PER LA VERITA’, ADDIO ALLA VERITA’: RIPENSARE IL NODO ESSERE, VERITA’, E LINGUAGGIO. L’indicazione di Vattimo e l’autocelebrazione di Marconi....
di Federico La Sala
DIEGO MARCONI, PRIMA DI GUGLIELMO MARCONI, MUOVE CONTRO VATTIMO ("Addio alla verità"), A DIFESA DEL SUO DISCORSO "PER LA VERITA’" .... E DA’ LA COMUNICAZIONE - IN "24 ORE" - A SE STESSO DELLA VITTORIA DELLA SUA INTERPRETAZIONE E DELLA SUA VERITA’ - CONTRO LA VERITA’ E L’INTERPRETAZIONE DEL DISCEPOLO DEL "PROFETA DI MESSKIRCH", APPRODATO FINALMENTE "DALLA FORESTA NERA AL BAR SPORT"!!!
Un breve estratto da una sua rec. apparsa oggi, 7.06.2004, su Il Sole-24 ore (p. 35)
SENZA PIU’ VERITA’ SIAMO PIU’ LIBERI?
di Diego Marconi
Nel suo piccolo ma interessante libro On Bullshit (tradotto in italiano col titolo di Stronzate, Rizzoli 2006), il filosofo Harry Frankfurt distingue il bullshit dalla semplice menzogna. Chi mente nasconde o altera quella che crede essere la verità, e quindi ha un’opinione riguardo a qual è la verità. Invece al bullshitter - a chi parla a vanvera - non importa affatto se quello che dice sia vero o falso: gli importa soltanto di impressionare e persuadere il suo uditorio. [....]
Dice Vattimo che la norma del discorso non è la verità, ma il consenso: ciò che si deve perseguire è una “condivisione comunitaria che non dipende dal vero e dal falso degli enunciati", all’incirca quello che fa il bullshitter secondo Frankfurt. [...]
[...] Dove c’è una verità, c’è qualcuno che la conosce meglio degli altri: il comitato centrale, il papa, i sapienti. E queste autorità saranno inclini a ricavare norme (liberticide) da quella che ritengono essere la natura delle cose. In secondo luogo, se c’è un modo in cui le cose stanno non siamo liberi: le ontologie oggettivistiche legittimano ”un ordine storico e sociale in cui la libertà e l’originalità dell’esistenza umana vengono cancellate ” [...] Ma la ragione principale per rifiutare verità e oggettività, dice Vattimo, è etico-politica: se ci fosse la verità, la nostra esistenza di soggetti liberi non avrebbe alcun senso e saremmo esposti al rischio del totalitarismo [...]
[...] Non mi metterò qui a confutare questi argomenti: chi fosse interessato può leggere, ad esempio, il mio libro Per la verità (un libro che Vattimo dice di essersi annoiato a leggere: io, invece a leggere il suo mi sono abbastanza divertito). [...] Dalla Foresta Nera al Bar Sport [...]
Federico La Sala
SCHEDA EDITORIALE *
Gianni Vattimo
Addio alla verità
Il tramonto della verità è la rappresentazione più fedele della cultura contemporanea: questo vale, secondo Gianni Vattimo, non solo per la filosofia, la religione e la politica, ma anche e soprattutto per l’esperienza quotidiana di ognuno di noi. La cultura delle società occidentali è - di fatto, anche se spesso non di diritto - sempre più pluralista. I media mentono, l’informazione e la comunicazione sono un gioco di interpretazioni e ai politici si consentono molte violazioni dell’etica, e dunque anche del dovere di verità, senza che nessuno si scandalizzi. Tuttavia, la nostra società “pluralista”, come mostrano ogni giorno le discussioni politiche, continua a credere alla “metafisica” idea di verità come obiettiva corrispondenza ai fatti e si illude di creare l’accordo sulla base dei “dati di fatto”.
Prendendo radicalmente le distanze da tutte le pretese di fondare la politica su un sapere scientifico, fosse pure quello dell’economia e della tecnica, Gianni Vattimo sostiene che il solo orizzonte di verità che oggi la politica e la filosofia hanno il compito di cogliere, esplicitare e costruire consiste nelle condizioni epistemologiche del dialogo sociale e interculturale. Il tema della verità va dunque ricondotto a una questione di condivisione sociale e gli intellettuali sono chiamati a pensare forme di vita più comprensibili, condivise e partecipate.
L’addio alla verità è dunque l’inizio, e la base stessa, della democrazia. Prendere atto che il consenso sulle singole scelte è anzitutto un problema di interpretazione collettiva, di costruzione di paradigmi condivisi o almeno esplicitamente riconosciuti, è la sfida della verità nel mondo del pluralismo postmoderno. Perché la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno e delle diverse comunità che convivono, senza confondersi, in una società libera.
Attenti a rottamare Kant
La filosofia non è tecnica
di Umberto Curi (Corriere della Sera - La Lettura, 12.10.2014)
Che cos’hanno in comune Gianni Vattimo e Ligabue? E perché Massimo Cacciari compare spesso fra gli ospiti dei più svariati talk-show? Per capirlo, dobbiamo fare un lungo passo indietro, fino all’autunno del 1765. Un professore di fama ancora piuttosto oscura, libero docente di filosofia presso l’Università di Königsberg, con l’approssimarsi dell’inizio delle lezioni accademiche, aveva pubblicato una «comunicazione», con la quale dava notizia del programma e dell’orario delle lezioni del corso che si accingeva a tenere.
La qualifica di Privatdozent non gli consentiva di contare su quello che oggi chiameremmo un posto di ruolo, con relativo decoroso stipendio. Come precario, egli doveva confidare su un’ampia partecipazione di studenti, e su giudizi lusinghieri, allo scopo di ottenere una conferma dell’incarico. Di qui la scelta di allegare alla «comunicazione» una concisa dissertazione, in cui indicava le finalità del corso, illustrate in modo tale da rendere appetibile l’insegnamento per una vasta platea di allievi.
Quel docente si chiamava Immanuel Kant. Il testo da lui redatto in quella circostanza, noto col titolo di Nachricht («annuncio», «notizia», «comunicazione», appunto), conteneva una chiara esplicitazione di temi molto importanti, con un respiro culturale che eccedeva di gran lunga la contingenza. L’insegnamento universitario della filosofia - scrive Kant - deve far sì che l’allievo diventi un Selbstdenker , «uno che pensa con la propria testa». Se l’università non si attiene a questa direttiva, essa non solo tradisce i suoi compiti istituzionali, ma finisce per produrre seri danni. Il docente dovrà dunque adoperarsi affinché gli studenti non imparino «pensieri», ma imparino a «pensare»; che essi, insomma, non apprendano la filosofia, ma diventino invece capaci di filosofare; che essi non siano indotti a diventare «recipienti» di idee prodotte da altri, ma acquisiscano le procedure per produrre autonomamente idee.
Allo scopo di giustificare questa rivoluzione copernicana ante litteram , vale a dire precedente a quella che egli introdurrà 16 anni più tardi, con la pubblicazione della Critica della ragion pura , Kant adduce una serie di argomenti (non tutti persuasivi allo stesso modo), tra cui il richiamo alla differenza essenziale fra le scienze e la filosofia. Mentre nel caso delle scienze - che siano «storiche», vale a dire basate sull’osservazione, o matematiche, fondate sul calcolo - si può individuare un «dato di fatto», qualcosa che è «già provveduto», e che dunque deve semplicemente essere assimilato, nel caso della filosofia questa condizione è assente, e di conseguenza non vi è qualcosa da trasmettere mediante l’insegnamento.
Per quanto possa apparire convincente e perfino affascinante, la proposta di Kant non ha goduto di grande fortuna fra gli addetti ai lavori. Già bollata come disdicevole «smania», o come «infelice prurito», da Hegel, l’ipotesi di attribuire all’insegnamento della filosofia il compito di preparare gli allievi a «pensare con la propria testa» sarebbe stata addirittura ridicolizzata da alcuni esponenti della filosofia analitica contemporanea. Per pensare con la propria testa - hanno osservato - bisognerebbe averne una, cosa che spesso è tutt’altro che scontata. E poi: guai se non pensassimo anche con la testa degli altri. Ci priveremmo di un irrinunciabile patrimonio di idee e conoscenze, senza il quale non vi sarebbe possibilità di progresso.
Pur senza citare la Nachricht kantiana, ma richiamandosi spesso ad argomenti di ispirazione analitica, sul complesso delle questioni ora citate si sofferma Diego Marconi, nel suo Il mestiere di pensare (Einaudi). Scritto in maniera limpida e insieme rigorosa, assistito da una solida conoscenza dei principali filosofi contemporanei, in particolare di lingua inglese, il libro attraversa gran parte dei problemi soggiacenti al dibattito suscitato dalla proposta kantiana: il rapporto fra scienze e filosofia; la figura del filosofo, conteso fra l’artigiano e lo specialista; il conflitto fra storici e teorici sull’utilità (o la superfluità) della storia della filosofia per il concreto esercizio filosofico.
L’importanza dei temi affrontati induce a rimandare ad altra sede una più analitica discussione di merito. Qui è però possibile soffermarsi su un aspetto peraltro non marginale, rispetto all’orditura del libro, nel quale l’autore mette a confronto una accezione «professionale» con la variante «dilettantesca» del lavoro filosofico. Per essere più precisi, non è questo il solo dualismo, né il più importante, fra quelli evocati da Marconi. Al contrario, egli costruisce buona parte della sua argomentazione mediante la tecnica della distinzione-contrapposizione: fra filosofi divulgatori e filosofi mediatici, fra protagonisti di festival e specialisti, fra autori di testi dal significato oscuro e tecnici dell’argomentazione rigorosa.
Muovendo da una convinzione, non apertamente dichiarata, ma anche neppure tanto dissimulata, e cioè che nella controversia tra filosofi analitici (Willard Quine, Peter Strawson, Hilary Putnam, lo stesso Marconi) e filosofi continentali (Martin Heidegger, Jacques Derrida, Jürgen Habermas, Emanuele Severino) solo i primi meritino di essere considerati degli autentici «professionisti» del mestiere di pensare, mentre i secondi possano andare bene per soddisfare le ambizioni dell’assessore che voglia promuovere una kermesse culturale, o per accontentare il direttore di un quotidiano, o per partecipare a dibattiti televisivi, ma non possano aspirare alla serietà nell’esercizio della filosofia.
Insomma, secondo l’impostazione di Marconi, il problema non è stabilire con quale «testa» si debba pensare (con la propria, come vorrebbe Kant, o quella di altri, come suggeriscono gli analitici), ma quale forma logico-argomentativa debba assumere il discorso filosofico, per almeno assomigliare al rigore delle procedure in uso nelle scienze. Dove è allora evidente che la distinzione kantiana fra scienze e filosofia è destinata a saltare, e soprattutto che a decidere chi sia un filosofo degno di questo nome saranno i membri di una inevitabilmente ristretta comunità scientifica, e non le arene mediatiche, straripanti di pubblico e povere di competenze.
Quale rapporto vi sia poi fra questa accezione rigidamente tecnicizzata di filosofia, sostanzialmente indistinguibile dalle scienze, e il modo in cui essa è stata coltivata, lungo una secolare tradizione, da Eraclito e Platone, Aristotele e Cartesio, Spinoza e Hegel, Nietzsche e Heidegger - di tutto ciò il testo di Marconi non parla, se non per accenni. Ma forse è vero, ancora una volta, che ciò intorno a cui non si può parlare, si deve tacere.