Giorno 31 ottobre, a Bagnara Calabra ennesimo successo per l’iniziativa Librandosinvolo 2010. Ospite dell’associazione “Insieme per riaprire la città”, presso l’Hotel Victoria, è stato Pino Aprile con “Terroni”. Un libro che, alle soglie dei festeggiamenti dell’Unità d’Italia, appare illuminante per chi ancora ricerca la verità storica sul Meridione. Sì, perché il Sud come territorio contrapposto e subalterno al Nord nasce proprio all’indomani dell’Unità d’Italia. Infatti “il Regno delle Due Sicilie, fino al 1861, era uno dei paesi più industrializzati del mondo”. Un’Unità cercata con le armi, creata sulla carta, ma la coesione del popolo italiano non è mai avvenuta. “Un capolavoro sinergico tra mafia, massoneria mondiale ed imprenditoria”, così ce la racconta l’Unità d’Italia Pino Aprile. Il giornalista pugliese per 3 ore è riuscito a tenere sempre viva l’attenzione del pubblico. La storia che ci spiega e racconta nel suo libro, è una verità storica che continuano a tenerci nascosta. ”Non vogliono che prendiamo coscienza e memoria di noi stessi. Vogliono che tutto resti così com’è”. Secondo Aprile, dunque, “il gradino tra Nord e Sud è funzionale a questo sistema economico e politico”. Per questo non si deve risolvere la questione meridionale, il sistema ha deciso che i terroni devono rimanere tali. Ma chi l’ha detto?E soprattutto, chi vuole accettare ancora lo status quo e le continue vessazioni che oggi noi meridionali subiamo? Secondo Pino Aprile, non è tutto perduto e i tempi non sono poi così acerbi, ed afferma: «Grazie al mio libro, sto girando l’Italia e conoscendo realtà e i luoghi che nemmeno credevo esistessero. E vi posso dire che ho visto dei giovani che sono pronti, sono avanti, saranno loro a rivoluzionare la situazione attuale». Continua Aprile dicendo: «I ragazzi di oggi hanno la capacità di dialogare con tutti, senza problemi. Non lo concepiscono più questo gradino, e non accetteranno che questo sistema li penalizzi ancora. Se questo libro ha avuto così tanta fortuna,significa che io ho solo intercettato un sentimento, una voglia, un’onda che vuole di ripulire l’Italia».
Ad introdurre il libro è stata la giornalista Roberta Macrì, la quale ha rivolto una serie di domande a Aprile e ha mediato gli interventi con un pubblico molto partecipe.
La prima riflessione di Aprile si sofferma sul meccanismo psicologico che questa “condizione di minorità indotta” ha generato. Dice: «C’hanno fatto credere che eravamo poveri e arretrati. Questo ha formato il nostro carattere, il nostro modo di camminare, il nostro modo di guardare gli altri e di essere guardati. Noi siamo gli sconfitti». Questo è quello che ci hanno fatto credere e che inevitabilmente ha inciso sulla storia e le generazioni successive. Spiega ancora Aprile che: «L’emigrazione è un dato endemico del Mediterraneo. Ma per millenni l’emigrazione è avvenuta sempre verso casa nostra, tutti arrivavano qui e vi restavano! Questa era l’America del mondo. La gente ha cominciato a fuggire da questa terra solo dopo l’Unità d’Italia, prima nessuno se ne andava da qui». E tutto ciò ha fatto sì che a noi meridionali “sconfitti, vinti” non restasse che la fuga, l’emigrazione verso il Nord. «Le persone che vanno via lasciano dei vuoti. Anch’io ho visto sparire i miei parenti, ho visto chiudere le case e non trovarvi più nessuno dentro».
Con una metafora Aprile ci fa capire il processo psicologico che ci ha ridotti all’immobilismo: «Se un bambino vede sempre intorno a se degli sconfitti, impara a comportarsi come tale. Pertanto, è stato educato a subire e a sentirsi un vinto. Quel bambino oggi ha 150 anni e si chiama Italia. Un’Italia che non ha mai reagito alle menzogne e ai soprusi. E noi meridionali, abbiamo accettato di essere sudditi».
Secondo una lucida analisi del giornalista, il risultato di quest’operazione di lobotomia culturale è questo: «Noi in 150 anni siamo stati divisi e ci siamo limitati a condividere le rispettive posizioni e ad accettare il ruolo al quale c’hanno relegato».
Un’altra via d’uscita, Aprile la rinviene nella globalizzazione: «Il mondo si è aperto all’incrocio delle diversità, questa apertura renderà liberi tutti i popoli. Anche l’Italia deve aprirsi e prendere coscienza di sé, altrimenti non riusciamo a renderci conto che i nostri diritti ce li hanno tolti e stiamo continuando a perderli tutti».
Interessante la spiegazione della condizione di noi meridionali, attraverso il parallelismo con l’esperimento della prigione di Stanford al quale dei volontari vi hanno partecipato nei ruoli di carcerieri e carcerati. Queste persone potevano, in qualsiasi momento, abbandonare le loro posizioni all’interno di questo carcere simulato e tornare in libertà. Come ci racconta il giornalista: «Ad un certo punto, i carcerieri si erano perfettamente immedesimati nel ruolo. Ciascun carcerato, pure, nonostante la cella fosse aperta, ha deciso di rimanervi perché convinto che fosse lì per aver commesso un reato. Il risultato qual è stato? Che a renderli prigionieri non era quella prigione finta ma loro stessi, la loro volontà». Questo avverrebbe, secondo Pino Aprile, perché nella mente dell’uomo scattano “meccanismi potentissimi”: «Crediamo che ci sia sempre un motivo sconosciuto per cui noi meritiamo la schiavitù. C’hanno abituati a pensare che ci sia una sorta di giustizia salvifica che, dall’alto, risolverà la situazione. Ma non è così. Noi possiamo agire e cambiare le cose, basta volerlo».
Altro spunto di riflessione, Aprile ce lo ha dato in riferimento al titolo di un capitolo del suo libro: “Il Sud ha le piaghe. Per fortuna”. Il Sud, nel tempo ha collezionato sofferenze, vessazioni, ferite. Dall’idioma cinese, impariamo che la parola “crisi” significa: disastro e opportunità. Partendo da queste considerazioni Aprile afferma che abbiamo l’opportunità di dare corso a nuovi eventi proprio perché abbiamo subito tante ingiustizie e sapremo come migliorare le cose. “Dunque se le piaghe sono delle crepe, degli spazi aperti che si possono riempire, significa che quello che non c’è e che va fatto, è la nostra fortuna! Perché noi, adesso, quello che manca lo realizzeremo meglio di prima!”.
Un altro regalo che l’Unità d’Italia c’ha fatto è la mafia. “Perché prima del 1861, la mafia così come la conosciamo, non esisteva”. Lo dice Pino Aprile citando le parole di Chinnici, il maestro di Falcone e Borsellino.
L’Italia dunque è stata unita con la violenza: ci hanno depredato, trucidato, umiliato. E ancora oggi le 1\ingiustizie continuano: nessuna classe dirigente sostanzialmente ha mai voluto distruggerlo quel “gradino” che ci mantiene subalterni. Con un processo di manipolazione storica ci hanno fatto credere che eravamo inferiori ed incapaci di autogovernarci. Invece noi meridionali, eravamo ricchissimi e vivevamo nel posto più bello del mondo: il Mediterraneo. Adesso siamo sparsi, dispersi. Ma esistono dei legami indissolubili con la propria terra di origine che, nemmeno i vaneggiamenti del leghista più convincente potranno recidere. Basta riconoscerlo questo legame e riconoscersi come popolo.
Conclude così Aprile: «A volte succede che non sei solo, sei il primo ad aprire una crepa. Tu fai quel che pensi e accada ciò che vuoi».
Tutti i grandi rivolgimenti sociali avvengono all’improvviso ed in fretta, quando meno ce l’aspettiamo. Noi vogliamo la libertà di scegliere, di essere e questo accadrà.
Il libro di Pino Aprile rappresenta un contributo prezioso alla verità storica del nostro paese. Questa verità, quella intendo dell’Italia del sud, non manca solo ai meridionali, manca anche ai settentrionali, manca all’Italia intera. Quando questa verità andrà a revisionare la storia dei libri di scuola potremo sicuramente festeggiare il cambiamento di rotta di quella politica secolare che ha voluto un’Italia duale e squilibrata. Quando Nord e Sud andranno fieri l’uno dell’altro vorrà dire che i libri di scuola avranno svolto il loro ruolo in modo onesto. Ogni sforzo in questa direzione merità rispetto e incitamento.
Complimenti e tanti auguri.
Domenico Creazzo Torino
Tra i potenti e la povera gente
Il ruolo storico e le divisioni della chiesa cattolica in Sicilia dopo l’unità d’Italia
di Carlo Ruta
Quando, il 20 settembre 1870, cadde Roma, e con essa l’ultimo tassello dello Stato Pontificio, entrava nel vivo una questione condizionante, in grado di competere, per certi versi almeno, con quella meridionale, che pure andava assumendo caratteri tipicamente militari, e con quella sociale, avvertita già a tutti i livelli. Da allora, i governi sabaudi, che si erano trovati nella necessità di attingere alle risorse della Chiesa per saldare i deficit dei bilanci di Stato, dovettero fare i conti fino in fondo con le tradizioni del paese reale, che, a dispetto del dilagante anticlericalismo, insistevano a trovare punti di forza nell’autorità morale dei campanili, delle parrocchie, delle diocesi, lungo tutto il territorio nazionale. La determinazione non venne meno, beninteso. Da vincitore, e da Stato laico, il regno sabaudo continuò a fare le regole, mentre la Chiesa dei pontefici, non più garantita dalla Francia di Napoleone III, reduce della mortificazione inferta da Bismarck a Sedan, si ritrovò confinata in uno spazio ristretto, nei palazzi vaticani, da cui dovette abituarsi a recitare la parte della grande sconfitta. Essa scelse, come è noto, l’ostilità strategica, che Pio IX sintetizzò nella formula del non-expedit, con cui veniva motivata l’inopportunità della partecipazione del clero alla vita politica del paese. Il Tevere divenne allora un fossato profondo, fino ad apparire insuperabile. E tale processo, di scollamenti e discordie, seguì in Sicilia un percorso coerente, legato nondimeno alle tipicità di alcune tradizioni.
Il clero dell’isola non era nuovo alle mortificazioni del potere pubblico, recando dietro un lungo iter di contenziosi, più o meno irrisolti. La nota «controversia liparitana» aveva fatto in qualche modo scuola. Aveva costituito comunque uno shock epocale, negli anni settanta del XVIII secolo, la confisca dei beni ecclesiastici pianificata da Napoli dal primo ministro Tanucci e condotta localmente dal vicerè Fogliari. Era stata, allora, la risposta dei Borboni al debordante potere economico che in Sicilia avevano acquisito in particolare i gesuiti, detentori, con altri ordini religiosi, di un terzo della intera superficie agraria. Nei decenni successivi la Chiesa siciliana aveva recuperato comunque il terreno perduto, per presentarsi negli anni clou dell’unificazione con un patrimonio cospicuo, indisponibile alle esigenze demaniali e dei ceti emergenti. La situazione dopo il 1861, agitata appunto dalle ideologie e dalle culture anticlericali, ma pure da bisogni del Tesoro, progredì quindi nella direzione sperimentata dai Borboni di Napoli. Gli effetti del decreto regio del 1867, che aboliva gli enti morali della Chiesa e ne confiscava i patrimoni, furono nell’isola non da poco. I beni delle diocesi finirono all’asta, per essere assunti infine da un ceto distinto, di estrazione borghese, che aveva partecipato in buona misura all’insurrezione e alle guerre garibaldine. Avrebbe potuto essere l’incipit di una rivoluzione agraria. Ma le cose andarono diversamente. Prevalse il principio della conservazione, mentre progrediva, negli ambiti stessi di quel notabilato, in bilico fra istanze democratiche e vecchie aristocrazie, una leva d’«ordine», di facinorosi, di cui per primo Raimondo Franchetti seguì i movimenti. Ma come reagì la Chiesa siciliana alla nuova umiliazione?
Coordinandosi con le difficoltà del tempo, il clero adottò, in via generale, una linea minimalistica. Ritiratasi dalla politica e dagli affari di Stato, la Chiesa scelse di correlarsi con la vita reale, delle città e delle campagne, occupando gli spazi sociali che, per via delle nuove contingenze, erano ancora preclusi allo Stato sabaudo, che d’altronde, prima da Torino, poi da Firenze, infine da Roma, imponeva la propria autorità con l’attivismo, più o meno truce, dei prefetti. A dispetto di tutto, essa continuò a interessarsi dell’educazione dei ragazzi. La legge Casati del 1859, che laicizzava l’istruzione, se aveva escluso infatti l’insegnamento religioso dalle scuole superiori, lo manteneva in quelle elementari. Per alcuni limiti formali in sede legislativa, la situazione rimaneva tale d’altronde dopo il varo della riforma Coppino del 1877. Come bene avrebbe rilevato Gramsci, la chiesa cattolica, forte del proprio radicamento, tanto più nel Mezzogiorno rurale, era legittimata comunque a rappresentare il mondo contadino, in condominio con il nascente socialismo. Se nella prassi politica le ragioni laiciste rimanevano allora preponderanti, sul terreno sociale, il prete, il vescovo, altre figure del clero, rimanevano essenziali. E soprattutto a quel punto in Sicilia come altrove, il mondo cattolico, fu indotto a coinvolgersi nelle questioni, a dividersi quindi, fino a rivelare due anime, compatibili e tuttavia distanti.
Da una parte si manifestava una Chiesa liturgica, che associava la tradizione al censo, il latinorum alle istanze dei potentati territoriali. Era già in cammino, evidentemente, la Chiesa che avrebbe prevalso nel primo Novecento, dagli anni del fascismo al dopoguerra. Dall’altro lato si poneva in gioco il cattolicesimo sociale, quello della povera gente, che con poche risorse ma con princìpi irrinunciabili avrebbe scortato le emergenze del secolo e di quello successivo. Con l’enciclica Rerum Novarum, Leone XIII cercò di trovare un punto di mediazione tra tali due realtà, riconoscendo legittimità alla questione operaia, mentre in Sicilia, da Caltagirone, il prete Luigi Sturzo maturava l’idea di un movimento politico, che chiamasse in causa la questione meridionale, facendo leva sul mondo contadino, attraverso gli strumenti della cooperazione, delle casse rurali, per combattere l’usura, dell’associazionismo. Negli anni della Destra come in quelli della Sinistra la questione contadina andò giocandosi in ogni caso nelle città, nelle borgate, nelle campagne, talvolta con effetti clamorosi, come quando, sotto il governo Crispi, la crisi economica, accentuata dalla guerra commerciale con la Francia e dalla diffusione della fillossera, che già negli anni ottanta aveva distrutto gran parte dei vigneti siciliani, fece erompere i bubboni del latifondo e delle miniere di zolfo. Le due linee del mondo cattolico emergevano allora con perentorietà.
I Fasci dei lavoratori, che percorsero la Sicilia nei primi anni novanta, non coinvolsero solo contadini ed operai sensibili alle dottrine socialiste. Nelle piazze e nelle campagne, dove si manifestava contro le vessazioni feudali, con naturalezza i ritratti di Garibaldi e Mazzini venivano coniugate con le icone di Cristo e perfino dei santi patroni. Si trattava appunto del cattolicesimo più in basso, che, a dispetto di tutto, cominciava a interloquire con le associazioni socialiste. Altro fu invece l’atteggiamento del clero ufficiale, che in quasi tutte le diocesi censurò in modo emblematico il movimento, prendendo le difese dei latifondisti e dei proprietari di zolfare. In un primo momento il vescovo di Caltanissetta Giovanni Guttadauro dimostrò un qualche riguardo per le rimostranze popolari, ritenendo che non se ne potessero dissimulare le cause. Ma nel 1894, quando la repressione di Crispi chiudeva i conti con i Fasci, con il risultato di oltre 150 morti, precisò la propria opinione, affermando che le plebi erano state illuse «da istigatori malvagi e da ree dottrine». E in modo analogo si espressero altri prelati, dal vescovo di Noto Giovanni Blandini, che definì «stoltizia» l’aspirazione a una distribuzione equa dei beni, al cardinale di Palermo Michelangelo Celesia, che si congratulò di persona con commissario regio Roberto Morra di Lariano, pianificatore delle stragi che posero fine al movimento.
Negli anni successivi il cattolicesimo dal basso continuò a operare in difesa della dignità umana. Nei primi decenni del Novecento ebbe pure i suoi morti, come Giorgio Gennaro, ucciso a Ciaculli nel 1916, Costantino Sella, ucciso a Resuttano nel 1919, Stefano Baronia, ucciso a Gibellina nel 1920. Introdottasi nel nuovo ordine di cose, la Chiesa ufficiale assumeva invece lo status di potere fra i poteri, con la sanzione dei Patti Lateranensi. La continuità di tale status negli anni della repubblica fu poi un esito congiunto del ceto politico guidato da De Gasperi e delle gerarchie di Pio XII. Alla guida dell’arcidiocesi di Palermo finiva a quel punto il cardinale Ernesto Ruffini, secondo cui la mafia era solo un’invenzione per colpire la DC e i siciliani. Con l’avvento di Giovanni Roncalli e con i percorsi della Chiesa post-conciliare pure nell’isola si sarebbe aperto comunque il tempo delle rettifiche.