Lezione di metodo

IL FILO E LE TRACCE. Vero, falso, finto: lo storico CARLO GINZBURG, in navigazione, tra lo Scilla del relativismo assoluto e il Cariddi del realismo fondamentalista

sabato 22 luglio 2006.
 


Una riflessione sulle contraddizioni e la complessità della ricerca della verità

Ginzburg e le finzioni dello storico

di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 22.07.2006)

I libri di Carlo Ginzburg pongono più domande di quante risposte trovino alle questioni sollevate. In questo, Ginzburg assomiglia a un filosofo socratico, ma dotato di una modernità di pensiero, ossia di quel gusto per la sottigliezza e la raffinatezza del gioco interpretativo che lo apparenta piuttosto a un pensatore settecentesco, ambito dove sguazza a suo agio come anche dimostrano questi saggi che compongono un libro "frammentario" e "omogeneo" al tempo stesso. La molteplicità nell’unità è data fin dal titolo: Il filo e le tracce.

Ginzburg appartiene a una categoria nuovissima di storici cui ha fatto da ostetrica una serie di crisi a catena che dal positivismo ancorato all’idolatria del fatto e del documento ha aperto la strada via via a una storia sempre più raccontata, a una discesa nell’infinitamente piccolo della materia storica: dalla microstoria che amplifica un elemento minore fino a portarlo sulla scala dell’argomento massimo e universale, alla storia evenemenziale dominatrice lungo il protrarsi delle derive postmoderne che hanno smantellato l’idea della "storia universale" sostituendola con l’idea della storia relativista, la storia-fiction.

Il trait-d’union che unisce i saggi di questo libro è l’identificazione del particolare minimo che improvvisamente trasforma la prospettiva nel giudizio storico e mostra quanto l’accertamento delle cose sia una chimera. Non l’accertamento della verità, poiché come fa capire Ginzburg nel sottotitolo «vero falso finto» sono tre diverse facce dello stesso solido, quello di una verità intravista oltre lo specchio opaco del reale.

È la verità, insomma, che determina il metodo? O è il metodo che crea ciò che sta cercando? La realtà è performativa anche per lo storico, così come l’opera d’arte nella modernità lo è per il critico? Come ricorda Ginzburg stesso, un libro di Croce che ebbe molta importanza in Europa nel delineare una filosofia della ricerca storica, s’intitolava La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In sostanza, Ginzburg è distante dall’ipotesi scientista, ovvero dogmaticamente razionalista, ma non è neppure per quella relativista che riduce tutto alla narrazione. Semmai, come insinua analizzando alcuni luoghi storico-narrativi in Stendhal, Balzac, Tolstoj, Flaubert, la letteratura non nega a sé stessa una valenza di "prova" che passa naturalmente attraverso una sintesi di fatto storico e immaginazione dove il fattore di credibilità, o di verosimiglianza, è rintracciabile nella genesi nascosta che porta alla costruzione del racconto. Qui, giustamente, Ginzburg recupera le acutissime osservazioni di Auerbach in Mimesis dove il principio stesso di realtà innerva e dà addirittura potere veritativo all’imitazione creativa.

Colpisce, in uno dei capitoli finali, l’accostamento tra ricerca storica e antropologia, perché viene sempre più da pensare che gran parte delle questioni che occupano oggi le scienze umane possano in futuro raccogliersi sotto l’unico portale della ricerca antropologica: il che, in un’epoca d’incertezza nel definire quella che un tempo si diceva la visione del mondo, sta quantomeno a dimostrare che l’uomo ha lentamente riguadagnato, dopo i secoli della rivoluzione scientifica che lo avevano reso come una presenza "marginale" nella grande organizzazione del cosmo, una fiducia in sé stesso che si manifesta proprio nel ritorno all’antropologia come lingua comune di un discorso sul mondo. E allora la teodicea volterriana post-Lisbona attesta proprio come il sentirsi "a margine" di un sistema ponga anche una questione di interpretabilità del male e del principio di realtà delle sue manifestazioni. Ginzburg indaga, in alcune pagine, fra le maglie del pensiero di Voltaire e mostra come lo stesso discorso della tolleranza può mettere a nudo certe imposture dei Lumi.

Questo libro sembra mettere maggiormente a fuoco nella riflessione che Ginzburg va conducendo dagli anni Novanta in poi (vedi Occhiacci di legno e Rapporti di forza) una domanda che, parafrasata, fa da titolo a un saggio di Paul Veyne: I Greci hanno creduto ai loro miti? L’Illuminismo ha creduto, nella sua volontà di smascherare l’irrazionale, al mito della ragione? Quanto lo sviluppo della modernità (vedi Horkheimer e Adorno) abbia cercato di liberare il mito razionalista dai suoi presupposti "assolutisti" - ovvero «fondativi», che sono l’altra faccia della risalita verso le origini - per aprirlo alla visione dell’altro - decisivo, a questo proposito, l’antefatto dei saggi di Montaigne dedicati al selvaggio -, è ancora in discussione.

Ecco, forse, la domanda nascosta in questo libro: si può scrivere la storia con quella «indifferenza di pensiero» che già venne imputata alla narrativa di Flaubert? Oppure questa presunta indifferenza, come in Flaubert, è una maschera che calza bene al nostro tempo «globalizzato»? In fondo, la storia come demitizzazione ha finito per misconoscere che nel mito c’è più storia di quanta si immagini. Hans Blumenberg aveva tentato di praticare una strada per così dire post-illuminista, ovvero criticando l’«assolutismo della realtà»: se il mito non è più la ricerca dell’origine (di per sé impossibile), esso può diventare il mezzo che apre lo sguardo su un’origine che nasce ora, qui. Anche per lo storico.

Carlo Ginzburg Il filo e le tracce Feltrinelli. Pagine 340. Euro 25,00


Sul tema, in rete, si cfr.:

-  LA VERITA’, LA MENZOGNA, E LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO DELLO STORICO (E NON SOLO). Dividere il reale dall’immaginario, dare un significato all’uno e all’altro..
-   VIDAL-NAQUET PONE LA QUESTIONE "CRITICA"(KANT), MA GLI "EICHMANN DI CARTA" NON HANNO SMESSO DI VINCERE: NESSUNO ANCORA LO ASCOLTA! Per non dimenticare, alcune sue riflessioni dal suo libro "Gli assassini della memoria"


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