L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO) REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.Famiglia ’patriarcale’ e Stato ...

NECESSARIO UN PASSO NUOVO, AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMASANTISSIMA" (DELL’ALLEANZA DELLA MADRE-Giocasta CON IL FIGLIO-Edipo). Un’analisi critica della relazione di Rosy Bindi, Ministro della Famiglia - di LEA MELANDRI

La relazione con cui Bindi si è presentata alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati è uno straordinario affresco del disagio che attraversa la nostra società....
domenica 27 agosto 2006.
 


Femminismo e stato sociale.

La famiglia, crocevia del disagio sociale

di Lea Melandri (Liberazione, 20.08.2006)

In un articolo uscito su Liberazione il 10 agosto 2006, Susanna Camusso, riferendosi all’impegno politico delle assemblee Usciamo dal silenzio da gennaio ad oggi, e notando che sulle questioni legate all’aborto -applicabilità della Legge 194, sperimentazione di nuove terapie - era prevalsa una posizione “difensiva”, si chiedeva quando e dove il movimento femminista degli anni ’70 aveva perso “la sua presa”, la capacità di produrre cambiamenti significativi. Forse - era la risposta - nell’aver dato per scontato che i consultori fossero ormai luoghi acquisiti di tutela della salute delle donne, o, peggio ancora, nell’averli visti progressivamente trasformarsi in servizi per genitori e figli, nell’avere più o meno consapevolmente accettato di restare “donna di”, e aver quindi permesso che la famiglia diventasse il “centro di tutto”. Un discorso, concludeva Camusso, che ci porterebbe lontano.

Ma forse è proprio lontano che dobbiamo spingerci, per non cadere nelle secche di rivendicazioni apparentemente più concrete, come la difesa di un’idea restrittiva di “salute della donna” o la scelta di una particolare pratica abortiva. Gli interrogativi che sono stati posti dall’avvicendarsi di manifestazioni, assemblee, seminari nazionali, documenti, comunicazioni via Internet, hanno oscillato, mi verrebbe da dire con una semplificazione, tra corpo (sessualità) e politica, un vecchio dilemma del femminismo, che aspetta ancora risposte adeguate, e che solo in senso lato può essere ricondotto all’incerto, difficile rapporto tra partiti e movimenti.

A portarci sull’orizzonte più ampio, che ci sembra di aver progressivamente smarrito negli ultimi due decenni, è oggi un documento che viene da una sponda imprevista, guardata con diffidenza da molte di noi, pur nella manifesta e pressoché unanime simpatia per la donna che se ne è fatta promotrice: Rosy Bindi e il suo Ministero della Famiglia.

La relazione con cui Bindi si è presentata alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati è uno straordinario affresco del disagio che attraversa la nostra società, delle ansie sotterranee che la politica ignora o traduce malamente in diatribe astratte, un esempio chiaro delle contraddizioni che rendono uno sforzo autenticamente democratico inefficace, quando non riesce a individuare gli interlocutori reali, le loro storie e le loro aspettative.

Chi ha deciso di istituire un Ministero della Famiglia di certo non si aspettava che essa sarebbe stata messa sullo stesso piano delle “grandi opere” necessarie allo sviluppo umano, economico, sociale, che avrebbe ritrovato quella “centralità” che la storia le ha via via sottratto, e, insieme, gli inequivocabili, mai tramontati legami di parentela con la società nel suo complesso.

Fuori dalla retorica che ne ha così a lungo coperto la marginalità, la famiglia è chiamata a una “cittadinanza sociale” che la impegna come “soggetto attivo di Welfare”, accanto alle massime istituzioni dello Stato.

Ma il lungo esilio, la colpevole latitanza della responsabilità pubblica, la persistenza di abitudini e antichi conflitti mescolati a rapide, incontrollate trasformazioni, hanno fatto sì che una fondamentale “risorsa” della collettività si presentasse all’appuntamento con la storia come un malato terminale, al cui letto è chiamato per un ultimo tentativo di guarigione l’intero “sistema Paese”, coi suoi Ministeri - Salute, Lavoro, Solidarietà Sociale, Giustizia, ecc. -, le sue diramazioni locali -Regioni, Comuni-, le sue strategie di governo, e un investimento di spesa quale nessun Ministero senza portafoglio penso abbia mai osato chiedere.

Le funzioni di cui si è continuato a far carico alla famiglia non sono cambiate molto rispetto alla descrizione che ne facevano i sociologi all’inizio del ‘900: “governo della casa, procreazione, allevamento e educazione dei figli, regolazione dell’incremento demografico, socializzazione, mantenimento dei malati e dei vecchi, possesso e trasmissione ereditaria del capitale e di altre proprietà, determinazione della scelta della professione” (M. Horkheimer, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, 1968).

La famiglia, si legge nel documento di Rosy Bindi, è chiamata a far fronte ai problemi che accompagnano ogni “percorso di vita”: nascita, crescita dei figli, cura dei più deboli, gestione dei conflitti, solidarietà tra generazioni. Ma è anche “il primo spazio in cui si sperimenta la quotidiana fatica di gestire la sfera degli interessi e delle emozioni. Produrre ricchezza e risparmio con il lavoro che le sue componenti svolgono all’interno e all’esterno. Al tempo stesso produce e riflette antiche tensioni e nuovi conflitti sociali...la violenza sui bambini e le donne, il disagio degli adolescenti, l’aumento delle povertà, la solitudine delle persone, l’emarginazione degli anziani”.

Su un luogo che conserva quasi invariati nel tempo ruoli, gerarchie, pregiudizi, consuetudini, adattamenti, cadono oggi “emergenze” prodotte da trasformazioni culturali, economiche e sociali, di cui la famiglia è al medesimo tempo origine, riflesso e contenimento. Il declino demografico - denatalità e invecchiamento della popolazione, con il conseguente numero sempre maggiore di anziani non autogestiti, la de-istituzionalizzazione, aumento delle coppie non sposate e dei figli nati fuori dal matrimonio, fanno dire a Rosy Bindi che diventa sempre più difficile “fare”, “continuare” e persino “resistere” a fare famiglia, ma che, ciò nonostante, la famiglia “regge”.

Il malato è grave, ma non moribondo, e lodevole è sicuramente l’insistenza con cui nell’ordinato sviluppo dei temi ritorna la sollecitazione a riconoscere il “valore sociale” della famiglia, il “bene” fondamentale che essa rappresenta per lo sviluppo, la crescita, la coesione. Una buona ragione perché non sia più permesso a una responsabilità pubblica finora carente di esimersi da tutelarla, garantirle un’esistenza dignitosa.

Detto questo, e riconosciuto che la “nuova politica” con cui Bindi pensa si debba affrontare il problema famiglia è molto lontana dalle soluzioni compassionevoli di un certo conservatorismo cattolico, ancorata com’è a logiche di diritto, impegni istituzionali, risorse pubbliche, è come se un ostacolo, una di quelle barriere che nascondono all’improvviso l’intero paesaggio, ci rimandasse all’assunto iniziale: che cos’è la famiglia? Che senso ha parlarne come di un’entità a sé stante, distinta dai singoli componenti? Benché formulata in modo meno esplicito, la domanda è sicuramente presente dietro le spiegazioni che vengono date quasi in apertura del documento.

Il rimando è alla Costituzione, articolo 29, comma 1°, la dove si dice che “si riconoscono diritti alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Preoccupata di “armonizzare” diritti della persona e della famiglia, ben sapendo quanto confligga tuttora la libertà del singolo con le richieste del gruppo di appartenenza, Rosy Bindi conclude sbrigativamente e in modo assiomatico che “la famiglia non può essere nemica delle persone” e che, come tutte le “formazioni sociali”, essa ha come fine “lo svolgimento della personalità degli esseri umani”. A riparo di ulteriori obiezioni, viene detto chiaramente che, rispetto ai suoi componenti, la famiglia gode di un “plusvalore istituzionale”, o, come si legge più avanti nel capitolo sulle “unioni di fatto”, una “dignità superiore”, non solo perché rispondente a un “ordine naturale”, ma perché garanzia di stabilità, certezza, reciprocità di diritti e doveri, in virtù del matrimonio.

Il fatto che i dati Istat, e tutte le ricerche sociologiche riportate scrupolosamente nel testo dicano il contrario - separazioni e divorzi in crescita, violenze, obblighi disattesi dai coniugi, allentamento dei legami di parentela -, non distoglie da quello che è l’assunto pregiudiziale del documento: per avere cittadinanza negli ambiti istituzionali della politica la famiglia non può parlare un’altra lingua, non può rivelare il volto dei suoi reali componenti, l’uomo e la donna, né dire della storia di dominio che ha sottomesso un sesso all’altro, escluso la donna dalla scena pubblica, legittimato il potere maschile e la divisione dei ruoli sessuali sulla base di un dato biologico assunto in modo astorico e deterministico.
-  Questo significherebbe riconoscere l’inimicizia che fin dai primordi ha contrapposto la famiglia e la società, l’amore come tendenza a creare appartenenze intime, esclusive, e il bisogno altrettanto forte di allargare il cerchio della vita. Vorrebbe dire, soprattutto, che all’origine del lungo esilio della famiglia dalla società nel suo complesso c’è la pretesa “naturalità” del ruolo materno, l’identificazione della donna con la genitrice, e quindi della sessualità con la procreazione.

La senatrice socialista Lina Merlin, come si apprende da una recente biografia a cura di Anna Maria Zanetti (Marsilio 2006), nel dibattito in aula del 15 gennaio 1947, si era detta contraria all’inserzione della famiglia nella Costituzione, per timore di definizioni destinate a cristallizzare un credo piuttosto che un altro. Ma poi scriveva: “Proteggere la maternità significa proteggere la società alla sua radice”.
-  La continuità tra famiglia e istituzioni sociali si è retta per millenni sul potere dell’uomo, presente sia nella sfera pubblica che privata, ma anche sulla complementarietà di natura e cultura, rappresentata dalla differenziazione dei ruoli del maschio e della femmina. Questo “ordine”, sia esso dato come naturale o sovrannaturale, laico o religioso, non sfugge alla sacralità di tutto ciò che è posto fuori dalla storia, e come tale immodificabile e misterioso.

La prima rappresentazione dissacrante della famiglia è venuta dal femminismo degli anni ’70, nel momento in cui ha separato l’individualità femminile dalla funzione di madre, la sessualità dalla procreazione. Se la donna può scegliere se fare o non fare figli, il matrimonio perde il suo fondamento biologico, la prole, e la famiglia non è più quell’assetto naturale di cui parla la Costituzione.

E’ questa la prima grande trasformazione che, insieme al complesso della ragioni economico sociali descritte da Rosy Bindi, ha messo in crisi la natalità, reso più gravoso e sempre meno sopportabile quel “lavoro di cura” e “assistenza” di bambini e anziani, malati, che ancora viene richiesto alle donne in virtù delle loro ‘naturali’ doti materne, della loro lunga frequentazione di corpi, sentimenti, sofferenze. Se è così forte la preoccupazione di distinguere la famiglia fondata sul matrimonio dalle unioni di fatto, è perché in realtà si somigliano sempre di più, perché la convivenza comincia a strutturarsi sempre più spesso sulla base di relazioni sessuali, sentimentali e di solidarietà, scelte liberamente.

E’ questo spostamento lento, che ha fatto seguito alle grandi scosse degli anni ’70, a inquietare al punto da dover essere detto e contraddetto, mostrato e al medesimo tempo nascosto, quando non del tutto cancellato. E’ così che le figure dell’uomo e della donna spariscono dietro le maschere della coppia genitoriale; è così che la centralità del disagio femminile, su cui pesano violenza, sacrificio, fatica, dispendio di energie fisiche e intellettuali, viene soppiantata dall’attenzione quasi esclusiva al diritto dei bambini.

Ma dove la contraddizione tra il mostrare e il negare è più scoperta, è la dove si parla del bisogno di tenere insieme tempo di lavoro e tempo di cura, ben sapendo che si sta parlando dell’incidenza che hanno avuto e hanno tuttora la maternità, la responsabilità della famiglia, la cura e l’assistenza dei suoi componenti, nel trattenere le donne fuori da ogni potere, decisionalità, realizzazione personale.

Dovrebbe bastare questa consapevolezza per capire che nessuna tutela, nessun rappezzamento, nessun servizio di pubblica sussidiarietà potrà sostituire l’unica vera reale via d’uscita: il cambiamento del rapporto tra i sessi, la ridefinizione della sfera pubblica e privata, lo sforzo di immaginare altri modelli di sviluppo, di crescita, di invecchiamento, di amore e di solidarietà coi più deboli. Politiche famigliari volte ad alleviare un carico insostenibile di spesa per l’assistenza domiciliare degli anziani sono sicuramente desiderabili, come sa chi ha visto genitori invalidi, nullatenenti, ricevere assegni di cura e accompagnamento a pochi mesi della morte.

Ma né lo sgravio economico, né il ricorso ad assistenti familiari straniere, costrette a un “percorso lavorativo” che avviene all’insegna della povertà di alcuni popoli e del privilegio di altri, e in molti casi in condizione di semischiavitù, riusciranno ad appagare quel bisogno di libertà, padronanza di sé, protagonismo politico, che una coscienza femminile recente ha posto con forza per le donne, e per tutti. Non ci sono Osservatori, Giudici e Garanti, monitoraggi permanenti per controllare lo stato di salute della famiglia, che possano illudersi di avere una qualche benefica incidenza senza “mettersi all’ascolto” -per usare un’espressione di Rosy Bindi- di quella che è stata tradizionalmente la “risorsa” prima della sopravvivenza: la maternità di destino delle donne.

E’ da qui che può ricominciare una riflessione che responsabilizzi, riguardo al modello di civiltà che vogliamo, donne e uomini: singoli, associazioni, movimenti.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!


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