Una riflessione sulle contraddizioni e la complessità della ricerca della verità
Ginzburg e le finzioni dello storico
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 22.07.2006)
I libri di Carlo Ginzburg pongono più domande di quante risposte trovino alle questioni sollevate. In questo, Ginzburg assomiglia a un filosofo socratico, ma dotato di una modernità di pensiero, ossia di quel gusto per la sottigliezza e la raffinatezza del gioco interpretativo che lo apparenta piuttosto a un pensatore settecentesco, ambito dove sguazza a suo agio come anche dimostrano questi saggi che compongono un libro "frammentario" e "omogeneo" al tempo stesso. La molteplicità nell’unità è data fin dal titolo: Il filo e le tracce.
Ginzburg appartiene a una categoria nuovissima di storici cui ha fatto da ostetrica una serie di crisi a catena che dal positivismo ancorato all’idolatria del fatto e del documento ha aperto la strada via via a una storia sempre più raccontata, a una discesa nell’infinitamente piccolo della materia storica: dalla microstoria che amplifica un elemento minore fino a portarlo sulla scala dell’argomento massimo e universale, alla storia evenemenziale dominatrice lungo il protrarsi delle derive postmoderne che hanno smantellato l’idea della "storia universale" sostituendola con l’idea della storia relativista, la storia-fiction.
Il trait-d’union che unisce i saggi di questo libro è l’identificazione del particolare minimo che improvvisamente trasforma la prospettiva nel giudizio storico e mostra quanto l’accertamento delle cose sia una chimera. Non l’accertamento della verità, poiché come fa capire Ginzburg nel sottotitolo «vero falso finto» sono tre diverse facce dello stesso solido, quello di una verità intravista oltre lo specchio opaco del reale.
È la verità, insomma, che determina il metodo? O è il metodo che crea ciò che sta cercando? La realtà è performativa anche per lo storico, così come l’opera d’arte nella modernità lo è per il critico? Come ricorda Ginzburg stesso, un libro di Croce che ebbe molta importanza in Europa nel delineare una filosofia della ricerca storica, s’intitolava La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In sostanza, Ginzburg è distante dall’ipotesi scientista, ovvero dogmaticamente razionalista, ma non è neppure per quella relativista che riduce tutto alla narrazione. Semmai, come insinua analizzando alcuni luoghi storico-narrativi in Stendhal, Balzac, Tolstoj, Flaubert, la letteratura non nega a sé stessa una valenza di "prova" che passa naturalmente attraverso una sintesi di fatto storico e immaginazione dove il fattore di credibilità, o di verosimiglianza, è rintracciabile nella genesi nascosta che porta alla costruzione del racconto. Qui, giustamente, Ginzburg recupera le acutissime osservazioni di Auerbach in Mimesis dove il principio stesso di realtà innerva e dà addirittura potere veritativo all’imitazione creativa.
Colpisce, in uno dei capitoli finali, l’accostamento tra ricerca storica e antropologia, perché viene sempre più da pensare che gran parte delle questioni che occupano oggi le scienze umane possano in futuro raccogliersi sotto l’unico portale della ricerca antropologica: il che, in un’epoca d’incertezza nel definire quella che un tempo si diceva la visione del mondo, sta quantomeno a dimostrare che l’uomo ha lentamente riguadagnato, dopo i secoli della rivoluzione scientifica che lo avevano reso come una presenza "marginale" nella grande organizzazione del cosmo, una fiducia in sé stesso che si manifesta proprio nel ritorno all’antropologia come lingua comune di un discorso sul mondo. E allora la teodicea volterriana post-Lisbona attesta proprio come il sentirsi "a margine" di un sistema ponga anche una questione di interpretabilità del male e del principio di realtà delle sue manifestazioni. Ginzburg indaga, in alcune pagine, fra le maglie del pensiero di Voltaire e mostra come lo stesso discorso della tolleranza può mettere a nudo certe imposture dei Lumi.
Questo libro sembra mettere maggiormente a fuoco nella riflessione che Ginzburg va conducendo dagli anni Novanta in poi (vedi Occhiacci di legno e Rapporti di forza) una domanda che, parafrasata, fa da titolo a un saggio di Paul Veyne: I Greci hanno creduto ai loro miti? L’Illuminismo ha creduto, nella sua volontà di smascherare l’irrazionale, al mito della ragione? Quanto lo sviluppo della modernità (vedi Horkheimer e Adorno) abbia cercato di liberare il mito razionalista dai suoi presupposti "assolutisti" - ovvero «fondativi», che sono l’altra faccia della risalita verso le origini - per aprirlo alla visione dell’altro - decisivo, a questo proposito, l’antefatto dei saggi di Montaigne dedicati al selvaggio -, è ancora in discussione.
Ecco, forse, la domanda nascosta in questo libro: si può scrivere la storia con quella «indifferenza di pensiero» che già venne imputata alla narrativa di Flaubert? Oppure questa presunta indifferenza, come in Flaubert, è una maschera che calza bene al nostro tempo «globalizzato»? In fondo, la storia come demitizzazione ha finito per misconoscere che nel mito c’è più storia di quanta si immagini. Hans Blumenberg aveva tentato di praticare una strada per così dire post-illuminista, ovvero criticando l’«assolutismo della realtà»: se il mito non è più la ricerca dell’origine (di per sé impossibile), esso può diventare il mezzo che apre lo sguardo su un’origine che nasce ora, qui. Anche per lo storico.
Carlo Ginzburg Il filo e le tracce Feltrinelli. Pagine 340. Euro 25,00
Sul tema, in rete, si cfr.:
LA VERITA’, LA MENZOGNA, E LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO DELLO STORICO (E NON SOLO). Dividere il reale dall’immaginario, dare un significato all’uno e all’altro..
VIDAL-NAQUET PONE LA QUESTIONE "CRITICA"(KANT), MA GLI "EICHMANN DI CARTA" NON HANNO SMESSO DI VINCERE: NESSUNO ANCORA LO ASCOLTA! Per non dimenticare, alcune sue riflessioni dal suo libro "Gli assassini della memoria"
Carlo Ginzburg e la tela strappata dalla ricerca storica
Una raccolta di saggi scritti negli ultimi 20 anni mette in luce la metodologia che porta a smascherare il falso o le imposture nella lettura tra le righe dei documenti e delle verità condivise
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, sabato 6 novembre 2021)
Lo storico moderno, dopo Nietzsche e i maestri del sospetto è, quasi sempre, un cacciatore di falsi o un decostruttore di finzioni. Falso e finto sono un tema che ricorre nell’ultimo libro di saggi di Carlo Ginzburg, La lettera uccide (Adelphi, pagine 252, euro 30,00). Già alla fine degli anni Settanta lo storico pubblicò nel volume La crisi della ragione, curato da Aldo Gargani, un saggio dove il “paradigma indiziario”, interloquendo con Freud, Giovanni Morelli e Conan Doyle, voleva dimostrare come la ricerca storica consista anzitutto in casi da risolvere, muovendosi con un metodo à la Sherlock Holmes. Difficile dire, tirando in ballo anche Agatha Christie, se per uno storico tre indizi costituiscano una prova, tuttavia dopo Nietzsche il compito del ricercatore non è tanto raggiungere il vero ma smascherare il falso, l’impostura, il travisamento di documenti scritti o figurati, i paralogismi nelle tesi, gli errori delle traduzioni.
Nel capitolo “Rivelazioni involontarie” Ginzburg ricorda appunto che «Vico cercò il vero nel falso e nel finto».
Il convivio delle culture non è più una “mensa comune” perché la globalizzazione ha reso ancor più imponente la Torre di Babele e «la pluralità delle lingue, e la loro reciproca traducibilità, è diventato un problema - nonostante la prevalenza dell’inglese, o forse proprio per questo». Tradurre è interpretare, tradurre è anche tradire, ma come si fa a sapere con quali logiche di appropriazione o di assimilazione si giunge a velare la verità del discorso originale?
Si cita sempre il detto di Warburg «Dio si nasconde nel dettaglio», ma esiste anche una tradizione antica, dei primi secoli cristiani, ripresa da André-Jean Festugière con un’allusione probabile al discorso sull’“Uomo perfetto” di Monoimo l’Arabo. Questi alla fine del II secolo, riflettendo sulla lettera iòta come simbolo dell’origine del creato, disse: «Dio è in uno iòta sottoscritto». D’altra parte, con tutt’altra prospettiva, è nota anche la massima dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, less is more, il meno è il più, che affermava una sorta di metonimia a tutto vantaggio del dettaglio di cui Mies ebbe grande e maniacale cura nei suoi edifici; questa etica del particolare gli derivava dallo studio del pensiero tomistico e dall’amicale vicinanza del teologo Romano Guardini.
Il dettaglio, dunque, è la porta per accedere al segreto di tutto? Indagare in questa direzione si sposa, nella visione “storico-critica” di Ginzburg, con un metodo che egli definisce «intensificare il caso», che è anche un mettere alla prova le verità acquisite, ma per farne emergere il lato in ombra, laddove il libro parte dalla misteriosa espressione paolina nella Seconda lettera ai Corinzi «La lettera uccide, lo spirito dà la vita». Ma se Dio non gioca a dadi con l’universo, lo storico invece quei dadi li tira affinché il caso gli apra una “involontaria” direzione di ricerca, sembra sostenere Ginzburg.
È un libro complesso, questo che lo storico dedica a Roberto Calasso, dove attraverso una ricomposizione di “marginalia” redatti negli ultimi vent’anni di studi delinea in realtà una metodologia fondata sui “casi specifici” che risultano, alla fine, una forma particolare di inventio, di reperimento degli elementi necessari a continuare una ricerca che partendo dalla microstoria ha davanti a sé la generalizzazione, l’universale.
Dopo aver introdotto la coppia dialettica elaborata mezzo secolo fa dall’americano Kenneth L. Pike - etic (lo studio di lingue e culture da una prospettiva comparata) ed emic (che studia casi specifici da una lingua o una cultura) - Ginzburg scrive che lo storico «parte da domande etic per cercare di ottenere risposte emic» ma, viceversa, «risposte emic provocheranno domande etic». Il fatto è che si tratta di «costruire casi che potranno fondare delle generalizzazioni».
Ed è proprio il termine costruire a mettere alla prova l’"intensificazione del caso", mentre la domanda riequilibra il quadro. Oggi - nota l’autore -, anche grazie ai cataloghi online delle biblioteche, partendo da una sostanziale mancanza di riferimenti e introducendo vocaboli chiave di ricerca il computer «moltiplica la possibilità di essere colti di sorpresa da un dato di fatto imprevisto». Non è poi una slot machine surrealista quella che Ginzburg propone, non il meccanismo del cadavre exquis, anche se ammette che ci si muove un po’ come l’artista che utilizza l’objet trouvé; eppure qualcosa riprende questo modo di fare, poiché già «i filosofi antichi ci hanno insegnato che la meraviglia, la sorpresa generano la conoscenza».
Oggi è il computer a sollecitare il pensiero, come al tempo di Leonardo l’immaginazione poteva essere attivata dalle macchie d’umidità sul muro. Nel capitolo dedicato all’etnofilologia - un termine introdotto da antropologi americani che studiavano alcune tradizioni orali - Ginzburg premette ciò che è implicito nell’idea stessa di traduzione: «è un processo senza fine». Quante versioni hanno dato i poeti di un testo scritto in una lingua straniera di cui dovevano rendere il senso e la forma con parole proprie?
Il caso di Garcilaso de la Vega, detto “el Inca” (il padre era spagnolo e la madre quechua), che nel XVI secolo scrive i Commentari reali degli Inca, è esemplare: attraverso la stessa lingua spagnola Garcilaso mette in luce le distorsioni prodotte dalle traduzioni dei conquistatori e in questo modo rende giustizia alla lingua materna. Il suo motto era: « Con la espada, con la pluma». In questo modo «smascherò la cieca arroganza dei colonizzatori».
Un caso palmare, dunque, di «lettera che uccide». Ma quando, come già ricordato, noi leggiamo le traduzioni che i poeti fanno dei loro simili, il concetto di «traduzione inadeguata» vale e non vale. Nella poesia restare nella lettera uccide quasi sempre il testo di partenza, mentre l’interpretazione può essere come lo spirito che dà la vita. Insistere sulla ricchezza delle anomalie, ciò che si distanza da qualsiasi canone, è imparare a leggere tra le righe del testo ciò che vi si cela d’“involontario”, in un arco che da Delio Cantimori arriva a Leo Strauss.
Ogni saggio di questa raccolta è una messa alla prova della tesi generale secondo cui «la possibilità di sovvertire, grazie alla microstoria, gerarchie preesistenti di natura politica e storiografica». Che dal cristianesimo che si muove con un complesso di superiorità versus Israel («un frutto nato da una radice dolorosamente ambigua») può far vedere tra le righe le ragioni di una secolare persecuzione antigiudaica.
Ginzburg, che si dichiara ebreo ma anche ateo, analizza le idee di un ex mercante di vini vissuto nel XVIII secolo, Jean-Pierre Purry, che propose alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali un piano di colonizzazione usando come grimaldello la Bibbia e la conquista della terra promessa degli israeliti dove Dio - sulla base dell’imperativo scritto nel Deuteronomio, ordina al suo popolo di sterminare i Cananei, senza risparmiane donne e bambini; brillantemente argomenta che se la terra è di Dio e l’uomo ne ha soltanto l’usufrutto, la terra è di tutti: ma si tratta di dimostrarne il legittimo possesso mediante un’azione operosa (mentre i selvaggi, si sa, per un occidentale sono oziosi), al limite con l’uso della forza. La colonizzazione diventa, mutatis mutandis, un segno di predestinazione simile a quella attraverso cui Weber interpreta l’etica protestante dei capitalisti americani. A dividere Purry da Weber soltanto l’atteggiamento verso le cose: per il primo dovevano essere una fonte di piacere, mentre per il secondo erano quasi ininfluenti in ragione della morale ascetica che muove gli affari dell’imprenditore protestante.
Adelphi ristampa il libro più noto di Carlo Ginzburg
Il formaggio e i vermi
di Claudio Piersanti (Doppiozero, 28.11.2019)
“In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto ‘le gesta dei Re’. Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. ‘Chi costruì Tebe dalle sette porte?’ chiedeva già il ‘lettore operaio’ di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.”
Il formaggio e i vermi, oggi riproposto in una nuova edizione da Adelphi, uscì nel 1976, e nel primo paragrafo della prefazione, che ho copiato interamente, Carlo Ginzburg sintetizza l’essenza del libro. Che raccoglie gli umori di un clima culturale e politico, quello degli anni ’70, di cui forse si conserva memoria parziale se non macchiettistica. Ne parla anche Ginzburg nella nuova postfazione. Superati quasi completamente gli schemi ideologici attivi fino a pochi anni prima, messi a nudo come quelli degli avversari, questi movimenti poliformi entravano in contatto con studiosi (allora chiamati ancora intellettuali) non più e non solo attraverso appelli e firme, ma attraverso le loro opere, facendo propria anche una particolare filosofia della storia. Che a sua volta aveva numerosi punti di contatto con altre discipline, prima tra tutte l’antropologia culturale, allora molto letta: il collante metodologico era decisamente lo strutturalismo, di certo più frequentato e adoperato, anche se inconsapevolmente, di qualunque altro strumento critico. Si consideri che all’epoca le categorie merceologiche più desiderate (e rubate) erano dischi e libri. Il primo libro di Carlo Ginzburg si intitolava I benandanti (una sorta di setta religiosa attiva in Friuli nel sedicesimo secolo) e Gianni Celati lo consigliava a tutti. Questo per esemplificare l’accenno alle connessioni: letteratura, poesia, psicanalisi. Gli studenti che leggevano Il formaggio e i vermi, avevano in casa i libri di Foucault, di Levi-Strauss e spesso di Lacan, di Althusser e Barthes.
La citazione di Céline posta come esergo dialoga sia con il clima culturale del momento che con il libro stesso: “Tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre... On ne sait rien de la véritable histoire des hommes”. Céline, soprattutto con il suo Voyage, era presente in tutte le biblioteche giovanili. Con questi continui collocamenti temporali dell’opera di Carlo Ginzburg non voglio affatto coinvolgerlo in un disegno politico o culturale che sovrasti la sua specificità: stiamo rileggendo un importante libro di storia, rigoroso come dev’essere un libro lungamente pensato. Che ha lasciato una traccia profonda nei suoi lettori e tra gli storici. La scrittura di Ginzburg non concede quasi niente alle mode formali dell’epoca, e non è affatto datata o databile. Pochi narratori di professione possono vantare la stessa tenuta. In realtà il Céline posto in esergo è molto poco ex ergon, anzi al contrario dichiara un tema fondamentale del libro: l’impossibilità stessa di scriverlo. Come raccontare la storia degli schiavi? Degli sconfitti. Dei cancellati. Degli oppressi. Dei perseguitati. Come raccontare storie se delle loro storie non resta che una traccia statistica o semplicemente numerica? Semplificando forse troppo si potrebbe dire che Ginzburg dà una risposta più da filologo che da filosofo della storia, fatto che non deve certo sorprendere in uno studioso del ‘500, uno dei secoli più affascinanti e contraddittori della storia umana. La diffusione di libri e opuscoli stampati, lo sviluppo del ragionamento scientifico e il persistere di strutture culturali ancora medioevali (non sempre e soltanto negative), Montaigne, Keplero, Leonardo, Michelangelo, Machiavelli e Galileo, il gusto profondo per l’antichità finalmente accessibile attraverso traduzioni di opere fino a quel momento sconosciute.
La storia scoperta da Ginzburg negli archivi del Sant’Uffizio è insolita, come ammette lo stesso autore, perché è la storia di un mugnaio friulano processato e condannato a morte per eresia che dimostrava una cultura superiore a quella della sua classe. Cultura che non coincideva affatto con i severi dettami della Chiesa, che all’epoca provvedeva semplicemente all’eliminazione dell’eretico.
Il malcapitato si chiamava Domenico Scandella, detto e noto come Menocchio, denunciato al Sant’Uffizio nel 1583 per aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo. La tortura processuale durerà quindici anni. Verranno interrogati tutti i conoscenti, e soprattutto lui verrà interrogato e controinterrogato all’infinito. Menocchio si presenterà sin dalla prima udienza interamente vestito di bianco, insomma nella sua divisa di mugnaio, anche se la sua capacità di ragionare, unita al saper leggere e scrivere, gli aveva fatto guadagnare anche incarichi di qualche prestigio nel suo circondario: era stato amministratore della pieve di Montereale, e anche podestà del paese. Purtroppo per lui aveva un grande difetto: la parlantina facile. Era il tipo che si proponeva ogni volta di tacere e esser prudente ma quando la lingua gli si scioglieva le sparava anche grosse, a impronta, e il popolino ne conservava memoria.
Il Friuli dell’epoca non conosceva i grandi fermenti che si agitavano altrove: a una antica e decadente nobiltà medioevale si contrapponeva la discreta ma occhiuta presenza della Serenissima, in odore essa stessa di eresia luterana e irresistibile richiamo per le manovalanze friulane che a Venezia migravano in massa. I guai per Menocchio nascono certamente dal conflitto, direi manzoniano, con un signorotto locale, il pievano di Montereale, don Oderico Vorai. Più che a un contrasto teologico certe testimonianze processuali fanno pensare a un conflitto di classe.
Un testimone, ricordando le discussioni con lui, lo aveva messo in guardia: “Io son calligaro, et ti molenaro, et tu non sei dotto: a che far disputtar di questo?” Ma cosa aveva detto Menocchio di così grave? Prima di tutto le testimonianze lo dicono grande bestemmiatore, e lui ridacchiando si giustificava così: “Ognuno fal il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di biastemar”. Al di là di vanterie e battute provocatorie il suo modo di pensare, riferito da molti chissà con quante deformazioni, si può esemplificare in pochi chiarissimi esempi. “Che vi maginate che sia Dio? Iddio non è altro che può de fiato, et quello tanto che l’homo se immagina... Tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei.” E ancora: “’l cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Dio.” Non poteva mancare un classico dello scetticismo di ogni tempo: “che credevù, che Giesù Christo sia nasciuto della vergine Maria? Non è possibile che l’habbia parturito et sia restata vergine: puol ben esser questo, che sia stato qualche homo da bene, o figliol di qualche homo da bene.”
Quasi mezzo secolo più tardi, e con ben altro spessore intellettuale, Galilei risponderà in modo assai diverso allo stesso tribunale. Pur pensandolo certamente non credo abbia sussurrato “E pur si muove”. Menocchio ha un buon avvocato, che non gli risparmia buoni consigli, tutti riassumibili nel principale: ammetti il peccato e chiedi perdono, e soprattutto non lasciarti prendere dalla parlantina. Tutta qui la rovina di Menocchio: l’impertinenza gli sfugge in modo naturale, come se il tribunale fosse davvero tribuna aperta sul mondo intero. Sì, ammette le tentazioni demoniache che si impadronivano della sua lingua, ma se gli viene chiesto il dettaglio lui si allarga a macchia d’olio. “Volete che vi insegni la vera strada?” si era vantato in pubblico. “Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era anche Dio creato anchora lui da quella massa”. Spiattellata la sua personalissima cosmogonia, in cui l’universo si formava come un formaggio producente angeli e vermi, Menocchio sembra non avere più freni. Quando gli contestano una nuova affermazione blasfema lui la riconosce come sua, ammette il peccato e lo spirito demoniaco, ma la narrazione del peccato sembra un’ulteriore conferma delle sue opinioni.
Tra l’altro gli chiedono se corrispondono al vero altre vanterie: testimoni riferiscono che avrebbe detto di non temere il giudizio di nessun tribunale. E lui: “è vero che io ho detto che se non havesse havuto paura della giustizia parlarebbe tanto che farebbe stupire; et ho ditto che se havessi gratia di andar avanti o il papa o un re o un principe che mi ascoltasse, haverei ditto molte cose; et se poi m’avessero fatto morir non mi sarei curato.” In fondo Menocchio non si era vantato a sproposito: si comporta esattamente come aveva annunciato. Parla, parla troppo, e troppo chiaramente, annullando le inutili appiccicaticce richieste di pietà e misericordia. La sua voce, così come viene trascritta nei verbali, appare veritiera. I frati che lo giudicano hanno in fondo tutto l’interesse a lasciarlo parlare a ruota libera, e non c’è dubbio che quella trascritta sia davvero la sua voce. E questa voce spazia per ampi territori, ingrossando poco alla volta la pira che lo brucerà. Parla di soldi, di potere, parla della Chiesa. “Et mi par che in questa nostra lege il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de chiesa et preti, e strussiano li poveri, quali se hanno doi campi a fitto sono della chiesa, del tal vescovo, del tal cardinale.” La Chiesa e gran parte della sua dottrina non è altro che “mercantia”, una messa in scena per creduloni. Mentre Dio non può che essere lo stesso per tutte le religioni. “La maestà di Dio ha dato il Spirito Santo a tutti: a christiani, a eretici, a Turchi, a Giudei...” E per essere ancora più chiaro si rivolge direttamente ai presenti: “Et vui altri preti e frati, anchora vui volete saper più de Dio, et sette come il demonio, et volete farvi dei in terra, et saper come Iddio a guisa del demonio: et chi più pensa di saper, manco sa.”
È difficile non restare affascinati da questa voce, coraggiosa o incosciente che sia, impossibile non lasciarla parlare, anche perché si spiega benissimo da sé.
Di questa sensazione, peraltro documentatissima, si serve Carlo Ginzburg in altra parte del libro, per spiegare la differenza tra la vicenda di Menocchio e quella di Pierre Rivière raccontata da Foucault. Due processi che si svolgono in epoche completamente diverse, originati da colpe assai diverse: Pierre è un giovane pluriomicida che ha sterminato mezza famiglia, in bilico tra criminalità e psichiatria forense. Ma Pierre è descritto dall’esterno, resta un mistero anche a se stesso; mentre Menocchio esce dal buio della storia e prende la parola direttamente, a volte deragliando in fantasie teologiche popolari, a volte stupendoci per la sua lucida capacità d’analisi. Ci dà molti elementi, certo non tutti quelli che vorremmo, per cercare di ricostruire il suo vero pensiero, e ci spinge a trovare un contesto che quel pensiero deve aver suscitato, non essendo di sicuro spuntato dal nulla. Ci sono echi di tutto, dalla Riforma luterana all’anabattismo, ma non ci sono riscontri diretti negli interrogatori e nelle testimonianze. Soltanto una Bibbia tradotta in volgare, e pochi altri libri, peraltro tutti analizzati da Ginzburg alla ricerca di assonanze, che a volte ci sono a volte non ci sono.
Esemplare l’analisi di uno di questi testi sequestrati, e sicuramente letti da Menocchio: Il cavalier Zuanne de Mandevilla, meglio conosciuto come I viaggi di sir John Mandeville. Testo ben noto al contemporaneo Montaigne, che non ne rimase meno colpito, e anche a Leonardo, che lo citò per stigmatizzare la crudeltà dell’uomo. In questi viaggi reali e immaginari un Sultano così descrive il comportamento dei cristiani: “elli doverebbono dare exemplo de ben far alla commune gente, doverebbono andare a li templi a servire a Dio, et elli vanno tutto el giorno per le taverne zogando, bevendo e manzando come le bestie. (...) Sono tutti inclinati al mal fare, et tanto sono cupidi, avari, che per poco argento e’ li vendono li fioli, le sorelle e lor proprie mogliere per fare meretrice...”
Indimenticabile il fantasioso e raccapricciante capitolo su pigmei e antropofagi, ma la grande lezione, davvero rivoluzionaria, è questa: non siamo soltanto noi che guardiamo gli altri, gli sconosciuti, i diversi, ma sono loro che ci guardano. Dalla lettura di questo libro Menocchio deduce che “morto il corpo morisse anco l’anima”. La corruzione del clero (la stessa peraltro che lo stava giudicando) l’aveva ampiamente verificata sulla sua pelle. Le esperienze personali, le ingiustizie subite, gli hanno insegnato a ragionare con la sua testa in modo personalissimo (la cosmogonia del formaggio è troppo originale per non essere sua) ma un ambiente con cui erano in sintonia doveva esserci per forza, come si è visto nel contatto con i Viaggi di Mandeville. Certe sue critiche ai fondamenti della religione si ritroveranno quasi identiche tre, quattro secoli più tardi, in veri e propri filosofi.
Ginzburg sottolinea l’importanza di questo atteggiamento mentale fatto di tolleranza e di curiosità positiva verso l’altro: il Dio di Menocchio “non odia creatura che el habia fato”. Un altro testo elaborato a suo modo da Menocchio è il Decameron, di Boccaccio, letto in edizione non purgata dal sant’Uffizio.
In lui cultura orale e cultura alta, scritta, si fondono in una miscela esplosiva, che oggi ci appare come puro buon senso. Se nel primo grande processo notiamo un Menocchio provocatorio, insieme spavaldo e timoroso, confuso, nel secondo le parti si invertono: Menocchio è l’uomo moderno che cerca di parlare ragionevolmente con i suoi interlocutori, che appaiono in tutta la loro (violenta) mediocrità intellettuale.
Studiando i meccanismi della memoria i neuroscienziati hanno scoperto che non esistono soltanto dei luoghi (dei depositi) specializzati, ma che le informazioni sono disseminate quasi ovunque nella corteccia. Mi è venuto in mente rileggendo questo libro. Forse le idee sono disseminate ovunque, in ogni strato della società, e pur sembrando isolate trovano o inaugurano sempre nuove connessioni.
Gli anni che sono passati dalla prima edizione del libro sono un buon filtro per rileggere, nel mio caso con immutato piacere, Il formaggio e i vermi. Ora una valutazione metodologica è forse possibile, ma non spetta certo al recensore un compito del genere. La testimonianza di Menocchio apre una fessura nel silenzio degli ultimi? Cosa ci raccontano la dignità e la pulizia dei suoi ragionamenti nati proprio nella sua testa, come ammette in più occasioni lui stesso? Lo stesso storico sembra abbandonarsi a questa voce, che a tratti quasi lo sovrasta, sorprendendolo. In realtà non si limita a seguirla. La contestualizza anche attraverso le poche letture che gli può attribuire con certezza, ne segue le diramazioni e quando è il caso ne sottolinea l’acume. Menocchio è esistito, era un individuo vero e con la sua individualità ora fa parte della Storia. Non è soltanto un importante libro di storia, Il formaggio e i vermi, ma anche una lezione di stile.
Altre letture: Quodlibet ha appena ripubblicato Occhiacci di legno, dieci saggi sulla distanza, di Carlo Ginzburg. Contiene un testo inedito: Schemi, preconcetti, esperimenti a doppio cieco. Riflessioni di uno storico.
L’Editoriale
A tavola con Carlo Ginzburg
«Le fake news ci sono sempre state, la difesa è nelle biblioteche»
di Paolo Bricco (Il Sole-24 Ore, 25.02.2019)
«Quando, nel 1988, arrivai a Los Angeles, gli studenti più brillanti erano affascinati dal neoscetticismo. Per il neoscetticismo, la narrazione di finzione e la finzione storica erano indistinguibili. Il clima culturale di allora ha creato le condizioni favorevoli per le fake news di oggi».
Carlo Ginzburg ha lo sguardo insieme assorto e distaccato che hanno gli ispettori della gendarmérie francese o i detective dei police department americani quando fanno cadere lì, intanto che gli osti portano un Borgogna o le cameriere della birra ghiacciata, il collegamento logico e materiale fra eventi lontani nel tempo. Al Caminetto d’oro di Bologna, il vino messo in tavola dai camerieri è invece un Chianti Classico Badia a Coltibuono del 2016.
Ginzburg identifica uno dei cuori della nostra contemporaneità: l’ambiguità fra il vero e il falso e la propalazione come vero di ciò che è falso non dipendono solo dall’ipertrofia di internet e dei social media, ma sono anche la conseguenza di una specifica atmosfera intellettuale diffusasi trent’anni fa. Quasi l’effetto di uno smottamento. «Una delle grandi strutture del pensiero occidentale è fondata sulle prove: è la linea che da Aristotele passa per Quintiliano e arriva a Lorenzo Valla, il quale dimostra la falsità della donazione di Costantino. A questa linea si oppone quella che ha come caposaldo Nietzsche, in cui la retorica è contrapposta alla prova», spiega Ginzburg, mentre il cuoco del Caminetto sta preparando il bollito misto alla bolognese.
In queste due polarizzazioni, gli anni Ottanta hanno preso una direzione precisa, che è stata fondamentale per costruire il mondo - mentale prima che tecnologico, psicoideologico prima che economico - per come lo conosciamo: «L’influsso della Metahistory di Hayden White è stato significativo, in particolare negli Stati Uniti. Molte altre correnti culturali, penso a Michel de Certeau in Francia, hanno operato sulla concezione della storia, modificandone la percezione e provando a mutarne l’epistemologia».
Ginzburg, 80 anni, è per biografia, profilo e carattere uno degli intellettuali italiani più influenti e radicali. Suo padre era il filologo e studioso di letteratura russa Leone Ginzburg: membro del gruppo Giustizia e Libertà, poi del Partito d’Azione ai suoi inizi, una delle grandi anime dell’antifascismo italiano, morto quando il figlio aveva cinque anni. I volti dei due - il padre nelle foto in bianco e nero degli anni Trenta e il figlio davanti a me oggi a 80 anni - sembrano sovrapporsi a distanza di 75 anni dalla loro separazione, anche se il primo era più ossuto e il secondo è più tondo. Sua madre era Natalia Ginzburg, l’autrice di Lessico famigliare, Le piccole virtù e La famiglia Manzoni, comunista per diversi anni, uscita dal PCI nel 1952. Lui la ricorda nel disegno delle sopracciglia. La sua - la loro - famiglia era ebrea, appunto antifascista e di sinistra, radicata a Torino: «Sono cresciuto in una casa piena di libri, in via Morgari, nel quartiere San Salvario».
Carlo Ginzburg ha scritto volumi che hanno segnato un prima e un dopo nella metodologia della ricerca e nella interiorità dei lettori, come il saggio di esordio del 1966 I benandanti. Stregoneria e culti agrari fra Cinquecento e Seicento e soprattutto come, nel 1976, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, il libro sulle vicende del mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, condannato al rogo dall’Inquisizione per eresia perché autore di una particolare visione della nascita del mondo: “tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume, andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel diventorno vermi, et quelli furno li angeli, et tra quel numero de angeli ve era anco Dio, creato anchora lui da quella massa in quel medesimo tempo”. A quel pensiero, dice Ginzburg: «Ricordo lo stupore provato nell’archivio arcivescovile di Udine, che era rimasto chiuso e inaccessibile a tutti per secoli, ero il primo dopo gli inquisitori a prendere in mano le carte dei processi a Menocchio».
Come antipasto lui sceglie del patè di fegatelli con burro al timo e sale rosa, con della gelatina al Marsala e pan brioche. Io prendo della culaccia del salumificio Rossi di Parma, con pan brioche e burro dei colli bolognesi. Adelphi è già arrivata alla seconda edizione del suo ultimo saggio, Nondimanco. Un lavoro sofisticato e senza alcuna concessione semplificatrice in cui ha affrontato il tema della norma e dell’eccezione in un Niccolò Machiavelli fruitore della casistica teologica medievale e frequentatore della Politica di Aristotele, nel commento di San Tommaso d’Aquino.
In questo libro, Ginzburg ha concentrato i suoi occhi di spillo sull’avverbio più usato da Machiavelli, nondimanco: appunto, dal Principe, “Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede” e ancora “Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto grandi cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con la giustizia aggirare e’ cervelli delli òmini, e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà”. E Ginzburg ha fatto tutto questo con l’attenzione alla lingua propria non soltanto del filologo ma anche del detective di rango abile a sentire i protagonisti e i sospettati, i testimoni e le persone informate dei fatti.
Il cameriere arriva con il carrello del bollito: polpettone, cotechino, lingua, doppione e cappone. Lui prende tutte e cinque le carni, mentre io evito la lingua. Ginzburg è anche uno degli studiosi italiani con una più solida posizione internazionale. È stato ospite - fra le altre - delle università di Princeton, Chicago e Philadelphia. Dal 1988 al 2005, ha insegnato a Ucla: «Sei mesi ogni anno, le persone a cui ero più legato a Los Angeles sono state Perry Anderson, che in Italia è conosciuto per i lavori su Antonio Gramsci e Norberto Bobbio, lo storico del nazismo e della Shoah Saul Friedländer e Sanjay Subrahmanyam, di cui è stata pubblicata nel nostro Paese la raccolta Mondi connessi. Mia moglie Luisa Ciammitti, che è una storica dell’arte prima funzionaria alla Soprintendenza di Bologna e poi direttrice della Pinacoteca nazionale di Ferrara, ha collaborato con il Getty Center. Abbiamo cambiato varie case, tutte intorno a Santa Monica».
Nel dialogo costante fra i libri e i libri e fra i libri e la vita, Ginzburg non ha un rifiuto luddistico verso le nuove tecnologie: «Le fake news sono sempre esistite. Internet non coincide con le fake news. Come studioso, ho sempre avuto il problema di un eccesso di domande rispetto al tempo, all’energia e alla conoscenza. Internet è un grande generatore di domande. Questa è una cosa positiva. Poi si va in biblioteca». Si va in biblioteca ad esercitare il metodo articolato e composito, filologico e intuitivo, archeologico e in fondo letterario di Ginzburg. «La mia identità culturale - riflette Ginzburg - è basata sulla lettura e sul dialogo continuo con i libri di quattro maestri molto diversi fra loro: l’antichista Arnaldo Momigliano, il medievista Marc Bloch, lo storico dell’arte Aby Warburg e il filologo romanzo Erich Auerbach». La dimensione molteplice del suo pensiero e del suo stile è arricchita dalla consustanziazione del lavoro storico con l’interesse per l’antropologia : per esempio Ernesto De Martino e Claude Levi Strauss. Arrivando, tramite l’analisi del rapporto fra la parola e il mito, alla morfologia di Vladimir Propp, che gli permette l’analisi della somiglianza delle forme storiche, per esempio i benandanti friuliani, gli sciamani siberiani e i lupi mannari baltici raccontati nel suo saggio del 1989 Storia notturna. Una decifrazione del sabba.
Parlare con Ginzburg equivale ad una esperienza à la Borges. Sembra di entrare in un labirinto che diventa ora un gioco di rimandi, ora una galleria di specchi, ora una fabbrica di matrioske. In particolare per chi ha amato - e tuttora ama - la novità intellettuale della “Microstoria”. Prendiamo Nondimanco. L’atto del leggere il libro - e l’atto del parlare con l’autore - equivale ad accostarsi a Niccolò Machiavelli che legge un autore del Trecento come Giovanni d’Andrea, a Blaise Pascal che legge Machiavelli, a Carl Schmitt che legge Pascal che legge Machiavelli, a me stesso che leggo lui - Carlo Ginzburg - e a me stesso che leggo me stesso che leggo lui, Ginzburg appunto.
Il cameriere porta in tavola il gelato alla crema, ma nessuno dei due osa guarnirlo con l’aceto balsamico. E, al caffè, nella rincorsa fra passato e presente, vita e storia, pensiero e parola Ginzburg torna alle prime settimane da studente alla Normale di Pisa, al seminario di Delio Cantimori sulle Considerazioni sulla Storia Universale di Jacob Burckhardt: «Per prima cosa Cantimori si informò “quanti di voi sanno il tedesco?”. Appurato che in pochi lo sapevano, disse: “non vi preoccupate, ne leggeremo più traduzioni”. Dopo una settimana, avevamo letto venti righe. Quella esperienza mi ha sempre ricordato il Nietzsche filologo, non ancora filosofo, per il quale “la filologia è l’arte di leggere lentamente”. Oggi in molti parlano di slow food, di cibo lento. Per me è importante anche lo slow reading, la lettura lenta».
Una storia con additivi, tra il caso e la prova
Intervista a Carlo Ginzburg
di Cora Presezzi, Marie Rebecchi
Nel 1966, Carlo Ginzburg, allora ventisettenne, dava alle stampe la sua prima ricerca storica: I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento. Aveva allora inizio, cinquant’anni fa, quella che sarebbe divenuta l’inesausta opera di uno degli storici più noti e tradotti nel mondo, dall’Europa all’America latina, al Giappone, agli Stati Uniti, alla Russia.
Alcuni suoi libri sono ormai divenuti a tutti gli effetti dei classici del loro genere. Un genere storiografico, quello della microstoria, che al nome di Ginzburg si lega indissolubilmente. Anzi, di cui non si può forse neppur parlare senza citare, ad esempio, Il formaggio e i vermi (1976) e i sui protagonisti: il mugnaio friulano Menocchio e l’insieme organico e coerente di idee in cui quegli aveva rielaborato elementi tratti da diversi livelli della stratificazione culturale della società a lui coeva; e che, a Ginzburg, riuscì di cavare da un corpo a corpo con gli archivi inquisitoriali e dalle carte del processo con cui il potere dominante aveva tentato - con esito paradossalmente opposto - di ridurlo al silenzio. La vicenda di Menocchio parve così ben degna d’esser offerta in risposta alle domande di quel «lettore operaio» - voce anonima dell’omonima poesia di Brecht - con cui il libro si apriva: «Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? / Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. / Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?».
Ma la microstoria non coincide con la storia della cultura popolare o delle classi subalterne (e qui subito si dovrà indicare in Gramsci un referente comunque fondamentale per Ginzburg). Si tratta piuttosto di un modo di osservare, che si serve di strumenti artificiali - il «micro» rimanda infatti alle capacità analitiche del microscopio - in grado di potenziare lo sguardo storico e raggiungere snodi della realtà invisibili «a occhio nudo».
Ed è in questi stessi termini che si può comprendere anche un altro elemento caratterizzante della ricerca storica di Ginzburg: la morfologia. Termine medio - mutuato da Goethe - tra Wittgenstein e Propp, la morfologia è l’«esperimento» che ha condotto lo storico al confronto con discipline che, dalla storia, parrebbero distanti - e che pure ne hanno durevolmente segnato l’opera, riaffiorando fino ai saggi del recentissimo Paura reverenza terrore (Adelphi 2015) -, come le tecniche attribuzioniste di Longhi e a la sua storia dell’arte «senza date e senza nomi», o le ricerche iconografiche di Warburg, di cui Ginzburg ha in particolare esplorato proprio l’oscillazione tra morfologia e storia, individuando la genesi della complessa nozione di Pathosformel nella precocissima lettura di Darwin, a sua volta lettore dei Discorsi sull’arte di Reynolds.
A metà strada tra il primo e l’ultimo libro di Ginzburg, la più complessa storia del sabba mai scritta, uno dei libri più dibattuti, recensiti, amati e criticati dagli storici (e non solo) in Italia e nel mondo: Storia notturna. Una decifrazione del sabba, uscito nel 1989. Ed è proprio in Storia notturna che la morfologia assume quel ruolo di «additivo», di elemento aggiunto in modo artificiale a integrare le esigenze di esplorazione delle potenzialità della storiografia, fino ai suoi limiti estremi.
Tre anni fa dunque, in occasione del venticinquesimo anniversario di Storia notturna, il Dipartimento di Storia Culture Religioni della «Sapienza» di Roma, in collaborazione con «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», ha ospitato il primo di quelli che sarebbero divenuti degli appuntamenti fissi a cadenza annuale dedicati all’opera del grande storico, di cui il 16 maggio scorso si è svolta la terza edizione.
A celebrare - con antropologi, filosofi, storici, storici dell’arte, del cristianesimo, delle religioni e della filosofia - i venticinque anni di Storia notturna prima e, quest’anno, i cinquanta dei Benandanti congiuntamente alla recente uscita di Paura reverenza terrore, un Carlo Ginzburg infaticabilmente pronto al dibattito, al confronto, alla verifica delle argomentazioni elaborate - oggi o cinquanta anni fa. Testimone di una pratica storiografica fondata sull’irrinunciabile, accurata costruzione e verifica delle prove; sulla riconduzione di ogni discussione dal piano dei presupposti metodologici a quello analitico dell’argomentazione empirica. Di un sapere pratico che, in quanto tale, verrà trasmesso anche attraverso la condivisione dalle personali, individuali, «casuali» esperienze di quel singolo storico alle prese con la propria materia e, secondo la lezione blochiana, con un’interminabile auto-analisi, vaglio mai definitivo degli strumenti del proprio mestiere.
Intervista a Carlo Ginzburg
di Cora Presezzi, Marie Rebecchi *
Carlo Ginzburg ha sottolineato un elemento di casualità nella «scoperta» dell’oggetto a cui dedicò il suo primo lavoro, I benandanti. In quali circostanze avvenne l’incontro con un benandante e come, successivamente, è stata riletta questa scoperta e le implicazioni che ne seguirono?
Ho insistito sull’importanza del caso nella ricerca, però entro limiti ben precisi. Nella decisione di occuparmi di stregoneria, concentrandomi non sulla persecuzione ma sugli individui, uomini e donne, che venivano accusati di stregoneria - non c’era casualità. C’era un impulso molteplice di cui ero solo in parte consapevole e su cui ho cercato di riflettere più volte, nel corso del tempo. Ma mi è capitato di dire, in maniera polemica, che per un ricercatore trovare ciò che si cerca e basta, è troppo poco. Confermare le ipotesi da cui si è partiti mi sembra un obiettivo limitato. Bisogna invece essere aperti al caso, cioè all’incontro con documenti che non ci aspettavamo e che ci portano a riformulare le ipotesi iniziali. La mia sottolineatura dell’importanza del caso non aveva, e non ha, nulla di irrazionalistico.
Mi ero messo a studiare la stregoneria senza rendermi conto che cercare di decifrare gli atteggiamenti dei perseguitati attraverso gli archivi della persecuzione era un progetto per certi versi paradossale. (Retrospettivamente penso che questo paradosso, inizialmente non percepito in quanto tale, abbia orientato tutta la mia traiettoria di ricerca, fino ad oggi). La mia ipotesi iniziale era decisamente ingenua: decifrare i processi di stregoneria come una forma rudimentale di lotta di classe. Dietro quest’ipotesi c’era la lettura dei quaderni del carcere di Gramsci, che mi avevano segnato profondamente (un’esperienza che ho condiviso con tutta la mia generazione). Ma c’era anche La Sorcière di Jules Michelet: l’idea romantica della strega come ribelle.
Lavorando alla mia tesi di laurea trovai, nel fondo inquisitoriale conservato nell’Archivio di Stato di Modena, un processo, datato 1519, contro una contadina - si chiamava Chiara Signorini - accusata di aver gettato un maleficio contro la padrona che aveva cacciato lei e il marito dal fondo. Lì per lì mi parve di aver trovato in quel processo una conferma della mia ipotesi di partenza. Ricordo di aver provato un senso di delusione: se l’ipotesi poteva essere provata così facilmente qualcosa, in quell’ipotesi, non andava. Alla fine del saggio che pubblicai su quel processo (Stregoneria e pietà popolare) riformulai un’ipotesi più vaga della precedente: i processi di stregoneria come teatro di uno scontro tra concezioni del mondo diverse, impersonate, rispettivamente, dagli inquisitori e dalle persone accusate di stregoneria. Ma il senso di delusione restava.
Cominciai a girare per archivi italiani cercando altro materiale, altri frammenti più o meno consistenti di fonti inquisitoriali. Andai a Venezia, dove c’è un cospicuo fondo inquisitoriale conservato all’Archivio di Stato. Come ho detto, non avevo più un vero programma di ricerca; cercavo a caso. E lì m’imbattei, in una busta che conteneva processi del tardo ’500, nell’interrogatorio del benandante Menichino da Latisana. L’inquisitore chiese a Menichino che cosa volesse dire «benandante» (una parola che non avevo mai incontrato). Menichino disse: siamo benandanti, siamo nati con la camicia, quattro volte all’anno ci rechiamo in spirito nel prato di Iosafat a lottare con le streghe per la fertilità... Rimasi a bocca aperta, uscii dall’archivio e cominciai a fumare nervosamente, pensando di aver scoperto qualcosa di straordinario.
Molti anni dopo ho riflettuto su quell’incontro e sulle mie reazioni in un saggio intitolato Streghe e sciamani, incluso nel volume Il filo e le tracce. Mi sono chiesto se qualsiasi storico avrebbe reagito nel modo in cui ho reagito io. In questa domanda non c’è niente di narcisistico: cerco di riflettere su un’esperienza di ricerca approfittando della contiguità tra il ricercatore di allora e quello di oggi. Ho cercato di capire attraverso il mio caso un problema molto più ampio: l’interazione tra un documento rinvenuto casualmente e le aspettative che condizionano la reazioni di chi fa ricerca.
Più recentemente mi sono chiesto perché, imbattendomi nel primo documento su un benandante, ho subito pensato agli sciamani siberiani. Mi sono reso conto (anche qui, dopo molti anni) che quell’analogia mi era stata suggerita da una lunga citazione che apre un libro che avevo ben presente, ossia Il mondo magico di Ernesto de Martino. La citazione era tratta da un libro che non avevo mai letto (l’ho letto solo qualche anno fa) quello, notissimo agli studiosi dello sciamanesimo, dell’antropologo russo Sergei Shirokogoroff sul mondo psicomentale dei Tungusi. Nella scintilla che può dar vita a una ricerca si mescolano elementi consapevoli e inconsapevoli; esperienze di vario genere, magari non legate alla ricerca; libri letti e libri non letti.
Lo scarto tra le aspettative dell’inquisitore e le risposte del benandante apre una crepa da cui affiora uno strato di credenze contadine molto diverse dallo stereotipo della stregoneria confermato, grazie alle domande suggestive e alla tortura, da innumerevoli processi. L’anomalia apre dunque una possibilità di ricerca allo storico?
Su questa crepa ho insistito molto nel libro sui benandanti. Avevo letto già allora molti processi di stregoneria e l’interrogatorio di Menichino da Latisana (tre, quattro pagine in tutto) mi parve subito del tutto anomalo: la sorpresa dell’inquisitore era anche la mia. (Molti anni dopo scrissi un saggio intitolato intitolato L’inquisitore come antropologo - che partiva da questa analogia). Un elemento decisivo di quel documento era legato al fatto che il benandante in questione fosse nativo di Latisana, cioè friulano: ma la percezione di aver toccato un fenomeno friulano è emersa dopo.
Successivamente, grazie ai documenti conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Udine, ho potuto ricostruire da vicino i modi in cui gli inquisitori tentarono di colmare quella anomalia, riducendola alla norma. Ma la coppia anomalia/norma non è presente in questi termini nel mio libro. A posteriori mi è capitato di commentare questa coppia citando un aneddoto che avevo già ben presente nel momento in cui mi imbattei nei benandanti. In un bellissimo seminario che ascoltai in Normale, Gianfranco Contini parlò a un tratto, con una verve straordinaria, di due filologi romanzi, entrambi francesi. Il primo aveva una lunga barba ed era appassionato di anomalie grammaticali e morfologiche; quando ne trovava una si accarezzava la barba e diceva: «C’est bizarre!». L’altro invece, una mente cartesiana e una testa lucida (anche fisicamente lucida), cercava di ricondurre le anomalie alla norma; quando ci riusciva si stropicciava le mani e diceva: «C’est satisfaisant pour l’esprit».
Ascoltando Contini parlare dei due filologi m’identificai mentalmente con il filologo barbuto. Poi, nel corso degli anni, capii che le cose non erano così semplici. Ciò che mi interessava era sì l’anomalia, ma solo perché più essa è ricca, da un punto di vista cognitivo, rispetto alla norma. La norma infatti non può prevedere tutte le violazioni rispetto a se stessa: l’anomalia invece rinvia sempre, almeno implicitamente, alla norma. Per questo l’anomalia è più ricca, dal punto di vista cognitivo, rispetto alla norma.
Come si vede, sono lontanissimo dall’identificarmi con l’anomalia da un punto di vista ideologico (come ha fatto Michel Foucault nel Pierre Rivière). Più tardi ho riletto la questione dell’anomalia partendo dalla battuta di Edoardo Grendi sull’«eccezionale normale». Ciò che è, dal punto di vista documentario, eccezionale, può registrare un fenomeno molto diffuso. C’è una asimmetria tra la documentazione e ciò di cui la documentazione parla. Non posso dire che le credenze di cui i benandanti erano partecipi fossero «normali»: ma la diabolizzazione di credenze legate alla fertilità che si verificò in Friuli (anche se in maniera imperfetta e tardiva), si era verificata, a mio parere, anche altrove. La documentazione friulana è sì eccezionale, ma permette di ipotizzare un fenomeno molto più vasto. Di qui l’idea di formulare, attraverso un caso anomalo, un’ipotesi generale sulla storia della stregoneria e della sua repressione: se si vuole, sulla storia della diabolizzazione di una serie di credenze e pratiche contadine.
Come avvenne invece l’incontro con la morfologia?
La morfologia è subentrata quando ho cercato di rispondere alla domanda rimasta inevasa nei Benandanti: l’ipotesi, formulata in una mezza frase della prefazione, di un rapporto storico (e non di pura analogia) tra benandanti e sciamani siberiani. In realtà a quella domanda (mascherata da affermazione) non ero in grado di rispondere: mi mancavano, letteralmente, gli strumenti. Quando ho cominciato a lavorare sul libro che è diventato poi Storia notturna, mi sono messo a vagare alla cieca tra testimonianze e ricerche diversissime, senza rendermi conto di cosa realmente cercavo. Ricordo ancora il senso di illuminazione improvvisa che ebbi nel leggere la pagina delle Note di Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer, in cui la morfologia - nel senso di Goethe - è contrapposta all’ipotesi genetica à la Frazer. Partendo da questa contrapposizione rilessi la Morfologia della fiaba di Propp.
L’idea di una morfologia ispirata a Goethe, astorica e atopica, mi si presentò anche in un ambito diverso, quello dello studio delle immagini e delle tecniche dell’attribuzione degli storici dell’arte, a cominciare da Longhi: l’idea cioè che l’attribuzione possa essere avanzata sulla base di elementi puramente formali, per poi trovare eventualmente conferma in elementi di contesto. (Ma il giovane Longhi parlava di storia dell’arte «senza nomi e senza date»).
Così, mentre lavoravo sullo stereotipo del sabba, mi trovai a fare una deviazione - che poi si sarebbe rivelata non esser tale - e mi misi a lavorare su Piero della Francesca (Indagini su Piero, 1981). Lì gli elementi legati al contesto (l’iconografia, i committenti) venivano contrapposti a un’indagine puramente stilistica. Retrospettivamente, sono portato a vedere in quel libro qualcosa che mi è diventato chiaro soltanto dopo: e cioè l’importanza, dal punto di vista della ricerca, dell’elemento sperimentale, artificiale. L’artificio, che mette a fuoco certi elementi e non altri, ci permette di cogliere la ricchezza della realtà. In un saggio recente, Microhistory and World History, cito una battuta pronunciata da Franco Venturi in polemica con la microstoria (è stata riferita da Giovanni Levi): «Io sono per la storia senza additivi». È una battuta che io sono portato a rovesciare. L’elemento «micro», aggiunto alla storia, l’elemento additivo, è un elemento artificiale. E si riconnette alla morfologia: ossia un esperimento, un artificio, un additivo, che mette tra parentesi tempo e spazio.
Il libro in cui la morfologia viene sistematicamente chiamata in causa è Storia notturna.
La morfologia lì è uno strumento di ricerca e si combina con il tentativo di tradurre i dati scoperti per via morfologica in una serie di connessioni storiche - cosa che è stata respinta e criticata da molti. È un problema aperto, che continua ad appassionarmi molto.
Al cuore di Storia notturna c’è un passaggio che Ginzburg ha voluto successivamente indicare come una «svolta» nella costruzione generale del libro: il dialogo tra Niccolò Cusano e due vecchie contadine della Val di Fassa. Cosa si condensa in questo scambio tra uno dei massimi esponenti del sapere alto del suo tempo e due figure, quasi umbratili, convocate a raccontare un’esperienza di contatto con una presenza in cui Cusano vide un’immagine demoniaca?
è un documento straordinario, che ci riporta alla questione della lettura. Le vecchie parlano di una divinità che le ha visitate e che chiamano Richella; Cusano nella predica latina racconta tutto questo, identificando Richella con il demonio, e però tramandandoci qualcosa di Richella. Questo ci consente di leggere tra le righe la predica di Cusano, che per cercar di capire qualcosa che Cusano, che pure aveva capito moltissimo, potrebbe non avere capito. Nel mio saggio L’inquisitore come antropologo racconto di come fossi a un certo punto reso conto che, accanto alla mia contiguità emotiva con le vittime - non empatia ma sympathia, cioè un tentativo di capirle - c’era una contiguità intellettuale tra me e gli inquisitori. L’Inquisizione mi ripugna, e tuttavia ammiro il tentativo degli inquisitori di capire - quando c’era. Naturalmente la loro era una conoscenza finalizzata alla persecuzione: e qui le strade dell’inquisitore e dello storico (o dell’antropologo) divergono di nuovo. Se non sbaglio, qui si tocca un’ambiguità profonda, che ha a che fare con la questione della prospettiva storica.
La questione della prospettiva è centrale in Occhiacci di legno (1998), raccolta di saggi orchestrata attorno a due nodi concettuali: la distanza e l’estrema vicinanza o adesione alla fictio auto-prodotta. Da dove viene l’impulso a ragionare in modo sistematico sulla triade storia-distanza-finzione?
Il libro è il risultato del mio insegnamento alla UCLA; c’è la polemica - iniziata qualche anno prima e acutizzatasi nel periodo passato lì - contro lo scetticismo post-moderno e contro l’idea che sia impossibile tracciare un confine rigoroso tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche. Mi è capitato di citare, per descrivere il mio atteggiamento al riguardo, la metafora gramsciana della guerra di posizione e di movimento: se trasponiamo questa metafora - in un contesto minimo! - possiamo dire che scavare delle trincee contro lo scetticismo postmoderno, continuando a ripetere che la verità storica è diversa dalla finzione, è una strategia del tutto inefficace. Ho cercato invece di usare le armi del nemico, attaccandolo sul proprio campo, per continuare a usare la metafora bellica. In un altro libro, Rapporti di forza, ho dunque lavorato sulla contrapposizione tra due tradizioni retoriche: quella antica, che comincia con la Retorica di Aristotele e continua con Quintiliano e Valla, per la quale le prove sono fondamentali e quindi si interroga sulla natura delle prove. L’altra tradizione retorica, anti-aristotelica, cioè ostile all’idea di prova, è quella di Nietzsche e dei suoi epigoni - quella cara ai postmoderni.
Rispetto a questa seconda tradizione ho tentato due mosse (per usare questa volta il linguaggio degli scacchi). Da un lato, ho affrontato in maniera analitica la questione della retorica, arrivando a ritorcere contro i postmoderni una delle principali armi della loro argomentazione. Dall’altro, ho lavorato sul rapporto tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, considerato come un rapporto di competizione la cui posta è la rappresentazione della realtà. In altre parole, ho risposto alla tesi secondo cui «tutto è finzione» mostrando che la finzione ha un rapporto con la realtà, e che la nostra tradizione (diciamo da Omero in poi) è caratterizzata dalla competizione e dall’intreccio tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche. Ho cercato di analizzare questi temi lavorando su testi e su temi precisi.
Qui ritrovo qualcosa che ho imparato da mia madre: e cioè la convinzione che i romanzi hanno a che fare con la realtà, a partire dal modo in cui sono costruiti. E qui compare anche la figura di mio padre, perché il romanzo che mi ha messo di fronte per la prima volta di fronte a questo rapporto complesso tra finzione e realtà è stato Guerra e pace, di cui mio padre rivedeva la traduzione negli anni del confino. Ho letto Guerra e pace nella traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, rivista da mio padre, e preceduta da una prefazione che egli firmò con un asterisco (essendo ebreo, il suo nome non poteva comparire). Questo lavoro sulla traduzione di Guerra e pace negli anni del confino di mio padre si intrecciava profondamente al presente: allora c’era la campagna di Russia, Stalingrado ecc.
Cosa significa «provare» in termini storiografici?
La nozione di prova è qualcosa con cui ho certamente avuto a che fare fin da quando ho cominciato a far ricerca; ma che come tema di riflessione è emerso molto più tardi. Scrivendo vent’anni dopo la pubblicazione del saggio Spie (1979) mi sono reso conto che lì una riflessione sulla prova non c’era, perché ero stato tutto preso dall’euforia dal lavorio sugli indizi. L’impulso a riflettere sulla prova è emerso dopo, quando mi sono reso conto che il contesto era cambiato, e che si era diffuso un atteggiamento scettico, postmoderno che doveva essere combattuto. Così, nelle lezioni di Gerusalemme - che sono state poi pubblicate in italiano con il titolo Rapporti di forza - la «prova» veniva messa polemicamente accanto alla «storia» e alla «retorica» fin dal sottotitolo (Storia retorica prova).
Ma non si può cioè parlare delle prove in generale: le prove vanno sempre calibrate in rapporto con la documentazione esistente. Penso che lo storico debba cercare di rovesciare l’onus probandi - l’onere della prova - sui propri avversari, spostando il rapporto di forza nella discussione. Quando si tratta di dimostrare qualcosa che non è scontato, l’argomentazione deve essere sorretta da prove - prove falsificabili, diciamo con Karl Popper, e dunque in linea di principio mai definitive. Su tutto questo naturalmente c’è molto da discutere. Ho l’impressione che nell’accademia italiana la disponibilità alla discussione analitica sia purtroppo poco diffusa. Per una serie di ragioni storiche si preferisce discutere i presupposti ideologici di determinate affermazioni, anziché dimostrarne la debolezza sul piano analitico: scomponendole, individuandone gli anelli deboli etc.
Nell’ultimo libro, Paura reverenza terrore, raccolta di saggi accomunati da un riferimento all’iconografia politica, Ginzburg ricorre a una categoria dibattuta nel Novecento filosofico: quella di secolarizzazione. In che termini?
Di secolarizzazione si è molto parlato, sia in ambito tecnico, da parte dei filosofi, sia in termini non tecnici. Io ho fatto due affermazioni, forse non del tutto ovvie, riguardo alla secolarizzazione: la prima è che si tratta di un fenomeno in atto, tutt’altro che concluso; la seconda, legata alla prima, è che la secolarizzazione invade il campo delle religioni, e dunque non è affatto un fenomeno pacifico. Tutto ciò non legittima in nessun modo gli orrori che vengono perpetrati dalle religioni contro l’invasione della secolarizzazione.
Se c’è un motto che detesto è il motto: Tout comprendre c’est tout pardonner. Non si tratta affatto di perdonare. Ma comprendere che c’è uno scontro in atto è doveroso. Si tratta di uno scontro iniziato da secoli: se pensiamo ai tempi lunghissimi delle religioni, i tempi della secolarizzazione saranno per lo meno altrettanto lunghi.
Invadere il campo delle religioni significa che il potere statale utilizza gli strumenti di legittimazione della religione: il Leviatano di Hobbes brandisce sia la spada sia il pastorale. Ed è quello che intendeva Machiavelli quando diceva che il cristianesimo è una religione mite che dovrebbe invece ispirarsi alla religione feroce del mondo romano. Machiavelli pensava che ci si dovesse servire della religione in una prospettiva politica.
Esempi di questa appropriazione sono innumerevoli, e molto diversi tra loro. Io ho analizzato il caso del Marat di David, in cui Marat è rappresentato come un martire della rivoluzione (dove «martire», che significa letteralmente «testimone», rinvia a una tradizione religiosa). Il Marat di David non solo evoca Cristo ma riecheggia, come cerco di dimostrare, una scultura in marmo policromo di Pierre Legros che David aveva sicuramente visto a Roma. La statua rappresenta il beato - poi santificato - gesuita polacco Stanislas Kostka. Elementi legati all’iconografia cattolica e alla fase rococò della formazione di David si fondono con l’iconografia legata alla figura di Gesù morto, che a sua volta rinvia a Meleagro. Di questo intreccio David è perfettamente consapevole: reagisce al culto che si era manifestato dopo l’uccisione di Marat, trasformato in martire rivoluzionario, e propone una sorta di contro-culto rivoluzionario, controllato dall’élite dirigente di cui fa parte.
Ci sono due «definizioni» di storia proposte da Marc Bloch: la storia come «artigianato» e la storia come «vittoria dell’intelligenza sul dato». In quali termini Ginzburg si colloca in continuità con quelle idee?
Lo storico che mi ha convinto a fare questo mestiere è stato Marc Bloch: in particolare il Bloch de I re taumaturghi: un libro che ho avuto il privilegio di introdurre ai lettori italiani. Una sorta di discussione con Bloch è una costante che mi ha accompagnato fino ad ora. La definizione che Bloch propone dell’elemento artigianale mi pare assolutamente da condividere: nella ricerca storica non esistono ricette, perché ogni caso è diverso dall’altro; è vero però che certi casi si prestano più di altri alla generalizzazione. La riflessione sul metodo, quindi, non può essere slegata dalla dimensione empirica (molto spesso avviene il contrario).
L’altro passo - la «vittoria dell’intelligenza sul dato» - che cito nell’introduzione a Il filo e le tracce, tocca un tema cui abbiamo accennato parlando di Cusano e delle vecchie della Val di Fassa. Bloch diceva che leggere i documenti per cercare di rintracciarvi qualcosa che non faceva parte delle intenzioni di chi li aveva prodotti, è una grande vittoria «dell’intelligenza sul dato». Per l’inaugurazione di una cattedra dedicata a Marc Bloch all’Universidad de San Carlos de Guatemala ho scritto un saggio che parte dal passo di Bloch che ho appena citato, cercando di situarlo in una prospettiva più ampia. Il titolo è Revelaciones involuntarias. Leer la historia a contrapelo. Penso che la riflessione sugli strumenti della ricerca debba accompagnare la ricerca, senza interrompersi mai.
* ALFABETA2 il 16 luglio 2016. Speciale Carlo Ginzburg. Cinquant’anni di mestiere di storico.
Nello speciale: Una storia con additivi, tra il caso e la prova Intervista a Carlo Ginzburg
Spazi bianchi. Carlo Ginzburg e la storia «par l’autre sens»
Immagini e scrittura della storia L’icono-storiografia di Carlo Ginzburg
Perché si venera un falso
La Sindone non ha misteri
Il fatto che si tratti di una reliquia costruita a fini di lucro tra Due e Trecento nulla toglie al suo interesse storico
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.05.2015)
Almeno da un secolo a questa parte, gli storici hanno imparato che studiare il falso è quasi altrettanto rilevante che studiare il vero. Almeno da quando il medievista francese Marc Bloch trasse dalla sua esperienza della Grande Guerra combattuta sul fronte occidentale una lezione definitiva intorno al valore delle «false notizie», e del loro intreccio con le mentalità collettive: con le aspettative e con gli interessi, con i pregiudizi e con i miti che trasformano una percezione fallace in una leggenda “vera”.
Va letto come una magnifica variazione sul tema di Bloch il libro che uno storico del cristianesimo, Andrea Nicolotti, ha pubblicato da Einaudi con il titolo Sindone. E unicamente si può rimpiangere che il sottotitolo suoni Storia e leggende di una reliquia controversa, mentre la stringente dimostrazione dell’autore avrebbe giustificato un aggettivo diverso: Storia e leggende di una falsa reliquia. Tanto il libro di Nicolotti ha il pregio di certificare - per l’appunto - la ricchezza storico-antropologica di un falso. Nel caso specifico, il falso sudario di Gesù Cristo che in queste settimane nuovamente viene esposto, a Torino, alla venerazione dei pellegrini d’ogni dove.
Dopo il libro di Nicolotti, non si vorrebbero più leggere frasi di circostanza come quelle che figuravano ancora lo scorso 19 aprile, sulle pagine del «Corriere della Sera», sotto la penna di un giornalista còlto e acuto com’è Aldo Cazzullo: «La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resterà sempre». Basta.
La verità sulla Sindone esiste, non c’è più alcun dubbio né alcun mistero. La Sindone è una fabbricazione medievale, è un finto sudario del I secolo d.C. approntato da un qualche falsario in una data compresa fra la metà del Duecento e la metà del Trecento.
Ma il fatto che la Sindone sia taroccata nulla toglie alla sua importanza culturale e spirituale. Al contrario, una volta appurato che siamo di fronte a una falsa reliquia, proprio allora incomincia - per uno storico che abbia letto bene Marc Bloch - la parte più suggestiva e più istruttiva della ricerca. Come e perché la fede nell’autenticità della Sindone ha potuto resistere, per oltre sei secoli, dapprima agli indizi, poi alle prove della sua falsità?
Gli indizi della falsificazione arrivarono presto: a pochi anni o pochi decenni di distanza dall’exploit del falsario. Il luogo è il regno di Francia, la provincia è la Champagne, la città è Troyes, la diocesi è quella del vescovo Pierre d’Arcis-sur-Aube, l’anno è il 1389.
Rivolgendosi sia al re Carlo VI di Valois sia al papa d’Avignone Clemente VII, il vescovo Pierre denuncia le trame dei canonici di una piccola chiesa appartenente a un feudo locale. A Lirey, «una stoffa raffigurata con artifizio, su cui in modo abile è stata raffigurata l’immagine duplice di un uomo», viene spacciata come la medesima in cui, sulla collina del Golgota, era stato avvolto «il preziosissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo». Il tutto «non a fine di devozione ma di lucro», per «un fuoco di avarizia e di cupidigia». Inscenando sul luogo falsi miracoli. E facendosi beffe dell’evidenza per cui «quello in realtà non poteva essere il sudario del Signore, dal momento che il Santo Vangelo non fa alcuna menzione di un’impressione di tal fatta, mentre invece, se fosse vero, non è verosimile che sia stato taciuto od omesso dai santi evangelisti, né che sia stato nascosto od occultato fino a quel tempo».
Scrivendo al papa, il vescovo Pierre riferisce che un’indagine già era stata compiuta, negli anni a ridosso del 1356, dal suo predecessore Henry di Poitiers, e che la truffa era stata fin da allora smascherata, con tanto di confessione dei colpevoli. «Fu comprovato, anche grazie all’artefice che l’aveva raffigurata, che era stata fatta per mezzo umano e non realizzata o concessa miracolosamente».
Per una trentina d’anni i canonici di Lirey avevano smesso, quindi, di profittare della credulità dei fedeli spacciando la reliquia come vera. Ma ecco che la truffa stava ricominciando... Verso la chiesetta di Lirey «ogni giorno affluiva abbondantemente la gente della Champagne e delle regioni vicine per adorare quel panno, non temendo di commettere idolatria». Era ora di finirla. Tale «detestabile superstizione» - implorava il vescovo dal papa - andava «radicalmente estirpata per intervento della stessa Santità Vostra, cosicché quella stoffa non sia esibita al popolo o addirittura venerata».
In una Francia che cercava di risollevarsi dalla Peste Nera e dai terribili lutti che questa aveva seminato, alimentando fra i laici un tanto più impellente bisogno di sacro, il vescovo Pierre seppe dire già tutto: il silenzio della tradizione evangelica riguardo alle stoffe sepolcrali di Gesù, l’irragionevolezza di un’epifania della Sindone dopo milletrecento anni di eclissi, la miscela di speculazione pretesca e credulità popolare che malamente si celava dietro il culto del lino di Lirey.
Ma il vescovo Pierre non poté fare i conti né con le cautele politiche di un papa dimezzato (in tempo d’antipapi) com’era Clemente VII, né - tanto meno - poté fare i conti con uno sviluppo decisivo della storia: la scelta quattrocentesca del duca di Savoia, Ludovico, di acquistare (sotto banco) il falso sudario, per farne il gran simbolo religioso del suo casato.
La parte centrale del libro di Nicolotti è dedicata a questo versante della vicenda: gli usi sabaudi della Sindone, dal Quattrocento all’Ottocento, attraverso ostensioni organizzate prima a Chambéry e poi, dopo il trasferimento della capitale, a Torino. Usi sabaudi, e forse abusi sabaudi: non è infatti da escludere che la falsa reliquia di Lirey sia stata rimpiazzata, nel 1534, da un secondo falso sudario, perché un rovinoso incendio aveva distrutto il primo. Dopodiché la ricostruzione di Nicolotti percorre il versante novecentesco della storia. E brillantemente ragiona del paradosso epistemologico per cui tanto più si è potuto discettare, tra ambienti devoti e cultura popolare, dell’autenticità della Sindone, quanto più gli studi umanistici e le scienze “dure” andavano dimostrandone la falsità.
La prova definitiva intervenne, com’è noto, nel 1988: quando un campione del lino della Sindone fu sottoposto, presso diversi laboratori internazionali, all’esame del radiocarbonio (isotopo C14), e l’unanime referto stabilì trattarsi di un tessuto databile all’epoca 1260-1390.
Ma la radiodatazione non ha scoraggiato gli adepti della pseudoscienza che da qualche decennio in qua si definisce «sindonologia». Al contrario. Mentre la Chiesa cattolica ha precluso alla comunità scientifica accreditata ogni nuovo accesso al tessuto della Sindone, una compagnia di giro internazionale fatta di generosi illuminati e di scienziati della domenica, di pubblicisti compiacenti e di fantasiosi lestofanti, ha costruito intorno a pollini e campi elettrici, laser e neutroni, materia e antimateria, una vera e propria fabbrica mitopoietica: una fucina di assurdità “autenticiste” non si sa se più esilaranti o più inquietanti.
P.S. Giunto in fondo a questo libro dell’Einaudi, l’ammirato lettore potrà chiedersi come mai - secondo quanto si ricava dalla bandella di copertina - Andrea Nicolotti non sia, a quarant’anni suonati, altro che un precarissimo «assegnista» dell’Università italiana. E in attesa che uno storico di tale livello, alimentando la «fuga dei cervelli», si decida a proseguire la carriera in quel di Parigi o di Oxford o di Stanford, il lettore potrà ben sospettare che si tratti dell’ennesimo piccolo scandalo dell’accademia nostrana.
INCONTRI. Gli studi di storia e letteratura, l’antifascismo, le condanne. Per la prima volta il figlio Carlo racconta Leone, a cento anni dalla nascita
Ginzburg, mio padre. Filologo della libertà
Sognava un continente diverso. Prima di morire, ucciso dalle SS, confidò: non odio i tedeschi.
Le leggi razziali gli apparvero una ferita all’eredità risorgimentale cui si sentiva fortemente legato
di Dino Messina (Corriere della Sera, 01.05.2009)
BOLOGNA - «Mi terrò lontano dall’ambito del privato». Con questa precisa indicazione comincia la prima intervista che Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani, il più noto in campo internazionale, abbia mai dedicato a suo padre Leone.
Figura cruciale dell’antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Gobetti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì il 5 febbraio 1944 nell’infermeria del carcere romano di Regina Coeli, in seguito alle percosse subite durante gli interrogatori da parte dei nazisti. Trasferitosi a Torino con la famiglia, superò gli esami di ammissione al liceo Massimo D’Azeglio e continuò il brillante percorso di studi con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande, che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, col quale avrebbe dato un impulso decisivo alla costruzione della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva una funzione di maestro e guida spirituale Augusto Monti.
«Monti - dice Carlo Ginzburg - commentava il Breviario di estetica di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l’antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli Scritti di Leone Ginzburg editi nel 1964 (poi ristampati nel 2000 con un’importante prefazione di Luisa Mangoni), «l’adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettuale, politica e persino morale di Leone è sottolineata in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». In giovanissima età tradusse Taras Bul’ba di Nikolaj Gogol, Anna Karenina di Lev Tolstoj e cominciò a pubblicare saggi sulla letteratura russa. Si laureò con una tesi su Guy de Maupassant e incontrò Carlo Rosselli esule a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non volle impegnarsi nella cospirazione antifascista. «Fu Vittorio Foa - ricorda Carlo - a segnalarmi l’importanza di questo punto. Leone Ginzburg non era venuto in Italia per caso. Il suo padre naturale era un ebreo italiano, e da bambino aveva vissuto alcuni anni a Viareggio. Ma la decisione di diventare italiano fu fondamentale nella costruzione della sua personalità intellettuale e politica. Aveva un legame fortissimo con la tradizione risorgimentale, come Vittorio Foa, che ne parla ripetutamente nelle lettere dal carcere. Quando era a Pizzoli, il paese vicino all’Aquila dove era stato internato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è rimasto il saggio incompiuto La tradizione del Risorgimento. Immagino che anche mio padre, come Vittorio Foa, abbia reagito all’ignominia delle leggi razziali come a una cesura rispetto alla tradizione risorgimentale».
L’attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sulla letteratura italiana dell’Ottocento: curò l’edizione dei Canti di Leopardi per la collana Scrittori d’Italia di Laterza fondata da Croce. Nel periodo di internamento passato a Pizzoli stava raccogliendo materiale per un libro su Manzoni, che è andato perduto quando, dopo il 25 luglio 1943, lasciò Pizzoli per andare a Roma, dove durante l’occupazione tedesca diresse l’edizione clandestina dell’Italia Libera, giornale del Partito d’Azione. Gli studi sull’Ottocento italiano s’intrecciavano con quelli sull’Ottocento russo: così nacquero l’accostamento tra Puskin e Manzoni e il saggio Garibaldi e Herzen. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando, dopo le leggi razziali, gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l’offerta di espatriare. Lui rifiutò, disse che il suo posto era qui».
Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto, appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese, che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c’è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo (come risulta dalle Lettere dal confino curate da Luisa Mangoni) era il direttore occulto, per via dei divieti razziali, della raccolta di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato raggiunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli.
«Leone, la sua passione vera era la politica - scrive Natalia in Lessico famigliare -. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quale di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo storico erano molto intrecciati. Resta il problema di capire se la vocazione politica fosse imposta dalle circostanze, dall’esigenza morale di contrapporsi al fascismo, o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vittorio Foa e quel che mi disse una volta parlandomi di Piero Gobetti. ’A differenza di Gobetti tuo padre era un filologo’, mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, anche grazie al decisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse ’il maestro’. La vocazione di filologo in qualche modo definisce un atteggiamento che si può trovare sia negli studi sulla letteratura sia in quelli di storia, e forse, paradossalmente, anche nell’azione politica. Mi spiego: qui non penso alla filologia in senso tecnico ma alla filologia in senso ampio di cui parla Giambattista Vico (qui tra i libri di mio padre conservo una copia dell’edizione 1744 della Scienza nuova): un abito mentale che consente di ascoltare e interpretare la voce degli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. Mi è parso di ritrovare questo atteggiamento anche nello scritto politico del 1932, Viatico ai nuovi fascisti, di cui parlò Carlo Dionisotti (lo ricorda Giorgio Panizza nell’introduzione agli Scritti sul fascismo e sulla Resistenza di Dionisotti). A proposito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fascista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: ’Le settecentomila persone, che sentono come un marchio quest’iscrizione forzata (al Partito nazionale fascista, ndr) hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta, Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione’. Era un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non le condanno moralisticamente; esse però non devono diventare un alibi per una vita di compromessi». Nel 1934 Leone Ginzburg avrebbe lasciato il posto di libero docente di letteratura russa rifiutando di prestare giuramento al fascismo. Nel novembre di quell’anno sarebbe stato arrestato, accusato di cospirazione antifascista e condannato a quattro anni (ne scontò due nel carcere di Civitavecchia).
Il rigore filologico e la capacità di guida intellettuale di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella collaborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni hanno dimostrato inequivocabilmente ciò che lo stesso Giulio Einaudi riconobbe più volte: mio padre, uscito di prigione nel 1936, diede un’impronta decisiva alla casa editrice con la creazione di collane come la Biblioteca di cultura storica, i Narratori stranieri tradotti, i Saggi, la Nuova raccolta di classici italiani annotati. La severità dell’atteggiamento filologico di mio padre traspare anche nella critica alle straordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke».
Giaime sarebbe morto il 1˚dicembre 1943 nel tentativo di attraversare sul Volturno le linee naziste e unirsi alla Resistenza romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell’Italia Libera. Diede il falso nome di Leonida Gianturco, ma fu riconosciuto, perché schedato come antifascista, e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini - ricorda Carlo - ha scritto nella sua autobiografia Sei condanne e due evasioni che mio padre, che aveva incontrato sanguinante dopo l’ultimo interrogatorio, gli disse ’che non bisognerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi’. Perché questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima rinvia alle sue convinzioni politiche: nella costruzione di una federazione europea la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda rinvia a un imperativo di genere diverso: la necessità di distinguere tra tedeschi e nazisti. Anche in quel momento, penso, imponeva a se stesso il distacco critico di cui parla nell’ultima lettera scritta a mia madre, poi raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Dal carcere scriveva: ’Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale’».
colloquio tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson *
Su «Aut Aut». Dibattito tra lo studioso italiano e l’americano Arnold I. Davidson.
Metodi, obiettivi e pericoli nella lettura critica dei documenti
Ginzburg: il pre-giudizio aiuta la ricerca storica
«Se non si parte da una ipotesi si rischia di non capire nulla, bisogna saper imparare dal testo»
Pubblichiamo uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. In questa conversazione- organizzata dal festival «vicino/lontano» di Udine, lo storico italiano affronta con il suo interlocutore (studioso americano di Foucault e autore del saggio The Emergence of Sexuality, Harvard University Press) i problemi cognitivi ed etici con cui si confronta la storiografia nel ricostruire il passato sulla base dei documenti.
Arnold I. Davidson: Il tema dello straniamento, vale a dire entrare in un’altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all’interno della storia, ma anche all’interno della filosofia. Lo straniamento ci consente di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva altrui. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull’aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c’è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al relativismo assoluto: certo, c’è una prospettiva, ma si può argomentare intorno ad essa per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo.
Ma lo straniamento non è la sola posta in gioco, perché c’è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L’idea che il sapere sia sempre prospettico è un’idea fondamentale. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c’è un aspetto conoscitivo, ma c’è anche un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione.
La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra - questo è il bene, questo è il male - e implica il tentativo di giustificare con l’argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare.
Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare impliciti giudizi etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l’indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi - perché per la prospettiva cognitiva c’è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C’è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione? E qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione, dove c’entrano la filosofia morale e la politica?
Carlo Ginzburg: Bisogna superare l’idea illusoria che il rapporto con i testi o con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata: non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. La loro apparente potenza è illusoria.
In realtà l’interprete trova solo se stesso. La stessa cosa succede con le persone. L’idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla stessa cultura. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell’opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque - perché questo fa parte del mestiere di vivere.
Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi che, anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. Ma credo che nell’idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Nel libro del grande storico dell’arte Ernst Gombrich Arte e illusione, l’autore evoca un aneddoto: all’inizio dell’Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso luogo e ne vengono fuori molti quadri diversi. Come mai? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico, ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità; dall’altro, la traducibilità.
Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c’è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi studia testi. Se non si parte da un’ipotesi non si capisce nulla. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio. Dobbiamo essere disposti a imparare dal testo.
Davidson: Vorrei ritornare sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell’atteggiamento dello straniamento.
C’è però una cosa più profonda: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto. Egli dice: «O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l’umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia». Su quest’ultima affermazione sono d’accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l’atteggiamento di Momigliano è che c’è un’opposizione fra la prospettiva morale, che per lui è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo questo presunto punto di vista, per così dire, dell’eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all’interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque all’interno della storia.
Qui, però, c’è un problema, perché Carlo rifiuta l’idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Se il giudizio morale è immanente alla storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio?
Ginzburg: Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato Momigliano, una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase citata da Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell’osservatore. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall’osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l’oggettività.
In che senso? Dobbiamo distinguere tra il linguaggio dell’attore e il linguaggio dell’osservatore. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c’impedirebbe di vivere.
L’osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L’oggettività può emergere solo da quest’intreccio di domande e risposte.
* Corriere della Sera, 24.07.2008