza di gravità. Si erano immaginati cinque tipi di bosoni e quello annunciato il 4 luglio dell’anno scorso e ora premiato col Nobel sarebbe il più leggero. Ma forse ne esistono altri. La sua presenza è importantissima perché stabilisce la massa delle altre particelle oltre che di se stesso. La sua comprensione non è immediata. Per descriverlo si potrebbe immaginare un lago con la sua superficie tranquilla. Questo è il campo di Higgs. Soffia una brezza leggera che genera delle increspature, delle onde. Le onde sono i bosoni di Higgs e quando cessa il vento scompaiono. Altrettanto i bosoni di Higgs che decadono in altre particelle (fotoni, ecc.).
2. Che cosa si è scoperto al Cern con l’acceleratore Lhc?
Prima di tutto si è visto che esiste davvero. Se non si fosse trovato, tutta la teoria del «Modello Standard» sarebbe stata da rivedere. Inoltre si è stabilito che ha una massa corrispondente a 126 Gev (miliardi di elettronvolt) che equivale a 126 volte la massa di un protone, una conoscenza ben nota perché forma il nucleo di ogni atomo assieme ai neutroni. Il bosone di Higgs è stato definito «una pietra miliare nella conoscenza della natura» perché se non ci fosse non avrebbero massa le stelle, i pianeti e neanche noi stessi. L’acceleratore Lhc, per la prima volta, scontrando fra loro nuvole di protoni ha riprodotto l’energia esistente nei primi frammenti di secondo dopo il Big Bang, il grande scoppio da cui tutto ha avuto origine. Per l’esattezza la supermacchina ginevrina ricrea le condizioni esistenti nel primo millesimo di miliardesimo di secondo.
3. Si è trovato tutto quello che era previsto?
Soltanto in parte. Perché quando il bosone compare decade rapidamente in tre altri tipi di particelle trovando più fotoni e meno particelle quark e tau rispetto a ciò che era stato immaginato. Ora il compito che hanno davanti i fisici del Cern è appunto quello di capire simili anomalie rispetto alla teoria. Alcune di queste particelle potrebbero, ad esempio, spiegare la materia oscura che occupa buona parte dell’Universo e ancora resta sconosciuta. Va tenuto conto del fatto che l’acceleratore Lhc ha espresso finora un’energia di 7 TeV (tera elettronvolt). Adesso è in manutenzione e quando verrà riacceso nel 2015 raddoppierà la sua capacità arrivando sino a 14 TeV. Ciò spalancherà le porte ad una nuova fisica. Alla scoperta del bosone hanno partecipato circa 600 fisici italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e appartenenti soprattutto alle università di Pisa, Milano, Roma e Pavia.
4. Quali prospettive si aprono dopo la scoperta del bosone di Higgs?
Gli scienziati teorizzano la possibilità di trovare le particelle che spiegano sia la materia oscura sia l’energia oscura che riempiono il 96 per cento dell’Universo. Il rimanente 4 per cento è costituito da tutta la materia che vediamo, stelle e pianeti. Quindi si parla di particelle simmetriche a quelle note ma con caratteristiche diverse: accanto all’elettrone ci sarebbe ad esempio il selettrone e poi lo squark, l’sneutrino ecc. Ma si potrebbero scoprire altre dimensioni oltre le quattro in cui viviamo come la teoria delle stringhe già ipotizza. Ecco la nuova fisica.
Tutto come da previsioni: la scoperta della particella mancante, che ci spiega cosa è successo un attimo dopo il Big Bang, da parte dello scienziato britannico Peter Higgs, ha vinto il prestigioso riconoscimento. Lui se ne stava lontano da casa e dai riflettori. Al Cern, dove è stato osservato e annunciato nel luglio dello scorso anno
dal nostro inviato ELENA DUSI *
GINEVRA - "Sarebbe un trauma" Peter Higgs aveva sempre detto del Nobel. Oggi, a 84 anni, lo scienziato timido che ha dato il suo nome a una particella cercata per quasi 50 anni e catturata finalmente un anno fa, quel "trauma" lo sta vivendo. La Commissione di Stoccolma ha deciso di assegnare il premio per la fisica a Peter Higgs e Francois Englert per Per i loro studi sul bosone, ribattezzato "la particella di Dio". L’annuncio è stato dato dall’Accademia svedese delle scienze, in ritardo di oltre un’ora rispetto al previsto. I due scienziati sono stati premiati per "la scoperta teorica di un meccanismo che contribuisce alla nostra comprensione dell’origine della massa di particelle subatomiche".
"Il professor Higgs trascorrerà la giornata lontano da casa, in una località che non renderemo nota, e non rilascerà interviste", ha spiegato alla vigilia Alan Walker, il suo stretto collaboratore dell’università di Edinburgo. Racconterà le sue emozioni in una conferenza stampa non prima di venerdì. Per François Englert invece l’università di Bruxelles aveva da giorni organizzato un ricevimento che doveva restare segreto, ma che ovviamente ha fallito nel suo scopo. Lo spumante era già in fresco da tempo (e la conferenza stampa convocata con discrezione) anche al Cern, il Centro europeo di ricerca nucleare di Ginevra dove il bosone di Higgs è stato effettivamente osservato. Dove cioè l’idea buttata giù da Higgs nel 1964 su un paio di pagine di parole ed equazioni è stata confermata da un mastodontico acceleratore di particelle: il Large Hadron Collider (Lhc).
Di qualsiasi altra persona si direbbe che oggi staccherebbe il cellulare e spegnerebbe il computer. Ma lo scienziato meglio noto come un bosone di cellulari non ne possiede. "Gli è stato regalato un computer qualche anno fa - prosegue Walker - ma l’apprendimento non è stato semplice. Ora lo usa suo nipote". Nella sua casa di Edinburgo non trova spazio nemmeno un televisore. "Il professor Higgs adora la musica classica e ha un vecchio impianto a valvole. L’arte in generale lo appassiona. Per scrivere usa ancora carta e penna. Seguire tutti i dettagli della fisica odierna per lui è diventato difficile, anche se ha più volte visitato il Cern ed è rimasto impressionato". L’acceleratore di particelle più potente del mondo - 27 chilometri di diametro, la capacità di lanciare i protoni lungo una pista a scontro praticamente alla velocità della luce - aveva come suo primo compito quello di dimostrare nella realtà l’eventuale esistenza del bosone che Higgs aveva teorizzato grazie al suo ingegno e a una manciata di equazioni (con gli esperimenti il fisico inglese era sempre stato un disastro, e li aveva abbandonati ai tempi dell’università). Trovata l’ultima particella che ancora mancava all’appello fra i costituenti elementari della materia (l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs è stato fatto al Cern il 4 luglio 2012), per il fisico timido che nel frattempo si era ritirato a vita privata si sono spalancate le porte del Nobel.
La scelta del fisico di Edimburgo in realtà non è stata scevra da controversie. Alla sua scoperta Peter Higgs è infatti arrivato grazie a una serie di circostanze fortuite. Il suo studio iniziale, scritto nel luglio del 1964, fu infatti respinto dall’editore di Physics Letters, che per ironia della sorte lavorava proprio al Cern, e che consigliò a Higgs con disprezzo di inviare la ricerca a Il Nuovo Cimento, una rivista italiana non specializzata. Offeso ma non scoraggiato Higgs spedì lo studio alla rivista rivale: l’americana Physical Review Letters. Il giorno in cui l’articolo di Higgs arrivò per posta, nel settembre del 1964, la rivista aveva appena pubblicato uno studio molto simile dei due scienziati belgi François Englert e Robert Brout (morto nel 2011). I due ricercatori di Bruxelles avevano battuto Higgs sul tempo nel descrivere come mai le particelle elementari sono dotate di massa. Ma Higgs aveva nel frattempo aggiunto un paragrafo finale in cui completava tutto il ragionamento teorizzando l’esistenza di una nuova particella. Era nato il bosone di Higgs.
"Poiché avevo scritto uno studio molto importante, secondo la gente avrei dovuto capire anche quel che è stato scoperto in seguito. Ma non è così. Quando si è trattato di comprendere gli studi di quelli venuti dopo di me, ho iniziato ad affondare" ha spiegato un giorno Higgs, che da allora ha lasciato il palcoscenico della fisica, svolgendo semplicemente il suo lavoro di professore all’università di Edinburgo. L’esistenza della sua particella - per la quale al momento non sono previste applicazioni pratiche - ci spiega però cosa è successo un attimo dopo il Big Bang. Quando la temperatura dell’universo si è abbassata e le particelle elementari hanno iniziato ad acquisire una massa. Anziché schizzare via alla velocità della luce, senza nessuna speranza di interagire fra loro, i mattoni fondamentali della materia hanno rallentato e per effetto della gravità hanno formato combinazioni via via più complesse. Fino a far nascere la Terra e gli esseri viventi.
A proseguire il suo lavoro, andando a scoprire cosa c’è al di là della materia a noi conosciuta, oggi ci pensano nuove generazioni di fisici e un Cern che sta rinnovando i motori del suo acceleratore, per dotarlo di un’energia doppia rispetto a quella sprigionata finora. A Lhc lavorano in circa 10mila, di cui quasi un terzo italiani, coordinati dall’Istituto Nazionale di Fisica.
Bosone di Higgs. È lui
ll Cern conferma la scoperta di luglio
Lo spin pari a 0 non lascia dubbi
di Pietro Greco (l’Unità, 7.03.2013)
ORMAI È CERTO. PERSINO LO SPIN, PARI A 0, CORRISPONDE. La particella di massa compresa tra 125,3 e 126 GeV rilevata dalle collaborazioni Atlas e Mcs al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider (Lhc) al Cern di Ginevra è proprio lui: il bosone di Higgs. L’annuncio, per così dire, quasi ufficiale è stato dato ieri a La Thuile in Val d’Aosta dove, da anni, sul finire dell’inverno un gruppo di fisici si riunisce per riflettere e sciare. I «cacciatori di particelle» venuti da Ginevra hanno portato nel paesino valdostano i nuovi dati che puntano tutti nella medesima direzione e indicano che quello rilevato dalle collaborazioni Atlas e Cms è effettivamente la particelle più ricercata della storia, il bosone ipotizzato da Peter Higgs.Le collaborazioni altro non sono che gruppi numerosi di fisici che realizzano un medesimo esperimento.
E lo scorso 4 luglio i portavoce dei due gruppi di fisici che stanno realizzando gli esperimenti Atlas e Cms presso l’acceleratore Lhc annunciarono di avere dati statistici sufficienti per affermare di aver individuato una particella finora ignota con caratteristiche compatibili al bosone di Higgs. Ma di non avere la certezza assoluta che quella particella fosse davvero Higgs.
La questione non era (e non è) di lana caprina. Perché se la particella da 126 (o 125,3) GeV è davvero il bosone di Higgs, allora il Modello Standard delle Alte Energie, elaborato oltre mezzo secolo fa da Peter Higgs e da un altro nugolo di fisici teorici, viene definitivamente consolidato. E noi abbiamo un quadro solito di com’è fatto il mondo a scala microscopica.
Se invece la grassa particella non è il bosone di Higgs, allora al Cern non sarebbero meno contenti, perché avrebbero scoperto «nuova fisica». È per questo che, da luglio in poi, le due collaborazioni hanno lavorato «ventre a terra» e con entusiasmo per venire a capo del rovello. Pochi dubitavano che, in realtà, la particella scovata fosse proprio il bosone di Higgs. E anche per questo che a fine anno Fabiola Gianotti, leader della collaborazione Atlas, ha ottenuto (si è meritata) la copertina di Time. Ma ora se ne ha la conferma (pressoché) definitiva. La particelle del 4 luglio è proprio lui, il bosone così determinante e così a lungo cercato. Tra l’altro del bosone di Higgs ha anche lo spin atteso.
Lo scorso luglio non era ancora sufficientemente chiaro se la particella avesse spin 0 oppure spin 2. Lo spin (o momento angolare intrinseco) è una grandezza quantistica. Non ha omologhi nel nostro mondo macroscopico. Ma se il dio dei quanti ci perdona, potremmo assimilare lo spin al verso di rotazione di una palla che ruota intorno al proprio asse. Ebbene, il Modello Standard non dice che massa debba avere il bosone di Higgs, ma impone un solo spin: 0. A La Thuile i fisici di Atlas e Cms hanno confermato: la particella ha spin 0. Proprio quello atteso per il bosone di Higgs.
Il che, come sostiene il fisico teorico Antonio Masiero sul sito dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) di cui è vicepresidente, spalanca a nuovi ruoli della determinante particella. Il bosone di Higgs non è solo la particella che regala una massa a tutte le altre. Ma anche una forma e una dimensione all’universo intero. Regala una massa al cosmo perché il bosone è espressione del campo di Higgs. Potremmo raffigurarci questo campo come una sorta di liquido viscoso, una melassa, che permea di sé l’intero universo. E la massa non sarebbe altro che la resistenza che ogni particella incontra nell’attraversare il campo. Se la resistenza è nulla, la massa è zero. Se la resistenza è grande, la massa della particella è grande.
Ma, sostiene Masiero, con uno spin zero il bosone di Higgs si candida anche a svolgere un altro ruolo determinante nell’universo primordiale e, dunque, a spiegare perché l’universo è oggi delle dimensioni e della forma che conosciamo.
Il Modello Standard delle Alte Energie incontra il Modello Standard della Cosmologia, secondo cui l’universo (o meglio, l’universo osservabile) è nato 13 miliardi e rotti anni fa con l’immane esplosione di un punticino caldissimo, densissimo e piccolissimo. Poi, pochissimi istanti dopo, le sue dimensioni sono aumentate di centinaia se non migliaia di ordini di grandezza e l’universo osservabile è diventato un oggetto macroscopico.
Questa trasformazione rapidissima, avvenuta a una velocità crescente e infine superiore a quella della luce, è durata a sua volta pochi istanti, ha consentito all’universo di congelare le disomogeneità quantistiche originarie e, dunque, di assumere la forma oltre che le dimensioni che presenta oggi. La fase della crescita rapidissima è stata definita inflazione cosmica. E sarebbe stata determinata da una particella chiamata inflatone. Una particella massiva con spin zero.
Ebbene, sostengono molti fisici teorici impegnati a rendere omogenei il Modello Standard delle Alte Energie e quello della Cosmologia, il bosone di Higgs così come è stato rilevato a Ginevra dagli esperimenti Atlas e Cms ha proprio le caratteristiche dell’inflatone. E, probabilmente, è l’inflatone.
Se così fosse quello previsto da Peter Higgs con altri teorici all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso e rilevato da Fabiola Gianotti e da migliaia di altri ricercatori lo scorso anno al Cern sarebbe di gran lunga la particella più importante nella storia dell’universo. E la scoperta confermata ieri sarebbe, di conseguenza, una delle più fondamentali di ogni tempo.
A chi volesse saperne di più, diamo due consigli. Leggere A caccia del bosone di Higgs, il libro scritto dal fisico teorico Luciano Maiani, già direttore generale del Cern, oltre che dell’Infn e del Cnr, insieme con il giornalista Romeo Bassoli e pubblicato nei giorni scorsi da Mondadori. E venire a Roma il prossimo 14 maggio, perché all’Auditorium, con la guida sapiente di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, ci spiegheranno tutto proprio i protagonisti della caccia: Fabiola Gianotti, Guido Tonelli e lo stesso Luciano Maiani.
Ecco l’identikit del bosone di Higgs la particella di Dio ha cinque volti
Il Cern conferma la scoperta. “Ora si aprono nuovi scenari”
di Elena Dusi (la Repubblica, 07.03.2013)
ROMA - Ma che volto ha il bosone di Higgs? Come in una danza dei sette veli, la particella concede a poco a poco i suoi segreti. Rispetto all’annuncio della scoperta - il 4 luglio 2012 al Cern di Ginevra - i fisici hanno raccolto il triplo dei dati. E ieri in una conferenza a La Thuile, vicino Aosta, hanno tracciato un identikit dai contorni meno fluttuanti ma non ancora privo di misteri.
Una cosa è certa: quello creato dall’Lhc - l’acceleratore di particelle più potente del mondo - è il bosone di Higgs. I fisici hanno cancellato i condizionali e il primo velo è caduto. Peter Higgs, il timido fisico inglese che nel 1964 teorizzò la sua esistenza, si avvia prevedibilmente verso il Nobel. Il puzzle delle 17 particelle fondamentali che compongono la materia a noi nota ha trovato il suo ultimo pezzo.
Da qui in avanti il terreno si fa meno solido. «Quello che abbiamo osservato potrebbe essere uno dei possibili bosoni di Higgs» suggerisce Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Cern. Come in un gioco di specchi, l’Higgs potrebbe presentarsi con identità plurime (fino a cinque). E la caccia al “latitante” che diamo per conclusa potrebbe essere solo all’inizio. La “moltiplicazione degli Higgs” è possibile grazie alla teoria della supersimmetria, secondo cui ogni particella ha una o più compagne rimaste finora ignote.
Si spiegherebbe così perché il 96% dell’universo - suddiviso in materia ed energia oscura - è totalmente invisibile. Per penetrare nel regno della supersimmetria servirebbe però un varco. Un dettaglio inaspettato del bosone potrebbe suggerirne l’esistenza, ma finora la particella non ha offerto appigli o stranezze. «Speravamo di vedere segnali in disaccordo con le teorie attuali» spiega Gian Francesco Giudice, fisico teorico del Cern. «Invece tutte le caratteristiche dell’Higgs sono in linea con le previsioni. Questo non ci aiuta ad aprire nuovi sentieri».
Una sorpresa potrebbe ancora annidarsi fra le molteplici forme che l’Higgs assume alla fine della sua vita. L’Lhc, in tre anni di attività, ha prodotto 2mila trilioni di collisioni fra protoni veloci quasi come la luce. Negli scontri si sono formati circa 400 bosoni di Higgs. Dopo un’esistenza di un istante, queste particelle si disintegrano, ed è osservando i frammenti che i fisici ne ricostruiscono l’identikit.
Da questo minuzioso lavoro di interpretazione potrebbero saltare fuori novità. Anche perché esperimenti giganteschi come l’Lhc (costato 10 miliardi di euro) sono affidati a squadre di fisici diverse e indipendenti. A Ginevra ne esistono 4, di cui 2 specializzate nella caccia all’Higgs.
I dati dei vari gruppi a La Thuile combaciano abbastanza, ma non perfettamente. E il bosone di Higgs per molti aspetti resta un bersaglio mobile. «A differenza di altre particelle elementari - prosegue Giudice - le sue proprietà non sono rigidamente determinate dalle simmetrie della teoria. Possono risultare diverse da quelle previste senza che l’intera teoria crolli. La questione che più lascia perplessi è quella dell’instabilità del vuoto».
Il vuoto, secondo i calcoli fatti al Cern e all’Istituto nazionale di fisica nucleare, non ha ancora raggiunto uno stato di energia minimo, quindi di quiete. Potrebbe “precipitare a valle” e scomparire. «Non accadrebbe in tempi brevi - tranquillizza Giudice - ma l’universo, per come ci appare il bosone oggi, si troverebbe in uno stato di equilibrio instabile, come un nido precariamente appeso a un ramo».
È solo il primo passo verso altre frontiere dalla materia oscura al destino dell’universo
di Fabiola Gianotti (la Repubblica, 07.03.2013)
LA SCOPERTA di una nuova particella è solo il primo passo di un lungo cammino. Per capirne le proprietà occorrono misure dettagliate, che richiedono tempo e dati. Ci sono due aspetti principali su cui stiamo lavorando. Il primo è determinare lo spin della nuova particella, una proprietà che potremmo considerare una specie di “codice genetico”, che ci permetterebbe di definirne la natura. Siamo sulla buona strada per affermare che lo spin della nuova particella è compatibile con il valore previsto per il bosone di Higgs (zero), mentre ad esempio l’elettrone ha spinun mezzo e il fotone spinuno.
L’altro aspetto importante è determinare come questa nuova particella interagisce con le altre particelle elementari. Su questo abbiamo fatto molti progressi negli ultimi mesi. Anche se il traguardo è migliorare la precisione delle misure, tutti i risultati ottenuti finora sono in ottimo accordo con l’interpretazione che la nuova particella sia proprio il bosone di Higgs. Lhc però è stato concepito e costruito per affrontare una lunga lista di questioni aperte.
La domanda sull’origine delle masse delle particelle elementari, che ci ha accompagnato per decenni, è ora in via di risoluzione. Ma ci sono altri quesiti che stiamo esplorando, come la composizione della materia oscura, l’asimmetria fra materia e antimateria nell’Universo, l’esistenza di altre forze oltre alle 4 che conosciamo. Una delle prime curiosità che ci piacerebbe risolvere è la natura della materia oscura.
Sarebbe bellissimo produrre in un acceleratore sotterraneo nella campagna fra Svizzera e Francia la particella responsabile del 25% dell’Universo. Si tratterebbe di una soddisfazione enorme per le migliaia di fisici di tutto il mondo, fra cui 600 italiani coordinati dall’Infn, che lavorano da 25 anni a un progetto senza precedenti.
L’AUTRICE Ha guidato Atlas, uno dei rivelatori che ha scoperto l’Higgs
Cern, la conferma è arrivata: quella particella è il bosone di Higgs
di ELENA DUSI *
ROMA - La particella che tanto assomiglia al bosone di Higgs è proprio il bosone di Higgs. Dopo averla osservata in ogni suoi aspetto, gli scienziati del Cern battezzano ufficialmente la loro scoperta, annunciata per la prima volta il 4 luglio del 2012. Da allora, l’acceleratore di particelle Lhc ha continuato a lavorare a pieno ritmo. Gli scienziati di Ginevra hanno raccolto il triplo delle informazioni che avevano otto mesi fa e oggi, alla conferenza in corso a Le Thuile, vicino Aosta, hanno tolto ogni condizionale dalle loro dichiarazioni. Il fatto che il bosone sia stato ufficialmente chiamato con il nome di Peter Higgs potrebbe anche spianare la strada del premio Nobel al fisico inglese che nel 1964 predisse a tavolino l’esistenza del bosone.
"Non è escluso però che ci siano altre sorprese", mette in guardia da Ginevra Sergio Bertolucci, che al Cern svolge il ruolo di direttore della ricerca. "Quello che abbiamo trovato è un bosone di Higgs: ne ha chiaramente tutte le caratteristiche. Ma potrebbe non essere l’unico bosone di Higgs esistente. Le teorie ci suggeriscono che potrebbero esistere cinque particelle di questa famiglia. Nulla vieta che nelle nostre mani ne sia finita una diversa rispetto a quella prevista dal Modello Standard".
Il Modello Standard della fisica è l’insieme delle teorie che, al momento, meglio descrivono la composizione della materia a noi nota e le forze che fanno interagire le particelle fondamentali. In base a questo modello, nel 1964 Peter Higgs si mise a tavolino e teorizzò l’esistenza di un nuovo bosone. La sua presenza era necessaria per spiegare come mai le particelle fondamentali hanno una massa, e anziché schizzare nell’universo alla velocità della luce interagiscono, si attraggono l’una con l’altra e formano la materia così come la vediamo sulla Terra e negli astri.
Il bosone di Higgs era l’ultima delle particelle del Modello Standard teorizzate ma non ancora osservate in un esperimento. L’acceleratore di particelle Lhc (Large Hadron Collider) l’anno scorso ha colmato questa lacuna. Ma il fatto che la materia a noi nota formi solo il 4 per cento dell’universo indica che la strada per superare il Modello Standard è ancora lunga. Una delle ipotesi avanzate dai fisici teorici si chiama "supersimmetria" e potrebbe spiegare dove si trova il 96% della materia e dell’energia che pervadono l’universo ma restano invisibili ai nostri occhi. Secondo la nuova ipotesi, ognuna delle particelle note avrebbe una compagna più pesante nel regno misterioso della "supersimmetria".
Per Guido Tonelli, fisico del Cern e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, che insieme a Fabiola Gianotti ha guidato una squadra di quasi 10mila fisici (molti dei quali italiani) alla scoperta del bosone di Higgs "oggi comincia una lunga avventura, all’insegna di una collaborazione tra fisici e astrofisici. Abbiamo capito il meccanismo con il quale le particelle acquistano la massa. Il prossimo passo sarà studiare il ruolo che il bosone di Higgs potrebbe aver giocato nei primi istanti dell’universo". Il 14 marzo all’Auditorium di Roma Fabiola Gianotti, Guido Tonelli, l’ex direttore generale del Cern Luciano Maiani e il direttore de Le Scienze Marco Cattaneo presenteranno il libro di Maiani sulla storia di Lhc e parleranno delle ultime novità delle ricerche di Ginevra.
* la Repubblica, 06 marzo 2013
Quel Bosone che ha
Cambiato la Scienza
di Anna Meldolesi (Corriere della Sera, 21.12.2012)
Stavolta la rivista Science non ha avuto dubbi e nemmeno noi: la scoperta del 2012 è il bosone di Higgs. Il riconoscimento, anzi, gli va stretto. La particella uscita dal cilindro del Cern di Ginevra lo scorso luglio, dopo una latitanza durata decenni, può tranquillamente ambire al titolo di scoperta del decennio, al Nobel e ad altro ancora. Perché ci cambierà la vita? No, perché ha cambiato la scienza.
Oggi abbiamo bisogno dell’acceleratore Lhc (Large Hadron Collider), che è costato miliardi ed è lungo chilometri. Ma seppure un giorno inventassimo un fantascientifico generatore di Higgs tascabile, dei nostri bosoni non sapremmo che farcene. Decadrebbero in meno di uno zeptosecondo. La ricerca scientifica è sempre un ottimo investimento, ma sono lontani i tempi dell’elettricità di Franklin o delle onde radio di Hertz, quando a una grande scoperta corrispondevano quasi automaticamente grandi applicazioni.
Adesso creiamo particelle che nel nostro ambiente ordinario semplicemente non esistono e probabilmente non vi troveranno mai posto. Eppure il bosone di Higgs merita tutta l’attenzione del mondo. Non sarà la particella di Dio, come ci siamo abituati a chiamarlo con una suggestiva metafora che ha infastidito credenti e non credenti. Ma si può ben dire che è «la particella ai confini dell’universo», come recita il titolo del bel libro appena pubblicato in America da Sean Carroll.
Il bosone di Higgs, infatti, ci conduce proprio là dove corre la frontiera più remota della conoscenza. È l’ultimo mattone necessario per completare la struttura portante del vecchio e glorioso edificio teorico della fisica delle particelle (Modello Standard). E (forse) il primo mattone della nuova fisica prossima ventura. In quel «forse» è racchiusa una pesante responsabilità per Higgs, il cui campo conferisce la massa ad elettroni e quark, rendendo possibile la formazione di atomi e molecole. In definitiva consentendo la vita.
Averlo trovato è una vittoria dell’intelletto umano, anche se qualcuno in cuor suo spera che il bosone si comporti in modo anomalo e rilanci la sfida: «Mi avete acciuffato, ma non mi avete ancora compreso!». C’è chi immagina due bosoni di Higgs diversi, anziché uno. Così favoleggiano in questi giorni alcuni blog scientifici, sulla base dei diversi valori di energia registrati nei due esperimenti fratelli del Cern (Cms e Atlas, quest’ultimo coordinato dalla nostra Fabiola Gianotti, fresca contendente per il titolo di persona dell’anno secondo Time). La supersimmetria ne prevede addirittura cinque, di bosoni di Higgs. Di sicuro la natura non è ancora nuda davanti ai nostri occhi. La gravità non ha smesso di essere un osso duro per i fisici teorici e la materia ordinaria costituisce solo una frazione dell’universo.
Il bosone di Higgs rappresenta il portale tra il mondo che conosciamo e altri mondi nascosti, con materia oscura, supersimmetrie, dimensioni extra e via fantasticando. Per esplorarli e mapparli abbiamo bisogno di dati, e per procurarceli dovremo costruire acceleratori via via più potenti. I costi sono alti, le ricadute immediate scarseggiano, la minaccia della guerra fredda che in passato ha spinto la corsa della fisica è ormai un ricordo sbiadito. I bambini fanno domande su domande per il solo gusto di capire come funzionano le cose. Se noi adulti smettiamo di farcele, o pretendiamo contropartite sicure, allora il Modello Standard potrebbe essere tutto ciò che la natura è disposta a rivelare di sé. «La scoperta del bosone di Higgs è una pietra miliare», scrive Adrian Cho su Science. «Ne seguiranno altre, anch’esse epocali?».
La rivoluzione del bosone
Ecco come in sette mesi la fisica moderna è cambiata per sempre
Guido Tonelli ha lavorato all’esperimento Cms del Cern a partire dal 1993
Anticipiamo la lezione che terrà il 21 a Bergamoscienza in cui racconta i passaggi della meravigliosa scoperta
di Guido Tonelli, docente Fisica Generale Università di Pisa (l’Unità, 14.10.2012)
IL BOSONE DI HIGGS NON È UNA PARTICELLA COME LE ALTRE, È LA PIETRA ANGOLARE CHE SORREGGE L’ INTERO EDIFICIO EL MODELLO STANDARD DELLE INTERAZIONI ELEMENTARI. Ad oggi, questa teoria costituisce la migliore descrizione di tutto quanto ci circonda. Il Modello Standard descrive la materia come composta di particelle elementari (quark e leptoni) che interagiscono fra loro attraverso lo scambio di portatori di forze: il leggerissimo fotone, la familiare particella di luce che ha massa a riposo nulla e trasporta le interazioni elettromagnetiche; i pesanti, W e Z, che hanno valso il premio Nobel a Carlo Rubbia nel 1984 e che sono responsabili dei decadimenti radioattivi legati alla forza debole; i gluoni che tengono insieme protoni, neutroni e nuclei mediante l’interazione forte. Il Modello Standard è una teoria semplice che sposa in maniera elegante meccanica quantistica e relatività speciale, le due colonne portanti della fisica del XX secolo.
Dalla teoria si sono ricavate centinaia di previsioni su quantità misurabili che sono state tutte verificate sperimentalmente con grande precisione. Tutte tranne una visto che, fino a poco tempo fa, il componente più importante, il bosone di Higgs, era riuscito a sfuggire a tutte le ricerche.
Il bosone è la particella che, secondo un meccanismo proposto indipendentemente, nel 1964, da due fisici belgi, Robert Brout e Francois Englert e da un fisico scozzese, Peter Higgs, è responsabile della incredibile differenza di massa fra fotoni da un lato e W e Z dall’ altro lato. È la manifestazione di un campo invisibile che occupa ogni angolo dell’ universo ed assegna una specifica massa ad ogni altra particella. Come conseguenza di questo meccanismo, che si è instaurato una frazione di secondo dopo il bigbang, gli ingredienti caotici dell’ universo primordiale hanno cominciato ad attrarsi l’un l’altro per formare atomi, gas, galassie, pianeti e, in ultima analisi, anche noi. Senza il bosone di Higgs non solo il Modello Standard non starebbe in piedi ma non si riuscirebbe a capire nulla dell’ Universo che ci circonda.
UNA CACCIA DURATA OLTRE TRENT’ANNI
La ricerca del bosone di Higgs ha i pegnato gli sforzi di ricercatori del mondo intero per oltre trent’anni. Tutti i tentativi condotti in Europa e negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90 utilizzando gli esperimenti più sofisticati e gli acceleratori fino a quel momento più moderni, si sono rivelati infruttosi. Per questo è stato deciso di costruire, il Large Hadron Collider, LHC, il più complesso apparato di ricerca mai concepito dall’ umanità. Un acceleratore costituito da migliaia di magneti superconduttori, che si sviluppa per 27km, 100 metri nel sottosuolo, alla frontiera fra Francia e Svizzera nei pressi di Ginevra.
In LHC fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce vengono fatti urtare in collisioni di altissima energia per produrre e studiare nuovi stati della materia. LHC può essere visto come una enorme macchina del tempo. Minuscoli brandelli di materia vengono esposti ad energie e temperature simili a quelle che si registravano nell’ universo primordiale con la speranza di produrre ed identificare particelle mai osservate fino ad ora.
Due giganteschi occhi elettronici, analizzano centinaia di milioni di collisioni al secondo registrando su disco soltanto quelle piccola frazione che potrebbe contenere eventi interessanti. Sono i grandi apparati di ricerca di Atlas e Cms, moderne cattedrali delle tecnologie più avanzate, grandi ciascuno quanto un edificio di 5 piani, la cui costruzione e messa in opera ha richiesto venti anni di lavoro di migliaia di scienziati ed ingegneri di tutte le parti del mondo. Fra essi oltre 600 italiani, organizzati dall’ Istituto Italiano di Fisica Nucleare, spesso in posizioni di rilievo all’ interno delle grandi collaborazioni, e moltissimi studenti e giovani ricercatori impiegati nelle operazioni più complicatee difficili.
LA SCOPERTA
Il momento cruciale, tanto atteso per anni, si e’ intravisto, per la prima volta, alla fine del 2011. Quando, analizzando i dati appena raccolti, entrambi gli esperimenti hanno indicato al mondo che qualcosa stava succedendo intorno ad una massa di 125GeV. Per la prima volta, due esperimenti indipendenti vedevano segnali coerenti, che, per quanto ancora deboli, indicavano con chiarezza la possible presenza della particella tanto a lungo ricercata. La prudenza e la pazienza che accompagna il nostro lavoro ci suggerirono di attendere nuovi dati prima di sciogliere la riserva e di accumulare ulteriore evidenza prima di rimuovere ogni dubbio residuo.
Questo è avvenuto molto rapidamente con la presa dati del 2012. Dopo soli tre mesi dall’ inizio del nuova raccolta di dati, non appena si è visto che il segnale osservato a 125GeV nel 2011, ricompariva nei dati del 2012 esattamente nello stesso posto ed ancora in entrambi gli esperimenti, si sono sciolte le riserve ed è stata annunciata al mondo la nuova scoperta.
La nuova particella scoperta ad LHC sembra avere tutte le caratteristiche previste per il bosone di Higgs. Siamo quindi sulla buona strada per capire cos’ è avvenuto un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il big-bang. Oggi sappiamo che in quell’ istante, con l’ instaurarsi del campo di Higgs, la forza debole venne definitivamente separata dalla forza elettromagnetica e quark e leptoni acquistarono quelle masse così peculiari che hanno consentito la nascita degli atomi, lo sviluppo della chimica e dato il via a quella evoluzione dell’ universo della quale noi stessi, fragili abitanti del pianeta Terra, siamo un risultato.
Mentre si celebra il raggiungimento di questo obiettivo di portata storica, le questioni aperte sono ancora molte. Anzitutto si tratta veramente del bosone di Higgs? Ha precisamente tutte le caratteristiche previste dal Modello Standard? Oppure presenta anomalie che potrebbero suggerire la presenza di nuova fisica oltre il Modello Standard?
Nello stesso momento in cui si celebra un altro trionfo del Modello Standard, sappiamo gi à che esso rimane tutt’ora, anche includendo il bosone di Higgs, una teoria incompleta. Non spiega molti fenomeni che giocano un ruolo fondamentale nel nostro universo quali materia ed energia oscura o l’ asimmetria fra materia ed antimateria.
Non sappiamo a quale scala di energia sarà possible trovare risposte ad alcune di queste domande. Oggi abbiamo a disposizione una nuova particella che, essendo sensibile, per il ruolo che gioca, ad ogni nuovo stato della materia, potrebbe portare a nuove, ulteriori sorprese.
Gli esperimenti di LHC sono solo all’inizio di una esplorazione che durerà per lo meno per altri 20 anni. Rimanete in ascolto.
Il bosone di Higgs
La verità dell’universo in una sola particella
L’annuncio al Cern di Ginevra. La potenza della teoria unita alla potenza della tecnologia
La particella catturata nel superacceleratore Lhc
È la base per una spiegazione del perché della massa
di Pietro Greco (l’Unità, 05.07.2012)
È la vittoria di due potenze, quella annunciata ieri al Cern di Ginevra dall’italiana Fabiola Gianotti, spokeperson dell’esperimento Atlas, e dall’americano Joe Incandela, spokeperson dell’esperimento Cms. Una è quella della tecnologia scientifica di frontiera, incarnata (o meglio, imbullonata) in Lhc: la macchina (appunto) più potente mai costruita dall’uomo. L’altra è la potenza della teoria: capace di prevedere un fenomeno sconosciuto, la cui realtà verrà provata dopo molti mesi o, addirittura, molti anni. Sono queste due potenze congiunte che hanno realizzato quella che può essere considerata, ormai a ragione, la più importante scoperta in fisica degli ultimi decenni. Forse dell’ultimo mezzo secolo.
Se la «potenza della tecnologia è chiara a tutti fin dai tempi di Galileo, quando il toscano mise a punto un cannocchiale più potente, lo puntò al cielo e vide - letteralmente - cose mai viste prima, meno nota, ma non meno importante, è la «potenza della teoria. Per trovarne un esempio altrettanto limpido di quella manifestata dal Modello Standard della Fisica delle Alte Energie, in particolare, dall’elaborazione del Modello Standard quel signore di 83 anni le cui guance ieri sono state solcate da (meritate) lacrime di gioia, lo scozzese Peter Higgs, occorre risalire alla teoria dell’elettrodinamica quantistica elaborata da Paul Dirac alla fine degli anni ’20 e racchiusa in una formula (elegante) che prevedeva l’esistenza di un tipo di materia - l’antimateria - di cui mai nessuno aveva prima parlato. L’esistenza dell’antimateria fu empiricamente provata pochi anni dopo.
DA EINSTEIN E NEWTON
Ancora, la «potenza delle teoria si era manifestata nel 1919, quando l’inglese Sir Arthur Eddington misurò la deviazione della luce da parte del campo gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla teoria della relatività generale del tedesco Albert Einstein. Con quella misura, titolò con una certa enfasi il New York Times in prima pagina, Einstein detronizzò Newton. Ancora. Una manifestazione della «potenza della teoria si ebbe quando il chimico russo Dimitri Ivanovic Mendeleev elaborò la «tavola periodica degli elementi, prevedendo non solo l’esistenza di elementi chimici fondamentali fino ad allora sconosciuti, ma anche le loro precise proprietà chimiche. Ieri si è manifestata di nuovo, con limpida chiarezza, la «potenza della teoria, accanto in virtù della «potenza della tecnologia. Perché è stata individuata una particella - il bosone di Higgs - messaggera di un campo di forze, il «campo di Higgs, le cui esistenze erano del tutto sconosciute prima che Peter Higgs le immaginasse. Le sue lacrime, ieri, hanno salutato il nuovo trionfo della «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali. Vero è che Fabiola Gianotti e Joe Incandela hanno mostrato un filo di prudenza nel presentare i loro dati. Hanno detto che con una probabilità statistica di 5 sigma - il che, tradotto dal linguaggio dei fisici e dei matematici, significa tecnicamente una probabilità abbastanza solida da poter parlare a ragion veduta di certezza pressoché assoluta e, dunque, di «scoperta - hanno individuato una particella sconosciuta di massa pari a 125 GeV (giga elettronvolt) con le caratteristiche di un bosone.
Ma che c’è bisogno di ulteriori studi per assicurarsi che il bosone catturato sia effettivamente il «bosone di Higgs. Tuttavia, proprio la «potenza della teoria suggerisce che la particella catturata non possa essere altro che la particella prevista da Peter Higgs. Il quale non a caso è stato convocato a Ginevra e non a caso ha pianto di gioia.
REALTÀ COSMICA
Resta da vedere, tuttavia, se il bosone la cui cattura è stata annunciata ieri abbia solo le caratteristiche previste da Peter Higgs. O, invece, non abbia anche proprietà che spalancano a «nuova fisica. O meglio, come spiega il Cern in un suo comunicato ufficiale, alla possibilità di trovare una qualche spiegazione a quel 96% di realtà cosmica di cui non conosciamo la natura. Viviamo infatti in un universo costituito al 73% da un’energia (chiamata, appunto, oscura) e al 23% da una materia (chiamata, anch’essa, oscura) di cui non sappiamo spiegare origine e costituzione.
Il bosone di Higgs finalmente individuato potrebbe fornirci la chiave per gettare un po’ di luce su tanta - è il caso di dirlo - oscurità. Il che dimostra come if isici - aLhc,ma non solo aLhc - siano già al lavoro per andare oltre il Modello Standard, il cui ciclo si è ormai chiuso con la scoperta annunciata ieri. Il Modello Standard funziona (eccome!) ma non ci dice tutto sulla realtà fisica. Occorre, appunto, andare oltre. E proprio la grande macchina può aiutarci a fare i primi passi in questa ricognizione ancora più approfondita.
Non sarà sfuggito ai più attenti tra i lettori dell’Unità il contributo italiano alla scoperta. L’esperimento Atlas è diretto da Fabiola Gianotti (figlia di un geologo piemontese e di un’umanista siciliana, laureata a Milano); l’esperimento Cms è stato diretto fino a poco tempo fa da Guido Tonelli, dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Pisa; italiano è anche il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci. Si tratta di una nuova evidenza empirica, è il caso di dirlo, che in alcuni settori la nostra comunità scientifica è all’avanguardia. E questa sua capacità le viene riconosciuta a livello internazionale. Ma è anche evidente - anche questa è, ahimè, un’altra ineludibile evidenza empirica - che la scienza italiana, anche quella di punta, è sottoposta a ristrettezze economiche senza pari e crescenti. E che in queste condizioni difficilmente il futuro - anche in fisica - potrà essere luminoso com’è il presente e com’è stato il passato.
Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, Fernando Ferroni, a sottolinearlo, nel franco dibattito telefonico con il ministro Francesco Profumo. Ma bene faremmo anche noi a tenerlo presente. Ce lo insegna la storia del pianeta degli ultimi sessant’anni (ma, a ben vedere, ce lo insegna la storia intera dell’umanità): non c’è nessuna crescita possibile, non c’è tantomeno alcuno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, se un paese rinuncia a investire nella conoscenza. E la mancanza di investimenti (ovvero di fiducia) nella conoscenza è tanto più commendevole per un Paese che detiene - fingendo di non saperlo, fingendo di non vederlo - un patrimonio come quello che si è espresso ieri a Ginevra.
È un raggio di luce sull’oscurità
di Margherita Hack (l’Unità, 05.07.2012)
Si tratta di una bella conferma della teoria chiamata Modello Standard. Il Modello Standard spiega concretamente vari comportamenti delle particelle elementari, ma, per fare questo, ipotizza che ci sia una particella più grossa del protone, il Bosone di Higgs appunto, che spiegherebbe come si formano tutte le altre particelle che conosciamo. Sarebbe questo Bosone, infatti, a dare a tutte le altre particelle la massa. Il Bosone di Hoggs sarebbe, quindi, un po’ come il babbo e la mamma di tutte le particelle elementari. Io lo chiamo addirittura dio. Se dio infatti ha fatto tutto quello che vediamo, allora la particella che spiega come si forma la materia delle altre particelle dalle quali poi deriva tutto le stelle, gli elementi che abbiamo sulla Terra, compresi quelli che compongono gli esseri umani è veramente dio.
Questa particella però non era mai stata trovata. Come l’hanno cercata? Noi sappiamo che esiste un’eguaglianza tra massa ed energia, da questa conoscenza possiamo dedurre che se c’è sufficiente energia, si può creare una particella. Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore di Ginevra, avrebbe potuto trovare questa particella perché è il più potente, quello che raggiunge livelli di energia mai raggiunti finora in laboratorio. Così Lhc ha cominciato a funzionare alla massima energia nella speranza di trovare il Bosone di Higgs. Sembra ci sia riuscito. Ora si comincia a capire concretamente la struttura della materia.
Qual è il prossimo passo? Dal punto di vista della fisica delle particelle non saprei dirlo, però so che noi astrofisici cerchiamo di capire cosa siano la materia oscura, che costituirebbe la maggior parte della materia dell’universo e sarebbe fatta da particelle elementari ancora sconosciute, e l’energia oscura. Non so se il Bosone di Higgs ci possa dare un aiuto in questa direzione, ma è possibile. Poi bisogna cercare di capire perchè l’universo è fatto di materia e non di antimateria. Oggi l’astrofisica riesce a vedere direttamente come era fatto l’universo 400mila anni dopo l’inizio dell’espansione. Dalle temperature e dalla densità della materia in quel momento, come i fisici, anche noi possiamo risalire ai valori di temperatura e densità della materia che si trovavano frazioni infinitesimali di secondo dopo il Big Bang.
La scoperta dell’ultimo tassello apre la strada a «nuovi mondi»
a cura di Giovanni Caprara ( Corriere della Sera , 05.07.2012)
1 Che cosa è il bosone di Higgs?
Il bosone noto anche come «particella di Dio» era l’ultimo tassello del Modello Standard, la teoria quantistica che spiega l’architettura di base della natura costruita con particelle elementari, come l’elettrone e il protone, e tre delle quattro forze fondamentali (interazione forte, debole ed elettromagnetica). Alcune teorie avevano immaginato l’esistenza di una famiglia di cinque tipi di bosoni e quello individuato sarebbe il più leggero secondo quell’idea. Ma non è detto che esistano gli altri. La sua presenza stabilisce la massa delle altre particelle e di se stesso.
Per dare una raffigurazione del bosone di Higgs possiamo immaginare un lago con la sua superficie tranquilla. Questo è il campo di Higgs. Soffia una leggera brezza e si creano delle increspature, delle onde. Le onde sono i bosoni di Higgs e quando il vento cessa scompaiono. Altrettanto i bosoni che decadono in altre particelle (fotoni, ecc).
2 Che cosa hanno scoperto esattamente al Cern?
Innanzitutto si è visto che il bosone di Higgs esiste davvero e che ha una massa di 126 GeV (miliardi di elettronvolt) equivalente a 126 volte la massa del protone (il quale è nel nucleo di un atomo assieme al neutrone).
Scoprendolo «si è raggiunta una pietra miliare nella conoscenza della natura», come sottolinea il direttore del Cern Rolf Heuer perché se non ci fosse non avrebbero massa le stelle, i pianeti, le cose in genere e neanche noi stessi. Il bosone era nato assieme alle altre particelle nel primo millesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang da cui ha avuto origine l’Universo. Ed è in questo frammento di tempo primordiale che gli strumenti di Lhc riescono a guardare. Ora gli scienziati del Cern presenteranno la loro scoperta in Australia, a Melbourne, ad un convegno dedicato all’argomento e iniziato ieri.
3 Si è trovato veramente ciò che si cercava?
In parte sì e in parte no. Il bosone quando si manifesta decade in tre tipi di altre particelle. Quindi si è constatato che genera più fotoni e meno particelle quark e tau rispetto a ciò che si era previsto. Invece produce una quantità normale di particelle W-Zzero (scoperte da Carlo Rubbia). Adesso si dovranno misurare bene queste «anomalie» per capire di che cosa si tratta e che cosa significano. Potrebbero essere l’anello di congiunzione tra la fisica nota e la nuova.
4 Quali possibilità si aprono dopo questa scoperta?
Notevoli, varie e fantascientifiche per certi aspetti. Proprio le «anomalie» emerse, infatti, potrebbero essere il segno di una fisica nuova portandoci a trovare le particelle della materia e dell’energia oscura che riempiono il 96 per cento del cosmo. La materia visibile costituita da stelle e pianeti e galassie rappresenta solo il 4 per cento. Il bosone ha provocato la rottura della simmetria iniziale esistente immediatamente dopo il Big Bang consentendo quindi la formazione dei corpi celesti.
Inoltre si apre la possibilità di scoprire la supersimmetria la quale dice che in natura esisterebbero, oltre alle particelle note come elettrone, quark e neutrino, altre particelle perfettamente simmetriche ma con una caratteristica diversa legata allo spin, come la chiamano i ricercatori. E queste particelle sarebbero selettrone, squark, sneutrino. Un altro mondo insomma. Inoltre si potrebbero scoprire nuove dimensioni oltre alle quattro in cui viviamo (altezza, larghezza, profondità e tempo). La teoria delle stringhe ne immagina una decina, ma anche quella non è mai stata dimostrata finora.
5 E il superacceleratore potrà aiutare a indagare la nuova fisica?
Anzi è stato costruito apposta. Ora si continueranno a prendere, ancora per tre mesi, ulteriori misure del bosone e poi verso la fine dell’anno Lhc sarà spento per un periodo di manutenzione di due anni nei quali si estrarranno molti degli aspetti enigmatici contenuti nei dati disponibili e ottenuti con scontri fra nuvole di protoni ad un’energia massima di 8 TeV. Quando la macchina verrà riaccesa sarà spinta a funzionare alla sua massima capacità e allora negli scontri tra protoni si arriverà a 14 GeV.
6 Ma il Modello Standard ora completato dal bosone mancante spiega tutto?
No. Ci sono aspetti fondamentali ancora non considerati da questa teoria. Ad esempio non vengono per nulla trattate la materia oscura e la forza di gravità, due elementi importanti e determinanti nella descrizione dell’universo. Quindi il Modello Standard non è ritenuto completo per decifrare la natura.
FISICA
"Neutrini più veloci della luce"
Messo in discussione Einstein
Clamorosi risultati di uno studio del Cern e dell’Infn guidato da un fisico italiano: particelle sparate da Ginevra al Gran Sasso hanno infranto il muro considerato invalicabile dalla fisica. Margherita Hack: "Sarebbe una rivoluzione" *
ROMA - I risultati, se confermati, possono rimettere in discussione le regole della fisica cristallizzate dalle teorie di Albert Einstein, secondo le quali niente nell’universo può superare la velocità della luce. Un gruppo di ricercatori del Cern e dell’Infn guidato dall’italiano Antonio Ereditato ha registrato che i neutrini possono viaggiare oltre quel limite. Le particelle hanno coperto i 730 chilometri che separano i laboratori di Ginevra da quelli del Gran Sasso a una velocità più alta di quella della luce.
Il muro è stato infranto di appena 60 nanosecondi. Eppure, il risultato è talmente destabilizzante che il team di ricerca ha atteso ben tre anni di misurazioni per sottoporlo all’attenzione della comunità scientifica. "Siamo abbastanza sicuri dei nostri risultati, ma vogliamo che altri colleghi possano verificarli e confermarli", spiega Ereditato, che lavora presso il laboratorio di fisica delle particelle dell’organizzazione ginevrina.
E le prime reazioni non tardano ad arrivare: secondo il Centre national de la recherche scientifique francese, le fosse confermata la scoperta sarebbe "clamorosa" e "totalmente inattesa" e aprirebbe "prospettive teoriche completamente nuove". Anche per l’astrofisica Margherita Hack si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione perché, osserva, "finora tutte le previsioni della teoria della relatività sono state confermate".
Secondo la teoria della relatività ristretta, elaborata da Einstein nel 1905, la velocità è una costante, tanto da essere parte della celeberrima equazione E=mc², dove E è l’energia, m la massa e c, appunto, la velocità della luce. La relatività, spiega ancora la Hack, "prevede che se un corpo viaggiasse ad una velocità superiore a quella della luce dovrebbe avere una massa infinitamente grande. Per questo la velocità della luce è stata finora considerata un punto di riferimento insuperabile".
Tra l’altro, la teoria della relatività implica l’impossibilità fisica delle traversate interstellari e dei viaggi nel tempo, finora inesorabilmente relegati alla fantascienza e ritenuti irrealizzabili dalla scienza. Ora tutto ciò potrebbe cadere. "Ma io non voglio pensare alle implicazioni", si affretta a precisare Ereditato. "Siamo scienziati e siamo abituati a lavorare con ciò che conosciamo".
La velocità delle particelle è stata misurata dal rivelatore Opera, dell’esperimento Cngs (Cern NeutrinoS to Gran Sasso), nel quale un fascio di neutrini viene lanciato dal Cern di Ginevra e raggiunge i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare.
* la Repubblica, 22 settembre 2011
FISICA
La massa mancante dell’universo
scoperta da stagista australiana
E’ una studentessa 22enne alla facoltà di ingegneria di Melbourne. Gli scienziati inseguivano la soluzione del rompicapo da decenni, lei ci è riuscita in tre settimane *
MELBOURNE - Team di scienziati di tutto il mondo l’hanno inseguita per decenni. Ma della cosidetta "massa mancante" dell’universo nessuna traccia. L’ha invece individuata, è in soli tre mesi, una studentessa di ingegneria aerospaziale dell’Università Monash di Melbourne, Amelia Fraser-McKelvie, di 22 anni, che ha condotto con astrofisici della Scuola di Fisica dell’ateneo una ricerca mirata a raggi X. La scoperta, descritta nella rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è ancora più notevole perché Fraser-McKelvie, 22 anni, non è una ricercatrice di carriera, ma una studentessa che lavorava come stagista con una borsa di studio. Il suo relatore Kevin Pimbblet della Scuola di Fisica ha sottolineato come gli scienziati si siano scervellati per decenni sulla questione mentre lei ci ha messo solo 90 giorni.
"Si pensava da un punto di vista teorico che nell’universo dovesse esserci circa il doppio della massa, rispetto a quella che è stata osservata", scrive Pimbblet nella relazione di cui è coautore. "Si riteneva che la maggior parte di questa massa mancante dovesse essere situata in strutture cosmiche di grande scala fra i gruppi di galassie, chiamate filamenti. Gli astrofisici ritenevano che la massa fosse di bassa densità ma alta di temperatura, attorno al milione di gradi Celsius. In teoria quindi avrebbe dovuto essere osservabile sulle lunghezze d’onda dei raggi X. La scoperta di Fraser-McKelvie ha dimostrato che l’ipotesi era corretta", aggiunge lo scienziato.
Usando le sue conoscenze nel campo dell’astronomia a raggi X, la giovane studiosa ha riesaminato da vicino i dati raccolti dai colleghi più anziani, confermando la presenza dei filamenti, che fino allora era sfuggita. La scoperta potrà cambiare la maniera in cui sono costruiti i telescopi, sostiene Pimbblet.
* la Repubblica, 27 maggio 2011
Facciamo chiarezza sulla materia oscura
Per chi la scopre, Nobel sicuro. Ma l’ultimo esperimento Xenon ha deluso le aspettative
di Amedeo Balbi (il Fatto - Saturno, 06.05.2011)
C’È UN ROMPICAPO che da parecchi decenni tiene occupato chi studia l’universo, e che stenta a trovare una soluzione. Erano gli anni Trenta del secolo scorso quando Fritz Zwicky, un astronomo svizzero emigrato in California, fece un’osservazione sorprendente. Studiando un gigantesco agglomerato di migliaia di galassie noto come “ammasso della Chioma”, Zwicky si rese conto che c’era qualcosa che non tornava: la materia visibile non poteva giustificare, da sola, l’enorme forza di gravità necessaria a tenere insieme l’ammasso. Tentò di attirare l’attenzione dei suoi colleghi sull’apparente contraddizione, e ipotizzò che esistesse una grande quantità di “materia oscura”, non visibile con i telescopi, che facesse da “collante” gravitazionale.
Zwicky aveva fama di eretico, e un carattere difficile. Nessuno diede peso alle sue idee sulla materia oscura. Ma parecchi anni dopo, intorno agli anni Settanta, l’argomento tornò alla ribalta. Diverse osservazioni - soprattutto quelle compiute dall’astronoma Vera Rubin - mostrarono che le galassie ruotavano in una maniera che non era compatibile con la sola presenza della materia che si riusciva a vedere con i telescopi. Di nuovo, sembrava esserci molta materia nascosta alla vista, ma capace di far sentire la sua presenza grazie alla forza di gravità. Questa volta la cosa fu presa seriamente. Negli anni Ottanta, grazie a un numero sempre crescente di conferme osservative, l’esistenza della materia oscura cominciò a essere un fatto accettato dalla maggioranza degli astrofisici. Fritz Zwicky ebbe la sua rivincita, sebbene postuma - è morto nel 1974.
Oggi, sappiamo con certezza che manca qualcosa nel quadro complessivo che usiamo per descrivere il cosmo. L’esistenza della materia oscura è una realtà con cui bisogna fare i conti. Si sono cercate strade alternative per provare a farne a meno (come quelle che prevedono di modificare l’azione della forza di gravità) ma non hanno avuto altrettanto successo. Sembra inevitabile che solo il cinque per cento dell’intero contenuto del cosmo sia fatto della materia che ci è familiare (gli atomi), mentre il venti per cento circa sarebbe costituito da materia non visibile di tipo completamente sconosciuto. E ciò che resta per completare l’inventario sarebbe, da quanto si è scoperto solo recentemente, una forma di energia ancora più esotica, associata allo spazio vuoto.
PARTICELLE ESOTICHE
Messi di fronte all’enigma di cosa potesse essere tutta quella materia che c’è ma non si vede, gli astrofisici hanno dovuto chiamare in soccorso i loro colleghi che studiano la fisica delle particelle elementari. I quali non hanno avuto poi troppe difficoltà a proporre candidati (reali o solo ipotetici) con le caratteristiche adatte al ruolo di inquilino nascosto dell’universo: particelle massicce che non emettono o assorbono radiazione elettromagnetica e che non sperimentano (o quasi) nessuna delle forze note, se non la gravità. Si è provato prima con i neutrini (scartati quasi subito), arrivando poco a poco a suggerirel’esistenzadiparticelle sempre più esotiche, dall’assione al neutralino.
E qui si viene alla nota dolente della questione. Se da un lato gli astrofisici sono assolutamente persuasi del fatto che la materia oscura sia reale, e che se ne possano vedere un po’ ovunque nel cosmo gli effetti gravitazionali che esercita sulla materia ordinaria, i fisici delle particelle elementari non si accontentano, e vorrebbero trovare una prova diretta dell’esistenza delle fantomatiche particelle. Il problema è che acchiappare una particella che è, per sua stessa natura, cocciutamente restia a interagire col mondo, è un’impresa complicatissima.
Eppure, ci si è provato in tutti i modi. Anche perché la posta in gioco è un premio Nobel sicuro. Ma finora non si è arrivato a un risultato conclusivo. L’ultimo in ordine di tempo a deludere le attese di chi spera di afferrare le particelle imprendibili è stato l’esperimento Xenon100, sepolto nelle profondità dei laboratori del Gran Sasso in modo che gli enormi strati di roccia della montagna lo tengano al riparo dalle distrazioni delle particelle ordinarie, lasciando passare soltanto le elusive particelle di materia oscura. Il sensibilissimo rivelatore di Xenon100 avrebbe dovuto vedere i piccoli e rari lampi causati dall’urto delle particelle di materia oscura con il cuore dell’apparato sperimentale (una grossa massa di atomi di xenon liquido purissimo, appunto). E in effetti ne ha visto qualcuno, ma non abbastanza: soltanto tre, un numero compatibile con il fondo naturale di radiazione. Fine della storia?
Le cose sono più complicate. L’e-sperimento DAMA, anch’esso operante nei laboratori del Gran Sasso, ormai da diversi anni riporta evidenze di variazioni stagionali nei segnali catturati dal suo rivelatore: variazioni che sarebberodovutealmotodellaTerra rispetto alle particelle di materia oscura presenti nella nostra galassia. Proprio in questi giorni, un esperimento indipendente chiamato CoGeNT, che prende dati da una miniera in Minnesota, ha annunciato di aver trovato conferma a quanto osservato da DAMA.
Riconciliare il risultato negativo di Xenon100 con quelli di DAMA e CoGeNT è possibile, a patto di abbandonare alcuni dei candidati possibili per la materia oscura a favore di altri. Ma se il cerchio continuasse a stringersi, le alternative potrebbero esaurirsi. Ora gli occhi dei fisici sono puntati a LHC, l’acceleratore del CERN. Tra i tanti prodotti delle tremende collisioni tra protoni che hanno luogo nel suo anello, potrebbe sbucare fuori anche qualcuna delleagognateparticelledimateria oscura. Ma se anche LHC non dovesse trovare traccia delle particelle mancanti, sarà il momento di cominciare a preoccuparsi. E, subito dopo, di farsi venire qualche idea nuova.
Link degli esperimenti: Xenon100: xenon.astro.columbia.edu / DAMA: people.roma2.infn.it/ da ma/web/home.html CoGeNT: cogent.pnnl.gov /
«Questo è l’attimo (possibile) in cui nacque l’Universo»
La «particella di Dio»
Bosone di Higgs, il primo indizio dal superacceleratore Lhc
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 21.12.2010)
DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA - La «particella di Dio» ha già un volto. «Potrebbe essere proprio il bosone di Higgs che cerchiamo» dice Guido Tonelli a capo dell’esperimento Cms, uno dei quattro installati nell’anello del superacceleratore Lhc al Cern di Ginevra. «Il segnale che abbiamo raccolto ha tutte le caratteristiche teorizzate - aggiunge Tonelli -. Una coppia di bosoni Z decadono e ciascuno emette due muoni. L’evento è stato ricostruito nei dati raccolti fino al mese di ottobre.
Per la ricerca del bosone di Higgs si cercano, appunto, eventi con quattro muoni di questo tipo che però devono presentarsi in un numero ben maggiore. Quelli identificati sono troppo pochi e quindi sono considerati un fondo di misura. Però ciò che abbiamo visto ad un livello di energia di 200 GeV ci dice che siamo sulla strada giusta. E questo è importante per arrivare a destinazione» . Qualcosa di simile è stato rilevato pure nell’esperimento Atlas di Fabiola Gianotti, sempre all’Lhc, e anche al Tevatron americano. «Questo è uno dei tanti risultati già ottenuti nei mesi scorsi - nota Gianotti - i quali ci hanno mostrato, in brevissimo tempo, cioè nell’anno di attività dopo la riparazione dal guasto dell’autunno 2008, tutta la fisica conosciuta» .
Dal 6 dicembre il superacceleratore ginevrino è stato spento per un paio di mesi di manutenzione e così siamo potuti scendere nelle caverne degli esperimenti a cento metri di profondità. Finora l’energia massima raggiunta negli scontri fra le nuvole di protoni all’interno dell’anello è di 7 TeV, cioè la metà della potenza massima per la quale è stato progettato. «Ma il risultato già ottenuto- spiega Tonelli- è stato così importante e significativo che ci ha spinto a cambiare tutti i programmi di lavoro stabiliti. In pratica ci siamo resi conto che molti obiettivi potranno essere raggiunti a questo livello di energia o poco più, ad esempio 7,1 TeV, che è quello che si farà alla riaccensione» .
Tonelli e Gianotti fanno parte dei 600 scienziati italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) impegnati con la nuova macchina destinata a riprodurre le condizioni dell’Universo una frazione di secondo dopo il big bang dal quale ogni cosa ha avuto origine. Tutti i quattro esperimenti allestiti sull’anello sono diretti da italiani. Paolo Giubellino governa l’esperimento Alice e Pier Luigi Campana l’esperimento Lhcb. Lo stesso acceleratore con magneti superconduttori è stato costruito sotto la guida di Lucio Rossi.
Inoltre, anche il direttore di tutta la ricerca del Cern, Sergio Bertolucci, è un fisico italiano. Insomma, la predominanza internazionale dei nostri scienziati delle alte energie è riconosciuta sul campo: alla guida degli esperimenti, infatti, si è eletti direttamente dai ricercatori del gruppo e sono complessivamente seimila di ogni nazionalità quelli coinvolti da Lhc. Tra loro c’è persino un migliaio di americani, invertendo, nella fisica, il flusso che di solito vede gli europei andare oltre Atlantico. Ma intanto si sta già lavorando per migliorare le capacità di Lhc, potenziandole da 5 a dieci volte rispetto ad oggi.
Il programma è stato appena approvato dal Consiglio del Cern e si è impegnati nella realizzazione dei primi elementi. «Sostituiremo alcune parti attuali- precisa Lucio Rossi- con altre di tecnologia più avanzata in modo da aumentare la cosiddetta luminosità dell’acceleratore, vale a dire il numero di collisioni che possono avvenire ogni secondo nello scontro tra i protoni. Questo significa accrescere considerevolmente le possibilità di scoperta.
I primi prototipi dei nuovi elementi dell’anello saranno pronti nel 2013; poi si procederà alla costruzione di trenta magneti che rimpiazzeranno nel 2020 altrettanti vecchi elementi» . I test, iniziati lo scorso mese, fanno ricorso al nuovo superconduttore niobio-tre-stagno con il quale si è fabbricato un primo piccolo magnete. Il tempo corre veloce al Cern, ormai diventato il più importante centro di ricerche nucleari del mondo; un primato che rimarrà tale presumibilmente per almeno un ventennio, grazie anche ai miglioramenti in corso.
Ginevra, la prima volta del Big Bang in miniatura
Migliaia di miliardi di gradi: la temperatura dei primi istanti dell’universo ricreata in laboratorio
Successo del test nel più grande acceleratore di particelle del mondo
di Elena Dusi (la Repubblica, 08.11.2010)
ROMA - Il Big Bang è una fontana di colori. O almeno così lo ha dipinto l’ultimo esperimento del Cern, il più incredibile per le energie raggiunte e il più ambizioso perché getta lo sguardo proprio al centro di quel caos primordiale.
La "grande esplosione" è stata riprodotta, ma in miniatura: nello spazio occupato da un nucleo di atomo. In questo punto cento metri sotto terra e a poca da distanza da Ginevra, l’acceleratore di particelle Lhc (Large hadron collider) ha iniziato ieri a far scontrare nuclei di atomi di piombo. Elementi così pesanti, ricchi di protoni e neutroni, quando entrano in contatto a una velocità quasi uguale a quella della luce si fondono, liberando i mattoni più piccoli della materia (quark e gluoni) in una "zuppa" di migliaia di miliardi di gradi che è esistita solo fino a 10 milionesimi di secondo dopo il Big Bang. Poi tutto si è raffreddato ed è scomparso dalla nostra vista. Almeno fino a ieri è, quando è tornato davanti agli occhi dei fisici del Cern sotto forma di spettacolari fontane multicolori.
«Le collisioni fra nuclei di elementi pesanti sono state studiate anche da altri acceleratori. Ma Lhc a Ginevra raggiunge energie molto superiori. Non avevamo mai realizzato nulla di simile» spiega Paolo Giubellino, lo scienziato dell’Istituto di fisica nucleare di Torino che guida Alice, l’esperimento del Cern concepito proprio per "guardare" il Big Bang. «La temperatura nel punto delle collisioni è pari a 100mila volte quella del centro del Sole, il calore 10mila volte superiore al cuore di un reattore a fusione nucleare. Continueremo con questi esperimenti per un mese, aumentando sempre più il numero di collisioni, poi ci fermeremo alcune settimane per migliorare ancora i rivelatori».
Quando la "zuppa" (che tecnicamente si chiama "plasma di quark e gluoni") si raffredda pochi istanti dopo essersi formata, emette una serie di particelle ad alta energia che gli strumenti di Lhc sono in grado di etichettare e seguire nelle loro traiettorie. «In queste prime ore siamo partiti da misure molto semplici, per capire quante particelle sono state prodotte e come sono distribuite. Ma già nei prossimi giorni aumenteremo i dettagli delle nostre osservazioni», spiega Federico Antinori, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Padova, che si occupa dell’analisi dei dati di Alice.
Alice non è l’unico esperimento del Cern guidato da un italiano. Al momento tutti e quattro i grandi "occhi" costruiti per osservare le collisioni ad alta energia di Lhc hanno un responsabile del nostro paese. Oltre a Giubellino capo di Alice, completano il poker Fabiola Gianotti dell’esperimento Atlas, Guido Tonelli di Cms e Pierluigi Campana di LhcB. Nella democrazia del Cern, sono gli stessi fisici a votare il loro direttore. All’interno di Lhc - costruito in una ventina di anni, costato circa 6 miliardi di euro e inaugurato nel 2008 - lavorano 7mila scienziati da 40 paesi del mondo.
Nell’acceleratore di particelle più potente del mondo, l’Lhc del Cern, un fenomeno mai osservato prima
Ricreato un "brodo primordiale" come quello presente 20 microsecondi dopo la nascita dell’Universo
Viaggio all’origine del Cosmo
"vista" la materia del Big Bang
di Elena Dusi (la Repubblica, 21.09.2010)
Un effetto mai visto, e ancora tutto da spiegare. Ma che catapulta gli scienziati alle origini del nostro universo e a una possibile spiegazione dei momenti immediatamente successivi al Big Bang. Al Cern di Ginevra l’acceleratore di particelle più potente del mondo, Lhc, ha prodotto "tracce e fenomeni potenzialmente nuovi e interessanti", come annunciava ieri un comunicato dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare.
Le collisioni fra i protoni che avvengono all’interno di Lhc a velocità prossime a quelle della luce hanno fatto sprizzare frammenti di particelle in zone e in quantità inattese e anomale per i fisici. Una delle possibili interpretazioni (ancora tutta da confermare) è che nel tunnel sotterraneo dell’acceleratore sia stato riprodotto uno stato della materia caldo e ricchissimo di energia, esistito 20-30 microsecondi dopo il Big Bang: il plasma di quark e gluoni. «È solo una delle possibili interpretazioni fra le almeno cinque o sei che stiamo studiando» mette in guardia Guido Tonelli dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che coordina al Cern l’esperimento Cms dove a metà luglio è stato osservato il nuovo effetto.
Ma l’organizzazione di Ginevra punta in alto nelle sue interpretazioni, ricordando che «un fenomeno simile era stato osservato in precedenza dall’acceleratore americano Rhic di Brookhaven, negli Stati Uniti, ed associato alla creazione di materia densa e calda». I risultati del Rhic, ottenuti nel 2005 facendo scontrare nuclei di oro e non protoni, furono interpretati in maniera relativamente concorde dai fisici: per un istante brevissimo sulla terra era stato ricreato il plasma di quark e gluoni, una sorta di "brodo primordiale" della materia densissimo e caldo circa 10mila miliardi di gradi.
Mentre intorno a noi protoni e neutroni sono composti da particelle più elementari come quark e gluoni, negli istanti immediatamente successivi al Big Bang questi due mattoni della materia erano sfusi e slegati fra loro per effetto dell’altissima energia. Si è trattato solo di pochi microsecondi, perché subito dopo l’espansione e il raffreddamento dell’universo hanno "riportato nei ranghi" quark e gluoni, impacchettandoli in modo disciplinato all’interno dei protoni e dei neutroni.
Facendo scontrare particelle a velocità molto prossime a quelle della luce ed energie estreme (Lhc lavora a un valore record di 7 teraelettronvolt), gli acceleratori puntano ad avvicinare i protoni o i nuclei talmente tanto da provocare una sorta di fusione, riproducendo il "brodo primordiale" della materia. Provare a ricreare queste condizioni di energia sulla terra è stata una delle ambizioni di Lhc fin dalla sua progettazione.
A novembre anche all’interno dell’acceleratore europeo, che corre per 27 chilometri a 100 metri di profondità al confine tra Svizzera e Francia, verranno fatti scontrare non più protoni ma nuclei di elementi pesanti. Anziché oro come al Rhic, verrà usato questa volta il piombo. Si tratta di un altro degli svariati sentieri che i fisici cercano di percorrere per ottenere comunque un unico risultato: la comprensione della natura della materia in condizioni di energia, temperatura e densità estreme. «Per avere spiegazioni certe abbiamo bisogno ancora di molti dati» conclude Tonelli. «Ma possiamo dire di essere entrati in una nuova fisica e in un nuovo mondo, che Lhc ci permetterà di indagare».
Al Cern collisioni di particelle a energie record
Primo passo in un mondo finora completamente sconosciuto *
ROMA - Collisioni di particelle alle energie più alte mai raggiunte al mondo sono state ottenute nel superacceleratore Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. Si tratta del terzo record raggiunto dalla gigantesca macchina nell’arco di poche settimane e ciò che è avvenuto segna il primo passo in un mondo finora completamente sconosciuto. A quanto si apprende, le collisioni sono avvenuta nella tarda serata di ieri all’energia record di 1.180 miliardi di elettronvolt (1,18 TeV) per fascio, per un titale di 2,36 TeV.
* Ansa, 09 dicembre, 09:54
L’acceleratore non parte
Il Big Bang resta un mistero
Quindici anni per costruire il tunnel sotterraneo di 27 km che dovrebbe spiegare l’origine e la costituzione dell’universo. Ma l’inaugurazione, l’estate scorsa, slittò a causa di un esplosione. Ora nuovi ritardi. E gli scienziati fuggono
di LUIGI BIGNAMI *
Un’immagine dell’acceleratore di particelle LHC ROMA - Ci sono voluti 15 anni di lavoro per costruire la più grande e più costosa macchina mai costruita per ricerche scientifiche. Si tratta dell’LHC, Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle più potente al mondo che si trova in una galleria sotterranea di 27 km di circonferenza, posta al confine tra Francia e Svizzera. Lo scorso mese di settembre vi era stata l’inaugurazione e la macchina da 6 miliardi di euro aveva iniziato a lavorare.
Il suo funzionamento avrebbe dato modo ad un gran numero di scienziati di trasformare un sogno in realtà: capire alcuni grandi misteri dell’Universo. Ma un’improvvisa esplosione bloccò la macchina dopo pochi giorni dall’accensione senza permettere alcun esperimento. Prima ancora di immettere tutta l’energia necessaria alle ricerche, infatti, si ebbe una improvvisa perdita di elio, che serve per tenere a bassissime temperature i cavi in niobio e titanio che in tali condizioni perdono ogni resistenza elettrica e diventano superconduttori. Purtroppo però, anche una piccolissima "perturbazione" presente, ad esempio, nelle saldature tra i cavi può causare un aumento di temperatura e la perdita di superconduttività. Ed è quello che è successo il 19 settembre, quando la giunzione tra due magneti vaporizzò in una cascata di scintille liberando l’elio. L’incidente obbligò lo spegnimento della macchina.
Anche se in un primo momento il guaio non sembrava grave, ben presto ci si accorse che si sarebbero dovuti rivedere oltre 5.000 collegamenti. Così dopo alcune date per la ripartenza si arrivò alla "certezza" che si sarebbe di nuovo acceso la macchina il prossimo settembre 2009. Ma ora anche questo appuntamento slitta a fine autunno o a inizio inverno. Sono più del previsto infatti, le prove necessarie prima di ridare il via al tutto. E rimane il mistero di quella esplosione. Tutti i magneti, infatti, erano stati collaudati alle altissime energie richieste dall’LHC e nessuno aveva dato problemi. Perché una volta posti nella macchina qualcuno abbia ceduto è ancora da chiarire. E non è certo che si potrà arrivare ad una spiegazione. Ora comunque quel che è importante è che si ridia il via.
Spiega Steve Myers, responsabile dell’Accelerator Division del Cern al New York Times: "Dopo i test che abbiamo eseguito pensiamo che potremo immettere con facilità 6,5 mila miliardi di elettronvolt, ma per raggiungere i 7mila miliardi di elettronvolt o più, sarebbero necessari ancora numerosi test e quindi ancora molto tempo". Alcuni ricercatori si dicono contenti se si arrivasse anche a soli 4 o 5mila miliardi di elettronvolt, l’importante è partire. Ma così facendo non si otterrebbero i risultati per cui la macchina è stata costruita.
Le alte energie infatti, sono richieste per permettere a particelle atomiche e subatomiche di scontrarsi a velocità prossime a quelle delle luce per ridare vita alle condizioni che si vennero a creare subito dopo il Big Bang. In tal modo si potrebbe trovare il Bosone di Higgs, una delle particelle previste dalle teorie della fisica, ma mai scoperta e che dovrebbe dare un senso alla massa dei corpi. Ma l’LHC dovrebbe togliere un velo anche alla "materia oscura", che compone il 24% dell’Universo, ma di cui non si conosce la composizione, all’esistenza o meno dell’antimateria e alla conferma o meno dell’esistenza di altre dimensioni.
Intanto alcuni ricercatori stanno disertando il grande progetto europeo, almeno temporaneamente, e stanno chiedendo di realizzare esperimenti presso la macchina concorrente, seppur meno potente, che si trova negli Stati Uniti, il Tevatron. Migliaia di scienziati avevano puntato tutti i loro finanziamenti sulle ricerche all’LHC, decine di dottorandi avevano scelto di realizzare la loro tesi sui risultati dell’acceleratore, ma ora sono tutti in stand-by almeno fino al prossimo inverno.
* la Repubblica, 5 agosto 2009
Le due celebrità a Ginevra per presentare "Angeli e demoni"
Occasione unica per visitare, con loro, il tunnel dell’acceleratore di particelle
Hanks e Howard nel bunker del Cern
Le strane nozze scienza-Hollywood
Alla scoperta dei luoghi in cui si svolge la prima parte della storia di Dan Brown
Il regista: "Rispetto al Codice c’è più adrenalina". E il Vaticano? "Non ha collaborato..."
dal nostro inviato CLAUDIA MORGOGLIONE *
GINEVRA - L’ascensore che porta un gruppo ristrettissimo di cronisti cinematografici alla scoperta del superbunker della scienza assomiglia a un normale montacarichi, con il ferro che cigola e l’atterraggio brusco. Ma non c’è nulla di ordinario in ciò che accade qui, nel cuore del Cern: il luogo di approdo, infatti, è l’enorme tunnel - situato centro metri sottoterra - che ospita il celebre acceleratore di particelle (in sigla Lhc, Large hadron collider). Ovvero il più imponente esperimento di fisica mai tentato, un megamacchinario che, secondo quanto assicurano i fisici del Centro, porterà l’uomo vicino ai segreti del cosmo. A un passo da quel Big bang da cui sarebbe nato tutto.
Uno strano "matrimonio". E dunque benvenuti in questo luogo magico, che apre le porte per un’occasione unica: questa trasferta al Cern di Ginevra dà l’occasione, a cui è invitato un gruppo di giornalisti provenienti da tutto il mondo, vede svolgersi un evento più unico che raro: il connubio tra scienza e Hollywood. E cioè nn’intensa due giorni nella sede del Centro organizzata dalla Sony Pictures, a base di fisica e cinema. Per presentare, in questo tempio della ricerca, il superkolossal della stagione: Angeli e demoni, dall’omonimo bestseller di Dan Brown, nelle sale dal 13 maggio. In cui torna la coppia vincente del Codice da Vinci: Ron Howard regista, Tom Hanks protagonista.
L’accoglienza delle star. E sono proprio Howard e Hanks (entrambi vincitori di Oscar) a fare gli onori di casa, qui al Centro: il regista col cappellino con la scritta Cern calcato sulla testa, il divo Tom ancora emozionato per la visita nel tunnel dell’Lhc. Con loro il direttore della struttura, Sergio Bertolucci: "E’ vero, per noi è del tutto inusuale ospitare Hollywood in casa nostra - ammette - ma visto che siamo esperti in collisioni...".
Scienza e romanzo. Ma perché scegliere proprio il Cern, per presentare Angeli e demoni? Chi ha letto il libro, ha già la risposta. Per chi non lo ha fatto, c’è da dire che il romanzo (pubblicato nel 1999) immagina che proprio dalla sede del Centro venga rubato un cilindro contenente antimateria, creato segretamente da uno degli scienziati. E dunque, tutta la prima parte della storia si svolge qui. Poi ci spostiamo in Vaticano: a compiere il furto, infatti, è stata un’antica setta scientista e antireligiosa, gli Illuminati, decisi a distruggere la Santa Sede proprio con l’antimateria: a tentare di impedirlo sarà Robert Langdon, aiutato da una scienziata italiana (l’attrice israeliana Ayelet Zurer) e dal carmerlengo Vaticano (Ewan McGregor). Nel cast c’è anche il nostro Pierfrancesco Favino. Tra libro e film però ci sono sostanziose differenze: a cominciare dal fatto che al cinema Angeli e demoni è un sequel del Codice, mentre Dan Brown lo ha scritto prima.
Parla il regista. Interpellato sul perché tornare al mondo del protagonista della vicenda, Robert Langdon, Howard risponde così: "E’ un eroe inusuale, che usa la conoscenza e non le armi - spiega - e dunque irresistibile". Ma attenzione: Angeli e demoni ha uno stile diverso dal film precedente. "La trama, qui, è molto più adrenalinica - prosegue - e così anche sullo schermo c’è più azione. Il tutto in un thriller originale, che combina vari elementi: teorie cospirative, mito, scienza". Uguale, invece, è stato - dopo la bufera scatenata all’uscita del Codice - l’atteggiamento di chiusura del Vaticano: "Ovviamente non ci avrebbero permesso di girare lì - conclude Howard - e abbiamo dovuto fare un lavoro straordinario sugli effetti speciali: chi guarda, non potrà mai immaginare di non trovarsi davvero nei luoghi simbolo della Santa Sede".
La visita nel supertunnel. Un’occasione più unica che rara. Perché - armati di casco giallo di protezione, e dopo innumerevoli controlli di sicurezza - i giornalisti non si limitano a visitare la sala comandi del Cern, come loro colleghi hanno fatto in altre occasioni. Ma vengono portati proprio giù, nella caverna che ospita l’acceleratore: per ammirare da vicinissimo questo immenso ammasso di metallo azzurro, in cui, al termine delle riparazioni in corso (ci fu un guasto lo scorso settembre, con ampia eco sui media) l’esperimento riprenderà. "Possiamo stare qui dentro proprio perché è in manutenzione - spiega la guida, il fisico tedesco Markus Nordberg - se fosse in funzione, la radioattività sarebbe insopportabile... a ottobre prossimo ripartirà". Poi la precisazione su Angeli e demoni: "Nella realtà l’lhc non ha nulla a che fare con l’antimateria, al contrario di quanto si dice nel libro. L’unica cosa vera è che noi, qui, cerchiamo quella che potremmo chiamare la particella di Dio... cosa accadde un attimo dopo dell’esplosione primordiale che ha dato vita al nostro universo". Un’immagine suggestiva, a sugellare queste strane "nozze" tra Hollywood e il Cern.
IL CERN E LE CENERI DELLA SCIENZA
Postato il Martedi 23 Settembre 2008 (7:15) di davide
Il Large Hadron Collider (LCH, un mezzo per far passare spese militari nel bilancio civile
DI DOMENICO CHIRICO
Etleboro *
“Senza energia l’uomo, semplicemente, non esiste”. Mark Twain
E’ stato definito il più importante esperimento della scienza contemporanea, l’esperimento che ci porterà tra le stelle, quello dell’acceleratore di particelle del CERN. L’istallazione del Large Hadron Collider (LHC) permetterà di raggiungere forme di energia mai conosciute prima, con la finalità di scoprire proprietà della materia finora teoriche, almeno per i cosiddetti scienziati ufficiali come Rubbia. Il mondo intero si è fermato attonito dinanzi allo spettacolo di una macchina dalla mole impressionante, senza proferire parola, anche perché la maggior parte delle persone non ha le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere un parere, se non ripetere a pappagallo ciò che ha sentito nei servizi del Tg1 e “Studio Aperto” sulle interviste improvvisate. In realtà, per chi ha memoria, questo sembra un film già visto, ed è altamente probabile che le finalità di questi esperimenti vadano al di là di quelle preposte, esattamente come avviene per tutti quegli esperimenti ad uso “civile”.
Un esempio su tutti è l’ITER, il progetto internazionale che avrebbe realizzato la fusione termonucleare. In un’ intervista rilasciata nel dicembre del 2005, Emilio del Giudice dichiarò il suo fermo punto di vista sull’ITER: “È uno dei mezzi surrettizi per far passare spese militari nel bilancio civile. Non a caso i paesi che già hanno la bomba all’idrogeno non investono nella fusione calda. Perché un reattore a termo-fusione offre un modo per studiare, senza destare sospetti, come si comporta un plasma di neutroni. Perché occorre sapere che non esiste una teoria matematica che spiega la bomba H, ma esistono una serie di “ricette” che hanno bisogno della messa in pratica per sapere se funzionano o meno. All’inizio hanno investito molto gli Stati Uniti, la Russia e la Gran Bretagna, fino al momento in cui hanno realizzato la bomba H. Da quel giorno in poi hanno perso l’interesse. A chi interessa invece ancora molto? Al Giappone e ai paesi europei, appunto, a quelli cioè che non hanno ancora l’ordigno a idrogeno. Quando avranno raggiunto lo scopo prefissato si disinteresseranno a loro volta degli eventuali benefici civili.”
Sembrano considerazioni logiche che possono ragionevolmente essere applicate all’istallazione del CERN, analizzando la questione sulla base delle informazioni sinora disponibili. Facciamo dunque il punto della situazione. Sappiamo innanzitutto che l’ LHC è costituito da oltre 1600 magneti superconduttori raffreddati ad una temperatura prossima allo 0 assoluto, cioè vicino al limite fisico dei -273,15 °C. L’impianto criogenico di LHC è il luogo massivo più freddo e più grande del mondo. Per permettere ai protoni di muoversi liberamente lungo il loro tracciato, il tunnel deve essere necessariamente portato in condizioni di vuoto assoluto. Tra gli scopi principali degli studi vi è quello di cercare, fra queste particelle, tracce dell’esistenza del bosone di Higgs (che diversifica e attribuisce la massa alle altre particelle) e di nuove particelle. Questo consentirà anche di scoprire l’energia e la materia oscura, che costituiscono il 95% dell’universo, nonché di rilevare se esistono dimensioni ulteriori alle tre spaziali e quella temporale, confermando la “Teoria delle Stringhe” ( si veda Fisica subatomica: la teoria delle stringhe ).
In prossimità dell’apertura in data 10 Settembre dell’impianto, numerose sono state le polemiche da parte di numerosi scienziati sull’eventualità di formazioni di buchi neri che avrebbero distrutto il pianeta, tanto da chiedere persino l’intervento della Corte Europea, che prontamente ha respinto queste polemiche. Non è dato sapere attraverso quali criteri i giudici sono arrivati a formulare una sentenza, dato che le affermazioni di entrambi gli schieramenti non sono altro che teorie, tanto che per confermarne alcune è stato costruito proprio l’LHC. Il punto è che certamente l’impianto è stato costruito a fronte di una spesa di miliardi di euro e certamente non può essere inutilizzato. Considerando il punto di vista economico, ci si può sbizzarrire con le diverse teorie accusando finanziatori e finanziati, soprattutto in un periodo di recessione come quello attuale, ma parlandone non si farebbe altro che cadere nell’ovvietà e nel qualunquismo sebbene le riflessioni possano ritenersi più che valide. Semmai è più interessante analizzare la questione scientifica e le contraddizioni in esse preposte: si cercano particelle sebbene esse non esistano, al di là di una “dualità quantistica” solo apparente, in virtù del fatto che tutto è costituito da onde d’energia in continua propagazione che si presentano come particelle solo all’atto di osservarle.
Essendo le proprietà dedotte dalla fisica quantistica più che accettate, la Teoria delle Stringhe è di fatto più che valida, anche se è bene notare che le “sole” 11 dimensioni, sono il frutto di una conoscenza limitata dell’universo, in conformità ai parametri immessi nel set di equazioni .
E’ giusto far notare che col progressivo incremento della conoscenza e di nuove forze ed energie, le equazioni verrebbero nuovamente riviste e le dimensioni rilevate ancora più numerose. La teoria verrebbe notevolmente ampliata, ma nei fatti non si giungerebbe ad una "nuova teoria" sull’universo, né a delle conoscenze eccezionalmente diverse rispetto a quelle già sappiamo. Resta il dato di fatto che l’universo è UNO, e tutto è connesso: nella sua totalità non può che essere considerata una singolarità (matematica) al pari del centro di un buco nero (in cui parametri come gravità e dilatazione temporale vanno all’infinito) e quindi tutto ciò che lo caratterizza non può che tendere all’infinito (ivi comprese il numero delle dimensioni). Inoltre, è noto che la genesi della materia avviene nel vuoto, e ciò è stato rilevato per via sperimentale anche in ambito ufficiale (anche se il senso di tale significato non è ancora noto): non c’è alcun Big Bang, ne’ primi istanti da rilevare.
Mettendo dunque da parte le motivazioni di "curiosità scientifica" dei finanziatori miliardari del progetto, la vera particolarità sta nell’impianto e nelle condizioni ambientali a cui esso porta. Chi avrà raccolto informazioni sulla Free Energy, avrà sicuramente sentito parlare dello ZPE (Zero Point Energy), ma non tutti hanno ben compreso a cosa fa riferimento. Quegli scienziati che in quasi completa segretezza sperimentano sulla Free Energy, hanno rilevato lo stato minimo di energia di un sistema quantistico, solo in un ambiente con due caratteristiche principali vuoto assoluto (o quasi) e temperatura zero assoluto (o quasi). Due condizioni che ritornano all’interno dei tunnel dell’LCH, in cui viaggiano i fasci di protoni e in cui quindi avvengono le fluttuazioni quantistiche che generano coppie di particelle e di anti-particelle. Non esiste un Big Bang, un inizio del tempo e dello spazio ne tanto meno una fine; l’universo è costituito a livello puntuale e nella sua totalità da vibrazioni di energia, di cui l’etere teorizzato da Tesla è solo la punta dell’iceberg. Ogni luogo dell’Universo ha in se le proprietà di generare energia e materia, non ha bisogno di alcuna esplosione primordiale. Le leggi che regolano la free energy sono semplicemente la componente costruttiva in antitesi ai processi termodinamici che portano al degrado di qualunque sistema, ed esse convivono in perfetto equilibro. Ogni essere vivente vive nel luogo delle infinite possibilità dove le risorse sono illimitate, è questo il più grande segreto, ciò che porta allafine di qualunque monopolio e di qualunque ricatto. E’ difficile comprendere le finalità ultime, ma sicuramente isolano nella loro totalità, da quelle preposte. Ancora una volta la verità sulle sperimentazioni e i loro risultati apparterranno come sempre ad una piccola elite e alla gente comune andranno solo le briciole, quel tanto che basta per giustificare le spese sostenute agli occhi dell’opinione pubblica.
*
Ing. Domenico Chirico
Fonte: http://etleboro.blogspot.com
Link: http://etleboro.blogspot.com/2008/09/il-cern-e-le-ceneri-della-scienza.html
17.09.08
Si inceppa la macchina della "fine del mondo"
Guasto al Cern, fermo per due mesi l’acceleratore di particelle
di PIERO BIANUCCI (La Stampa, 21/9/2008)
Incidente al Cern, almeno due mesi di stop per l’acceleratore di protoni LHC, il più grande del mondo, inaugurato a Ginevra il 10 settembre davanti a cinquecento giornalisti. E’ successo venerdì poco dopo mezzogiorno, ma la notizia è stata diffusa solo sabato pomeriggio. Una connessione elettrica tra due magneti superconduttori è andata in cortocircuito e il calore che si è prodotto ha «bucato» il circuito dell’elio liquido che serve a raffreddare i magneti a 271 gradi centigradi sotto zero. L’elio liquido si è così riversato in grande quantità nel tunnel a cento metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Nessun danno alle persone, non è certo la «fine del mondo» neppure in senso figurato. Sono malfunzionamenti piuttosto comuni in queste tecnologie estreme.
Però è un contrattempo sgradevole per vari motivi. Perché ci sarà un ritardo nell’avvio degli esperimenti. Perché la spesa per la riparazione non sarà lieve, anche se irrisoria rispetto agli otto miliardi del costo complessivo di LHC. Perché il 21 ottobre, quando è prevista l’inaugurazione «politica» di LHC con l’intervento di decine di capi di Stato, la gigantesca macchina non potrà funzionare. E infine anche per un motivo psicologico. Il 10 settembre aveva trovato ascolto la tesi di una sparuta minoranza di scienziati, secondo i quali LHC avrebbe potuto produrre minibuchi neri capaci di inghiottire la Terra intera. Ovviamente non è successo e non succederà niente del genere, ma su Internet già dilagano migliaia di blog che rilanciano paure e grida di allarme. LHC, Large Hadron Collider, è una pista circolare lunga 27 chilometri nella quale corrono in direzioni opposte fasci di protoni, le particelle che con i neutroni costituiscono i nuclei atomici.
I due fasci si scontrano in quattro aree sperimentali. E’ lì che i fisici sperano di trovare il «bosone di Higgs», detto anche «la particella di Dio» perché spiegherebbe l’esistenza di tutte le altre e quindi dell’universo stesso. Perché i protoni formino fasci sottili come un capello occorrono potenti magneti. Altri magneti servono a curvarne la traiettoria in modo che seguano la circonferenza del tunnel. I magneti che svolgono questo compito sono l’oggetto più freddo dell’universo: 1,9 Kelvin sopra lo zero assoluto, mentre lo spazio cosmico è a 2,7. Il raffreddamento, che serve a limitare il consumo di energia elettrica, si ottiene con elio liquido. E’ facile capire che una struttura formata da 1700 magneti distribuiti lungo 27 km, con parti ultrafredde e altre a temperatura ambiente, subisce forti stress per la diversa dilatazione dei materiali.
Nell’incidente di venerdì il cortocircuito ha causato uno sbalzo termico ben più violento, e il sistema di contenimento dell’elio ha ceduto. La riparazione sarà lunga perché il settore 3-4 della «pista» per protoni che ha subito il danno dovrà essere riportato a una temperatura normale, e dopo la riparazione occorrono parecchie settimane per ridiscendere a meno 271°C. Un problema simile aveva già ritardato quasi di un anno l’inaugurazione. «Quando è avvenuto l’incidente - fa notare James Gillies, portavoce del Cern - il fascio di protoni non era acceso e i tecnici al lavoro non hanno corso nessun rischio: le misure di sicurezza hanno funzionato alla perfezione». Ma basterà a far tacere gli epigoni di Nostradamus?
il caso
LE FRONTIERE DELLA SCIENZA
Parla Lucio Rossi, fisico che al Cern di Ginevra partecipa all’esperimento Lhc: «Scoprire il bosone di Higgs, la ’particella di Dio’, ci farà capire molto sulla formazione dell’universo. A noi scienziati il creato appare dotato di un ordine sorprendente: c’è chi vi vede solo il caso, ma io scorgo piuttosto un piano intelligente»
«Così indaghiamo il disegno di Dio»
DA PIACENZA BARBARA SARTORI (Avvenire, 13.09.2008)
«Poca scienza allontana da Dio, ma molta scienza riconduce a Lui » . La citazione è del biologo Pasteur, ma a riprenderla per tratteggiare la sua esperienza professionale è Lucio Rossi, fisico piacentino di stanza al Cern di Ginevra nell’ambito del progetto Lhc. Dal 2001 Rossi dirige la costruzione del grande acceleratore di particelle, che il 10 settembre ha aperto nuove frontiere nello studio della materia. C’è chi ha guardato all’esperimento con diffidenza, paventando addirittura la fine del mondo. E chi l’ha interpretato come uno schiaffo alla visione cristiana dell’origine del cosmo. Niente di più lontano dalla realtà, dice Rossi, che domenica torna a Piacenza per ricevere, nella cornice della Festa della cattedrale, il premio ’ Angil dal Dom’.
È un viaggio nell’infinitamente piccolo, quello aperto al Cern con il test del Large Hadron Collider, che ha aperto la caccia alla ’ particella di Higgs’, nota anche come ’ particella di Dio’. « Newton trovò che la massa è responsabile della gravitazione. Einstein che la massa è equivalente all’energia - sintetizza Rossi -. La particella di Higgs, ipotizzata una ventina d’anni fa, spiegherebbe l’origine della massa, quindi di molti fenomeni del mondo che ci circonda » .
Qualche esponente del mondo scientifico, però, preferisce parlare del bosone di Higgs come del ’ dio degli scienziati’ e considera il progetto Lhc una vittoria della scienza sulla fede. «Per me ci vuole più fede a non credere che a credere - ribatte invece Rossi -. Vedo una complessità tale nell’universo, governata peraltro da regole di simmetria di base molto armoniose, che mi sembra indichi più facilmente l’idea di un disegno intelligente piuttosto che di un grandissimo caso » .
Scienza e fede, insomma, non solo è un binomio possibile, ma necessario. « Credo che l’esistenza di un Dio Incarnato non ponga alcun problema alla scienza. Mi sembra anzi che sia la via più certa per affermare che noi siamo fatti strutturalmente per comprendere - e fino in fondo - il mondo fisico e la sua razionalità. Se Dio si è incarnato, allora il mondo, anche il mondo fisico, è importante da conoscere, ne vale davvero la pena, e non solo per ’ utilizzare’ le conoscenze. La scienza moderna è uno dei più bei fiori della valorizzazione che il cristianesimo ha fatto della razionalità greca, come papa Ratzinger sta spiegando, da Ratisbona in poi » .
Lo scienziato che studia l’infinitamente piccolo non ha dimenticato la lezione del padre agricoltore, con cui, da ragazzo, condivideva il lavoro nei campi. « Dall’agricoltura ho appreso che si semina, si suda, ma non si sa se si raccoglie. Il lavoro è indispensabile, ma non è quello che fa crescere i prodotti della terra. C’è di mezzo un disegno che non è del lavoratore. Così è anche nella ricerca scientifica. Una scoperta, un’innovazione tecnologica non sono solo dello scienziato. Intanto ci si appoggia sulla tradizione, senza la quale non si costruirebbe nulla. E poi - lo si avverte chiaramente se si è onesti - c’è qualcos’altro. Chi dice il caso, io dico un disegno » .
Scienza e pensiero.
Il Cosmo visto con gli occhi di Spinoza
Le scimmie intelligenti alla scoperta dell’universo
-di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 11.09.2008)
«La scimmia senza sforzo diventò uomo, che un po’ più tardi disgregò l’atomo». Così Raymond Queneau nel 1950. Ma qualche scimmia un po’ più intelligente è andata oltre, scoprendo tutto uno zoo di particelle elementari che, nella loro piccolezza, dovrebbero spiegare l’origine del grande Universo!
I fisici non si sono accontentati, però, di studiare le interazioni fondamentali che fanno sì che il mondo sia quello che è: sono alla ricerca, con una passione intellettuale degna di Spinoza, della Grande Unificazione per cui nelle condizioni primordiali del Cosmo tutte le forze erano una sola. Il tassello mancante è la massa (detto in breve, la materia), in quanto le teorie correnti non spiegano perché certe particelle sono molto più massive di altre. Queste differenze potrebbero venir spiegate introducendo, un nuovo campo in cui sarebbe immerso, come in un grande oceano, l’intero Universo; le particelle che «nuotano in questo mare » acquistano apparentemente massa, un po’ come i corpi immersi nell’acqua sembrano acquisire inerzia, e tutto dipende dall’intensità di tale interazione.
Speculazioni... non molto diverse da quelle di Newton, che immaginava che il corpo di Dio pervadesse il Tutto! Ma adesso possono essere controllate: come i campi elettromagnetici sono format i da fotoni (i «quanti di luce» di Einstein), così i campi di Higgs sarebbero formati da particelle battezzate «bosoni di Higgs »; e queste potrebbero venire osservate nei detriti delle collisioni prodotte appunto dall’Lhc. Se le cose andassero così, l’evento sarebbe festeggiato da grandissima parte della comunità scientifica.
Stephen Hawking spera invece che l’impresa non riesca. Come Pascal, è pronto a scommettere sulla capacità della natura di sorprenderci; come Popper, è convinto che impariamo soprattutto dalle sconfitte. Poiché si tratta di tecnologie ipersofisticate, l’impresa porterà comunque a importanti ricadute, anche a costo di qualche timore che compaia un «buco nero » che ci inghiotta tutti. Ma credo che per l’ennesima volta i profeti di sventura dovranno ammettere che l’Apocalisse è rimandata... «a data da destinarsi».
Ansa» 2008-09-10 15:41
AL LAVORO LA MACCHINA CHE VEDRA’ IL BIG BANG
ROMA - Un lancio verso l’esplorazione delle frontiere dell’infinitamente piccolo: la tensione che oggi ha accompagnato l’avvio dell’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra, è paragonabile a quella del lancio di una navetta spaziale.
L’obiettivo, in questo caso, è ancora più ambizioso perché una macchina così grande e potente promette di rivoluzionare la fisica: la scommessa è riuscire a capire quello che è successo negli istanti che hanno immediatamente seguito il Big Bang che ha dato origine all’universo, quando molto probabilmente sono entrate in gioco leggi fisiche molto diverse da quelle note oggi.
"E’ stato un lancio nel microcosmo", ha detto il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che ha seguito tutte le fasi dell’avvio dell’Lhc dalla sede centrale dell’istituto a Roma, in collegamento con il Cern. Un evento storico e "importantissimo", come lo ha definito il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) ed ex direttore generale del Cern, Luciano Maiani, che ha seguito le operazioni da Ginevra. Un successo pieno, quello ottenuto oggi, e vissuto fra un grande entusiasmo. Nella notte qualche difficoltà nell’apparato che controlla le bassissime temperature della macchina aveva creato qualche momento di tensione, che questa mattina ha comportato un leggero ritardo. Ma tutto è stato superato nel migliore dei modi.
Sotto gli occhi si tutto il mondo (dal Big Bang Breakfast organizzato in Gran Bretagna al pigiama party imposto agli Stati Uniti per il fuso orario) la macchina si è accesa e il primo fascio di protoni l’ha percorsa interamente, completando il giro dei 27 chilometri dell’anello dell’Lhc in poco meno di un’ora, alle 10,27. In realtà, ha spiegato il vicepresidente dell’Infn, Umberto Dosselli, i protoni sono stati iniettati a un’alta energia (450 miliardi di elettronvolt, GeV), tale da far raggiungere il 99% della velocità della luce e percorrere un intero giro in un decimo di secondo.
Ma per verificare che la macchina riuscisse a "vederle" in ogni punto del percorso, le particelle sono state bloccate in almeno otto diverse tappe da schermi simili a lastre fotografiche. Di volta in volta venivanno iniettati nuovi fasci (tutti relativamente piccoli, di qualche milione di protoni), ognuno dei quali bloccato in un punto diverso e misurato. Tappa dopo tappa, i protoni sono stati "visti" da tutti gli apparati dei quattro esperimenti dell’acceleratore (Alice, Cms Lhcb e Atlas).
Ma il primo "lampo" è esploso quando i potoni hanno incontrato il gas residuo nell’esperimento Cms. E’ stato un altro dei momenti emozionanti di questa lunga mattinata. Poi l’applauso e i brindisi che hanno salutato il completamento del primo giro in questo percorso a tappe. "Adesso - ha aggiunto Dosselli - si continua a iniettare nuovi fasci di particelle, in questa fase di rodaggio della macchina. L’Lhc funzionerà a regime fra qualche mese, nel quale una delle cose principali da fare sarà imparare a capire quando fascio diventa instaile e a gestirlo".
Le prime collisioni sono attese fra circa un mese e per l’inizio del prossimo anno l’ acceleratore più potente del mondo funzionerà a regime, alla temperatura di 7.000 miliardi di elettronvolt (TeV). Inizia l’ avventura dell’Lhc, che funzionerà almeno per i prossimi 25 anni, ma forse anche di più, visto che periodicamente sarà modificata e "ringiovanita".
Al via l’esperimento preliminare dell’istituto nucleare di Ginevra
Iniettati i primi fasci di protoni: le collisioni nei prossimi giorni
Cern, attivato l’acceleratore Lhc
"E’ andato tutto come previsto"
Le particelle hanno percorso senza problemi i 27 chilometri del tunnel
GINEVRA - L’acceleratore è stato attivato e tutto è andato come previsto: nessuna apocalisse all’orizzonte. L’esperimento preliminare del Lhc (Large Hadron Collider) del Cern di Ginevra è partito come da programma poco dopo le 9 e 30, con l’obiettivo di verificare il funzionamento del più grande acceleratore di particelle del mondo, costato oltre 6 miliardi di euro. Per "vedere" i primi protoni scontrarsi tra loro e ricreare così le condizioni del Big Bang, bisognerà invece aspettare qualche giorno, mentre la piena efficenza del Lhc sarà raggiunta solo nel 2009.
La prova. Nel test di oggi per la prima volta un fascio di particelle, composto da un miliardo di protoni, ha percorso interamente l’anello di 27 chilometri, senza però essere "accelerato" dai magneti superconduttori e quindi con una velocità inferiore a quella prevista per gli esperimenti, che sfiora quella della luce. La prova preliminare procederà con l’iniezione di un altro fascio in direzione opposta, utile perchè si possa verificare la perfetta percorribilità del tunnel in entrambi i "sensi di marcia". Durante l’esperimento si è osservato anche un "lampo", creato dall’interazione tra i protoni del fascio e quelli del gas rimasto nell’acceleratore.
Le reazioni. Il direttore del Cern Robert Aymar esprime soddisfazione per l’esito della prova. "Abbiamo due emozioni: la soddisfazione per aver completato una grande missione e la speranza di grandi scoperte davanti a noi’’.
Per il presidente del Cnr ed ex direttore del Cern, il test di oggi è "Estremamente importante. Con Lhc si apre una nuova generazione di macchine, inoltre - precisa Maiani - il principio delle collisioni che oggi viene applicato con Lhc è stato inventato in Italia negli anni ’60, a Frascati, nell’anello dell’accelleratore Ada da un fisico austriaco che all’epoca si era trasferito a fare ricerca da noi".
Sottolinea il contributo italiano anche il presidente dell’istituto nazionale di fisica nucleare Roberto Petronzio: "E’ una svolta per la scienza, oggi comincia un nuovo percorso e i 600 fisici italiani che hanno collaborato all’esperimento potranno dire di esserci stati".
Il problema tecnico. Nella notte, durante i preparativi per il test della mattina, il Cern aveva comunicato che erano stati rilevati alcuni "piccoli problemi elettrici", che non hanno tuttavia impedito lo svolgimento dell’esperimento preliminare.
I prossimi esperimenti. Nei prossimi giorni verranno iniettati nuovi fasci di protoni, che verranno poi accelerati e fatti scontrare. Sono 4 gli esperimenti principali su cui si concentreranno i circa 3.000 fisici coinvolti nel progetto: Atlas e Cms daranno la caccia al bosone di Higgs, la cosiddetta "particella di Dio" che ha dato massa a tutte le altre, Lhcb studierà le differenze tra materia e antimateria, mentre Alice si occuperà dello stato della materia nei primi istanti dell’universo.
* la Repubblica, 10 settembre 2008.
Tremila scienziati di trenta Paesi al Cern cercano la "particella di Dio"
Il tunnel di 27 chilometri viene inaugurato con una provasperimentale
Ginevra, è il giorno del Big Bang
"Ma non sarà la fine del mondo"
dal nostro inviato ELENA DUSI *
GINEVRA - È stato costruito per trovare la "particella di Dio", servirà a studiare l’origine dell’universo ma alcuni temono che scatenerà la fine del mondo. Al Cern di Ginevra dopo 15 anni di lavori sta per illuminarsi il più grande e ambizioso strumento scientifico del mondo. L’ora X dell’accensione è prevista oggi per le nove e mezza. "Finora abbiamo guardato per terra. Ora potremmo iniziare a guardare verso il cielo" sorride Guido Tonelli, fisico delle alte energie, in una vigilia che intanto sa di tramezzini e caffè in bicchieri di plastica.
E mentre qualcuno teme che il mondo finisca oggi inghiottito da un buco nero, per i 3mila scienziati di 30 paesi che qui stanno fissi di fronte agli schermi un universo sta per aprirsi, fatto di particelle dai nomi esoterici come quark, pioni, gluoni e muoni. Più la grande star della compagnia, che a partire da oggi potrebbe decidere di presentarsi in qualunque momento. Si chiama "bosone di Higgs" ed è stato soprannominato la "particella di Dio" perché tutti ci credono, molti la studiano, probabilmente si trova ovunque attorno a noi anche se nessuno l’ha vista.
Per arrivare alla particella di Dio si è scesi 100 metri sottoterra e si è scavato un tunnel che è un cerchio perfetto lungo 27 chilometri. Nel tunnel verrà lanciato un fascio di protoni che correrà a una velocità che è il 99,9999991% della velocità della luce. Nel gigantesco "autoscontro" fra i protoni si scateneranno energie che normalmente si registrano solo nello spazio. Sottoterra la materia disgregata per un istante tornerà allo stato che aveva alcuni miliardesimi di secondo dopo il big bang.
Sconvolgente e misterioso, il tunnel chiamato "Lhc" ha già suscitato la paura di un’apocalisse sotto forma di un buco nero che inghiottirà il mondo. "Non ci sarà nessun’Apocalisse. Ma se mi sbaglio, venitemi pure a cercare" scherza John Ellis, barba e capelli lunghi e bianchi. Ma anche chi dei fisici non si fida troppo, ha buoni motivi per dormire sonni tranquilli. Oggi infatti il tunnel verrà inaugurato solo con un esperimento preliminare. Nella "ciambella" verrà lanciato il primo fascio di protoni. Farà qualche giro di pista in un senso e poi nell’altro, verificherà che i magneti in grado di spingere le particelle a compiere il percorso 11mila volte in un secondo siano ben allineati e in piena efficienza.
Poi un brindisi chiuderà la giornata della più grande concentrazione di scienziati del mondo (c’è chi calcola che da Ginevra nei prossimi mesi passerà la metà dei fisici teorici e delle particelle del mondo). Mentre i rivali americani del "Fermilab" di Chicago seguiranno l’esperimento con un pigiama party.
I primi scontri fra protoni avverranno le prossime settimane e per vedere la macchina funzionare a pieno regime bisognerà aspettare il 2009. Mentre il fisico Stephen Hawking ha scommesso 100 dollari che il bosone di Higgs non verrà mai trovato, oggi la paura degli "uomini delle particelle" è piuttosto che si ripeta l’inconveniente di Lep (il nonno di Lhc), inaugurato nel 1989. Una lattina di birra lasciata nel tunnel rovinò il giro di prova del fascio di protoni. E a chi chiede quali sono le finalità pratiche di una cattedrale della scienza di queste dimensioni, costata 6 miliardi di euro, la maggior parte dei fisici risponde che proprio al Cern alla fine degli anni ’80 per gestire la gran mole di dati degli esperimenti fu inventato il world wide web.
* la Repubblica, 10 settembre 2008
Quanto ci piace l’apocalisse
di FRANCESCO MERLO *
SE SIETE vivi e ci state leggendo, allora siete già in un altro mondo, anche se con le stesse fattezze di quello che è appena finito. Ci hanno detto infatti che alla fine del buco nero, nel quale siete già precipitati, c’è la terra numero due, anello gemello di ricambio, solo apparentemente con gli stessi ingredienti, con lo stesso giornale che infatti avete ancora in mano e con gli stessi scienziati giocherelloni. Sono infatti loro che in un immenso laboratorio sotterraneo, sepolto a un centinaio di metri sotto il confine tra Francia e Svizzera, stanno sottoponendo il pianeta all’accanimento epistemologico, vale a dire alla verifica del big bang.
Secondo informazioni di primissima mano sappiamo che sulla terra che è scappata dalla terra mancherebbero soltanto i mutui e gli affitti da pagare, Bossi, Carfagna e Gelmini, i piatti da lavare, il mal di testa e le partite di calcio. E che il resto si vedrà. Di sicuro non ci può essere nuovo mondo senza fine del mondo. Anche gli Stati Uniti nacquero per scappare dalla guerra tra Cristo e antiCristo che in Europa annunziava appunto la fine del mondo. L’America fu il buco nero dei padri pellegrini, la rigenerazione dell’umanità.
Comunque sia, voi che state leggendo questo articolo, per favore, non dimenticate il cielo. Ogni tanto alzate gli occhi per vedere se lassù, senza chiasso, il sole non si stia spegnendo o al contrario non si stia espandendo. Non è infatti detto che il big bang venga avvertito con un rumore, potrebbe trattarsi di uno scuotimento convulsivo silenzioso. E dunque la fine del mondo potrebbe anche essere piacevole, come un nirvana, un’interruzione di coscienza appena percettibile, un sogno.
Se invece foste morti e non poteste leggerci, se domani non sarà insomma un altro giorno, ebbene allora sarebbe stata un’eutanasia o meglio una ’autanasia’, non un suicidio per mettere fine alla sofferenza, ma un suicidio per gioco scientifico, per un’esplosione che non serve a nulla se non a provare un’ipotesi cosmologica.
Non è la prima volta che viene annunziata la fine del mondo. Anzi, si può dire che la storia del mondo è piena di fini del mondo, ma certo questa sarebbe la prima fine del mondo tutta umana, una fine del mondo laica e secolare, senza sacre scritture, senza Dio e senza religioni, innescata in laboratorio, senza paradisi inferni e purgatori, senza giudizio universale in ordine alfabetico, ma anche senza l’angoscia delle processioni dell’ultimo giorno e delle utopie millenaristiche, senza esegesi bibliche o riscoperte di testi aramaici.
Convinti che ci sia un rapporto stretto tra la scienza e le convinzioni più bizzarre, tra i miti e le scoperte scientifiche, tra, per esempio, l’eliocentrismo copernicano e l’eliocentrismo precristiano..., convinti insomma che l’oscurantismo sia alla base del sistema solare o, se volete, che il sistema solare legittimi i miti oscurantisti, siamo tutti qui ad aspettarla davvero questa fine del mondo da ’Large hadron collider’ che un gruppo di scienziati ha messo in moto e che un altro gruppo di scienziati vanamente ha cercato di fermare.
Entrambi sono ossessionati dalla fine e dal cominciamento, proprio come lo erano gli antichi movimenti spiritualistici e millenaristici. Gli scienziati insomma hanno sostituito l’atomo alla preghiera. Sono loro i nostri stregoni, credono nella fine del mondo un po’ come Keplero che, grande scopritore dell’orba ellittica del pianeta, era, in realtà, un mistico del numero. Credeva nella perfetta geometria di Dio, descriveva i demoni e i mostri lunari ma proprio la sua passione oscurantista per la geometria gli fece prefigurare lo studio dei cristalli. Notò infatti che "ogni volta che smette di nevicare i primi fiocchi di neve prendono la forma di un asterisco a sei angoli. Perché non a cinque e neppure a sette angoli?".
E si sa che Voltaire decapitava lumache e che Spallanzani passò la vita ad amputare rospi. E se il fisico Charles Wilson non fosse stato un fanatico delle nuvole al punto di cercare di fabbricarle in laboratorio mai avrebbe messo a punto, senza volerlo, quel sistema per trattenere le particelle elementari che gli fruttò il Nobel.
Ecco: se non fossero fanatici della fine del mondo, "alla ricerca della particella di Dio" come ha appunto dichiarato James Gillies, il portavoce del Centro di Ricerche Nucleari di Ginevra, i nostri scienziati non avrebbero creato l’appuntamento odierno con l’Apocalisse. "I miei calcoli indicano che il rischio che un buco nero mangi il pianeta a causa dell’esperimento è serio", ha affermato il professor Otto Rossler, un chimico tedesco della Eberhard Karls University.
Insomma oggi 10 settembre 2008 abbiamo la prova finale che la scienza è il prodotto del suo contrario e che il progresso scientifico è fatto più di buio che di luce. Come sosteneva Leo Szilard, uno dei padri della bomba atomica, grande amico di Fermi e di Einstein. Nel 1963 Szilard abbandonò la scienza e cercò di convincere un miliardario americano a finanziare con trenta milioni di dollari all’anno una Fondazione per riunire i più grandi scienziati della Terra. Divisi in dieci comitati di dodici sapienti, essi avrebbero dovuto usare la scienza per fermare la scienza o quanto meno per ritardarla, ritardando così il ritorno delle tenebre e la nostra fine. E dunque, se l’anello gemello all’altro capo del buco nero fosse solo una balla, oggi nessuno di noi potrebbe testimoniare che il povero Szilard aveva ragione. Bang.
* la Repubblica, 10 settembre 2008.
Oggi a Ginevra l’acceleratore di particelle dovrebbe svelare l’origine dell’universo, trovando la «Particella di Dio»
La scommessa di Hawking anti Cern
Lo scienziato ha puntato cento dollari sul fallimento del test
«Sarebbe molto più emozionante un esito negativo»
Carlo Rubbia è stato l’ispiratore della super macchina. L’evento pone l’Europa all’avanguardia nelle ricerche sulla fisica
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 10.09.2008)
GINEVRA - «Ho scommesso cento dollari perché spero che la famosa "particella di Dio", il bosone di Higgs, non riesca a scoprirlo il nuovo superacceleratore che oggi si accende al Cern di Ginevra». La battuta di sfida è di Stephen Hawking, il più celebre scienziato vivente, il «maestro del tempo» e dei segreti dei buchi neri. Hawking ama le scommesse e non è la prima volta che perde. «L’acceleratore LHC sprigiona un’energia mai raggiunta prima e secondo le teorie dovrebbe essere sufficiente per trovare questa fantomatica particella la quale spiega la massa delle cose, e quindi rappresenta una misura fondamentale per decifrare la materia», ha spiegato lo scienziato alla Bbc. «Ma credo - ha aggiunto il celebre scienziato - che sarebbe più eccitante se non lo trovassimo, il bosone di Higgs. Dimostrerebbe che c’è qualcosa di sbagliato nelle nostre idee e che dobbiamo pensare di più per trovare altre spiegazioni. Per questo ho scommesso cento dollari che non lo troveremo». Hawking guarda con maggior fascino alla possibilità di scovare traccia della supersimmetria, anche questa prevista dai teorici, la quale dimostrerebbe che esistono delle particelle simmetriche a quelle che conosciamo. In realtà il superacceleratore ginevrino aprirà le porte di una nuova fisica che in parte nemmeno gli scienziati costruttori della macchina possono oggi immaginare. Anzi sperano caldamente di trovare molte cose di cui non hanno mai discusso o ipotizzato.
«La sfida di Hawking è molto interessante ed ha ragione per molti aspetti perché sarebbe affascinante non trovare il desiderato bosone, per le implicazioni che genererebbe» commenta Fabiola Giannotti che dirige Atlas, uno dei quattro esperimenti permessi dall’acceleratore, e con il quale si dovrebbe rivelare la particella di Dio. «Ma in questo caso - aggiunge Fabiola - dovremmo vedere qualche altra particella che ne fa le veci, oppure scoprirla in condizioni diverse da quelle immaginate. Di certo sarà comunque stimolante perché dimostrerebbe come la Natura sia molto più intelligente di noi». La Giannotti è alla guida dei 2.500 scienziati, provenienti da 37 nazioni dei cinque continenti, che da oggi si metteranno alla ricerca della famosa particella.
Intanto Hawking non perde occasione per demolire l’idea che la creazione di micro-buchi neri forse generati dalla macchina possa «distruggere » la Terra. «In natura - conclude - questi fenomeni accadono spontaneamente ogni giorno senza scatenare niente di terribile ». Al grande scienziato britannico che siede sulla cattedra di Newton si può credere perché è stato proprio lui a ipotizzare l’esistenza degli speciali e microscopici buchi neri che forse zampilleranno dalla macchina di Ginevra. Ed è proprio lui a spiegare con la teoria che porta il suo nome (Hawking’s ratiation) che evaporeranno all’istante senza guai.
La famosa «particella di Dio», punto centrale dell’esperimento che si avvia oggi nel superacceleratore del Cern di Ginevra - il cui ispiratore fu Carlo Rubbia- venne scoperta da Peter Higgs, scienziato scozzese, negli anni Sessanta e battezzata «particella di Dio» dal premio Nobel per la fisica Leon Lederman. Che venga trovata oppure no, come auspica Hawking, con l’acceleratore l’Europa si pone all’avanguardia nelle ricerche sulla fisica, retrocedendo al secondo posto gli Stati Uniti.
Big Bang a Ginevra, il terrore corre sulla Rete
di Cristiana Pulcinelli *
C’è chi ha trovato anche la citazione di Nostradamus adatta all’occasione. Recita così: «Tutti dovrebbero lasciare Ginevra. Saturno si trasforma da oro in ferro. Il raggio opposto al positivo sterminerà ogni cosa». Come al solito, potrebbe andare bene per qualsiasi evento, ma gli estensori del blog su cui si trova la citazione sono sicuri che l’astrologo francese quando, in pieno XVI secolo, faceva la sua profezia si stesse riferendo proprio all’esperimento che prenderà il via oggi al Cern.
Se qualcuno non fosse convinto, può guardare un disegno attribuito a Nostradamus (ma forse opera di suo figlio) in cui si vede un arciere che spara contemporaneamente due pesci in direzione opposta in quella che sembra la sezione di un tubo. Due pesci non sono esattamente due fasci di protoni ma le conoscenze della fisica delle particelle a quell’epoca non consentivano di fare meglio. Ancora qualche dubbioso? I bloggisti non demordono e fanno notare che «LHC dovrebbe cominciare a funzionare esattamente quando la popolazione mondiale raggiunge 6,66 miliardi di persone». E 666 non è forse il numero dell’anticristo?
Ma l’opposizione all’acceleratore di particelle più potente del mondo non è solo fatta da millenaristi un po’ folli. Nel grande calderone c’è posto per tutti, anche per associazioni contro la globalizzazione che dicono la loro contro gli «scienziati Frankestein». C’è poi il sito ufficiale dei cittadini che sono contrari a LHC (Lch Defense) il cui scopo principale è ricorrere ad azioni legali per bloccarlo. L’associazione basa le sue attività sulle affermazioni di Walter Wagner e Franck Wilczek, due fisici americani che scrissero una lettera a «Scientific American» già nel 1999 per allertare il mondo sui possibili pericoli che l’attività degli acceleratori di particelle avrebbe provocato. Le argomentazioni sono quelle riprese nei giorni scorsi: lo scontro tra protoni ad altissima energia può provocare la formazione di micro buchi neri che potrebbero inghiottire la Terra, ma anche di «strangelets», materia diversa da quella che conosciamo. Il Cern risponde con un rapporto sulla sicurezza di LCH stilato nel 2003: i micro buchi neri, seppure si dovessero formare, si disintegrerebbero immediatamente, mentre gli strangelets si sarebbero dovuti produrre già in altri acceleratori di particelle, cosa mai avvenuta.
Ma la guerra in Rete si combatte soprattutto a suon di filmati. C’è ad esempio quello che si trova sul sito Lhc Defense che termina mostrando le immagini di una Terra progressivamente inghiottita dall’oscurità. La risposta viene da un filmato prodotto da alcuni fisici del Cern che, a ritmo di rap, spiegano cosa fa e perché non è pericoloso LHC. C’è poi chi lascia filmati-testimonianza sulla civiltà umana e su come sia stato bello vivere sulla Terra. Della serie: non si sa mai.
E su YouTube si può trovare il filmato dal significativo titolo: «Chi controlla la scienza?» dove si ascolta (in spagnolo) Otto Roessler, il biochimico tedesco che ha chiesto alla Corte europea per i diritti dell’uomo di fermare l’esperimento di Ginevra, che spiega le sue ragioni. Sul sito del quotidiano inglese «Guardian» è apparso un articolo su questo tema in cui si chiedeva il commento dei lettori. Si sono aperte le cateratte del pessimismo: «Se il mondo finirà non avremo perso niente». O ancora, se i micro buchi neri falliscono «ci penserà il buco nero della nostra civiltà che succhia ogni giorno la vita a 200 specie viventi».
* l’Unità, Pubblicato il: 10.09.08, Modificato il: 10.09.08 alle ore 12.07
Ansa» 2008-09-09 21:02
GINEVRA, POCHE ORE ALL’OPERAZIONE BIG BANG
ROMA - Ancora poche ore e il gigante degli acceleratori di particelle si ’’svegliera’’’: il primo fascio di protoni percorrera’ i 27 chilometri dell’anello del Large Hadron Collider (Lhc) mercoledi’ 10 settembre.
Tutto sta procedendo senza intralci e fanno sorridere le ipotesi catastrofiste dei giorni scorsi, mentre cresce di ora in ora l’attesa di quest’ evento fra i ricercatori del Cern di Ginevra.
’’Alcuni di noi stanno lavorando da quasi vent’anni a questo progetto e adesso siamo pieni di speranze, c’e’ un clima molto bello’’, dice la fisica Maria Curatolo, responsabile dei fisici italiani per Atlas, uno dei quattro grandi esperimenti che saranno condotti nell’Lhc. ’’I test di iniezione partiti in agosto si sono conclusi e tutto e’ andato bene’’, prosegue.
Ora, finalmente, si procedera’ alla fase successiva: ’’un volta iniettati nell’ acceleratore, i fasci di particelle saranno fatti circolare in tutto l’anello’’. Inizialmente l’intensita’ dell’energia sara’ piuttosto bassa rispetto a quella prevista a regime: 450 Gev (ossia 450 miliardi di elettronvolt), che in breve tempo saranno portati a cinque TeV (5.000 miliardi di elettronvolt) e quindi a sette TeV (7.000 miliardi di elettronvolt).
’’In questi giorni - prosegue Curatolo - sono in corso tutte le verifiche, che continueranno fino all’ultimo momento. Tutto e’ sotto controllo e sappiamo che il 10 settembre l’attenzione del mondo sara’ puntata sull’acceleratore’’.
E intanto, aggiunge, ’’e’ gia’ una grande soddisfazione vedere che e’ stata realizzata e che sta funzionando una macchina che rappresenta una vera e propria frontiera della tecnologia’’. Tutti, al Cern, sono consapevoli del fatto che l’acceleratore Lhc e’ una macchina complessa e difficile. ’’proprio per questo motivo negli ultimi anni c’e’ stato qualche ritardo e la data prevista per l’avvio del funzionamento e’ slittata piu’ volte. Ma adesso finalmente tutto e’ pronto e siamo tutti in attesa’’.
Speranza e fiducia sono gli stati d’animo piu’ diffusi, quelli che traspaiono in modo sempre piu’ evidente: ’’Siamo tutti speranzosi. Sappiamo che gli scienziati che lavorano alla macchina anno fatto moltissimo e adesso situazione e’ arrivata a punto finale. Siamo davvero fiduciosi che adesso e’ iniziata la fase che aspettavamo da tanto tempo e nella quale potremo prendere tutti i dati necessari per esplorare un nuovo orizzonte fisica.
LHC, parte il viaggio verso le origini dell’universo
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 08.09.2008)
TRA DUE GIORNI prova di funzionamento per la macchina più potente costruita dall’uomo. Un’impresa durata 14 anni che impegna 10.000 scienziati. Ci farà capire come si è formato il mondo che ci circonda?
Ci siamo: tra due giorni sapremo se LHC funziona. Mercoledì 10 settembre un primo fascio di protoni farà un giro di prova nell’acceleratore di particelle più potente del mondo. Chi sta lavorando alla costruzione di questa macchina da 14 anni proverà un tuffo al cuore. Ma anche per noi che seguiamo l’avvenimento da spettatori l’emozione sarà forte.
LHC è un progetto del Cern. Il suo nome per esteso è Large Hadron Collider. Large perché è grande, così grande che i fisici sono convinti che una macchina così grande non verrà costruita mai più. Hadron perché accelera protoni e ioni, particelle della materia che rientrano nella categoria degli adroni. Collider perché queste particelle vengono fatte collidere, ovvero scontrare tra loro.
Com’è fatto
A 100 metri sotto il livello del suolo, LHC corre a cavallo tra la Svizzera e la Francia in un tunnel circolare lungo 27 chilometri. Il tunnel era stato costruito per il vecchio acceleratore del Cern, il Lep, che è stato smantellato nel 2000. LHC però è 100 volte più potente del Lep. Al suo interno 2 fasci di particelle circoleranno in direzioni opposte in un vuoto paragonabile a quello dello spazio intergalattico e a una velocità pari al 99,9999991 % di quella della luce. Per ottenere questo risultato LHC utilizza 9000 magneti il cui scopo è mantenere i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello e far curvare questi fasci. I magneti lavorano al freddo, la temperatura all’interno di LHC è la più bassa che potrete trovare nell’universo: -271 gradi Celsius. Si calcola che se LHC utilizzasse magneti tradizionali dovrebbe misurare 120 chilometri per raggiungere la stessa energia. In quattro punti della circonferenza i fasci vengono fatti scontrare: lì si aprono enormi caverne che ospitano gli esperimenti, ovvero i rivelatori di particelle: ATLAS, CMS, ALICE e LHCb. Anche qui le dimensioni sono enormi: ATLAS è una macchina lunga 46 metri e alta 25, come mezza cattedrale di Notre Dame, mentre il magnete centrale di CMS contiene più ferro della Torre Eiffel.
Cosa cerca
LHC accelera i protoni e gli ioni per poi farli scontrare ad altissima velocità. Nello scontro nascono moltissime particelle che vengono registrate dai rivelatori e analizzate dai fisici. Ma cosa ci possono rivelare queste particelle? Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto. I fisici sperano che LHC ci permetta di provarne l’esistenza. Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte, c’è il problema della materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni (le tre conosciute più il tempo) siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang, l’evento che 14 miliardi di anni fa portò alla genesi dell’universo. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo.
Chi partecipa
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento ATLAS non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. Il progetto LHC impegna nel suo complesso oltre 10.000 scienziati e ingegneri da tutto il mondo. Oltre ai fondi provenienti da moltissime nazioni. I suoi costi, del resto, sono elevati: nel marzo 2007 si calcolava che solo la macchina dell’acceleratore sarebbe costata 3 miliardi di euro, ma le spese sono poi salite. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa. L’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC. Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
I pericoli
Benché la concentrazione di energia nella collisione delle particelle sia la più alta prodotta in laboratorio, in termini assoluti l’energia sprigionata è molto più bassa di quella con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Tuttavia, LHC riproduce la densità di energia che esisteva pochi istanti dopo il Big Bang. Per questo ci si riferisce alle collisioni come a dei mini Big Bang.
Secondo alcune teorie, nelle collisioni tra particelle possono prodursi dei piccoli buchi neri. Se anche così fosse, dicono i fisici, questi mini buchi neri evaporerebbero molto presto lasciandosi dietro solo radiazioni. E per avvalorare la loro tesi fanno notare che anche i raggi cosmici, che hanno molta più energia di quella sprigionata da LHC, potrebbero produrre buchi neri, ma nessuno ha mai assistito a questo fenomeno. Il rilascio di radiazioni invece è inevitabile, ma al Cern assicurano che i raggi prodotti nelle viscere della terra non raggiungeranno la superficie.
Ansa» 2008-09-07 13:30
CONTO ALLA ROVESCIA TEST LHC, PER ESPERTI ZERO RISCHI
ROMA - La Terra non corre alcun rischio di essere distrutta dal test che avrà luogo al Cern di Ginevra il 10 settembre prossimo quando nel più potente acceleratore di particelle del mondo, Lhc, sarà fatto circolare il primo fascio di protoni.
A sostenerlo sono il presidente dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare, Roberto Petronzio e il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Infn), Luciano Maiani, che è stato direttore generale del Cern dal 1999 al 2003. Con la decisione della Corte Europea dei Diritti Umani di respingere il ricorso presentato da un gruppo di scienziati, secondo i quali potrebbe crearsi un mini buco nero capace di risucchiare il nostro pianeta, parte così il conto alla rovescia ufficiale. L’Infn oltre ad aver partecipato alla realizzazione di Lhc, con i suoi scienziati partecipa ai test, per i quali copre anche ruoli di responsabilità internazionali. Petronzio precisa che, in ogni caso, il rischio non riguarda ciò che avverrà il 10, quando non vi saranno scontri di particelle ma verrà immesso nella macchina il primo fascio di protoni che sarà fatto girare nell’acceleratore.
In merito ai test successivi, quando fasci di particelle saranno fatti scontrare ad altissime temperature per ricreare le condizioni del Big Bang, in base alla relatività di Einstein, sottolinea Petronzio, non vi è alcun pericolo. "Già nel 2003 - ha spiegato Petronzio - il Cern ha creato un gruppo di valutazione per la sicurezza di Lhc che ci ha rassicurato sulla sicurezza degli esperimenti prodotti nell’acceleratore.
E lo stesso parere è stato espresso anche dal gruppo di scienziati Scp Scientific Policy Committee, di cui fanno parte premi Nobel per la Fisica che esprime valutazioni scientifiche per il Consiglio del Cern". Se questo non bastasse, prosegue Petronzio, la prova maggiore che confuta la teoria del rischio buco nero sono le continue, innocue, collisioni di alte energie che avvengono nell’Universo, come i raggi cosmici che colpiscono anche la Terra.
L’assenza di rischio dai test di Lhc, è sottolineata anche da Maiani. "E’ stato giusto porsi il problema - ha detto - ma il problema non ha un fondamento tale da indurre preoccupazioni. Dal punto di vista scientifico, invece, sono pienamente convinto che i risultati dell’esperimento saranno nel senso positivo".
ATTESA SENZA INTRALCI AVVIO ACCELERATORE - Ancora pochi giorni e il gigante degli acceleratori di particelle si "sveglierà": il primo fascio di protoni percorrerà i 27 chilometri dell’anello del Large Hadron Collider (Lhc) mercoledì 10 settembre. Tutto sta procedendo senza intralci e fanno sorridere le ipotesi catastrofiste dei giorni scorsi, mentre cresce di ora in ora l’attesa di quest’ evento fra i ricercatori del Cern di Ginevra. "Alcuni di noi stanno lavorando da quasi vent’anni a questo progetto e adesso siamo pieni di speranze, c’é un clima molto bello", dice la fisica Maria Curatolo, responsabile dei fisici italiani per Atlas, uno dei quattro grandi esperimenti che saranno condotti nell’Lhc. "I test di iniezione partiti in agosto si sono conclusi e tutto è andato bene", prosegue.
Mercoledì 10, finalmente, si procederà alla fase successiva: "un volta iniettati nell’ acceleratore, i fasci di particelle saranno fatti circolare in tutto l’anello". Inizialmente l’intensità dell’energia sarà piuttosto bassa rispetto a quella prevista a regime: 450 Gev (ossia 450 miliardi di elettronvolt), che in breve tempo saranno portati a cinque TeV (5.000 miliardi di elettronvolt) e quindi a sette TeV (7.000 miliardi di elettronvolt). "In questi giorni - prosegue Curatolo - sono in corso tutte le verifiche, che continueranno fino all’ultimo momento. Tutto è sotto controllo e sappiamo che il 10 settembre l’attenzione del mondo sarà puntata sull’acceleratore".
E intanto, aggiunge, "é già una grande soddisfazione vedere che è stata realizzata e che sta funzionando una macchina che rappresenta una vera e propria frontiera della tecnologia". Tutti, al Cern, sono consapevoli del fatto che l’acceleratore Lhc è una macchina complessa e difficile. "proprio per questo motivo negli ultimi anni c’é stato qualche ritardo e la data prevista per l’avvio del funzionamento è slittata più volte. Ma adesso finalmente tutto è pronto e siamo tutti in attesa". Speranza e fiducia sono gli stati d’animo più diffusi, quelli che traspaiono in modo sempre più evidente: "siamo tutti speranzosi. Sappiamo che gli scienziati che lavorano alla macchina anno fatto moltissimo e adesso situazione è arrivata a punto finale. Siamo davvero fiduciosi che adesso è iniziata la fase che aspettavamo da tanto tempo e nella quale potremo prendere tutti i dati necessari per esplorare un nuovo orizzonte fisica.
Il 10 settembre è in programma il Large Hadron Collider
Secondo alcuni scienziati "si rischia la fine del mondo"
Il rap degli scienziati
per il test sul Big Bang
Il Cern spiega in musica perché non bisogna avere paura
di MARINA ZENOBIO *
A pochi giorni dal discusso test del Large Hadron Collider (Lhc) a Ginevra, gli scienziati più giovani del CERN (Centro europeo per la ricerca) hanno messo in rete un video che a tempo di rap racconta l’esperimento e rassicurare la gente.
ASCOLTA IL RAP DEGLI SCIENZIATI
Perché le particelle elementari presentano masse diverse? Sappiamo che il 95% della massa dell’universo è costituita da materia diversa da quella ordinaria. Di che si tratta? In altre parole, cosa sono la materia e l’energia oscura? In termini per non addetti ai lavori, come ha avuto inizio l’universo? A queste ed altre domande i fisici di tutto il mondo sperano di trovare risposte esaurienti il 10 settembre.
In un tunnel di 27 chilometri di circonferenza, scavato tra 50 e 150 metri sotto terra tra le montagne del Giura francese e il lago di Ginevra in Svizzera, l’Lhc (Large hadron collider), il più grande e potente acceleratore di particelle esistente al mondo costato 6 miliardi di euro, farà scontrare due fasci di particelle atomiche che viaggiano in direzione opposte e ad altissima velocità (oltre il 99,9% della velocità della luce) generando temperature che supereranno un trilione di gradi Celsius (100 mila volte più alta di quella che esiste al centro del sole) e una pioggia di nuove particelle che verranno studiate dai fisici. In questo modo gli scienziati sperano di individuare le particelle dette bosoni di Higgs, che, per ora solo in teoria, avrebbero dato massa ad ogni altra particella esistente.
La collisione avverrà in quattro punti, in corrispondenza di quattro caverne in cui il tunnel si allarga in altrettante sale, o stazioni sperimentali, che ospitano le sedi dei rivelatori dei principali esperimenti di fisica delle particelle programmati dal Cern. E’ infatti il Centro europeo per la ricerca nucleare, con sede a Ginevra, alla guida del più grande, ambizioso e costoso test scientifico di tutti i tempi, finanziato da venti paesi europei più gli Stati uniti ma che sta facendo discutere tra loro ricercatori di tutto il mondo.
Un gruppo di studiosi contrari all’esperimento, preoccupati dai rischi che potrebbe comportare il ricreare le condizioni che esistevano una frazione di secondo dopo il big bang che ha dato origine all’universo, qualche tempo fa si era rivolto alla Corte europea dei diritti umani denunciando gli Stati sponsor del progetto di violare il diritto al rispetto della vita privata e familiare, e chiedendo quindi la sospensione del test.
Il ricorso - comunque respinto - parla di mondo a rischio distruzione, di esperimento che potrebbe addirittura creare un mini buco nero che, nel giro di quattro anni, aumenterà di potenza e dimensioni fino a risucchiare in sé il pianeta stesso. Per fortuna questi scenari apocalittici sono molto lontani dalla realtà, anche perché - seppur in tono minore - è da trent’anni che si fanno test simili senza che siano state registrate conseguenze particolari.
Secondo il portavoce del Cern James Gillies, il ricorso non ha introdotto argomenti che non siano stati già stati esaminati in passato e se questi esperimenti fossero pericolosi già lo si saprebbe. Al Centro europeo per la ricerca nucleare sono convinti che non c’è nessun motivo per temere che la messa in opera dell’Lhc possa dar vita ad un buco nero, anche perché in natura - come quando i raggi cosmici colpiscono la terra - si producono continuamente collisioni di energia, persino più forti di quelle che saranno prodotte artificialmente dall’acceleratore.
Un gruppo di ricercatori si era appellato alla Corte europea dei diritti dell’uomo
Secondo gli oppositori l’acceleratore di particelle potrebbe generare un buco nero
Lhc, via libera da Strasburgo "L’esperimento vada avanti"
Dai giudici no all’appello. Il 10 settembre il test a Ginevra *
STRASBURGO - Via libera anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo all’esperimento del Cern che, grazie all’accelleratore "Large hadron collider" (Lhc), cercherà di riprodurre le condizioni immediatamente successive al Big Bang che ha generato l’universo. I giudici si sono pronunciati dopo la denuncia di un gruppo di ricercatori, convinti che il test genererà un buco nero in grado di risucchiare il pianeta.
La causa. Gli oppositori dell’esperimento, guidati da Markus Goritschnig, si erano rivolti alla Corte di Strasburgo, chiedendo che venissero applicate misure di blocco nei confronti dei venti paesi membri del Cern, il Centro europeo per la ricerca nucleare responsabile del progetto. Secondo Goritschnig e gli altri, gli Stati che collaborano al progetto sarebbero responsabili della violazione dell’articolo 2 e dell’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti umani, ovvero il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Corte ha tuttavia ritenuto che nessuno di questi articoli fosse stato violato dando così il via libera definitivo all’esperimento.
Gli esperti. Sull’apocalisse paventata dagli oppositori, si è espresso anche il mondo della scienza italiano. E’ sicuro del buon esito dell’esperimento il presidente dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare Roberto Petronzio: "Questi scenari apocalittici non hanno alcun riscontro reale. Da Lhc non arriva nessun pericolo. L’allarme lanciato è basato su congetture e ipotesi e non su riscontri reali". Stessa posizione anche per il presidente del Cnr ed ex direttore generale del Cern Luciano Maiani: "L’esperimento è da considerare a rischio zero, relativamente a quanto quest’espressione possa essere utilizzata in fisica: è stato giusto porsi il problema ma esso non ha un fondamento tale da indurre preoccupazioni".
Il test. Il primo utilizzo dell’LHC, il più grande accelleratore di particelle mai costruito, con un diametro di 26 chilometri e costato circa 6 miliardi di euro, si terrà come da programma il prossimo 10 settembre al Centro di ricerche nucleari di Ginevra. La speranza degli scienziati è quella di individuare il bosone di Higgs, particella responsabile - almeno in teoria - di aver dato massa a tutte le altre.
* la Repubblica, 1 settembre 2008.
ORIGINE DELL’UNIVERSO... MA CHI SE NE FREGA!!!
È mai possibile che in nome della scienza si rischi tanto? Cosa e a chi importa dell’origine della materia!? Forse ai miliardi di abitanti del terzo mondo che hanno come unico pensiero trovare un tozzo di pane e un bicchiere d’acqua? O forse importa ai centinaia di milioni di esseri umani dei paesi ricchi occidentali che di acceleratori nucleari, particelle e atomi non se ne interessano minimamente!? Cosa è una democrazia? L’occidente bacchetta e da lezioni teoriche e demagogiche di democrazia in giro per il mondo e poi non s’interessa di sapere se ci sono miliardi di persone contrarie ad un esperimento di questa portata? Noi "comuni mortali" veniamo informati del rischio di un buco nero che risucchia tutto il pianeta soltanto 10 giorni prima e nessun governo prende una posizione? Ma chi sono questi scienziati che si alzano al di sopra di "Dio" e decidono il destino del mondo per tutti quanti. Chi li ha autorizzati? Ci hanno almeno avvertito di quanto stavano per sperimentare?! Non importa se il rischio sollevato da alcuni scienziati più coscienziosi sia anche solo dello 0,000000001%. Se c’è comunque un minimo rischio una cosa così va fermata subito! Anzi io propongo anche una denuncia collettiva nei confronti dei responsabili di questa pazzia. Vadano un po’ al fresco a meditare se mettere a repentaglio la vita di miliardi di persone, animali e piante non sia la cosa peggiore che sia mai stata partorita dalla mente umana! L’estinzione di massa credo sia un prezzo un po’ troppo alto da pagare in nome della scienza. FERMATELI! Il segreto dell’origine dell’universo è dentro ognuno di noi.
A che serve una canzone? O un quadro? Un film? Contribuisce alla ricerca sul cancro un romanzo? E un nuovo videogioco? Una consolle di gioco? Una bella fotografia? La divina commedia? Una scultura di Rodin? Allora rinunciamo a tutte queste cose?
Che cosa significa questo ipocrita e ridicolo utilitarismo?
La ricerca teorica produce Conoscenza, che dovrebbe essere il massimo fine dell’uomo , perché la conoscenza emancipa.
Se tutti quelli che, leggendo le ecolalie di qualche "giornalista" si sono lasciati convincere dalle sue cazzate, avessero avuto un minimo di conoscenza scientifica, si sarebbero sottratti all’umiliazione intellettuale di scrivere sciocchezze, non si sarebbero fati prendere per i fondelli, sarebbero stati più liberi, perché avrebbero saputo.
Invece non solo non sanno nulla ma vorrebbero far sprofondare la Terra nella stessa ignoranza in cui vivono loro, più o meno ignari, più o meno fieri di non sapere...
www.paesaniniland.blogspot.com
Paragonare l’arte ad alcune follie della scienza è veramente disgustoso! Ma come ti permetti?! Qui l’unico ignorante mi sa che sei tu che offendi e non rispetti il pensiero del prossimo dando dell’ignorante a persone semplicemente preoccupate di un malattia mai debbellata dal pianeta e chiamata energia nucleare.
Gli scienziati giocavano alle divinità, si sentivano onnipotenti e fremevano d’orgoglio contemplando le colossali bolle di fuoco nei cui vortici, a dieci milioni di gradi, si plasmava la materia come nel caos primigenio. A spese dell’intero genere umano, su cui piovevano tonnellate di scorie radioattive, i tecnocrati potevano far scoppiare a dozzine le loro bombe, disponendo di finanziamenti statali enormi. Alla fine del 1955, gli USA investivano 12.000 milioni di dollari nell’industria atomica, che impegnava 130.000 tecnici ed aveva 10 stabilimenti per la produzione di uranio arricchito13. Per tentare di dare una parvenza di umanità a questo abisso di follia, fu diffusa e imposta tramite una propaganda martellante la vergognosa menzogna dell’atomo di pace. Si diceva che l’energia nucleare sarebbe stato un potentissimo alleato dell’uomo, uno strumento benefico di straordinaria efficacia per domare la natura e migliorare la vita. Nessuna di queste idiote previsioni si è avverata. Questa visione pacifica, persino idilliaca, dell’energia atomica è irreale, lo è sempre stata e gli addetti ai lavori lo hanno sempre saputo, anche se il solo supporto della tesi era un’eresia. Troppi interessi legavano fin dagli inizi delle ricerche atomiche gli scienziati al potere, ed il potere, nella storia della tecnologia nucleare, che si è sempre espresso militarmente. La costruzione della prima bomba atomica è presentata come la conseguenza di un uso perverso della scienza. È ormai popolare la leggenda di una amara rassegnazione degli scienziati del Progetto Manhattan alle tragiche ragioni belliche: “..per mettere fine alla guerra, fu inevitabile usare la bomba A. Un necessario fine giustificò un terribile mezzo.” Tutto ciò è falso. La bomba atomica fu entusiasticamente, caparbiamente voluta dai fisici atomici. Nel bel mezzo della discussione se impiegare o no un ordigno che, in un attimo, avrebbe spazzato via migliaia di persone, quel brav’uomo mite e sorridente di Enrico Fermi sbottò infastidito: “Lasciatemi in pace coi vostri rimorsi di coscienza! È una fisica così bella!”. Questo è il livello di sensibilità morale dello scienziato tecnocrate che sa solo prevaricare con la violenza della finta conoscenza il prossimo. Solo oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, possiamo accedere ad una quantità di documenti prima top-secret che mostravano tutta la allucinante pericolosità dei cosiddetti esperimenti. Ma come spiegare le teorie rassicuranti di scienziati non governativi? In questi casi si deve tener presente la formazione accademica di questi studiosi. La loro cultura è sempre stata tecnocratica. Essi sono stati educati nella fede ad alcuni assiomi tecnocratici: la scienza e la tecnologia sono benefiche, la ricerca scientifica giustifica e deve ammettere ogni esperimento, la santa causa del progresso assolve ogni peccato e merita ogni sacrificio. Per questi “tecnocrati in buona fede”, gli allarmi degli scienziati ambientalisti sono una snobistica forma di oscurantismo, che esagera, demonizza, fraintende, enfatizza, sparge sfiducia e discredito. Gli scienziati tecnocrati non hanno categorie mentali capaci di considerare, ad esempio, la sottomissione alla grandezza del pianeta di cui sono ospiti. Per costoro, le astrazioni teoriche del calcolo sono altrettanti lasciapassare per le avventure più rischiose, per le decisioni più arbitrarie: accadde cinquant’anni fa con l’ubriacatura atomica; sta accadendo nuovamente oggi. Gli scienziati di Los Alamos che giocavano con le bombe atomiche negli anni Quaranta avevano ideato una “simpatica” espressione per definire il loro lavoro: “stuzzicare la coda del dragone”. Essi erano consapevoli del mostruoso potere distruttivo che manipolavano, eppure tutto questo non li atterriva; anzi ci scherzavano sopra, sicuri che la loro scienza avrebbe tenuto a bada ogni dragone. I risultati di questa superbia idiota sono gli orrori nucleari con cui tutti devono convivere da decenni e per chissà quanto tempo ancora. I tecnocrati non sanno vedere al di là delle loro teorie; non possono capire nulla che non sia compreso nei loro libri; non sono in grado di prevedere niente che non sia previsto nei simboli delle loro formule. Ciò che essi ancora non sanno, deve inevitabilmente adattarsi agli schemi delle loro conoscenze, anche quando si imbattono in realtà e fenomeni mai esistiti prima in natura. Come possono escludere certe conseguenze di certi esperimenti, se in tutta la storia della terra non è mai successo quello che essi vogliono fare? Come potevano garantire che lo stronzio 90, distribuito su tutto il pianeta dalle esplosioni nucleari, “non poteva destare preoccupazioni”, se lo stronzio 90 non esisteva sulla terra prima dei test. Se io mi portassi a casa un animale sconosciuto, e aspettassi immobile di vedere se è mansueto o feroce, sarei saggio o imbecille? Se mangiassi un fungo sconosciuto e aspettassi tranquillo di morire avvelenato o sopravvivere, sarei saggio o cretino? Questo è stato, per decenni, il modulo di pensiero degli scienziati tecnocrati. E c’è il serio timore che si continui così.
L’esperimento fra 10 giorni. Guerra tra scienziati: "Un buco nero ci inghiottirà" Il Cern di Ginevra: nessun rischio. Ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani
"Fermate il test sul Big Bang
o la Terra sparirà"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Per gli studiosi che si apprestano a spingere il pulsante d’accensione, si tratta di ricreare le condizioni che esistevano una frazione di secondo dopo il Big Bang: ovvero di riportarci indietro nel tempo sino al momento della creazione del nostro universo, all’inizio del mondo.
Ma per un gruppo di preoccupati ricercatori l’esperimento che dovrebbe cominciare tra dieci giorni in un immenso laboratorio sotterraneo, sepolto a un centinaio di metri sotto il confine tra Francia e Svizzera, comporta il rischio della fine del mondo, la distruzione e anzi la letterale scomparsa del nostro pianeta. Così, all’ultimo momento, gli oppositori del progetto hanno presentato un ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani, che in teoria potrebbe bloccare il più grande, ambizioso e costoso test scientifico di tutti i tempi.
Oggetto della contesa è il Large hadron collider, un acceleratore da 6 miliardi di euro che, facendo scontrare particelle atomiche ad alta velocità e generando temperature di più di un trilione di gradi centigradi, dovrebbe rivelare il segreto di come è cominciato l’universo. Venti paesi europei, più gli Stati Uniti, hanno finanziato il progetto, che dopo anni di preparativi dovrebbe prendere il via il 10 settembre al Centro di Ricerche Nucleari di Ginevra.
Qualcuno, tuttavia, teme che l’esperimento andrà ben oltre le aspettative, creando effettivamente un mini buco nero, che crescerà di dimensioni e potenza fino a risucchiare dentro di sé la terra, divorandola completamente nel giro di quattro anni. Gli scienziati di Ginevra ribattono che non c’è assolutamente nulla da temere: ci sono scarse possibilità che l’acceleratore formi un buco nero capace di porre una minaccia concreta al pianeta, dicono, perché la natura produce continuamente delle collisioni di energia più alte di quelle che saranno create artificialmente dall’acceleratore, per esempio quando i raggi cosmici colpiscono la terra. Esperimenti di questo tipo, inoltre, sono stati condotti per trent’anni, senza avere risucchiato nemmeno un pezzettino della terra né causato danni di qualsiasi genere.
Vero è che il nuovo acceleratore ha suscitato attenzioni e polemiche perché è il più grande mai costruito, con una circonferenza di 26 chilometri e la possibilità di lanciare particelle atomiche 11.245 volte al secondo prima di farle scontrare una contro l’altra a una temperatura 100mila volte più alta di quella che esiste al centro del sole. La speranza è individuare, così facendo, le teoriche particelle chiamate bosoni di Higgs, giudicate responsabili di avere dato massa, ovvero peso, a ogni altra particella esistente. Ma gli scienziati ammettono che ci vorranno anni prima di arrivare eventualmente a un risultato del genere, per le difficoltà nel trovare particelle così infinitesimamente piccole nel caos primordiale post-Big Bang creato dentro l’acceleratore.
Abbiamo ancora dieci giorni per salvare la terra?, si chiede, con leggera ironia, il Sunday Telegraph. "I miei calcoli indicano che il rischio che un buco nero mangi il pianeta a causa dell’esperimento è serio", afferma il professor Otto Rossler, un chimico tedesco della Eberhard Karls University che ha presentato il ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani insieme ad alcuni colleghi. Replica James Gillies, portavoce del Centro Ricerche Nucleari di Ginevra: "Il ricorso non introduce nessun argomento che non sia già stato esaminato e respinto in passato, se questi esperimenti fossero rischiosi lo sapremmo già".
In ogni caso lo sapremo con certezza dopo il 10 settembre, se la Corte Europea, come sembra di capire, darà luce verde all’iniziativa: che non sarà la "fine del mondo", ma un po’ di curiosità al di fuori dei confini della scienza, in questo modo, l’ha ottenuta.
* la Repubblica, 1 settembre 2008.