Gianni Vattimo
Addio alla verità
Il tramonto della verità è la rappresentazione più fedele della cultura contemporanea: questo vale, secondo Gianni Vattimo, non solo per la filosofia, la religione e la politica, ma anche e soprattutto per l’esperienza quotidiana di ognuno di noi. La cultura delle società occidentali è - di fatto, anche se spesso non di diritto - sempre più pluralista. I media mentono, l’informazione e la comunicazione sono un gioco di interpretazioni e ai politici si consentono molte violazioni dell’etica, e dunque anche del dovere di verità, senza che nessuno si scandalizzi. Tuttavia, la nostra società “pluralista”, come mostrano ogni giorno le discussioni politiche, continua a credere alla “metafisica” idea di verità come obiettiva corrispondenza ai fatti e si illude di creare l’accordo sulla base dei “dati di fatto”.
Prendendo radicalmente le distanze da tutte le pretese di fondare la politica su un sapere scientifico, fosse pure quello dell’economia e della tecnica, Gianni Vattimo sostiene che il solo orizzonte di verità che oggi la politica e la filosofia hanno il compito di cogliere, esplicitare e costruire consiste nelle condizioni epistemologiche del dialogo sociale e interculturale. Il tema della verità va dunque ricondotto a una questione di condivisione sociale e gli intellettuali sono chiamati a pensare forme di vita più comprensibili, condivise e partecipate.
L’addio alla verità è dunque l’inizio, e la base stessa, della democrazia. Prendere atto che il consenso sulle singole scelte è anzitutto un problema di interpretazione collettiva, di costruzione di paradigmi condivisi o almeno esplicitamente riconosciuti, è la sfida della verità nel mondo del pluralismo postmoderno. Perché la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno e delle diverse comunità che convivono, senza confondersi, in una società libera.
Gianni Vattimo ha insegnato Filosofia Teoretica presso l’Università di Torino - dove è stato anche Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia - dal 1964 al 2008. Visiting professor in varie università americane, ha tenuto seminari e conferenze in atenei di tutto il mondo. Dopo aver diretto per molti anni la «Rivista di Estetica», collabora oggi con diversi quotidiani e riviste italiane e straniere. Dal 1999 al 2004 è stato deputato al Parlamento di Strasburgo. I suoi libri sono stati tradotti in moltissime lingue. La Meltemi sta pubblicando le sue Opere complete.
* Scheda editoriale: Meltemi editore
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Per dizionario Oxford ’post-verità’ è parola del 2016
Scelta fatta sullo sfondo di elezioni Usa e referendum Brexit
di Redazione Ansa *
LONDRA E’ ’post verità’, in inglese ’post-truth’, il neologismo dell’anno secondo gli esperti di Oxford Dictionaries. La scelta e’ quella di un’espressione che secondo un comitato di esperti ha segnato profondamente la scena politica internazionale durante il 2016, con riferimento in particolare alle polemiche legate alla campagna referendaria britannica sfociata a giugno nella vittoria della Brexit (il divorzio dall’Ue) e a quella americana per le presidenziali appena culminata nel trionfo di Donald Trump.
L’annuncio è arrivato in queste ore, riporta la Bbc: ’post-truth’ ha prevalso in una short list finale che comprendeva anche termini come ’Brexiteer’ (sostenitore della Brexit). Si tratta, ha sentenziato Casper Grathwohl, fra i curatori dei prestigiosi dizionari editi a Oxford, "di una di quelle parole che definiscono il nostro tempo".
Solo un Dio (relativista) ci può salvare
Nel mondo multiculturale, il divino non si può pensare come “verità”
Si intitola «Addio alla verità» il nuovo libro di Gianni Vattimo, che raccoglie alcuni saggi di religione, etica e politica scritti negli ultimi anni, di cui anticipiamo in questa pagina uno stralcio, dal capitolo «Un Dio relativista». Il volume (pp. 144, e13) sarà in libreria da domani per l’editore Meltemi, presso il quale è in corso di pubblicazione l’opera omnia del filosofo.
Trasformare la battuta di Heidegger nell’intervista allo Spiegel facendogli dire che «ormai solo un Dio (relativista) ci può salvare» non è solo un provocatorio gioco di parole. Heidegger stesso, se avesse potuto fare l’esperienza delle rovine che il fondamentalismo religioso - vero o preteso che sia - sta producendo nel nostro mondo, forse sarebbe d’accordo. Per mitigare il carattere scandaloso della battuta, potremmo trasformare il «relativista» in «chenotico» (che si abbassa e si umilia per amor nostro): un Dio più esplicitamente conforme all’immagine che ne possiamo avere, oggi, come cristiani.
Anche l’«ormai», nell’affermazione di Heidegger, ci sembra essenziale. Un Dio relativista, o chenotico, è quello che «si dà» a noi, oggi, a questo punto della storia della salvezza, e dunque anche a questo punto della storia della Chiesa, di quella cattolica e di quelle cristiane, nel mondo della globalizzazione realizzata. Dobbiamo sottolineare il legame con l’oggi perché, per noi come per Heidegger, il Dio che ci può salvare non è un’entità metafisica data oggettivamente come sempre uguale, che noi dovremmo solo «riscoprire», in una specie di meditazione cartesiana che ce ne dovrebbe mostrare l’indubitabile «esistenza».
Oggi possiamo porci il problema di Dio solo in questo momento specifico della storia della salvezza, e cioè in relazione a come la Chiesa e il cristianesimo si danno nella nostra esperienza quotidiana. Ora, l’esperienza quotidiana che noi facciamo della storia della salvezza ha da fare con il fondamentalismo. Non soltanto con quello dei cosiddetti terroristi islamici, ma anzitutto con il fondamentalismo che, anche come reazione alla lotta di liberazione dei popoli ex coloniali, si afferma sempre più nella stessa religione occidentale. Di fronte all’affermarsi crescente di fenomeni di secolarizzazione, la Chiesa, non solo in Italia, avanza pretese di riconoscimento della propria autorità sempre più pressanti, e ciò in nome del fatto che a essa, dalla stessa rivelazione cristiana, sarebbe affidato il compito di difendere l’autentica «natura» dell’uomo e delle istituzioni civili.
Non è esagerato dire - per quanti «aggiornamenti» ci siano stati su questo tema - che la Chiesa è ancora ferma al processo di Galileo. È vero che non cerca più di leggere nella Bibbia la descrizione del cosmo e le leggi del moto degli astri; ma parla ancora correntemente di una «antropologia biblica», a cui le leggi civili dovrebbero conformarsi per non tradire la «natura» dell’uomo. Di qui vengono le lotte contro il divorzio, l’aborto, le unioni omosessuali, e poi la diffidenza verso ogni manipolazione genetica anche solo a scopo terapeutico. E oggi le ragioni di chi abbandona il cristianesimo sono sempre più legate alla pretesa ecclesiastica di conoscere la «vera» natura del mondo, dell’uomo, della società.
A questa pretesa si lega il sempre rinnovato dibattito su creazionismo e anti-creazionismo, che è un tema analogo a quello del processo a Galileo; giacché si tratta pur sempre della volontà di affermare che il Dio di Gesù è l’autore del mondo materiale, e dunque la fonte delle leggi che lo regolano, una sorta di supremo orologiaio che, tra l’altro, ha sempre bisogno di una teodicea, perché non solo non dovrebbe poter fare miracoli, ma soprattutto dovrebbe spiegarci perché permette tanti mali nel mondo. Da questo punto di vista, le riflessioni della teologia ebraica dopo Auschwitz dovrebbero insegnare qualcosa ai teologi cristiani: non solo che Dio non può essere onnipotente e buono nello stesso tempo, ma anche e soprattutto che forse non si può più pensarlo come il demiurgo platonico, come il produttore del mondo materiale e dunque responsabile supremo del suo (talvolta pessimo) funzionamento.
Parlare di un Dio «chenotico», o «relativista», significa prendere atto che l’epoca della Bibbia come deposito di «sapere» vero perché garantito dall’autorità divina è del tutto passata. E che questo non è un male a cui cercare di adattarsi in attesa di poterlo combattere più decisamente, ma fa parte della stessa storia della salvezza. È l’incarnazione intesa come kenosis che si realizza oggi in modo più pieno in quanto la dottrina perde tanti elementi di superstizione che l’hanno caratterizzata nel passato, lontano e recente. E la superstizione più grave e pericolosa consiste nel credere che la fede sia «conoscenza» oggettiva; anzitutto di Dio, e poi delle leggi del «creato», da cui derivare tutte le norme della vita individuale e collettiva.
Vista in questa luce, la kenosis, che è il senso stesso del cristianesimo, significa che la salvezza consiste anzitutto nel rompere l’identità tra Dio e l’ordine del mondo reale. In definitiva, nel distinguere Dio dall’essere (quello della metafisica greca) inteso come oggettività, razionalità necessaria, fondamento. Un Dio «diverso» dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio «relativista». Un Dio «debole», se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi (contro le aspettative razionali, con il mistero a cui dovremmo sottometterci, con la disciplina ecclesiastica che dovremmo accettare) a propria volta come luminoso, onnipotente, sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica. È all’esperienza di un Dio diverso da questo che i cristiani sono chiamati nel mondo della esplicita molteplicità delle culture, a cui non si può più contrapporre, violando il precetto della carità, la pretesa di pensare il divino come assolutezza e come «verità».
Gianni Vattimo
PER LA VERITA’, ADDIO ALLA VERITA’: RIPENSARE IL NODO ESSERE, VERITA’, E LINGUAGGIO. L’indicazione di Vattimo e l’autocelebrazione di Marconi....
DIEGO MARCONI, PRIMA DI GUGLIELMO MARCONI, MUOVE CONTRO VATTIMO ("Addio alla verità"), A DIFESA DEL SUO DISCORSO "PER LA VERITA’" .... E DA’ LA COMUNICAZIONE - IN "24 ORE" - A SE STESSO DELLA VITTORIA DELLA SUA INTERPRETAZIONE E DELLA SUA VERITA’ CONTRO LA VERITA’ E L’INTERPRETAZIONE DEL DISCEPOLO DEL "PROFETA DI MESSKIRCH", APPRODATO FINALMENTE "DALLA FORESTA NERA AL BAR SPORT".
Un breve estratto da una sua rec. apparsa oggi, 7.06.2004, su Il Sole-24 ore (p. 35)
SENZA PIU’ VERITA’ SIAMO PIU’ LIBERI?
di Diego Marconi
Nel suo piccolo ma interessante libro On Bullshit (tradotto in italiano col titolo di Stronzate, Rizzoli 2006), il filosofo Harry Frankfurt distingue il bullshit dalla semplice menzogna. Chi mente nasconde o altera quella che crede essere la verità, e quindi ha un’opinione riguardo a qual è la verità. Invece al bullshitter - a chi parla a vanvera - non importa affatto se quello che dice sia vero o falso: gli importa soltanto di impressionare e persuadere il suo uditorio. [....]
Dice Vattimo che la norma del discorso non è la verità, ma il consenso: ciò che si deve perseguire è una “condivisione comunitaria che non dipende dal vero e dal falso degli enunciati , all’incirca quello che fa il bullshitter secondo Frankfurt. [...]
[...] Dove c’è una verità, c’è qualcuno che la conosce meglio degli altri: il comitato centrale, il papa, i sapienti. E queste autorità saranno inclini a ricavare norme (liberticide) da quella che ritengono essere la natura delle cose. In secondo luogo, se c’è un modo in cui le cose stanno non siamo liberi: le ontologie oggettivistiche legittimano ”un ordine storico e sociale in cui la libertà e l’originalità dell’esistenza umana vengono cancellate ” [...] Ma la ragione principale per rifiutare verità e oggettività, dice Vattimo, è etico-politica: se ci fosse la verità, la nostra esistenza di soggetti liberi non avrebbe alcun senso e saremmo esposti al rischio del totalitarismo [...]
[...] Non mi metterò qui a confutare questi argomenti: chi fosse interessato può leggere, ad esempio, il mio libro Per la verità (un libro che Vattimo dice di essersi annoiato a leggere: io, invece a leggere il suo mi sono abbastanza divertito). [...] Dalla Foresta Nera al Bar Sport [...]
Federico La Sala
ADDIO ALLA VERITA’ - DEL MITO E DELLA STORIA. L’"IMMAGINAZIONE" AL POTERE: "I GRECI HANNO CREDUTO AI LORO MITI?"(PAUL VEYNE, iL MULINO 1984).
(...) Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.