La famiglia, crocevia del disagio sociale
di Lea Melandri (Liberazione, 20.08.2006)
In un articolo uscito su Liberazione il 10 agosto 2006, Susanna Camusso, riferendosi all’impegno politico delle assemblee Usciamo dal silenzio da gennaio ad oggi, e notando che sulle questioni legate all’aborto -applicabilità della Legge 194, sperimentazione di nuove terapie - era prevalsa una posizione “difensiva”, si chiedeva quando e dove il movimento femminista degli anni ’70 aveva perso “la sua presa”, la capacità di produrre cambiamenti significativi. Forse - era la risposta - nell’aver dato per scontato che i consultori fossero ormai luoghi acquisiti di tutela della salute delle donne, o, peggio ancora, nell’averli visti progressivamente trasformarsi in servizi per genitori e figli, nell’avere più o meno consapevolmente accettato di restare “donna di”, e aver quindi permesso che la famiglia diventasse il “centro di tutto”. Un discorso, concludeva Camusso, che ci porterebbe lontano.
Ma forse è proprio lontano che dobbiamo spingerci, per non cadere nelle secche di rivendicazioni apparentemente più concrete, come la difesa di un’idea restrittiva di “salute della donna” o la scelta di una particolare pratica abortiva. Gli interrogativi che sono stati posti dall’avvicendarsi di manifestazioni, assemblee, seminari nazionali, documenti, comunicazioni via Internet, hanno oscillato, mi verrebbe da dire con una semplificazione, tra corpo (sessualità) e politica, un vecchio dilemma del femminismo, che aspetta ancora risposte adeguate, e che solo in senso lato può essere ricondotto all’incerto, difficile rapporto tra partiti e movimenti.
A portarci sull’orizzonte più ampio, che ci sembra di aver progressivamente smarrito negli ultimi due decenni, è oggi un documento che viene da una sponda imprevista, guardata con diffidenza da molte di noi, pur nella manifesta e pressoché unanime simpatia per la donna che se ne è fatta promotrice: Rosy Bindi e il suo Ministero della Famiglia.
La relazione con cui Bindi si è presentata alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati è uno straordinario affresco del disagio che attraversa la nostra società, delle ansie sotterranee che la politica ignora o traduce malamente in diatribe astratte, un esempio chiaro delle contraddizioni che rendono uno sforzo autenticamente democratico inefficace, quando non riesce a individuare gli interlocutori reali, le loro storie e le loro aspettative.
Chi ha deciso di istituire un Ministero della Famiglia di certo non si aspettava che essa sarebbe stata messa sullo stesso piano delle “grandi opere” necessarie allo sviluppo umano, economico, sociale, che avrebbe ritrovato quella “centralità” che la storia le ha via via sottratto, e, insieme, gli inequivocabili, mai tramontati legami di parentela con la società nel suo complesso.
Fuori dalla retorica che ne ha così a lungo coperto la marginalità, la famiglia è chiamata a una “cittadinanza sociale” che la impegna come “soggetto attivo di Welfare”, accanto alle massime istituzioni dello Stato.
Ma il lungo esilio, la colpevole latitanza della responsabilità pubblica, la persistenza di abitudini e antichi conflitti mescolati a rapide, incontrollate trasformazioni, hanno fatto sì che una fondamentale “risorsa” della collettività si presentasse all’appuntamento con la storia come un malato terminale, al cui letto è chiamato per un ultimo tentativo di guarigione l’intero “sistema Paese”, coi suoi Ministeri - Salute, Lavoro, Solidarietà Sociale, Giustizia, ecc. -, le sue diramazioni locali -Regioni, Comuni-, le sue strategie di governo, e un investimento di spesa quale nessun Ministero senza portafoglio penso abbia mai osato chiedere.
Le funzioni di cui si è continuato a far carico alla famiglia non sono cambiate molto rispetto alla descrizione che ne facevano i sociologi all’inizio del ‘900: “governo della casa, procreazione, allevamento e educazione dei figli, regolazione dell’incremento demografico, socializzazione, mantenimento dei malati e dei vecchi, possesso e trasmissione ereditaria del capitale e di altre proprietà, determinazione della scelta della professione” (M. Horkheimer, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, 1968).
La famiglia, si legge nel documento di Rosy Bindi, è chiamata a far fronte ai problemi che accompagnano ogni “percorso di vita”: nascita, crescita dei figli, cura dei più deboli, gestione dei conflitti, solidarietà tra generazioni. Ma è anche “il primo spazio in cui si sperimenta la quotidiana fatica di gestire la sfera degli interessi e delle emozioni. Produrre ricchezza e risparmio con il lavoro che le sue componenti svolgono all’interno e all’esterno. Al tempo stesso produce e riflette antiche tensioni e nuovi conflitti sociali...la violenza sui bambini e le donne, il disagio degli adolescenti, l’aumento delle povertà, la solitudine delle persone, l’emarginazione degli anziani”.
Su un luogo che conserva quasi invariati nel tempo ruoli, gerarchie, pregiudizi, consuetudini, adattamenti, cadono oggi “emergenze” prodotte da trasformazioni culturali, economiche e sociali, di cui la famiglia è al medesimo tempo origine, riflesso e contenimento. Il declino demografico - denatalità e invecchiamento della popolazione, con il conseguente numero sempre maggiore di anziani non autogestiti, la de-istituzionalizzazione, aumento delle coppie non sposate e dei figli nati fuori dal matrimonio, fanno dire a Rosy Bindi che diventa sempre più difficile “fare”, “continuare” e persino “resistere” a fare famiglia, ma che, ciò nonostante, la famiglia “regge”.
Il malato è grave, ma non moribondo, e lodevole è sicuramente l’insistenza con cui nell’ordinato sviluppo dei temi ritorna la sollecitazione a riconoscere il “valore sociale” della famiglia, il “bene” fondamentale che essa rappresenta per lo sviluppo, la crescita, la coesione. Una buona ragione perché non sia più permesso a una responsabilità pubblica finora carente di esimersi da tutelarla, garantirle un’esistenza dignitosa.
Detto questo, e riconosciuto che la “nuova politica” con cui Bindi pensa si debba affrontare il problema famiglia è molto lontana dalle soluzioni compassionevoli di un certo conservatorismo cattolico, ancorata com’è a logiche di diritto, impegni istituzionali, risorse pubbliche, è come se un ostacolo, una di quelle barriere che nascondono all’improvviso l’intero paesaggio, ci rimandasse all’assunto iniziale: che cos’è la famiglia? Che senso ha parlarne come di un’entità a sé stante, distinta dai singoli componenti? Benché formulata in modo meno esplicito, la domanda è sicuramente presente dietro le spiegazioni che vengono date quasi in apertura del documento.
Il rimando è alla Costituzione, articolo 29, comma 1°, la dove si dice che “si riconoscono diritti alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Preoccupata di “armonizzare” diritti della persona e della famiglia, ben sapendo quanto confligga tuttora la libertà del singolo con le richieste del gruppo di appartenenza, Rosy Bindi conclude sbrigativamente e in modo assiomatico che “la famiglia non può essere nemica delle persone” e che, come tutte le “formazioni sociali”, essa ha come fine “lo svolgimento della personalità degli esseri umani”. A riparo di ulteriori obiezioni, viene detto chiaramente che, rispetto ai suoi componenti, la famiglia gode di un “plusvalore istituzionale”, o, come si legge più avanti nel capitolo sulle “unioni di fatto”, una “dignità superiore”, non solo perché rispondente a un “ordine naturale”, ma perché garanzia di stabilità, certezza, reciprocità di diritti e doveri, in virtù del matrimonio.
Il fatto che i dati Istat, e tutte le ricerche sociologiche riportate scrupolosamente nel testo dicano il
contrario - separazioni e divorzi in crescita, violenze, obblighi disattesi dai coniugi, allentamento dei legami di parentela -, non distoglie da quello che è l’assunto pregiudiziale del documento: per avere cittadinanza negli ambiti istituzionali della politica la famiglia non può parlare un’altra lingua, non può rivelare il volto dei suoi reali componenti, l’uomo e la donna, né dire della storia di dominio che ha sottomesso un sesso all’altro, escluso la donna dalla scena pubblica, legittimato il potere maschile e la divisione dei ruoli sessuali sulla base di un dato biologico assunto in modo astorico e deterministico.
Questo significherebbe riconoscere l’inimicizia che fin dai primordi ha contrapposto la famiglia e la società, l’amore come tendenza a creare appartenenze intime, esclusive, e il bisogno altrettanto forte di allargare il cerchio della vita. Vorrebbe dire, soprattutto, che all’origine del lungo esilio della famiglia dalla società nel suo complesso c’è la pretesa “naturalità” del ruolo materno, l’identificazione della donna con la genitrice, e quindi della sessualità con la procreazione.
La senatrice socialista Lina Merlin, come si apprende da una recente biografia a cura di Anna Maria Zanetti (Marsilio 2006), nel dibattito in aula del 15 gennaio 1947, si era detta contraria all’inserzione della famiglia nella Costituzione, per timore di definizioni destinate a cristallizzare un credo piuttosto che un altro. Ma poi scriveva: “Proteggere la maternità significa proteggere la società alla sua radice”.
La continuità tra famiglia e istituzioni sociali si è retta per millenni sul potere dell’uomo, presente sia nella sfera pubblica che privata, ma anche sulla complementarietà di natura e cultura, rappresentata dalla differenziazione dei ruoli del maschio e della femmina. Questo “ordine”, sia esso dato come naturale o sovrannaturale, laico o religioso, non sfugge alla sacralità di tutto ciò che è posto fuori dalla storia, e come tale immodificabile e misterioso.
La prima rappresentazione dissacrante della famiglia è venuta dal femminismo degli anni ’70, nel momento in cui ha separato l’individualità femminile dalla funzione di madre, la sessualità dalla procreazione. Se la donna può scegliere se fare o non fare figli, il matrimonio perde il suo fondamento biologico, la prole, e la famiglia non è più quell’assetto naturale di cui parla la Costituzione.
E’ questa la prima grande trasformazione che, insieme al complesso della ragioni economico sociali descritte da Rosy Bindi, ha messo in crisi la natalità, reso più gravoso e sempre meno sopportabile quel “lavoro di cura” e “assistenza” di bambini e anziani, malati, che ancora viene richiesto alle donne in virtù delle loro ‘naturali’ doti materne, della loro lunga frequentazione di corpi, sentimenti, sofferenze. Se è così forte la preoccupazione di distinguere la famiglia fondata sul matrimonio dalle unioni di fatto, è perché in realtà si somigliano sempre di più, perché la convivenza comincia a strutturarsi sempre più spesso sulla base di relazioni sessuali, sentimentali e di solidarietà, scelte liberamente.
E’ questo spostamento lento, che ha fatto seguito alle grandi scosse degli anni ’70, a inquietare al punto da dover essere detto e contraddetto, mostrato e al medesimo tempo nascosto, quando non del tutto cancellato. E’ così che le figure dell’uomo e della donna spariscono dietro le maschere della coppia genitoriale; è così che la centralità del disagio femminile, su cui pesano violenza, sacrificio, fatica, dispendio di energie fisiche e intellettuali, viene soppiantata dall’attenzione quasi esclusiva al diritto dei bambini.
Ma dove la contraddizione tra il mostrare e il negare è più scoperta, è la dove si parla del bisogno di tenere insieme tempo di lavoro e tempo di cura, ben sapendo che si sta parlando dell’incidenza che hanno avuto e hanno tuttora la maternità, la responsabilità della famiglia, la cura e l’assistenza dei suoi componenti, nel trattenere le donne fuori da ogni potere, decisionalità, realizzazione personale.
Dovrebbe bastare questa consapevolezza per capire che nessuna tutela, nessun rappezzamento, nessun servizio di pubblica sussidiarietà potrà sostituire l’unica vera reale via d’uscita: il cambiamento del rapporto tra i sessi, la ridefinizione della sfera pubblica e privata, lo sforzo di immaginare altri modelli di sviluppo, di crescita, di invecchiamento, di amore e di solidarietà coi più deboli. Politiche famigliari volte ad alleviare un carico insostenibile di spesa per l’assistenza domiciliare degli anziani sono sicuramente desiderabili, come sa chi ha visto genitori invalidi, nullatenenti, ricevere assegni di cura e accompagnamento a pochi mesi della morte.
Ma né lo sgravio economico, né il ricorso ad assistenti familiari straniere, costrette a un “percorso lavorativo” che avviene all’insegna della povertà di alcuni popoli e del privilegio di altri, e in molti casi in condizione di semischiavitù, riusciranno ad appagare quel bisogno di libertà, padronanza di sé, protagonismo politico, che una coscienza femminile recente ha posto con forza per le donne, e per tutti. Non ci sono Osservatori, Giudici e Garanti, monitoraggi permanenti per controllare lo stato di salute della famiglia, che possano illudersi di avere una qualche benefica incidenza senza “mettersi all’ascolto” -per usare un’espressione di Rosy Bindi- di quella che è stata tradizionalmente la “risorsa” prima della sopravvivenza: la maternità di destino delle donne.
E’ da qui che può ricominciare una riflessione che responsabilizzi, riguardo al modello di civiltà che vogliamo, donne e uomini: singoli, associazioni, movimenti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Perché il femminismo non «sfonda» adesso che potrebbe?
di LEA MELANDRI *
Perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?
Qualche giorno fa, per il decennale dell’Università Bicocca di Milano, sono stata invitata a parlare di «Democrazia di genere e processi formativi». Il tema in discussione richiama quello di una serie di seminari, che si sono tenuti tra Milano e Roma, a partire dall’inizio del 2000, dal titolo: «L’eredità del femminismo di fronte agli interrogativi del presente».
Evidentemente è un dubbio che periodicamente ci attraversa e a cui stentiamo a dare una risposta: come mai la cultura politica prodotta dalle donne, in un percorso di riflessione ormai più che trentennale, non ha la visibilità e l’incisività che ci aspetteremmo, soprattutto se si tiene conto che alcune delle tematiche su cui si è mossa sono oggi al centro della vita pubblica.
Penso alla crisi della politica, che oggi tocca il suo stesso atto fondativo -la divisione sessuale del lavoro, la scissione tra corpo e linguaggio, individuo e società -, la preminenza che hanno assunto il corpo, la sessualità, la salute, il nascere e il morire, la violenza maschile contro le donne, il rapporto col diverso, vicende essenziali dell’umano su cui oggi intervengono pesantemente i massimi poteri della vita pubblica: Stato, Chiesa, scienza, mercato, media.
Se è vero che la pacifica ‘rivoluzione femminista’ è l’unica sopravissuta alla fine degli anni ’70, l’unica che abbia avuto continuità in una vasta proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, è anche vero che è la più silenziosa, oscillante tra brevi comparse e altrettanto rapide sparizioni. Il pensiero e l’azione politica del movimento delle donne sembra aver perso estensione e radicalità proprio quando è il contesto storico in cui viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al trionfo dell’antipolitica, al risveglio del fondamentalismo religioso, potrebbero essere proprio quella ‘politica della vita’ che discende dalle pratiche e dai saperi degli anni ’70.
La domanda che viene da porsi allora è questa: perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?
Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna, esclusa dalle responsabilità della vita pubblica, dallo statuto stesso di “umano”, identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e riproduttiva, è stata da sempre ‘oggetto’ del sapere. Sono stati i saperi, oltre che i poteri, della comunità storica degli uomini a definire che cosa è “femminile”, a esercitare, più o meno direttamente, sui corpi, sulla vita psichica e intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento, violenza o, al contrario, esaltazione immaginaria.
Attraverso i saperi passa la violenza manifesta di un dominio, ma anche e soprattutto quella violenza più insidiosa, perché ‘invisibile’, che è l’interiorizzazione di un’immagine di sé dettata da altri: un modo di pensarsi, di sentire, di essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell’altro. Quando esclude le donne dal ‘contratto sociale’, quando descrive l’educazione della femmina, destinata a vivere “in funzione degli uomini”, “piacere e rendersi utile a loro”, Rousseau, il padre della democrazia moderna, sa di poter contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto di adattamenti, resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza - come il potere che viene dal rendersi indispensabili all’altro, l’uso sapiente di potenti attrattive, come la maternità e la seduzione.
Uscire da questa pesante eredità storica ha comportato, per le donne, un doppio ‘scarto’: smascherare la falsa ‘neutralità’ dei saperi creati dal sesso maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, già all’inizio del ‘900, chiamava “una rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”. L’analisi che Aleramo affronterà in solitudine, attraverso un processo continuo di ‘svelamento’ e costruzione dell’ “autonomia dell’essere femminile” , è diventata poi nel femminismo degli anni ’70 la “pratica dell’autocoscienza”: un modo di procedere originalissimo, che tiene insieme scavo in profondità, modificazione di equilibri psichici profondi (“presa di coscienza”), e costruzione di sé come individualità che si pone per la prima volta nella sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.
Quello che avviene negli anni ’70, dunque, non è solo l’ingresso massiccio delle donne nella vita pubblica - lavoro extradomestico, istruzione, urbanizzazione, impegno politico, ecc. - , e neppure solo la nascita di una soggettività femminile singolare e plurale. E’ una rivoluzione (pacifica) che va alle radici dell’umano, riportando alla storia quanto di umano è stato ‘naturalizzato’, sottratto perciò a possibili cambiamenti, una ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che sovverte l’atto fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni storiche della civiltà dell’uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un pensiero che si è strappato dalle sue radici biologiche e che su questa scissione originaria ha costruito tutte le dualità che conosciamo. Prima fra tutte, quella tra i ruoli del maschio e della femmina.
Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile, è un’idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di libertà, di politica. Non si tratta di un ‘sapere’ che si aggiunge ad altri, un’iniezione vitale di conoscenza, che va ad integrare, o “fecondare la sterile civiltà dell’uomo” -secondo l’idea di complementarietà che ha accompagnato l’emancipazione di inizio ‘900-, ma di un processo formativo e cognitivo che ha osato addentrarsi nelle “acque insondate delle persona” , in una “materia segreta, imparentata con l’inconscio”, e che da lì, da quelle “lande deserte”, da quella ‘preistoria’ pietrificata, ha cominciato a guardare con occhi diversi la storia, a sovvertire l’ordine esistente.
“Che cosa avverrà delle istituzioni quando si accorgeranno di essere funzionalizzate a un sesso solo?” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1979). E’ con questa domanda che il femminismo tentò allora di costruire un proprio “lessico politico”, ridefinendo parole già in uso -democrazia, uguaglianza, libertà, organizzazione, ecc.-, e introducendone delle nuove, frammenti di una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi il ‘sé’, rivisitato attraverso la pratica dell’autocoscienza (Lessico politico delle donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta (1978), ristampato da Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002).
La cultura femminista degli anni ‘70 rappresenta un eccezionale equilibrio tra un sapere inteso come processo formativo - aderenza alla memoria del corpo, all’immaginario sessuale, all’esperienza particolare di ognuna- , e, al medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse allora nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia, la violenza sessuale.
Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e pratiche di liberazione erano tra loro intersecati: non si voleva che restassero “un pezzo di riforma” isolata dalla messa in discussione della sessualità e dalla cultura dominante maschile. Quello che si stava abbozzando era un sapere che, partendo dalla costruzione di sé, si andava a collocare, con una forte conflittualità, sul confine tra sfera pubblica e privata, che si richiamava al corpo, alla sessualità, alla salute fisica e psichica, consapevole dei segni che la civiltà dell’uomo vi ha lasciato sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano reggere, e che perciò hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato. Era, come capì lucidamente Rossana Rossanda, “una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma la mette in causa”.
Le difficoltà che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel riattraversare le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalità dell’assunto iniziale: un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era la soggettività femminile, collettiva e insieme rispettosa della singolarità, una ‘presa di parola’ che denunciava, non svantaggi o discriminazioni sociali, ma una “espropriazione di esistenza”, a partire dal destino toccato alla sessualità femminile, identificata con la procreazione e quindi cancellata come tale -da cui il ruolo ‘naturale’ di madre, la dedizione all’uomo, il sacrificio di sé.
Era una affermazione di ‘libertà’ che si poneva però come lento processo di ‘liberazione’ dalle tante ‘illibertà’ interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle relazioni famigliari, nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia, nell’assuefazione alla violenza quotidiana. Con l’autocoscienza, il processo conoscitivo si spostava in prossimità del corpo, della memoria che vi si è depositata sopra. Alle generalizzazioni della politica, opponeva il “partire da sé”. “Il blocco -scrisse Carla Lonzi- va forzato una per una, passaggio necessario per la nascita della propria individualità”.
Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un “accostamento di vissuti di ognuna”, della presenza fisica delle altre, del separatismo, cioè di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. “Il sapere sull’autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene praticandola” (M.Fraire). La soggettività femminile nasce in questa particolare relazione tra simili e, in questo senso, l’autocoscienza non è la pratica di una fase storica, non è “a termine”, come si legge nella ricostruzione che la Libreria delle donne di Milano ha fatto di quegli anni (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987).
Insieme al suo portato teorico, è la forma che ha preso il discorso femminile sul corpo, sulla sessualità e che non poteva non fare i conti con la psicanalisi. La sua durata va messa in relazione col fatto che la sessualità non appartiene a questa o a quell’epoca in particolare, non è solo una componente della vita personale, ma una struttura portante della società in tutti i suoi aspetti. Sono d’accordo perciò con Manuela Fraire quando scrive che è stato “uno strumento abbandonato precocemente”, e che i suoi frutti maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne conservano traccia. Il riferimento è, in particolare, al gruppo milanese “sessualità e scrittura” (A zig zag, numero speciale, 1978), alle scritture di esperienza dei corsi delle donne (Associazione per una Libera Università di Milano), alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile” (1987-1997).
Difficoltà e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a entrare negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando “dal movimento femminista” si passa al “femminismo diffuso”. Se l’allargamento era augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che comportava: “Un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della politica e della cultura” (Marina Zancan)
Al convegno di Modena sugli “Studi femministi in Italia” (1987), si profilano due orientamenti: uno che vuole tutelare “spazi di autonomia e di autogestione, all’interno dell’università, attivare momento di autoriflessione sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi scientifici”, “decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad esse”; in altre parole, mantenere un “pendolarismo tra dentro e fuori l’Università” (Raffaella Lamberti).
L’altro, proposto da Luisa Muraro, mira invece a fondare un soggetto forte, una “tradizione” di donne, che come tale ha bisogno di una “autorità” e di un “linguaggio”, di un “ordine simbolico” su cui fondarsi. Nella costruzione identitaria di una “differenza femminile” con cui affrontare la vita pubblica, sparisce l’attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale, e anche il sapere che ne discende porta i segni di una posizione essenzialistica, rassicurante e destinata ad avere molto seguito, proprio perché sembra portare fuori dalla lentezza e dalle secche delle pratiche di ‘liberazione’.
Rispetto a queste due posizioni, la rivista “Lapis” ha rappresentato un percorso a parte, critico rispetto al “pensiero della differenza”, ma anche rispetto al proliferare di “studi di genere” in ambiti accademici. L’intento che muove la redazione è quella di dare continuità e sviluppo alla pratica con cui era nato il femminismo: ricerca di “nessi” tra politica e vita, tra il sapere di sè e i “cento ordini del discorso” di cui pure siamo imbevute; un’autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica; una “geografia, non una genealogia”, un sapere che non teme di addentrarsi in “paesaggi inquinati”, di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la sua complessità e contraddittorietà.
Ma torniamo all’oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle donne alla costruzione di una “democrazia di genere”. Io penso che la cultura prodotta dal femminismo -quella che ha mantenuto un’attenzione al corpo, alla storia personale, al rapporto tra individuo e società- abbia oggi una parte importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di solito, quando si liquida tutto come “barbarie”, “irrazionalità”, “regressione”.
Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a “questione femminile” - uscita dalla marginalità, riequilibrio della rappresentanza, politiche sociali e famigliari, ecc.-, ha molto da dire, non solo su questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie.
Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalità dello sguardo, del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi -quello che ha visto nel rapporto tra i sessi l’impianto originario di ogni dualismo-, dall’altro prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto ciò che è stato considerato “non politico”, sono oggi al centro della vita pubblica, sia pure sotto etichette che ne occultano il significato politico -ad esempio “questioni eticamente sensibili”, “problemi di coscienza”. Purtroppo lo sono in modo molto diverso da come ce lo prospettavamo. Sono temi che rimandano a vissuti, esperienze umane tra le più significative, ma che non riusciamo quasi più, non solo a ‘raccontare’, ma a ‘vivere’ come tali, tanto sono intersecate, confuse coi poteri e i linguaggi della sfera pubblica.
Noi volevamo trovare “nessi” tra poli apparentemente opposti, oggi ci troviamo di fronte a un amalgama, in cui privato e pubblico, casa e città, azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda. Sotto questo profilo si può leggere anche il protagonismo femminile: un esempio inequivocabile è Sarah Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e femminili tradizionali. Sempre più spesso è il discorso pubblico a prevalere: non parliamo più di maternità e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194. Altre volte invece sono la vita e le relazioni personali a prevalere: è il quotidiano, la casalinghità, ad assorbire e stemprare dentro il ‘senso comune’ le istituzioni della sfera pubblica.
Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici elaborati dalle donne, i quali, a loro volta, devono lasciarsi contaminare, modificare, da quei “barlumi di sapere che vengono dalla lenta modificazione di sé” (A zig zag, 1978). Bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista “Lapis”, chiama “un salvifico bilinguismo”: “il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni” (Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998)
Ma si tratta anche di saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti
Lea Melandri
(www.liberazione.it)
Il familismo italico e le sue madri-amanti
La sessualità, pur essendo uno dei principali ingredienti di cui sono fatte le relazioni private e pubbliche è solo nelle calde giornate di luglio e agosto che sembra prendersi la sua rivincita
di Lea Melandri (Liberazione, 21.07.2007, pp. 1, 6)
Ci sono temi il cui gradimento mediatico sale insieme alla temperatura, all’arrivo dell’estate, al clima vacanziero. La sessualità, pur essendo uno dei principali ingredienti di cui sono fatte le relazioni private e pubbliche, è solo nelle calde giornate di luglio e agosto che sembra prendersi la sua rivincita, guadagnando le prime pagine dei giornali, ma, soprattutto, costringendo una società che ne fa un uso smoderato e distratto a porsi qualche momentaneo interrogativo.
Dopo la battuta di Giuliano Amato sulla violenza contro le donne, a riattizzare l’interesse per una materia tanto importante quanto trascurata dal dibattito culturale e politico che si rispetta, è venuto il Financial Times con la denuncia di un’altra cattiva "abitudine" sessuale, questa volta marcatamente italica: «L’uso incongruo che viene fatto delle donne nella pubblicità», l’aspirazione diffusa delle teenager italiane a fare le veline, le vallette di quiz a premi, la persistenza di una femminilità "arcaica" -«mamme confinate in cucina a fare ravioli e figlie che cercano il successo attraverso la bellezza». Lasciando stare la nota di folclore sui ravioli, che anche le donne romagnole ormai comprano già fatti, non c’è dubbio che l’occhio straniero corre senza inciampi là dove noi esitiamo, mette, per così dire, il dito sulla piaga, segretamente compiaciuto di un confronto che gioca a suo favore. Da oggetto di violenza a oggetto di desiderio, le donne restano sempre e comunque "oggetto", rispetto a pensieri, pulsioni, valori che rimandano a un protagonista unico, il sesso maschile, ma con una differenza di non poco conto: nel proporsi come madri e seduttrici, ciò che è stato vissuto come imposizione, destino deciso da altri, viene assunto attivamente, agito come volontà propria.
Virginia Woolf, in un breve scritto del 1940 ("Pensieri di pace durante un’incursione aerea") con uno straordinario coraggio intellettuale, paragonava la smania di dominio dei soldati tedeschi e inglesi che si combattevano nel cielo di Londra, al potere che le donne trasferiscono sulla maternità e sulla bellezza: «Schiave che tentano di rendere schiavi gli altri». Nell’oscura commistione di amore e odio, assoggettamento e rivalsa, che si è andata storicamente depositando nel rapporto tra i sessi, risulta tutt’oggi molto difficile dire con chiarezza che cosa siano privilegi, responsabilità, scelte e adattamenti, felicità e sofferenza. La fissazione su un corpo femminile desiderato e temuto, isolato come un feticcio da ogni altra qualità che identifichi la donna come persona, nella sua interezza, suscita giustamente rabbia, quando la si vede agire nei rapporti tra adulti, quando, come ha scritto Mila Spicola su Repubblica del 17 luglio, lo sguardo insistente del "maschio italico" si posa su un bel fondo-schiena, una "qualità" «di cui non ho nessun merito; nonostante il mio quoziente intellettivo, la mia cultura, la mia ironia...». L’uso del proprio corpo come un’arma, un valore spendibile, può essere allora visto effettivamente come «rassegnazione a un pensiero unico sull’aspetto fisico e sul valore di mercato delle donne» (Maria Laura Rodotà, Corriere della sera , sempre il 17 luglio).
Il giudizio diventa meno semplice, o, se vogliamo, più imbarazzante, quando dobbiamo riconoscere - e nei commenti di questi giorni lo hanno fatto molte donne note per il loro impegno culturale e politico, come Chiara Saraceno e Dacia Maraini - che «anche donne capaci e intelligenti si sentono in dovere di presentarsi svestite e ammiccanti», che giornaliste e parlamentari «cercano di assomigliare a pin up». E’ la resa di un femminismo che non ha saputo dar seguito alla spinta rivoluzionaria dei suoi inizi -"modificazione di sé e del mondo"- e alla sua ostinata ricerca di autonomia, una visione del mondo capace di scalfire la divisione sessuale del lavoro e tutti i dualismi su cui si è costruita la civiltà? Oppure è l’oscura radice del dominio maschile e della differenziazione tra i sessi, che il femminismo non ha avuto il coraggio di affrontare, quell’enigma delle origini che ha a che fare con la nascita dal corpo femminile, con l’iniziale "co-identità" tra la madre e il figlio, e, soprattutto, con il prolungamento dell’infanzia che si materializza all’interno della famiglia e che ogni volta appiattisce l’amore di un uomo e di una donna su un legame di dipendenza materno-filiale?
Il corpo con cui l’uomo-figlio è stato tutt’uno, in un rapporto di fusione perfetta che riemerge idealizzato nella nostalgia di un padre, di un marito, di un amante, o, stravolto, nell’uso proprietario della donna, è quello che gli ha dato insieme al nutrimento le prime sollecitazioni sessuali. La madre e la seduttrice sono le figure salvifiche e minacciose che segnano le prime esperienze dell’infanzia e, al medesimo tempo, i ruoli che il patriarcato assegna all’altro sesso. Infanzia e storia non sono separate, ma non sono neppure riducibili l’una all’altra, così come l’individuo non può essere visto come un puro prodotto della società. Nel modo con cui l’uomo continua a guardare la donna, privilegiando le sue ‘qualità’ corporee più che le sue doti intellettuali, considerandola un "genere" anziché una persona, si mescolano confusamente le fantasie tenere o violente del bambino che è stato e i privilegi che gli garantisce un modello maschilista di società. E’ questo annodamento che impedisce al rapporto uomo-donna di prendere, nelle analisi e pratiche politiche, la centralità che ha nella vita quotidiana di ogni individuo, maschio e femmina?
Il corpo femminile, e i corpi in generale, non potranno mai essere soltanto una "risorsa" da sfruttare, una "merce" o un "oggetto di piacere", perché trattengono una "preistoria" fatta di accadimenti destinati a lasciare un segno duraturo, una "memoria" che continua a ripetersi, o riproporsi in cerca di nuove soluzioni. Un cambiamento significativo di modelli nelle istituzioni della vita pubblica, a partire dalla famiglia e dalla scuola, dalla centralità che vi ha ancora, nella sua ambiguità di "serva-padrona", la figura femminile, consentirebbe a quanto di "arcaico" si è depositato nelle singole vite di trovare vie d’uscita e risposte diverse.
Se questi interrogativi, che vanno a scavare in zone profonde, inesplorate dell’esperienza, sono rimasti a margine anche del movimento delle donne, forse è perché sfuggono alla logica che separa nettamente la vittima dall’aggressore, l’amore dall’odio. Il femminismo italiano, che non è affatto scomparso, pensa che l’immagine femminile diffusa dalla pubblicità e dai media sia degradante, ma non fa nulla per combatterla. Penso che non sia solo per paura di cadute moralistiche o perché non ama la censura. Il persistere del familismo, anche in presenza di una crisi incontestabile dell’istituto famigliare, dice che le donne, pur emancipate, non rinunciano facilmente a quel ruolo di madri e di ‘seduttrici’ che da loro il potere, in gran parte fantasmatico, di sentirsi necessarie, indispensabili all’altro.
L’Occidente e i suoi “valori” sospetti di Lea Melandri (Liberazione, 05.09.2006)
La condanna di qualsiasi discriminazione nei confronti della donna, sostenuta a gran voce dalle manifestazioni e dalle assemblee del femminismo nel corso delle due ultime vicende elettorali, è balzata all’improvviso in testa a quei “valori” che la nostra civiltà vorrebbe vedere sottoscritti da tutti coloro che, venendo da “fuori”, desiderano farne parte. A produrre questo slancio di sensibilità, finora marcatamente latente, sono stati, per un verso, casi estremi di violenza contro le donne, omicidi e stupri, ad opera per la maggior parte di immigrati, e, per l’altro, la discussione che ha fatto seguito alla proposta di Giuliano Amato di abbreviare gli anni necessari per la richiesta della cittadinanza.
Le prime considerazioni che mi vengono da fare sono ovvie, quasi banali. Per un singolare capovolgimento, la violenza manifesta diventa il segnale di allarme privilegiato -per non dire unico in grado di scuotere coscienze maschili, e purtroppo anche femminili, intorpidite- di quella prevaricazione o dominio maschile che ne è, se non la causa, il terreno sociale, psicologico, culturale, in cui cresce, di cui si alimenta e da cui trae soprattutto la sua legittimazione.
La violenza contro le donne ha avuto ed ha tuttora una molteplicità di forme e di espressioni: a volte parla silenziosa e perfettamente mimetizzata il linguaggio dell’amore, del pregiudizio inconsapevole, delle consuetudini ereditate, dei fantasmi collettivi; altre volte, veste decisamente i panni del privilegio e dell’arroganza, garantiti da ragioni di forza o di poteri acquisiti storicamente; altre ancora, non esita a usare le parole e le armi dell’odio. Ignorare che c’è un continuum tra “discriminazioni” di vario genere e violenza esplicita, che l’aggressione subita per strada ha il suo epicentro nelle case, nei legami famigliari e amorosi, far finta che il patriarcato sia solo “la riviviscenza fondamentalista” dell’ “incontro disperato dell’Islam con la modernità” (Il Foglio, 21.8.06), è ancora una volta il tentativo, debole e sempre più scoperto, di non assumersi la responsabilità di una storia -nostra, quanto di altre civiltà-, che si porta dietro, primo tra i suoi “mali”, l’oppressione di un sesso da parte dell’altro. Nel momento in cui si sposta il rapporto tra uomo e donna -che come tale risente di una rimozione millenaria e di radici ancora inconsce- sul terreno, oggi sentito con più urgenza e inquietudine, della mescolanza di popoli e culture, è chiaro che si finisce ancora una volta per affossarlo, per inalberare da una parte la propria “innocenza” di occidentali democratici, liberi, rispettosi almeno formalmente delle donne, e, dall’altra, la “barbarie” di costumi stranieri, tribali e minacciosi per il nostro quieto vivere.
In questa polarizzazione, a cui ci hanno ormai abituato, sulla scena mondiale, le guerre “umanitarie”, la democrazia esportata con i bombardamenti, la crociata del Bene contro il Male, sparisce ogni possibilità di interrogare se stessi, prima ancora che gli altri, di chiederci se alcuni dei “nostri valori” non celino altrettanto fondamentalismo, se l’ “altro”, il “diverso”, non sia lo schermo facile su cui proiettare aspetti disturbanti della nostra identità. Che cosa significa, altrimenti, farsi scudo della nostra Costituzione, delle nostre leggi, e tacere sul fatto che, dai sommi vertici istituzionali fino al più diseredato dei cittadini, pochi di quei principi vengono rispettati?
Diritti, libertà, principi etici, a cui giustamente si riconosce una valenza universale, convivono con una cultura e una materiale, solidissima tradizione di rapporti di forza -nella famiglia, nel lavoro, nelle istituzioni sociali e politiche-, su cui si preferisce chiudere gli occhi. Se la nostra “identità scricchiola”, nell’incontro con altre comunità, è perché si scopre essa stessa più simile di quanto immaginasse, nei comportamenti se non nei principi, ai “forestieri” che la invadono, incline allo stesso modo a enfatizzare le proprie differenze, ad alzare sbarramenti, a stigmatizzare nell’altro ciò che passa la proprio interno nella generale indifferenza. E’ il caso degli stupri e degli omicidi di donne, cronaca quotidiana che passa quasi sempre inosservata nelle notizie “in breve”, e che diventa questione “politica”, istituzionale, solo quando si può attribuirla all’invasione minacciosa dell’Islam.
E’ per questo che anche l’affannosa ricerca di misure di sicurezza lasciano perplessi. Se può far piacere avere una città più vivibile per uomini e donne, grazie a una migliore illuminazione e a una maggiore disponibilità di taxi e bus nelle ore notturne, resta comunque il sospetto che l’ “emergenza”, riguardo agli stupri, quanto meno per la città di Milano, venga usata prevalentemente per sgombrare campi nomadi, ripulire l’ingresso della stazione dagli immigrati che vi soggiornano, togliere dalla vista dei cittadini la miseria e sostituirla con le lucenti vetrine dell’ennesimo ipermercato.
Fa uno strano effetto leggere Magdi Allam (Corriere della sera, 1.9.06) che parla dell’ “annullamento del corpo” e dell’ “umiliazione della personalità femminile” a proposito della donna egiziana che si è presentata col burqa a ricevere, insieme alla famiglia, la cittadinanza dalla sindaca di Valmozzola (Parma).
Quante “barriere”, molto più pesanti di un vestito, continuano a separare le donne dalla società? Quando mai ci si è chiesti se a “discriminare” le donne non sia proprio il “valore” che si continua ipocritamente ad attribuire alla loro disponibilità a sacrificarsi per gli altri, al dono di sé di cui sono prodighe, nella cura di bambini, malati, anziani? Chi si chiede se le case non siano ancora per la vita pubblica quell’ “altrove” che ne garantisce la sopravvivenza, “liberandola” da tante responsabilità che la costringerebbero a profondi cambiamenti, quel luogo appartato che illude le donne di una loro domestica “potenza”, espropriandole di fatto di ogni potere decisionale che conta?
Il femminismo è “silenzioso” solo per chi vorrebbe tenerlo sottomesso, a portata di mano, pronto a manifestare su ordinazione, a indignarsi a comando, a esecrare il “mostro” di turno. Non è l’attesa di una “rivoluzione copernicana” che costringe a prendere tempo per la riflessione. La rivoluzione è già cominciata nel momento in cui alcune donne hanno preso parola per dire della loro libertà e della loro complicità, della storia che le ha volute “straniere” nella città dell’uomo e “intime” nella sua famiglia. Come ha scritto Angela Azzaro su Liberazione, da questo cambiamento profondo non si torna indietro, per presentarsi al mondo ancora una volta come “vittime” bisognose di “tutela”.
Se si vuole affrontare il problema della violenza contro le donne, non si può farlo solo sull’onda dell’allarmismo e di quella che si vorrebbe presentare come “emergenza” di stupri e omicidi. E’ vero che per il solo fatto di parlarne, accanto a un prevedibile effetto contagio, si apre anche una maggiore possibilità che la violenza venga denunciata, ma non è indifferente il modo in cui se ne parla e il modo di affrontare una questione che definire “attuale” è davvero ridicolo.
Bisogna dire a chiare lettere che l’accanimento contro i corpi delle donne non è un problema che riguarda solo la legge, o l’ordine pubblico, ma una cultura segnata dal potere che la comunità storica degli uomini si è arrogata, dove convivono valore e svalorizzazione del femminile, amore e odio, civiltà e schiavitù. Senza questa esplicita “presa di coscienza” e di responsabilità, non c’è protezione che conti, né sistemi di monitoraggio e pronto soccorso che, come ha scritto giustamente Stefano Bertazzaghi su La Repubblica (31.8.06) tranquillizzano solo l’ansia di chi ci governa.
Farcela si può. Con un grande intervento globale che metta in sinergia saperi ed esperienze delle donne e istituzioni
Violenza di genere.
Cambiamone la percezione
di Emanuela Moroli (www.liberazione.it, 31.08.2006)
Uno. 2 gennaio, Mortellaro Maria Concetta, 69 anni, uccisa con arma da taglio dal partner a Ladispoli. Due. 4 gennaio, Ferlicca Roberta, 31 anni, uccisa con arma da taglio dal coniuge a Roma.
Tre. 6 gennaio, De Bartolo Immacolata, 47 anni, uccisa con arma da fuoco dal coniuge a Montaldo Uffugo.
Quattro. 12 gennaio, Disseto Caterina, 64 anni, uccisa con arma da taglio dall’ex coniuge a San Front.
Cinque. 20 gennaio, Verona Elda Iside, 73 anni, uccisa con arma da fuoco dal coniuge a Genova.
Sei. 24 gennaio, Boi Emanuela, 62 anni, uccisa con arma da taglio dal coniuge a Genova.
Sette. 7 febbraio, Antiochia Roberta, 44 anni, uccisa con arma da fuoco dall’ex coniuge a Roma.
Otto. 10 febbraio, Capati Paola, 49 anni, uccisa con arma da fuoco dal coniuge a Terni.
Nove. 11 febbraio, Surgus Donigala, 70 anni, uccisa con arma da fuoco dal coniuge a Vicenza.
Dieci. 12 febbraio, Arnaldino Olimpia, 40 anni, uccisa con arma da taglio dal partner a Milano.
Queste le prime dieci donne europee-italiane-cristiane-cattoliche ammazzate da un uomo della propria famiglia e dintorni nel corso del 2003 (dato Eurispes). Quell’anno sono state 95. Nel 2004 stessa sorte è toccata a 102 donne italiane e nel 2005 a 98. Per loro a volte un trafiletto, spesso un pesante silenzio.
Nessuno scandalo, nessun giornalista tuttologo che discetta di tradizioni crudeli/arretratezza culturale/relazioni familiari inique/religione arcaica e misogina. Loro, le 95, le 102, le 98 sono state tutte ammazzate nei modi più efferati all’interno di una civiltà evoluta, paladina dei diritti civili, che ha promosso le Pari Opportunità e di una religione che racconta di rispettare le donne. La loro morte strettamente connessa all’antica volontà di controllo e dominio maschile, non ha suscitato nessuno scandalo, ma un padre islamico che ammazza la figlia che gli ha voltato le spalle per avvicinarsi ad un altro uomo di cultura europea, la nostra cultura, questo no, non si può sopportare.
Ed esplode la polemica filosofica, culturale, politica.
Ancora una volta una storia di uomini che si contendono la supremazia della propria cultura e religione, ancora una donna che con coraggio esprime i propri desideri, sceglie la propria libertà e la paga con la vita, ancora una volta un’occasione per manipolare un esecrabile fatto di cronaca e trasformarlo in altro; questa volta va in scena una campagna denigratoria nei confronti di tutti gli immigrati residenti in Italia.
Ma è accaduto un imprevisto, chi sperava di avere al suo fianco il movimento delle donne per rafforzare il suo grido d’orrore per questo delitto compiuto in nome di altre tradizioni e altra religione, che pure siamo consapevolissime che a volte hanno per le donne uno sguardo spietato, è rimasto spiazzato: il femminismo come sempre ha conservato la sua lucidità politica, la sua autonomia di pensiero, la sua capacità critica e ora parte proprio dall’inaccettabile uccisione di Hina Saleem, la ventenne pakistana sgozzata dal padre e dai famigliari che non sopportavano la sua scelta di libertà, per un’analisi critica sul fenomeno della violenza di genere che sembra inestinguibile anche nei Paesi che si definiscono ad alta civiltà.
Insomma a chi sperava di vedere sfilare cortei di donne contro l’integralismo patriarcale islamico, gli sta scoppiando in mano la potenza critica e costruttiva delle analisi e dell’elaborazione femminista, che sa bene di lapidazioni, segregazioni, matrimoni forzati, ma non accetta che questi orrori oscurino il disprezzo occidentale per la dignità delle donne, le finte Pari Opportunità, i numeri spaventosi delle donne che affollano gli oltre cento Centri antiviolenza che operano in Italia e che al 90% hanno fra le loro ospiti donne massacrate in famiglia.
Le istituzioni locali, sulla scia dei media, si sono improvvisamente allarmate, propongono radiobus rosa, telecamere ovunque, luoghi sicuri di aggregazione, ma non sarà così che si allontanerà la violenza dalle città e dalle case. Nessun intervento sporadico e isolato potrà dare risultati; non si tratta di acciuffare qualche colpevole o salvare qualche ragazza dall’aggressione, è necessario trasformare la percezione sociale che si ha della relazione uomo/donna e del violento.
Può apparire un’impresa impossibile, ma può concretizzarsi anche nella più straordinaria delle rivoluzioni.
Le donne da decenni studiano questo fenomeno mondiale, hanno portato avanti esperimenti e grandi progetti, sanno che ce la si può fare. E viene la tentazione di rimboccarsi le maniche proprio ora che se ne parla per dividere popoli e culture: sarebbe il modo più giusto per onorare il coraggio e la memoria di Hina Saleem.
Ma è necessario che scendano in campo i saperi delle donne, le loro esperienze, la loro capacità di fare ed elaborare insieme. Solo così è possibile passare da proposte sporadiche e isolate di repressione della violenza ad un progetto integrato che coinvolga la comunità nel suo insieme, un intervento globale della società contro la violenza di genere, per cambiare da tollerante a severa la risposta della comunità tutta nei confronti degli aggressori.
In altre parti del mondo le associazioni di donne e le istituzioni, in sinergia, ci stanno provando. In Inghilterra, Olanda, Stati Uniti sono in corso esperimenti interessanti. In Italia, oggi, si può fare molto e bene.
Quello che ieri poteva apparire impresa impensabile, oggi può trasformarsi in impegno fattivo.
Ci vogliono leggi che sostengano l’esperimento, ci vuole la volontà di inserire piani di interventi culturali al femminile nelle scuole di ogni ordine e grado, ci vogliono progetti che favoriscano concretamente l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, ci vuole un intervento di sensibilizzazione dei media perchè tutelino con più competenza e correttezza la dignità e i diritti delle donne, ci vuole la volontà politica di sostenere con ogni mezzo i centri antiviolenza, ci vuole una mutazione nella sensibilità e competenza delle strutture sanitarie, ci vuole la possibilità di intervenire nella formazione dei magistrati, ci vuole la determinazione a inserire la lotta alla violenza di genere nei programmi di formazione delle forze di polizia, ci vuole la capacità di stilare progetti psico educativi per gli uomini che hanno usato violenza nella loro relazione, ci vuole un’attenzione sapiente per evitare che i più piccoli siano testimoni di violenza, ci vuole l’impegno politico necessario per dare valore e mettere in evidenza le differenze di genere, ma soprattutto ci vuole saper offrire ad ogni donna gli strumenti culturali necessari per fare una autovalutazione della sua relazione rispetto ai rischi di violenza.
In una parola bisogna cambiare il clima di tolleranza, ora palese, ora sotterranea, ma sempre presente, che c’è nella nostra comunità nei confronti degli aggressori e trasformarlo in un giudizio totalmente critico nei confronti dei violenti, finalmente declassati da bulli e da uomini che si sanno fare rispettare, ad individui spregevoli e vili indegni di abitare in una società solidale.
Difficile? Sì
Ma se le donne prendono con forza e determinazione la parola, tutto ciò è possibile. C’è un sapere, quello femminista, che non ha ancora trovato sbocchi sufficientemente ampi, che ancora non ha imperniato di sé segmenti consistenti della società, il risultato è una società violenta.
Oggi l’esperienza femminista si è rafforzata nella riflessione e nel confronto, nelle tante pagine scritte, nei grandi incontri internazionali e nelle esperienze sul campo, penso ai Centri antiviolenza, veri e propri laboratori sociali. Gli strumenti elaborati nei luoghi delle donne non vengono più vissuti con sospetto dalle donne delle istituzioni. Sui grandi temi come la violenza di genere, oggi che in Italia al governo, in parlamento e nelle istituzioni locali vi sono donne che hanno attraversato il femminismo o che comunque conoscono la qualità e il valore delle politiche delle donne, si può creare sinergia e trovare le forze per un grande progetto che metta a punto una risposta integrata e coordinata della comunità alla violenza contro le donne.
Donne, (il partito di) Italia, e (il partito ‘cattolico’ di) Dio L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE.... HA ‘VINTO’. Una ‘risposta’ a Lea Melandri
di Federico La Sala*
Nel lodevole sforzo di cogliere “Le molteplici ragioni di una sconfitta”(Liberazione, 16.06.2005), Lea Melandri, ha scritto: “La complessità, la problematizzazione, il racconto e la riflessione sull’esperienza - là dove si mescolano fantasie e ragionamenti - sono da sempre ospiti indesiderati, per non dire nemici, della politica. Ma la semplificazione, la logica contrappositiva, non sono evidentemente più in grado di rispondere in modo convincente ai dubbi di una modernità che assiste giorno dopo giorno al veloce smantellamento dei confini noti, tra spazio pubblico e privato, reale e virtuale, valori e interessi, corpi e macchine, natura e artificio, tempo ed eternità. E’ più rassicurante credere di essere stati vinti da una Chiesa invasiva, sostenuta da alte cariche dello Stato obbedienti e genuflesse, piuttosto che ripercorrere la propria storia, riconoscerne limiti, mancanze, sordità, e provare nuove strade attraverso un’ampia, coraggiosa riflessione collettiva, che ridia parola a quel “popolo della sinistra” tanto invocato ma tenuto a debita distanza quando tenta di esprimere ciò che effettivamente gli passa nel cuore e nella testa”. Ha perfettamente ragione!
E ha ancora ragione quando, poco oltre, ha dichiarato che “per decantare l’influenza e l’invasività della Chiesa occorrerebbe innanzitutto toglierle la forza dei suoi argomenti, visionaria, paranoica o reale che sia, non regalarle, come è accaduto finora, un patrimonio di esperienze, passioni, pensieri, comportamenti che riguardano la quotidianità e le relazioni più significative di ogni essere umano” e che, “per fare questo è necessario prioritariamente spostare lo sguardo su di sé [...]”, ma poi, pur proseguendo nella direzione giusta (“quali voce di donne [...] sono state ascoltate per questo referendum?”), Le è sfuggito (a mio parere e non a caso) un ‘luogo’ fondamentale - guardare, per così dire e proprio, in ‘casa sua’ - nel campo delle donne e dello stesso femminismo italiano, di cui è stata ed è una grande protagonista.
E’ certamente vero - come ha sostenuto - che, “se c’è una speranza di rimontare la pesante sconfitta, non è certo nella rancorosa invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche, e neppure nella difesa di una laicità astratta che invoca libertà e diritti - della scienza, della maternità -, che meriterebbero quanto meno di essere discussi”, ma è altrettanto vero (a mio parere) che, se la Chiesa cattolico-romana ha vinto, è perché ha consapevolmente, e astutamente, condiviso (e non da oggi !!!) la ’follia’ di lunga durata (altro che patriarcato!!!) della maggioranza dei cittadini e delle cittadine della Repubblica italiana: “l’ordine simbolico della madre” o, detto diversamente - dal lato del figlio che risponde all’ordine della madre e si fa padre, l’ideologia edipica del “Totus Tuus” dei Figli di “mammasantissima” (dell’ordine religioso, ma anche dell’ordine laico), appunto!!!
La mia opinione è che, senza la lezione di Freud (e di quella di Elvio Fachinelli, quella soprattutto di La mente estatica del 1989), sono mancati gli stessi strumenti per vedere criticamente quanto c’era e c’è ancora nella società italiana - e nella sua metà del cielo, nel campo delle stesse donne. E, così (nonostante tutte le buone premesse e le migliori intenzioni), non solo Le è sfuggita la portata edipica della proposta e dell’operazione avviata da Luisa Muraro, proprio con “L’ordine simbolico della madre”(Editori Riuniti, 1991): dall’alleanza teorica con la chiesa cattolico-romana, all’accoglimento favorevole del documento di Ratzinger (“La Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna”) e della stessa lezione di Papa Benedetto XVI “contro il relativismo”, ma anche e soprattutto il motivo per cui la gerarchia della Chiesa (con il Papa in testa) ha potuto ‘giocarci’ e ha ‘vinto’, e la società e la cultura italiana tutta (e non solo quella di “sinistra”) ha perso una grande opportunità, per maturare e crescere .... e non distruggersi e farsi distruggere dalla logica, dalla politica, dall’economia, e dalla religione dei figli-padri e delle figlie-madri di “mammasantissima”. Non avendo capito la portata epocale e non edipica del messaggio eu-angelico - ogni ‘cristiano’ e ogni ‘cristiana’ è figlio e figlia dell’Amore sia di ‘Maria’ sia di ‘Giuseppe’ !!!, non possiamo non ritornare sempre e di nuovo a Tebe - nella città della peste e della morte... e, peggio ancora, ad Auschwitz !!! La giornata della memoria è per ricordare - per tutti i cittadin! i e tutt e le cittadine della Repubblica italiana, e non solo per i cittadini e le cittadine di religione ebraica. La sconfitta referendaria sulle questioni legate alla fecondazione non è nata ora e non sarà senza conseguenze - la dittatura interna della maggioranza del partito - Italia e la dittatura esterna del partito -‘cattolico’ della Chiesa aumenterà sempre di più, sino alla ‘vittoria’ finale! Del resto, non solo la nostra bandiera e il nome Italia, ma la nostra stessa Costituzione (oltre che la nostra stessa Magistratura, e la nostra stessa Scuola - per le nuove generazioni !!!) è già carta straccia. O no? Cerchiamo di aprire gli occhi.... Non è mai troppo tardi !!!
* www.ildialogo.org/filosofia, Lunedì, 04 luglio 2005
Scusi, oggi che cos’è la famiglia?
di Sandra Petrignani, Panorama
Siamo orfani della storia, delle ideologie, dei grandi sentimenti, ma della famiglia no. La famiglia è tutto ciò che ci resta. Nella famiglia crediamo. Dice di considerarla ’base della società’ il campione praticamente al completo del sondaggio di Panorama. Famiglia allargata, famiglia scombinata, famiglia violenta anche, ma pur sempre famiglia. I mariti tradiscono le mogli e le mogli i mariti (dicono statistiche ed esperienza comune), ma la famiglia è pur sempre ’convivenza basata sull’amore reciproco’ per quasi metà della gente. Chiudiamo i vecchi negli ospizi e stiamo poco con i figli, ma la famiglia è comunque ’vincolo affettivo di mutua assistenza’ nella mente di tanti giovanissimi. Un tetto sopra la testa, un punto fermo del cuore.
E’ vero che calano i matrimoni e crescono divorzi e separazioni, ma crescono anche le coppie di fatto. Soprattutto cresce la voglia, da tutte le parti, di fare quadrato intorno alla vecchia cara istituzione. Per gli uni minacciata da contaminazioni tecnologiche e sociali. Per gli altri troppo ingessata da leggi e consuetudini per reggere l’urto delle trasformazioni. Ma, per tutti, da difendere. Perché sullo sfondo delle recenti spaccature in Parlamento sul tema della procreazione assistita, come sullo sfondo di quelle che ancor più dirompenti si annunciano sull’aborto, sulla riforma del divorzio, perfino sulla scuola privata, il nodo vero che si staglia e che scompagina tutti i ranghi è proprio quello della famiglia, di come ciascuno la intende e la vuole.
Insomma, sono lontanissimi i tempi in cui si studiava L’origine della famiglia di Friedrich Engels per superarla, o La morte della famiglia di David Cooper per farle il definitivo funerale. E si vedeva Family life di Ken Loach per imparare a difendersene. ’Oggi il problema non è rifiutare la famiglia, autoritaria o meno, ma accettare le tante forme diverse di famiglie che popolano la nostra realtà generando confusione’: parola di Chiara Saraceno, sociologa che al problema dedica da anni studi e libri. Saraceno incarna con coerenza e competenza una posizione laica in materia. Panorama l’ha messa a confronto e in contraddittorio con un intellettuale rappresentativo di opinioni diverse, il cattolico Vittorio Messori. E il risultato è un dialogo che riserva sfumature e soprese. Perché persino Vittorio Messori, biografo del papa e di Gesù, cattolico fervente, non sopporta che si faccia ’della famiglia un feticcio, che si confondano le tante realtà complesse di oggi con la struttura ottocentesca della famiglia, un’idea da libro Cuore. Le prediche della Chiesa non gli vanno giù: ’Che senso ha richiamare al dovere, a responsabilità etiche, al di fuori di una prospettiva di fede?’ si chiede. ’L’umano egoismo, oggi potenziato dalle possibilità manipolatorie della scienza e dalle vacillanti strutture sociali, può fermarsi solo se arginato da profonde convinzioni religiose’.
’Perché una donna che non crede seriamente in Dio’ provoca Messori ’non dovrebbe poter programmare un figlio, prima liberandosene con l’aborto, domani facendosi inseminare artificialmente? Perché un non credente dovrebbe farsi scrupolo di abbandonare la vecchia moglie per una più giovane e carina? La legge glielo permette, il progresso scientifico pure. E allora?’. Dito nella piaga: la grande sconfitta dell’etica laica. E’ difficile contrastare lo strapotere della scienza se non con argomenti religiosi.
Forse è di trascendenza che abbiamo bisogno, più che di famiglia. ’E’ chiaro che siamo tutti in allarme’ ammette Chiara Saraceno. ’Siamo disarmati culturalmente di fronte ai grandi enigmi che la scienza ci pone come scenario prossimo venturo. Inseminazioni eterologhe, cessione degli organi, manipolazioni genetiche: tutto questo minaccia l’individuo forse più di quanto lo rassicuri sulla sua sopravvivenza e longevità. E allora si reagisce a caldo, con emotività, partendo lancia in resta per le crociate. E’ una brutta deriva. Direi piuttosto, stiamo calmi. Ragioniamoci su. E intanto chiediamo alla legge non di giudicare che cosa è bene e cosa è male, ma di difendere il cittadino e di informarlo. Per esempio, prima di schierarsi sull’inseminazione omologa o eterologa, preoccupiamoci di difendere il corpo delle donne dalle conseguenze che l’inseminazione artificiale può avere. E’ qui che serve la legge, a difendere l’utente dal suo stesso delirio di onnipotenza’.
L’alternativa a questo sano pragmatismo o alla nuova evangelizzazione invocata da Messori non è che la visione apocalittica di Guido Ceronetti. ’Occidente significa travaglio’ ha scritto ’pena, sforzarsi (anche inutilmente) per il diritto e per la legge. Ma tutto il diritto e la legge che abbiamo messo insieme per difenderci dal freddo sono qualche puntino rosso di bragia in una notte polare’.
Però Ceronetti è ormai una specie di monaco, non deve affrontare quotidianamente il problema di portare i bambini all’asilo o con quale ex moglie passare il Natale, o se è il caso o meno di donare lo sperma rischiando di ritrovarsi padre di molti figli non voluti, ma che aneleranno un giorno a sapere da quali lombi derivano.
’Indubbiamente ci siamo complicati enormemente la vita’ riconosce Saraceno. ’Il quadro delle relazioni parentali attuali è terribilmente intricato. Ma è la nostra realtà. Con questa dobbiamo fare i conti. E, in compenso, ci preoccupiamo di più dei diritti dei minori, cerchiamo altri modi di stare insieme, spesso meno traumatici di quelli che si vivevano nelle famiglie patriarcali, prima del divorzio e della liberazione femminile. Non voglio sottovalutare il peso che ha sui figli l’esplodere continuo delle famiglie o il trauma che può loro dare sapersi adottati da genitori dello stesso sesso, per fare un esempio ipotetico. Ma è anche vero che queste nuove realtà, se sono difficili, non necessariamente sono brutte o tristi’.
"Non sarò certo io a sostenere" replica Messori "che la felicità regna sovrana nella famiglia tradizionale. Sappiamo una volta per tutte da Freud quale luogo di perversioni sia stata. Del resto si può anche pensare a un modello di famiglia-clan, come era ai tempi di Gesù, in cui i giovani crescevano in mezzo a un gruppo parentale allargato. Ma, ripeto, io non credo nella famiglia come luogo solo di affetti, credo nella fede. È la fede che dà senso all’idea di responsabilità verso l’altro. La scienza è andata troppo avanti perché la Chiesa possa elaborare risposte affidandosi alle Scritture. Bisognerà decidersi a elaborare per conto nostro. E intanto pensare e tacere".
E mentre i cattolici pensano da una parte, i laici pensano dall’altra, e tutti finiranno con l’accapigliarsi senza costrutto, la gente continua a vivere. Che nel nostro Paese troppo spesso vuole dire arrangiarsi. Con famiglia o senza.