Presto in sala un “mockumentary” firmato da Giuseppe Gagliardi
Una storia che non si sa se è vera e un bel po’ di coraggio. Sono gli ingredienti de “La vera leggenda di Tony Vilar” in uscita nelle sale italiane a giorni. Di quale storia si tratti e cosa significhi “mockumentary” lo raccontiamo nel resto di questa pagina. Il coraggio invece è quello delle giovani produzioni Tico Film Company e Avocado Pictures che hanno deciso di investire su un progetto campato, se non in aria, poco più in basso. Certo, c’erano i buoni precedenti del regista Giuseppe Gagliardi e del suo bel documentario “Doichlanda” e anche quelli dell’autore-interprete Peppe Voltarelli, per anni frontman della band di culto Il Parto delle Nuvole Pesanti. Ma, a parte questo, ci voleva solo del coraggio e del vero spirito di avventura per partire per le Americhe con in mano una bozza di progetto e poco di più. Il risultato (costato circa 200mila euro) è un film molto, ma molto divertente, innovativo, benevolmente canzonatorio e generoso. Coraggiosi anche i distributori della Metacinema, a cui auguriamo il successo che si meritano.
Ro. Ro.
La storia di Antonio Ragusa, in arte Tony Vilar, emigrato in Argentina nel ’52. Un enorme successo e poi l’improvvisa scomparsa. Oggi sappiamo perché
L’italiano che cantò al mondo “Cuando calienta el sol”
di Roberta Ronconi *
Lungo la banchina del porto di Genova il bastimento Corrientes attende paziente il suo carico di italiani carichi di fagotti e figli.
Un racconto che inizia da lontano...
E’ il 1952, il padre tira Antonio per la giacchetta, perché il ragazzino ha 14 anni e non ne vuole sapere di lasciare sua madre e il paese, Carolei, un buco di terra calabrese. Piange e strepita, Tonino, ma c’è poco da scegliere, ormai è deciso da tempo che lui e suo padre avrebbero raggiunto il fratello maggiore, 18 anni, scappato dall’Italia subito dopo la fine della guerra. Per fame e per non smettere di sperare.
La sorte sembra accanirsi con Antonio, e quella barca gigante su cui non vuole salire è pure bardata a lutto per la morte della signora de los descamisados, Evita Evita, la piangono i marinai e tutti gli italiani a bordo pensano si tratti di una santa di quel luogo lontano. Solo una cosa consola quel ragazzino piagnucoloso e sempre affamato: la sua chitarrina. Gliela avevano regalata che era davvero piccolo e passava il tempo in balcone a cantare. Padre Cintuzzo della parrocchia aveva convinto i suoi a fargli studiare un po’ di musica e a prestargli il monello ad ogni matrimonio e messa cantata. Ora, con quella chitarra sulla “Corrientes” Antonio riesce a dimenticare un po’ dei suoi guai, ad alleggerire l’atmosfera funebre che si respira sui ponti e anche a rimediare qualche pasto più sostanzioso degli altri poveracci ammassati sulla nave.
Quando sbarca nel porto di Buenos Aires, gli incubi di Antonio per un momento sembrano svanire e l’anima gli si placa. La città è grande, piena di case alte, ci sarà da divertirsi. Ma poi il fratello carica in macchina lui e suo padre e comincia ad allontanarsi dalla città. Le case si fanno sempre più piccole, poi sembrano poco più che catapecchie. E quando il fratello finalmente si ferma, di case non ce ne sono praticamente più. Un deserto di terra e cespugli, e qua e là qualche fabbricato di legni e lamiere. Antonio è arrivato a quello che sarà il suo paese per diversi anni, San Giusto. Il puntino nella sterminata pampa argentina che lo vedrà trasformarsi da povero ragazzino migrante di nome Antonio Ragusa, nel più famoso cantante melodico di tutto il Sudamerica. Di nome, Tony Vilar.
... e che oggi diventa un film
Giuseppe Gagliardi e Peppe Voltarelli ci hanno messo circa due anni per riportare a galla la storia di Tony Vilar, il crooner italiano che nel 1961 rese famoso nel mondo un successo come Cuando calienta el sol e che dominò le classifiche di tutta l’America Latina per una manciata di anni, dal 1959 al ’65 circa, anno in cui sparì improvvisamente dalle scene.
Entrambi calabresi, Gagliardi regista e Voltarelli musicista quasi per caso due anni fa si sono incontrati con il nome di Tony Vilar e con la sua storia. Talmente assurda, talmente mirabolante, talmente evocativa per loro figli della stessa terra di Tony, da spingerli a trasformarla in un film. Nasce così La vera leggenda di Tony Vilar, da venerdì prossimo nelle sale italiane. Un mockumentary è il nome preciso del genere cui il film appartiene, tra documento e ricostruzione fantastica, nato - il genere - nel 1957 quando la Bbc mandò in onda un serissimo reportage (guarda caso sull’Italia) in cui venivano mostrati alcuni contadini intenti a raccogliere spaghetti dagli alberi. Già, perché quel “mock” (da “to mock”, prendere in giro, scherzare) al posto di “doc” sta proprio ad indicare l’ironia con cui si può guardare alle vicende umane, anche con il cinema. Gagliardi e Voltarelli seguono dunque Vilar nelle sue vicende, ricostruendo con occhio tra il sarcastico e il benevolo le storie degli emigrati italiani e delle loro comunità oltreoceano, in particolare quelle della Boca di Buenos Aires e del Bronx newyorkese. I due pezzi di mondo in cui Tony ha vissuto tutta la sua vita, prima e dopo la fama.
Tutta la verità, oltre la leggenda
Ma riprendiamo la nostra storia da San Giusto, dove abbiamo lasciato un Antonio ragazzino, di nuovo disperato per essere finito, dalle calde anche se povere braccia della sua Carolei a quel deserto di polvere e baracche alla periferia del niente, dove vivono solo un gruppetto di italiani e qualche indios. Sono proprio questi ultimi, soprattutto i loro figli, a insegnare ad Antonio a parlare spagnolo nei momenti liberi dal lavoro di muratore accanto al padre e al fratello. Sempre la chitarrina appresso, la voglia di cantare finisce per vincere sulla tristezza e per fare del ragazzino italiano una piccola celebrità tra i dieci gatti del paese. Quel tanto che basta perché, pochi anni dopo, quando una domenica arriva l’orchestra Charleston, nessuno gli rifiuti di entrare gratis in cambio di un paio di canzoncine dal palco. «Come ti chiami, ragazzino?», gli chiede il presentatore. «Antonio, Antonio Ragusa». «Ma che scherzi, mica ti vorrai presentare con quel nome da morto di fame italiano! Trovatene un altro, e subito». «Va bene, allora Tony... Tony qualcosa... Tony Vilar».
Da qui, la storia di Antonio somiglia a quella di tanti altri. Qualcuno lo porta a Buenos Aires, un altro lo presenta a qualcun altro, poi un’audizione, poi un’attesa, e infine una speranza. Tony, da ragazzino vivace si è nel frattempo trasformato in un cantante disposto a tutto. Gli amici degli amici gli fanno le audizioni e lui lì che canta e balla anche, perché no, mentre quelli parlano e fumano sigari. Sembrano non sentirlo nemmeno, ma evidentemente non è così, perché quando ha finito di dimenarsi gli dicono che lui è un tipo giusto per la televisione.
Arriva il successo. Il paradiso e l’inferno
In una sola settimana dell’anno di grazia 1959, Vilar debutta su Canalsiette nel programma della domenica, incide il suo primo 45 giri Clarito de luna (“Tintarella di luna”) e scala le classifiche delle hit radiofoniche. La vita gli cambia in fretta e i successi si susseguono uno dopo l’altro. Incide la sua Bailando, poi il pezzo rockettaro di Celentano Non esiste l’amor, e quindi arriva Y los cielos joraron che gli fa fare il boom in tutta L’Argentina, il Venezuela, la Colmbia, il Cile. Centinaia di migliaia di dischi venduti, donne che impazziscono per lui, soldi a palate, macchine di lusso, tre concerti a serata, autori che lo pregano di cantare le loro canzoni. Quando bussano alla sua porta gli Hermanos Rigual con la loro canzoncina in tempo di bolero, Tony non gli dà neanche retta. Troppo lenta, troppo stupida, roba da vecchi. Il discografico insiste e lui è costretto a portarsela a casa, magari per provarci sopra un ritmo un po’ più da rock lento. Niente di che, ma magari così può funzionare, qualcuno alla fine la ascolterà se la canta lui. Nessuno si aspettava cosa sarebbe successo all’uscita di Cuando calienta el sol, nessuno poteva prevedere quell’ira di dio in tutto il mondo.
Siamo alla fine del 1961. Per altri cinque anni la stella di Vilar non fa che aumentare di splendore, i giornali di gossip si riempiono delle sue avventure amorose e delle foto di Tony con le amate macchinone, la Chrysler del’33 con cui andava agli studi televisivi, la Cadillac, la Ford, le due decappottabili per le giornate di sole...
Un successo grande come una montagna, e pesante come due.
Pochi anni ed è lì con la sua Mabel, la subrette più bella d’Argentina che lui ha appena sposato, nello studio del programma tv “Barahùnda”, quando l’amico regista gli si avvicina e all’orecchio gli dice che, sotto le luci dello studio, la sua nuca si rivela eccessivamente sprovvista di capelli. Bisognerà farci qualcosa. Tony si agita, cade in panico, chiede aiuto ai truccatori che gli consigliano l’uso di un toupé, un posticcio per limitare il danno. La fatica intanto aumenta, i capelli cadono e Tony ormai del suo parrucchino non può più fare senza, nemmeno durante i concerti. Stadi gremiti di giovani e soprattutto ragazzine, lui è il loro idolo incontrastato, Iglesias ante-litteram bello e romantico, ogni volta che cerca di entrare o di uscire dal palco la gente lo assale, mani si allungano, tentano di sfiorarlo, carezzarlo, afferrarlo. E quella mano affannata sulla sua testa, sui suoi capelli, sul toupé che in un attimo si stacca e va via... E’ una notte calda a Cordoba, ma Tony resta come ghiacciato e nudo in mezzo a quella folla impazzita, abbassa gli occhi e fugge via. Alle due di notte Mabel lo acolta piangere al telefono, e giurare che non canterà più, mai più.
E oggi, la storia comincia di nuovo
Quaranta anni dopo - quasi mezzo secolo di vita passato a vendere le amate macchine prima a Buenos Aires poi a New York - Antonio questa storia la può finalmente raccontare. Soprattutto ai quei due giovani calabresi che sono andati a ripescarlo a Morris Park Avenue, chiedendo notizie di lui agli amici della comunità: Frankie Bastone, Tony Pizza, Connie Catalano, tipi che in confronto De Niro sembra una macchietta. O viceversa. In realtà pochi sapevano di lui e del suo passato e di Tony Vilar si erano completamente perse le tracce.
Con La vera leggenda di Tony Vilar Gagliardi e Voltarelli a Tony hanno restituito non solo la memoria, ma anche la vita così come piace a lui e che non sperava più di ritrovare. Presentato con grande clamore alla Festa del cinema di Roma (grazie alla quale - carramba! - Tony è tornato in Italia dopo cinquantasette anni assieme alla seconda amatissima moglie Lucia), il film è stato invitato a far parte della prestigiosa selezione del Tribeca Film Festival e le sorprese, per film e interprete, potrebbero non essere ancora finite.
Ah, sapete un’altra cosa che abbiamo scoperto durante questa nostra ricostruzione della vita di Tony? Che su quel bastimento, il Corrientes di cui parlavamo all’inizio di questa lunga storia, lo stesso anno e allo stesso porto ci salì anche un tal Klaus Altmann, meccanico di origine tedesca. Così risultava almeno dal passaporto, falso. Il suo nome vero era Klaus Barbie, criminale nazista appena messo in salvo da un prete, tale don Draganovic, ex colonnello ustascia poi fondatore della Confraternita Croata del Collegio di San Girolamo degli Illirici.
Ma questa è decisamente un’altra storia.
* Liberazione, 19.11.2006
La vera leggenda di Tony Vilar, di Giuseppe Gagliardi
La vera leggenda di Tony Vilar. Il microcosmo melodico degli emigranti italiani
di Arianna Molinari (www.cinemaavvenire.it, mercoledì 8 novembre 2006)
Sembra proprio che la Prima Edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma si sia presa una rivincita. Finalmente nel suo palinsesto troviamo numerosi documentari, arte cinematografica che non sempre compare nei festival "generalisti"; una prima edizione, quindi, che è riuscita - dobbiamo giustamente darne atto - democraticamente a trovare una collocazione, uno spazio a questo genere molto spesso sottovalutato e ghettizzato dalle logiche di mercato. Forse è presto per trarre delle conclusioni, ma almeno speriamo che la grande "industria" culturale/economica si apra sempre di più a questo genere!
La vera leggenda di Tony Vilar, è a ben vedere l’ennesimo documentario presentato nella sezione Extra, il contenitore più sperimentale e composito della Prima Edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma, nonché primo lungometraggio della filmografia di Giuseppe Gagliardi, autore di numerosi cortometraggi e videoclip musicali, che si era già imposto all’attenzione della critica e degli spettatori nel 2001 con il cortometraggio Peperoni, vincendo il Sacher d’Argento al festival diretto da Nanni Moretti, e nel 2003 Premio della Giuria al 21° Torino Film Festival a Doichlanda, documentario musicale.
Esattamente come in Doichlanda, Giuseppe Gagliardi ripropone la sua esplorazione dei temi della realtà sociale dell’emigrante e della tradizione musicale italiana, partendo ancora una volta dalla cifra stilistica del viaggio. La vera leggenda di Tony Vilar è infatti la storia di un viaggio à rebours nel microcosmo degli emigranti italiani in America attraverso la musica melodica italiana degli anni Sessanta. Se però il viaggio-ricerca degli emigrati tedeschi in Doichlanda è esteticamente un documentario vero e proprio, quello di La vera leggenda di Tony Vilar è un mockumentary, genere cinematografico di stile documentaristico con l’aggiunta di qualche elemento di finzione, che si fa burla di ogni presunta verità immanente al dispositivo cinematografico. Giuseppe Gagliardi insieme all’attore/cantautore Peppe Voltarelli - quest’ultimo co-sceneggiatore e autore delle musiche originali - sono partiti verso Buenos Aires per mettersi alla ricerca di Antonio Ragusa, in arte Tony Vilar, il più grande cantante melodico - anche se oggi nessuno se lo ricorda - del Sudamerica nei primi anni Sessanta, colui che rese famose le canzoni italiane dell’epoca in Argentina, Messico e Venezuela. Celebri le sue versioni spagnole di canzoni di successo come quella di Mina, in primis Tintarella di luna, o Non esiste l’amor di Celentano, e in tutto il mondo Cuando calienta el sol, scritta dai fratelli Carlos e Mario Rigual appositamente per lui.
Un mito della musica popolare che un giorno degli anni Sessanta, all’apice del successo, decise di sparire senza lasciare traccia. Per molto tempo in Sudamerica si sono chiesti che fine avesse fatto il povero emigrante calabrese che partito da Genova nei primi anni Cinquanta per l’Argentina - perché non voleva fare il lavoro del padre, il muratore - era diventato poi il famoso Tony Vilar. I l regista e il cantautore da questa storia dimenticata ne hanno fatto un lungometraggio, a metà tra la finzione e il documentario, tra storia vissuta e scene completamente inventate. Da questa storia reale parte l’incipit del film, il viaggio del protagonista, l’attore Peppe Voltarelli, che nella maschera attoriale interpreta un lontano cugino cantautore, che sentendo sempre parlare in famiglia di Tony Vilar è cresciuto con il suo mito e ora vuole conoscerlo. I brani composti da Voltarelli ben si amalgamo al repertorio melodico-popolare di Tony Vilar: prende forma così un road-movie musicale, che diventa sempre più grottesco, colorito, pop, folkloristico, irriverente e nostalgico sugli italiani d’oltreoceano.
Il viaggio si costruisce intorno a due macro-parti dominanti, una struttura narrativa dove l’elemento cardine, la chiave di volta della comprensione del testo è il linguaggio musicale, quello della musica ma anche quello dei vari dialetti che attraversano il profilmico, marcandone il tessuto linguistico. Da un lato abbiamo così la comunità italiana del Boca, quartiere delle milonghe e del tango di Buenos Aires, dove il dialetto calabrese si alterna e pasticcia con quello spagnolo e con la musicalità melanconica del tango, e dall’altro abbiamo invece, attraverso un cambio di stile e di ritmo, non solo musicale, gli italo-americani del Bronx, e si passa continuamente dall’italiano allo slang americano. Qui si alternano sipari e siparietti di personaggi di pura realtà (occhio ai credits dei titoli di coda), e degli straordinari attori di strada che interpretano principalmente se stessi, aderenti a un immaginario abbondantemente affollato di croci, bracciali e patacche d’oro e di pizzerie, baci e strette di mano, ovvero una caricatura di vizi e virtù, stereotipi dell’italiano emigrato all’estero, un linguaggio corporale e formale che ammicca ai filoni cinematografici che hanno raccontato gli italiani d’America. Nella pellicola Gagliardo è stato quindi aiutato dalla presenza di attori professionisti ma anche da questi personaggi presi dalla strada, detentori di una straordinaria e spontanea capacità affabulatoria. Personaggi veri che allo sguardo dello spettatore sembrano falsi (vedi il mitico Antonio Aiello alias Tony Pizza, chiamato così perché a tutt’oggi ha aperto 34 pizzerie) e personaggi che sembrano falsi, ma che in realtà sono veri e interpretano se stessi, come nel caso della partecipazione speciale di Roy Paci.
Attraverso una serie di interventi, pseudo-documentari, interviste tra conoscenti, amici e parenti veri e finti, si ricostruisce la storia di Tony Vilar, narrata anche attraverso filmati di repertorio. Un approccio ironico e giocoso, che mescola musical e farsa, cinema e docu-fiction. Gagliardi ha creato un testo in cui le distorsioni e le esagerazioni (soprattutto quelle della seconda parte quando la vicenda si sposta nel Bronx ) della visione prendono il sopravvento sulla storia narrata. Il fascino de La vera leggenda di Tony Vilar sta nel ritmo trasandato (in parte forse lo deve anche al fatto che è stato girato in 16mm e poi dilatato in 35mm) da strumento di inchiesta televisiva, la storia viene raccontata come se fosse una specie di reportage, scimmiottando appunto il documentario televisivo. Il procedimento non è lontano da quello di molti lavori di Daniele Ciprì e Franco Maresco (vedi Il ritorno di Cagliostro, Enzo, domani a Palermo!, Come inguaiammo il cinema italiano...), anche se sicuramente meno sperimentale del duo siciliano. Il risultato nella sua elementarità centra il bersaglio: il regista calabrese, nel suo esordio non inventa forme e ritmi nuovi, però ci fa divertire parecchio con un coloratissimo Tony Vilar. Ci voleva un mockumentary per illuminarci e ricordarci la fragilità del successo (altro sottotesto e metafora per nulla banale del film), la figura di Tony Vilar, un uomo che rovinò la sua carriera perché gli strapparono il toupet. Una vita di successi quella di Tony Vilar che gli è stata strappata da un curioso tiro mancino del caso, insieme al suo parrucchino!
Scheda tecnica
Regia: Giuseppe Gagliardi Sceneggiatura: Giuseppe Gagliardi, Peppe Voltarelli Fotografia: Michele Paradisi Montaggio: Gianluca Stuard Musiche: Peppe Voltarelli, Tony Vilar Interpreti: Peppe Voltarelli, Roy Paci, Dario De Luca, Saverio La Ruina, Totonna Chiappetta, Cristina Mantis Produzione: Tico Film Company, Avocado Pictures Distribuzione: Metacinema
Nazione: Italia Anno: 2006 Durata: 92 min Caratteristiche tecniche: Super 16mm/35mm - Colore