SPAZIO: NELLE COMETE LA CHIAVE DELL’ORIGINE DELLA VITA *
ROMA - Che a portare la vita sulla Terra fossero state le comete si pensava da tempo, nel marzo 1986 l’incontro ravvicinato della sonda europea Giotto con la cometa di Halley aveva aumentato il sospetto, ma adesso è certezza. Lo ha dimostrato, in una serie di sette articoli (tre dei quali a firma italiana) pubblicati questa settimana sulla rivista Science, la squadra internazionale che nei grani di polvere della cometa Wild-2 ha scoperto molecole come le ammine e lunghe catene carboniose, che sono l’ossatura delle grandi molecole organiche, come il DNA che contiene il codice della vita.
A catturare la ’polvere di stelle’, il 2 gennaio 2004, (un centinaio di grani, ognuno più piccolo di un millimetro, ma dal valore inestimabile) è stata la sonda della NASA Stardust, dopo aver percorso 4,6 miliardi di chilometri in 7 anni. I grani di polvere che ha strappato alla coda della cometa Wild-2 sono gli unici campioni provenienti dal Sistema Solare portati sulla Terra dopo le rocce lunari, trasportate nel 1972 dall’Apollo 17. In dieci mesi di lavoro intenso una cinquantina di ricercatori in tutto il mondo hanno analizzato i cento grani della cometa. Per l’Italia hanno partecipato alla ricerca l’osservatorio di Capodimonte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’università Parthenope di Napoli e l’università di Catania. Grazie a un sofisticato laboratorio nel quale sono riprodotti in miniatura processi che avvengono nello spazio e che permettono di ottenere così materiali come grani di cometa artificiali, "la competenza del gruppo italiano è riconosciuta a livello internazionale da quasi 20 anni", ha detto il direttore dell’osservatorio di Capodimonte, Luigi Colangeli.
Quello che abbiamo scoperto "é una conferma diretta della teoria secondo la quale molecole portate da comete siano alla base dell’origine della vita sulla Terra", ha detto Alessandra Rotundi, dell’università Parthenope di Napoli, che ha coordinato il gruppo italiano. E’ una teoria nata nei primi del ’900 e avvalorata dalle osservazioni fatte nella missione Giotto, ’’ma questa volta abbiamo toccato con mano che nella polvere di una cometa ci sono molecole organiche". E che le comete abbiano portato la vita sulla Terra sembra un’ipotesi tanto più fondata considerando i tempi rapidi in cui é comparsa la vita. E’ noto, ha detto Alessandra Rotundi, che "un grande bombardamento di comete ha colpito la Terra 3,9 miliardi di anni fa", una Terra ancora giovane, formata da nemmeno un miliardo di anni. La pioggia di comete, inoltre, ha colpito una Terra allora inospitale per la vita. "Eppure - ha aggiunto - le prime forme di vita delle quali sono state scoperte tracce nelle rocce risalgono a 3,8 miliardi di anni fa". Vale a dire che in poche decine di milioni di anni la situazione sulla Terra è cambiata radicalmente e tempi così rapidi si possono spiegare solo con l’ipotesi che a portare gli ingredienti fondamentali alla vita sono state le comete.
Per Alessandra Rotundi vedere le molecole organiche nella polvere di cometa è stata un’emozione, "paragonabile a quello che ho provato dal primo momento in cui ho avuto i campioni in mano". Certamente, ha aggiunto, "vedere il primo spettro che ci indicava la presenza di molecole organiche" è stata un’esperienza unica, anche se in ogni momento la prudenza era d’obbligo. "L’importante - ha concluso - è non scoraggiarsi. Come è accaduto con quel grano di polvere arrivato per posta in un pacchetto. Alla dogana lo avevano aperto e la particella si era spostata dalla posizione che doveva avere. Risistemarla sul supporto è stata davvero un’impresa...".
* ANSA 2006-12-14 15:41.
La prova definitiva dalla polvere di Wild-2 raccolta dalla sonda. Stardust lo scorso gennaio. Il ruolo di tre osservatori italiani
La vita sulla Terra giunta dallo spazio in una cometa i mattoncini del Dna
di LUIGI BIGNAMI *
DA MOLTO tempo si ipotizzava che le comete possono essere i veicoli che trasportano la vita. Ora c’è una prova definitiva e l’hanno scoperta i ricercatori che stanno studiando la polvere della cometa Wild-2, che è stata riportata a Terra dalla sonda della Nasa Stardust lo scorso gennaio. All’interno dei grani sono state scoperte dai ricercatori gli ingredienti fondamentali per la vita. Si tratta dei mattoni che servono per la costruzione delle complesse molecole organiche, come il DNA, ad esempio, che racchiude il codice genetico.
In altre parole se quel materiale cadendo su un pianeta simile alla Terra trovasse le condizioni per evolversi in molecole più complesse esso potrebbe dare origine agli elementi fondamentali per innescare l’evoluzione della vita. Per questa scoperta, pubblicata questa settimana sulla rivista Science, l’Italia ha avuto un ruolo molto importante con l’Osservatorio di Capodimonte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Università Parthenope di Napoli e l’Università di Catania.
I ricercatori sostengono che questa è la prima concreta evidenza a sostegno dell’ipotesi secondo cui la vita sulla Terra è giunta dallo spazio e che siano stati corpi celesti come le comete e gli asteroidi a trasportarla fin qui. Un’ipotesi che prende il nome di panspermia. "Nei grani di polvere della chioma della cometa, ciascuno molto più piccolo di un millimetro, sono state trovate tracce di ammine e molecole costituite da lunghe catene ricche di carbonio che è l’elemento fondamentale su cui si basa la vita", spiega Luigi Colangeli, Direttore dell’Osservatorio di Capodimonte.
Ma le novità che giungono dallo studio dei granuli della cometa non si fermano qui. Sono stati trovati infatti, minerali silicatici ossia minerali composti da ossigeno e silicio più altri minerali vari in forma cristallina. "Poiché il materiale delle comete è il più antico del sistema solare i silicati dovrebbero, secondo le ipotesi correnti, trovarsi in forma amorfa e non cristallizzata. Questa scoperta fa ipotizzare che il materiale che compone le comete deve essere stato in qualche modo elaborato o da un meccanismo al momento sconosciuto o a causa dell’avvicinamento della cometa al Sole che scaldando il materiale lo ha cristallizzato", spiega Colangeli. Ciò costringerà a rivedere o a modificare le teorie sulla formazione dei sistemi planetari.
Le decine di grani di polvere integri che la sonda Stardust ha catturato dalla coda della cometa il 2 gennaio 2004 con una speciale "racchetta" di aerogel (una sostanza porosa e dall’aspetto lattiginoso estremamente leggero) sono stati analizzati negli ultimi dieci mesi da una cinquantina di laboratori in tutto il mondo, organizzati in cinque gruppi chiamati Pet (Preliminary Examination Team). Dei grani riportati a Terra il 15 gennaio 2005, 7 sono stati analizzati dai ricercatori italiani, coordinati da Alessandra Rotundi, dell’università Parthenope. Questo materiale è l’unico che è stato riportato a Terra dallo spazio dopo le rocce lunari, trasportate nel 1972 dall’Apollo 17.
L’entusiasmo della scoperta ha portato all’idea di una nuova missione: raggiungere un asteroide, campionarlo e riportare a Terra il materiale prelevato. L’ambizioso progetto è stato annunciato da John Brucato, dell’osservatorio di Capodimonte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e presidente della Società Italiana di Astrobiologia, il quale sottolinea che per il momento la missione è solo un’idea che i ricercatori intendono presentare all’Agenzia Spaziale Europea (ESA) nel giugno 2007, nell’ambito del programma Cosmic Vision, ma che sperano si realizzi nel prossimo decennio.
Intanto la scoperta delle molecole organiche nella coda di Wild-2 ravviva ancor più le aspettative della missione dell’Agenzia Spaziale Europea "Rosetta", che è in viaggio verso la cometa 67 P/Churyumov- Gerasimenko, sulla quale, nel 2014, farà atterrare un robot che scaverà tra i suoi ghiacci e analizzerà sul posto il materiale estratto. Le sorprese non mancheranno.
* la Repubblica, 14 dicembre 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
#EPIFANIA2022: #SIDEREUSNUNCIUS (#GALILEOGALILEI, 1610).
SE è VERO, COME è VERO, CHE a portare la #vita sulla #Terra sono state le #comete (#ricordare l’incontro ravvicinato della #sondaeuropea #Giotto con la #cometa di #Halley avvenuto nel 1986), e si riflette su quanto #Galileo Galilei osservò nel 1610 con il suo #cannocchiale (vedere le immagini dei suoi #disegni della "terra scoperta", della #Luna, nel suo breve #saggio intitolato "#Annuncio #stellare" ("Sidereus Nuncius"), e, ancora, che la sua #scoperta della #Luna avviene dopo la #famosa #scoperta dell’#America di #Cristoforo Colombo del 1492 (dello stesso anno della #conquista di #Granada e della #cacciata degli Ebrei da parte dei Re Cattolici, i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, e, nel 1609-1614, l’#espulsione dei #moriscos ordinata da Filippo III), è difficile proiettare nel futuro questa linea di sviluppo di #lungadurata e #immaginare che tra #milleanni, nel 2610, gli #extraterrestri possano #osservare e #disegnare del #PianetaTerra immagini simili a quelle della #Luna di #Galileo Galilei del 1610?
EPIFANIA2022. #SIDEREUS NUNCIUS (#GALILEOGALILEI, 1610):#AUGURI STELLARI. Che tra #milleanni (2610), #extraterrestri da qualche lontana #galassia possano non vedere la #Terra ridotta come la #Luna e ammirare il suo #brillantecolore!
Il 21 dicembre il solstizio e la ’stella’ che guido’ i Magi
E’ l’abbraccio tra Giove e Saturno, che saluta l’inverno
di Monica Nardone*
Tripletta di eventi astronomici per il 21 dicembre, con il solstizio d’inverno che è anche il giorno piu’ breve dell’anno e saluta un fenomeno che non si osservava da circa 400 anni: Giove e Saturno vicini come lo sono stati solo nel 1623, quando erano ancora in vita Galileo e Keplero. La congiunzione dei due pianeti e’ stata probamente la ’stella’ di Natale che, secondo il racconto dei Vangeli, avrebbe guidato i Magi.
Il solstizio è previsto alle ore 11,02 italiane e segna l’inizio dell’inverno. In questo giorno "il Sole nel suo movimento apparente lungo l’eclittica, ovvero la proiezione nel cielo dell’orbita della Terra, raggiunge la posizione piu’ a Sud rispetto all’equatore celeste, che e’ la proiezione nel cielo dell’equatore terrestre", spiega l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope.
"Questo fa si’ - prosegue - che nel giorno del solstizio invernale l’arco corrispondente al cammino del Sole al di sopra del nostro orizzonte boreale sia il piu’ modesto dell’anno e, di riflesso, ci regala la notte piu’ lunga".
Il solstizio è salutato dalla rara congiunzione tra Giove e Saturno, che sono cosi’ vicini da poter essere osservati insieme nel campo di un telescopio. Naturalmente e’ un avvicinamento apparente, visibile dalla Terra. -Il fenomeno potrebbe essere la stella di Natale dei Vangeli: "nel 7 a.C - ha spiegato Masi - la congiunzione tra i due pianeti e’ avvenuta addirittura tre volte e fu Keplero a suggerire che i Magi si siano ispirati ad essa, anche perche’ la durata della triplice congiunzione richiede mesi e questo e’ compatibile con l’organizzazione di un lungo viaggio, mentre altri fenomeni, come una cometa, hanno una finestra di visibilita’ piu’ modesta".
Nei Vangeli, inoltre, non si parla di cometa ma di stella. A darle la ’veste’ di cometa, ha proseguito, e’ stato Giotto: "affrescando la scena dell’Adorazione dei Magi nella cappella degli Scrovegni, raffiguro’ una bellissima cometa, con grande verosimiglianza perche’ egli stesso aveva visto il passaggio della cometa di Halley e si ispiro’ evidentemente a quella visione".
La congiunzione fra Giove e Saturno è uno spettacolo da non perdere e per osservarlo al meglio Paolo Volpini, dell’Unione Astrofili Italiani (Uai) consiglia di "aspettare che il Sole tramonti e guardare in quella direzione.
Verso le 17,00 si potra’ cominciare a vedere i due pianeti vicinissimi. Il momento clou è previsto tra le 17,30 e le 18,30 del 21 dicembre. E’ importante cercare un luogo con l’orizzonte a Sud.Ovest libero. Il fenomeno e’ visibile a occhio nudo, ma con un piccolo telescopio e’ possibile vedere gli anelli di Saturno e le lune di Giove".
* Fonte: Ansa, 20.12.2020.
L’astrofisica che svela la nascita della Luna
Fu il risultato della collisione tra la Terra e il pianeta Theia
Gli studi della scienziata italiana: ecco perché sono gemelle.
di Francesco Battistini (Corriere della Sera, 13.04.2015)
HAIFA (Israele). Epoca: quattro miliardi e mezzo d’anni fa. Luogo: il nostro sistema solare. Dal nero più profondo appare Theia, un pianeta grande quanto Marte. Compattissimo, viaggia a una velocità inimmaginabile. Fino a colpire un ammasso di magma che ancora vaga indefinito, la Terra. Gli scienziati lo chiamano il Grande Impatto: un’esplosione celeste, una quantità di materiali che si libera nello spazio e crea un nuovo mondo, la Luna.
Non è un film di Stanley Kubrick: è la teoria più accreditata su come si sia formato il satellite venerato dagli antichi, cantato dai poeti, vagheggiato dagli amanti. Una tesi, dagli anni 70, che quasi nessuno ha mai messo in discussione. Salvo mantenere una domanda sospesa, un enigma che in questi decenni nemmeno la faccenda del Grande Impatto è mai riuscita a risolvere: perché la Terra e la Luna sono praticamente due gemelle, fatte della stessa sostanza? E come mai la composizione chimica di tutt’e due, nate dal tamponamento d’un terzo pianeta, è così unica da non avere uguali in tutto l’universo?
Anno: 2015. Luogo: Israel Institute of Technology di Haifa, la fabbrica dei Nobel che nel mondo tutti conoscono come Technion. Dalla penombra d’una stanzetta, la 616, un’astrofisica trentenne di Latina, Alessandra Mastrobuono-Battisti, assieme al suo capo israeliano e a un collega francese pubblica su Nature una scoperta che fa subito big bang, è ripresa da altre riviste scientifiche, rimbalza su tv e giornali. Una tesi semplicissima, basata sulle rocce raccolte dalla missione Apollo 11, supportata da decine di simulazioni, mesi di comparazioni di quaranta sistemi planetari e d’un migliaio di corpi celesti: Theia, pianeta che non esiste più, polverizzato in meteoriti e immaginato solo dai calcoli sulle orbite lunari, era in realtà il «sosia» della Terra. Il partner con cui venne generata la Luna.
Il suo impatto fu così devastante da modificare il nostro pianeta e riprodurne, identico, il satellite che vediamo in cielo. Una gigantesca fusione che fece evaporare gli elementi volatili, come lo zinco, lasciandone sulla crosta lunare altri molto simili a quelli della crosta terrestre, dall’ossigeno al tungsteno. «Abbiamo elaborato dati che non erano mai stati usati per Theia e la Terra - racconta la ricercatrice italiana -. Studiando le collisioni in altri sistemi solari, abbiamo scoperto una regola quasi costante: i pianeti che vanno a scontrarsi, in alta percentuale, hanno una composizione simile ai pianeti impattati. E questo non solo conferma la teoria del Grande Impatto, ma spiega perché la Terra e la Luna siano così diverse dal resto del sistema solare».
Né di miele, dunque, come la sognano gli sposini. Né «come un acciar che non ha macchia alcuna» (Ariosto). La Luna è fatta di Terra. E adesso, grazie al solito cervello italiano fuggito all’estero, forse ne sappiamo anche il motivo. «Io ho sempre lavorato sulla nostra galassia, è la cosa che più m’appassiona, perché il sistema solare è il luogo in cui viviamo. Un giorno dell’estate scorsa, ho letto un articolo di Science sul contenuto d’ossigeno nelle rocce terrestri e lunari. Composizioni molto simili. Allora, ho iniziato a farmi delle domande. E in sei mesi di ricerca, mi sono data le risposte».
Laureata alla Sapienza, tre anni di dottorato a Roma a mille euro al mese e senza molte prospettive, Alessandra non chiedeva la luna: «Sono arrivata in Israele nel 2012. Avevo mandato i miei lavori a un po’ d’università. Il Technion m’ha contattato. Non m’hanno fatto nemmeno un colloquio: sei mesi dopo ero già a Haifa, col mio capo che m’aiutava a cercare casa». Qui è un altro pianeta, in ogni senso: «Posso fare ricerca, mi pagano tutto, m’hanno mandato ad aggiornarmi in Cina e in Spagna...».
Al Technion si fa anche ricerca militare - «ma io sono straniera e da queste cose sono esentata» - e il confine col Libano non è tanto lontano: «Nei giorni della guerra di Gaza, un po’ di paura l’ho avuta. Ma i miei colleghi m’hanno insegnato a conviverci. E poi - ride - meglio rischiare i razzi degli Hezbollah, che aspettare chissà quando un incarico nelle nostre università. Fossi ancora in Italia, starei a fare la calza».
Kepler-186f, la Terra ha un gemello
di Francesco Semprini (La Stampa, 18.04.2014)
L’annuncio ha messo in fibrillazione tutti coloro che per anni hanno virtualmente percorso la Via Lattea alla ricerca di un posto, al di fuori del nostro sistema solare, potenzialmente abitabile. Ebbene, per tutti questi, e non solo per loro, il 17 aprile 2014 appare destinato a diventare un giorno di svolta nelle antologie della scienza. Ieri, infatti, è giunto l’annuncio ufficiale di un’ultima sensazionale scoperta: il primo pianeta roccioso, di dimensioni del tutto simili a quelle della Terra, sul quale potrebbe esservi acqua allo stato liquido. Una condizione fondamentale per poter ospitare forme di vita, e che sembra appartenere a questo pianeta situato nella «Goldilocks zone», una zona dell’universo dove non fa né troppo caldo né troppo freddo.
È stato battezzato «Kepler-186f», perché a intercettarlo è stato l’omonimo telescopio spaziale, considerato il più importante «planet hunter» della Nasa, ovvero il principale cacciatore di pianeti dell’agenzia spaziale statunitense. Le caratteristiche ne delineano un profilo assai preciso: è del 10% più grande della Terra, ed è il più esterno di 5 pianeti che ruotano intorno ad una nana rossa (una stella più piccola e fredda del Sole) distante 500 anni luce. Su Kepler-186f «si celebra il compleanno ogni 130 giorni», spiega Elisa Quintana, coordinatrice delle ricerche dell’istituto Seti e del Centro Ames della Nasa.
In sostanza il pianeta completa la sua orbita in 130 giorni, mentre la distanza che lo separa dalla sua stella è pari a quella che c’è tra il Sole e Mercurio. Cioè, si trova nella cosiddetta «zona abitabile», ossia nella regione in cui riceve luce e calore tali da poter mantenere acqua liquida in superficie.
E’ la diversità di Kepler-186f rispetto ad altri pianeti simili alla Terra scoperti sino ad oggi. «Questo è il caso più plausibile di pianeta abitale che si sia mai visto sino ad oggi», commenta Geoff Marcy, astronomo dell’Università di Berkeley, in California, nulla a che vedere con il team di scienziati autore delle ricerche. Un clamore condiviso da gran parte della comunità scientifica quello che si sta creando attorno a Kepler-186f, e che conferma la vera portata innovativa della scoperta i cui dettagli sono contenuti nella pubblicazione «Science».
Gli astronomi non potranno dire con certezza assoluta se il Pianeta possa sostenere forme di vita, visto che è troppo lontano anche per la prossima generazione di telescopi che la Nasa dovrebbe lanciare nel 2018. Gli elementi in possesso, però, fanno ben sperare «sia nella possibilità di vita sia di processi di fotosintesi», dicono gli esperti. Dal suo lancio, avvenuto nel 2009, Kepler ha confermato l’esistenza di 961 pianeti, ma solo alcune decine sono stati localizzati in zone abitabili.
In gran parte sono grandi strutture gassose, come Giove o Saturno, dove forme di vita sono insostenibili. Di recente, invece, sono stati identificati una serie di pianeti poco più grandi della Terra, sempre nella Goldilocks Zone, chiamati «Super Earths», ma non è ancora chiaro se siano realmente rocciosi.
E la rivolta di Galileo scongelò il cosmo dai rigori di Tolomeo
L’alba di una nuova visione del mondo
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 26.01.2011)
A l momento di scrivere il Sidereus Nuncius (prima edizione marzo 1610), Galileo ha quasi cinquant’anni. Come ricorda lo storico delle idee Andrea Battistini, lo scienziato - che fino a quel momento ha pubblicato solo studi minori e specialistici- teme di non poter esprimere in pieno la propria vocazione e di non poter comunicare i risultati delle proprie scoperte. Schiacciato dalle continue richieste dei committenti della Serenissima (deve occuparsi di macchine idrauliche, trapani per le viti, bussole e orologi), sente la vita sfuggirgli: quella routine alienante (il «servizio cotidiano» e la «servitù meretricia» ) gli lascia poche energie residue per dedicarsi ai «grandi e oltremodo mirabili» spettacoli del cosmo.
Scrivere il Nuncius, dunque, è il tentativo disperato (e riuscito) di ribellarsi a quella costrizione al silenzio; anche se il libro conserva tracce della sua gestazione inquieta, perché in molti punti lo scienziato evoca «l’angustia del tempo» per giustificare osservazioni a suo dire incomplete. Frutto di 55 notti trascorse al cannocchiale (strumento rivoluzionario arrivato dall’Olanda), il Nuncius è anzitutto una fitta successione di scoperte fattuali: sulla superficie della luna (che si rivela «disuguale, scabra, piena di cavità e sporgenze» e «variata da macchie, come occhi cerulei d’una coda di pavone» ); sulla grandezza variabile degli astri (che «in mezzo alle tenebre» «sono visti chiomati» , mentre la luce diurna rade loro «i crini» e li ridimensiona); sulla Via Lattea, che si spalanca per la prima volta come «una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi» , proprio col suo «candore latteo come di nube albeggiante» ; e sui satelliti di Giove, studiati nei loro più minuti movimenti. Il tutto con l’aiuto di numerosi, fondamentali disegni esplicativi. Ma tali scoperte - enunciate, per inciso, in un latino insieme esatto e visionario, come se Galileo stesse già modulando l’ineguagliabile italiano del Saggiatore e del Dialogo - sono sconvolgenti per le loro implicazioni concettuali e cognitive, per lo shock che comportano a livello di visione del mondo.
I pochi estratti appena citati sono sufficienti a dimostrare come Galileo - al momento del Nuncius già copernicano da sette anni- non si limiti a demolire la fissità congelata del cosmo aristotelico tolemaico e il connesso, rassicurante meccano astrologico. Come non si limiti, cioè, a rivelare un universo metamorfico, discontinuo, infinito, dove nulla è centro e tutto è periferia; ma tolga anche all’assetto cosmico la sua eleganza stilizzata, perché è vero (come scriverà nel Saggiatore) che il linguaggio della natura ha per caratteri «triangoli, cerchi ed altre figure geometriche» , ma tali caratteri sono avvolti da una materia fisico-biologica molto più ribelle e instabile di quanto sembri (come dimostrano proprio le scabrosità lunari). Ed è vero che la vita si regge su leggi e simmetrie, ma entro un costante agguato caotico.
Oltre che diffidenze e calunnie (sia da parte di accademici che di ecclesiastici, in primis gli scienziati famuli della corte medicea, in cui Galileo sta per trasferirsi), il successo del Nuncius innesca anche un certo immaginario fantascientifico, per esempio sulla pluralità dei mondi abitati.
Oggi, un simile slittamento è ancora più naturale, perché gli eredi del cannocchiale galileiano (i potenti telescopi, da Hubble in poi) ci permettono di scrutare l’universo sempre più lontano e - per quanto possa sembrare paradossale- sempre più indietro nel tempo. Quando infatti osserviamo stelle e galassie remote, non le vediamo come sono ora, ma come erano milioni o miliardi di anni fa.
La spiegazione di questa vertigine- abbozzata da Poe nel poema Eureka ma di fatto formulata da Einstein - dipende dalla luce, la cui propagazione non è istantanea: anche se velocissima per i nostri parametri (300 mila km al secondo), la luce impiega del tempo a trasmetterci le immagini degli oggetti da cui proviene. Se volessimo vedere le galassie come sono ora, dovremmo dunque trovarci nel futuro. Ma anche questo nuovo «annuncio sidereo» , per quanto frastornante, è destinato a essere superato - o integrato - dai successivi. Ogni acquisizione, nella scienza, è sempre la penultima.
Noi siamo figli delle stelle
figli della notte che ci gira intorno
noi siamo figli delle stelle
non ci fermeremo mai per niente al mondo.
noi siamo figli delle stelle
senza storia senza età eroi di un sogno
noi stanotte figli delle stelle
ci incontriamo per poi perderci nel tempo...
Di Alan Sorrenti
Kepler 11. Sono pianeti che orbitano intorno alla stessa stella. Di questi, 5 sono piccoli come la Terra Una conferma dell’intuizione di Giordano Bruno che l’universo è fatto da infiniti sistemi
Scoperti sei nuovi mondi e assomigliano al nostro
Il telescopio Kepler della Nasa ha scoperto a 2.000 anni luce da noi un sistema planetario simile al nostro: orbita intorno a una stella simile al Sole ed è composto da sei pianeti grandi più o meno come la Terra
di Pietro Greco (L’Unità, 03.02.2011)
C’è un sistema planetario con cinque «piccole terre» che orbitano intorno alla stella Kepler-11, laggiù a 2.000 anni luce di distanza da noi. Lo afferma un team del telescopio spaziale Kepler in un articolo pubblicato oggi dalla rivista Nature. La scoperta si è meritata, a ragione, la copertina della rivista scientifica inglese. Per svariati motivi.
In primo luogo perché è il più grande sistema planetario extra-solare finora rilevato. Orbita intorno a una stella del tutto simile al Sole, battezzata Kepler-11 dal team di ricercatori, ed è composto da ben sei pianeti.
Inoltre uno solo di questi pianeti ha una massa non ancora ben determinata, ma gli altri cinque hanno una massa compresa tra 2,3 e 13,5 masse terrestri. Insomma, sono solo un po’ più grandi della Terra. Dal 1992 a oggi, da quando cioè gli astronomi sono riusciti a individuare pianeti intorno a stelle diversa dal Sole, sono stati catalogati oltre 520 esopianeti. Per la gran parte si tratta di pianeti giganti, grandi come Giove e più: ovvero con un massa di due o tre ordini superiore a quella terrestre. Solo raramente si è scoperto un pianeta di massa simile alla Terra. Kepler stesso aveva individuato poco tempo fa un sistema planetario costituito da cinque pianeti giganti. Ora, però, Kepler ha scoperto addirittura cinque pianeti piccoli come la Terra e tutti orbitanti intorno alla medesima stella. Bel colpo, non c’è che dire, per il telescopio mandato nello spazio dalla Nasa nel 2009 con questa specifica missione: trovare oggetti della stessa specie e della stessa grandezza della Terra. Poco importa che il sistema è instabile. Il team di ricercatori, infatti, ha rilevato che i cinque pianeti di grandezza paragonabile alla Terra hanno un periodo orbitale piuttosto breve, compreso tra 10 e 47 giorni; la loro orbita è molto vicina a quella della loro stella (la distanza è all’incirca come quella di Mercurio); sono molto vicini tra loro e, inoltre, viaggiano nel bel mezzo di una nube di gas, polvere e forse di oggetti più grandi. Un sistema così non è stabile. Ha un comportamento caotico e certamente è destinato a cambiare nel tempo.
Certo la scoperta non convince del tutto tutti. La fotometria di transito, utilizzata per rilevare la presenza di pianeti così lontani, è una tecnica molto delicata e molto nuova. Si basa su un principio chiaro: quando un pianeta transita davanti alla sua stella (ovvero si interpone tra noi e la stella) assorbe una parte della luce emessa. E questo assorbimento è proporzionale al suo raggio. La sua grandezza può dunque essere dedotta dalla quantità di luce assorbita. E la frequenza del transito è proporzionale al suo periodo orbitale e alla distanza dalla stella. Le misure di fotometria sono semplici. Ma le distanze sono enormi. La luce in gioco è pochissima. Errori sono sempre possibili. Tuttavia, al di là delle sue performance, le implicazioni delle scoperte del telescopio Kepler sono notevoli. Per due motivi. È la conferma di quel «principio di mediocrità» che portava il filosofo Giordano Bruno a sostenere, più di quattrocento anni fa e prima che fosse messo a punto qualsiasi telescopio, che l’universo è fatto da infiniti mondi e, dunque, da infiniti oggetti «della stessa specie» della Terra. Il telescopio Kepler ce ne ha dato una conferma.
Il secondo motivo è che gli ultimi venti anni di osservazioni hanno dimostrato che ci sono i sistemi planetari i più diversi. Non tutti previsti dalle teorie. E che, dunque, anche per i pianeti valeva la felice intuizione di un altro grande del XVI secolo, William Shakespeare, quando fa dire ad Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto ne sogni la tua filosofia».
Margherita Hack: «C’è vita nell’universo. Ma è difficile trovarla»
L’astrofisica: «Si tratta di una scoperta importante perché dimostra che esistono miliardi di pianeti “abitabili” con condizioni molto simili alla nostra»
l’Unità, 03.02.2011
Margherita Hack, come giudica quest’ultima scoperta del telescopio spaziale Kepler?
«La giudico una scoperta davvero di grande rilievo. Perché certo ormai siamo quasi abituati a scoperte di pianeti extrasolari. Negli ultimi anni ne abbiamo rilevati tantissimi. Ma questa volta è stato scoperto un intero sistema planetario. Per di più costituito da diversi pianeti di grandezza paragonabile a quella della Terra. Finora erano stati scoperti quasi solo pianeti giganti. In genere gassosi e dunque molto diversi dalla Terra. Ora sono stati scoperti cinque pianeti simili alla Terra e per di più intorno a un pianeta simile al nostro Sole».
Perché questi dettagli sono importanti?
«Beh, al di là delle performance tecniche necessarie per rilevarli significa che nell’universo non ci sono solo miliardi di pianeti, ma miliardi di pianeti “abitabili”. E questo ha una profonda implicazione per l’esistenza di altra vita nell’universo».
Questi pianeti, tuttavia, sono molto vicini alla loro stella.
«Sì, in questo caso i pianeti orbitano a distanze molto ravvicinate alla loro stella e quindi sono caldissimi. Questo li rende di fatto inospitali. Ma il fatto che esistano e ne esistano in gran numero con questa grandezza ci induce a credere che in giro nella galassia e nell’universo ve ne siano anche a distanza “giusta”, in “un’area di abitabilità”».
Ma basta la presenza di pianeti “abitabili” per affermare che c’è altra vita nell’universo?
«Certo la scienza ci dice che solo una prova empirica può darci la certezza. Ma io e molti altri studiosi siamo convinti che la vita nasca ovunque vi siano le condizioni. Ecco, Kepler ha dimostrato che le condizioni per la presenza di vita simile alla nostra nell’universo ci sono».
Non sarà facile trovare una prova empirica di esistenza di vita, però.
«Infatti io penso che quella prova non l’avremo mai. Le distanze tra le stelle sono troppo grandi. La stella Kepler-11 dista 2.000 anni luce da noi. Il che significa che il telescopio Kepler ha visto ciò che accedeva 2.000 anni fa, al tempo dei Romani. Immagini che lì ci sia vita intelligente e capace di dialogare con noi - cosa niente affatto scontata. Se oggi noi ponessimo loro una domanda, dovremmo attendere 4.000 anni per sapere cosa ci hanno risposto. In definitiva possiamo dire che la vita certamente c’è nell’universo. Ma difficilmente la troveremo. Almeno con le conoscenze e le tecnologie attuali». PI.GRE