erich auerbach
Partendo dal particolare l’universale arriverà
Cinquant’anni fa moriva uno tra i più grandi interpreti della critica stilistica. E la rappresentazione della realtà, la sua umanizzazione, la sua trasfigurazione da cosa a presa di posizione, perdeva un eccezionale esegeta
di Daniele Giglioli (il manifesto, 13.10.2007)
Auerbach e noi, naturalmente. Non perché ce lo impone un anniversario, ma perché pochi hanno mostrato meglio di lui come un vero critico si trovi a suo agio solo in situazioni di emergenza, sotto il fuoco delle urgenze del presente. Soltanto a questo patto si concede di andare in biblioteca, e quando non ne ha una sottomano ne fa a meno, proprio come Auerbach a Istanbul, al tempo in cui era riparato laggiù per sfuggire alla persecuzione dei nazisti e lavorava al suo capolavoro, Mimesis, ovvero, e nientemeno, la storia della rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale. Se avesse avuto una biblioteca a disposizione, forse quel libro Auerbach non lo avrebbe mai scritto: «se avessi potuto far ricerche, informarmi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo».
Lettore appassionato di Vico, conosceva bene l’eterogenesi dei fini, e sapeva come molte traversie possano convertirsi in opportunità. L’emergenza di un’Europa sconvolta dalla guerra gli sottrasse la possibilità (e la maledizione di Sisifo) dell’aggiornamento bibliografico, della verifica erudita, dell’obbligo già allora disperante di dover tener dietro al proliferare infinito della letteratura secondaria: un meno che è diventato un più, per chi fu costretto a scrivere isolato come Proust nella sua stanza di sughero e, come Proust, col solo ausilio di scrittura e memoria, in quella stanza saprà far passare tanta storia.
L’anticipazione di un destino
Nulla di più lontano da noi, potrebbe sembrare, immersi in una abbondanza già sconfinata da tempo nell’obesità. Ma anche nulla di più vicino, perché questa abbondanza annichilente di informazioni, libri e metodi è parte a pieno titolo della nostra emergenza, è il risvolto morbido e sinistramente benevolo dell’inquinamento che ci uccide, della trasformazione di ogni nostro vissuto in una sterminata raccolta di merci. Quella di Auerbach fu una dieta forzata, in cui l’occasione e la casualità ebbero una parte non di margine. La nostra è necessaria, determinata, inevitabile in un universo culturale senza più centri e gerarchie: mangiamo quello che troviamo, assimiliamo quello che possiamo. Tanto vale esserne consapevoli e riconoscere in Auerbach, per usare un termine a lui caro, una nostra figura, l’anticipazione concreta di un destino altrettanto concreto che in noi doveva compiersi.
Certo, a differenza di noi, Auerbach sapeva da dove veniva. Aveva dietro di sé la grande tradizione della romanistica tedesca, di cui è del resto il massimo esponente novecentesco insieme a Curtius e a Spitzer: filologia romanza, storicismo, Geistesgeschichte, e sullo sfondo i grandi nomi dei romantici tedeschi e di Hegel, il cui influsso Auerbach combinò con quello di Vico, nella convizione che sia possibile cogliere l’universale nel concreto, la totalità nel frammento - tutte le letture di Mimesis hanno inizio con l’interpretazione minuziosa di un passo determinato, e si allargano a spirale fino a comprendere un momento di storia dello stile, una concezione del mondo, una coscienza umana storicamente determinata quanto lo è quella dell’interprete. Partendo dal particolare (ciò che sia pure in modo diverso teorizzavano e praticavano anche Spitzer e Curtius), l’universale arriverà. Perché l’universale è esso stesso concreto, non si compone di leggi o categorie ma è - come scrive Auerbach in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità - «la concezione di un corso storico», «qualcosa come un dramma, che non contiene neppure esso una teoria, bensì una concezione paradigmatica del destino umano».
Solo a partire da questo fecondo partito preso metodologico è possibile interpretare la letteratura occidentale come un tutto. Non è qualcosa che Auerbach deve farsi perdonare, magari grazie a una attenuante elargitagli dal nostro illuminato pulpito postcoloniale, quella attenuante per cui trovandosi fuori dall’Europa gli era consentito guardarla con uno «sguardo da lontano», con un occhio che attraverso il suo straniamento «costruisce» il proprio oggetto come un tutto. Che ci fossero molte Europe (non a caso si stavano dilaniando), e che l’Europa non fosse tutto, Auerbach lo sapeva bene, e comprendeva perfettamente i limiti e i margini da cui proveniva il suo discorso.
Nulla di più lontano, in questo senso, da Curtius, con la sua ossessione eliotiana per una tradizione amorosamente conservata dal medioevo e poi tragicamente infranta dalla modernità. Auerbach è dalla parte della storia, e ciò di cui era alla ricerca non era una tradizione ma una (non la) verità.
Di qui la scelta dei suoi oggetti di studio, in primo luogo Dante, Il poeta del mondo terreno, nella sua interpretazione a tutt’oggi imprescindibile; e poi non tanto il «realismo», come recita infelicemente la traduzione italiana del sottotitolo di Mimesis, quanto piuttosto la rappresentazione della realtà (Dargestellte Wirklicheit), e più letteralmente ancora la realtà rappresentata, ovvero interpretata, umanizzata, trasfigurata da cosa a modo, stile, presa di posizione. Un percorso plurimillenario che ha per Auerbach il suo telos (e dunque, retrospettivamente, il suo punto di partenza, sotto il profilo della situazione dell’interprete) nel realismo del grande romanzo francese dell’Ottocento, e nella tormentata continuazione novecentesca che di quel realismo diedero Virginia Woolf, Joyce e Proust - perché Auerbach, a differenza di Lukács, non vede tra i due secoli un rapporto di opposizione. A partire da questo approdo, Auerbach insegue fin da Omero e dalla Bibbia la traccia di due diverse visioni del rapporto tra lo stile e la realtà.
Da una parte la concezione classica, greca e latina, della separazione degli stili, ovvero dell’adeguamento del registro stilistico alla gerarchia sociale ed etica della materia narrata: stile alto per soggetti nobili e tragici, stile basso per i soggetti quotidiani, con in mezzo un più problematico e ambiguo stile medio. Dall’altra una idea delle relazioni tra parola e mondo che ha la sua radice nel linguaggio biblico e nei testi della tradizione cristiana, e che presuppone la mescolanza degli stili avendo di mira la rappresentazione seria della vita quotidiana; quella vita quotidiana che l’antichità (e il classicismo di ogni tempo) può mettere in scena solo sotto le spoglie del comico, o della deformazione grottesca (come in Petronio ma anche in Molière, pur diversissimi da ogni altro punto di vista). Che cosa c’è infatti di più quotidiano e insieme di più sublime della vicenda evangelica di un dio che è anche falegname, che redime il mondo morendo la morte degli schiavi, e che affida per di più la predicazione del suo messaggio a discepoli capaci di parlare solo nel loro sermo piscatorius?
Nessuna delle due concezioni dello stile, d’altra parte, si trova mai allo stato puro: quei pescatori non avrebbero fatto nulla senza Paolo di Tarso, che era insieme fariseo e imbevuto di cultura ellenistica. Né si avvicendano l’una all’altra secondo uno schema piattamente cronologico - prima la separazione, poi la mescolanza. È un processo che si presenta piuttosto come una spirale, una dialettica, persino una lotta; anche se il punto di arrivo sembrerebbe promesso, appunto, solo dall’idea di mescolanza, in particolare grazie alla forma romanzo, rappresentazione seria di persone comuni, everyman, «genti meccaniche e di picciol affare», come scriveva l’anonimo manzoniano, in una società moderna dove alla prospettiva verticale della trascendenza divina si è sostituita la trascendenza orizzontale del progresso storico e dell’estendersi della democrazia. Ma Auerbach sapeva fin troppo bene che non c’è stile dove ce n’è solo uno, ovvero dove non esistono possibilità di scelta, alternativa, sfumatura, modalizzazione.
La distinzione tra alto e basso non è mai abolita del tutto, pena la perdita di qualunque serietà del quotidiano, dall’asinello di Abramo al calzerotto marrone della Woolf. E la separazione degli stili riaffiora nei luoghi più imprevisti, come per esempio - anche se Auerbach non lo dice esplicitamente - in quella lutulenta, voyeuristica e compiaciuta immersione sensuale nel «basso», nel corporeo, nella fisicità più reificata e maleodorante, che è la cifra linguistica e stilistica principe del naturalismo ottocentesco, dove vengono paradossalmente riprese molte soluzioni espressive tipiche del «realismo» grottesco tardo-antico, da Petronio ad Ammiano Marcellino. Ma non avviene lo stesso, a pensarci bene, in tanti nostri contemporanei?
C’è molto naturalismo grottesco nella migliore produzione postmoderna, dalla Body Art al Post-Human, da Martin Amis a Javier Marías. E una non-fiction come Gomorra di Roberto Saviano, valore letterario a parte, non è certo un esempio di mescolanza ma di separazione degli stili, con la sua sovrabbondanza di sangue, urti di vomito e cadaveri in decomposizione, messa in scena di una vita ridotta alla sua animalità più reificata e ferina; dunque, paradossalmente, non seria, perché serio è solo chi può scegliere, non chi è congelato ab aeterno in uno stato di minorità ossessivamente ribadito.
Tra distinguere e separare
Auerbach morì nel 1957, e non sappiamo come avrebbe valutato il postmoderno (anche sa ha fatto in tempo ad avere tra i suoi allievi Fredric Jameson), in particolare alcune delle sue parole d’ordine più accreditate: l’ibridazione dei generi, la fine della distinzione tra cultura alta e bassa, il Kitsch che diventa Cult, la tetra serietà con cui si tratta l’effimero e la leggerezza grottesca con cui si affrontano le cose serie. Trionfo definitivo della mescolanza degli stili? O non, piuttosto, impotenza a distinguere (che è tutt’altro dal separare), in un mondo in cui i sovrani hanno sempre più l’aspetto di pagliacci? Un mondo in cui stentiamo a discernere oggetti, persone e simulacri, in cui il compito di stabilire, rielaborare e criticare le gerarchie tra livelli di realtà e livelli di stile non è più appannaggio della creatività linguistica individuale e collettiva. Un mondo interamente requisito dall’occhio senza sguardo e dalla razionalità senza soggetto della comunicazione mediatica.
Ma solo all’altezza di questa prova l’idea di rappresentazione della realtà che Auerbach persegue trova il suo hic rodus, hic salta, e la sua inattualità può rivelarsi più preziosa di qualunque «grande descrizione» del mondo così com’è. Perché ci sia non «realismo» (le poetiche cambiano), ma «rappresentazione della realtà», occorre in primo luogo che ci sia qualcuno a farsene carico: un soggetto, un attore, una assiologia, una presa di posizione esistenziale e ideologica, in altre parole uno stile. Più stili, anzi, in conflitto tra loro e tra cui di volta in volta operare una scelta. E chi può scegliere se non un soggetto? Un soggetto in situazione, determinato, limitato e perciò stesso costretto a privilegiare certe opzioni invece che altre; non quello asettico della conoscenza scientifica, non quello schizofrenico vagheggiato dai teorici e realizzato dai media. Solo per lui può aprirsi ancora una volta la prospettiva, sempre incombente e sempre rimandata, dell’universale concreto; l’opportunità direbbe Auerbach, di «penetrare i molteplici rapporti di un accadere dal quale noi proveniamo e al quale partecipiamo», di «determinare il luogo al quale siamo arrivati», di «intravedere le possibilità immediate che ci attendono...: "noi qui e ora", con tutta la ricchezza e le limitazioni che ciò comporta».
Non più cosa ma chi
Nessun problema critico, del resto, che non tragga la propria forma dall’emergenza storica in cui si inscrive: quella di Auerbach era il Novecento, con le sue soggettività omicide e la messa in scena della loro dissoluzione. La nostra è quella dell’assenza di soggetto, e per questo non abbiamo né realismo né realtà, ma solo una girandola di simulacri sullo sfondo minaccioso di un inconoscibile Reale lacaniano, impossibile da simbolizzare. La rappresentazione della realtà (lo stile) è sempre la rappresentazione di qualcuno, nel duplice senso di «fatta da qualcuno» e «in cui si rappresenta qualcuno». Se ci interessa ancora (e non è detto, a guardarsi in giro), dobbiamo ricominciare a chiederci non cosa rappresentare ma piuttosto, e in tutti i sensi, chi rappresentiamo.
L’autore di «Mimesis»
Inseguiva la dialettica della sensibilità nella imitazione seria del quotidiano
Nato a Berlino nel 1892 Erich Auerbach è morto nel Connecticut nel 1957 dopo avere insegnato per molti anni filologia romanza alla Yale University. Insieme a Ernst Robert Curtius e a Leo Spitzer è uno degli studiosi di origine e di cultura tedesca cui si devono le espressioni più significative della critica «stilistica». In Italia Auerbach è noto soprattutto per i suoi studi su Dante (1929), che gli permisero di vincere la cattedra di filologia romanza a Marburg, e per l’opera fondamentale che titolò «Mimesis» e che scrisse nel 1946 a Istanbul, dove le sue origini ebraiche lo avevano costretto a emigrare. Da noi «Mimesis» venne tradotto dieci anni dopo dalla Einaudi con un saggio introduttivo di Aureglio Roncaglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
LA STATUA DELLA LIBERTA’E LA LEZIONE DI KAFKA.
LA FENOMENOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
I filologi e le “fake news”
Uno studioso di filologia spiega perché con la "post verità" c’entri la crisi della materia, a partire da Rignano sul Membro
di Claudio Lagomarsini *
Da qualche settimana, a proposito del dibattito su fake news e post-truth politics, mi gira in testa una domanda, che si è quasi trasformata in una tesi: c’è un legame fra la trascuratezza con cui si affronta l’”accertamento dei testi” e la crisi che le discipline filologiche hanno conosciuto in Occidente negli ultimi ottant’anni? Nei seguenti paragrafi 1-3 cerco di articolare questo punto. Chi non è interessato allo spiegone teorico può saltare al paragrafo 4, dove analizzo la diffusione di una bufala online.
La crisi della filologia
1. Quando Roland Barthes celebra la «morte dell’autore» (1967), di fatto mette in discussione il senso stesso della filologia, intesa come disciplina che si dà come ultimo scopo l’accertamento del testo originale, cioè di una forma del testo il più possibile «vicina all’ultima volontà dell’autore» (come recitano i manuali universitari). Comunque la si pensi, bisogna prendere atto che rinunciare a un approccio filologico significa prescindere da una serie di problemi primitivi ma non secondari circa il testo che stiamo leggendo: com’è giunto fino a noi? Che cosa è attribuibile a uno stadio più antico ed eventualmente “originario” (che possiamo riferire o meno a un’entità chiamata “autore”) e che cosa invece è stato modificato progressivamente dai copisti e dagli scoliasti (oppure dagli stampatori, dai ghost writers, dagli editor)? Soprattutto, rinunciare alla filologia significa mettere da parte un assunto fondamentale, che è un modo di vedere le cose: il testo che ci viene trasmesso non è un dato ma un processo.
Ovviamente i filologi hanno una parte di responsabilità nella crisi della disciplina, che oggi appare a molti come un insieme di saperi assurdi e autoreferenziali (a volte autoreferenziali anche all’interno di un mondo già estremamente specialistico com’è quello della filologia). In effetti temo che, anche occupandosi del medesimo testo, uno studioso inglese d’ispirazione gender e un filologo italiano “tradizionale” − se chiusi insieme in una stanza per un crudele esperimento − potrebbero ispirare una sceneggiatura à la Antonioni. Per quanto mi riguarda, confesso che, con un dottorato in filologia romanza, spesso ho difficoltà a seguire, anche solo nell’esoterismo del linguaggio, molti articoli di colleghi italiani che si occupano di poesia provenzale. A questo ripiegamento interno corrisponde, all’esterno, una ritirata pressoché totale dei filologi dal dibattito culturale contemporaneo (Filologia e libertà di Luciano Canfora [2008] è stato un tentativo isolato, e non ha lasciato il segno).
Le notizie false
2. Il problema dell’accertamento dei testi è sempre stato centrale nell’attività giornalistica, dove il fact-checking è una delle basi del mestiere. Ma qui ci poniamo già alla fine della catena. L’utente medio che si informa su Facebook non fa nessuna distinzione tra la pagina online de «La Repubblica» e quella di «Repubblica24» (un sito cialtronesco che crea o rilancia bufale). Se manca una cultura dei testi, tutti i testi sono uguali. Purché una notizia sia pubblicata su un sito dal nome “giornalistico”, scritta in prosa, senza errori marchiani almeno nel titolo, allora diventa per molti una notizia fededegna.
Le bufale usate come strumento di propaganda non sono una scoperta dello spin doctor di Trump. Forme di post-truth politics esistono fin dall’antichità (a ben vedere il termine è improprio: non c’è nessun post, non essendo mai esistita un’epoca di truth politics). Anche tra bufale e filologia esiste, del resto, un legame di lunga data: una delle prime prove moderne di metodo critico applicato all’accertamento dei testi è la confutazione con cui l’umanista Lorenzo Valla dimostrò la falsità di un documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi: la cosiddetta “Donazione di Costantino”.
Cosa c’entra la filologia
3. All’indomani dell’elezione di Trump, con il dibattito sulle bufale che ne è seguìto, Mark Zuckerberg ha dichiarato che sono allo studio alcune misure per combattere la diffusione di fake news su Facebook, la piattaforma che insieme a Google ha avuto il ruolo principale nella diffusione dei falsi. Ma il problema delle bufale esisteva prima di Facebook. e, se non lo si affronta alle radici, continuerà a esistere anche dopo (o accanto a) questo importante canale di diffusione. È il principio del ritorno del rimosso: what you resist persists.
Sono convinto che per affrontare davvero il problema non sia sufficiente combattere il “sintomo” che ci si sta presentando in questi mesi. Ciò che, a livello di cultura condivisa, va ricostruito dalle fondamenta è un modo di pensare adatto a ogni canale di trasmissione e a ogni tipo di testo. Questo genere di educazione e sensibilizzazione si fa prima di tutto nelle scuole. Penso alla tradizionale lettura di giornali in classe, che il prima possibile dovrebbe essere integrata con l’analisi di giornali online, e poi con l’esame di pagine Facebook e con la discussione di alcune bufale (e anche di bufale con evidente intento satirico, come quelle, divertentissime, di Lercio.it). Ci vorranno anni, e prima degli studenti bisognerà formare i docenti.
Insegnando in modo avventuroso (cioè senza un posto) filologia romanza, mi capita di discutere con gli studenti circa i problemi testuali posti da internet e dai social, spazi che fanno e faranno parte delle loro vite. In questo cerco di tenere presente che un giorno gli studenti di Lettere saranno insegnanti, giornalisti, editor, copywriter. Oppure svolgeranno altre professioni che non esistono ancora, ma che avranno a che vedere con i testi e con internet.
Il caso Rignano sul Membro
4. Quello che segue è un esempio di problema filologico nell’era di internet che un insegnante potrebbe voler discutere con la propria classe. Il punto di metodo che dovrebbe passare è semplice ma non banale: i testi hanno una dimensione temporale, anche in Rete. Esaminiamo un caso concreto. Come si è scritto, la notizia più diffusa sui social nei giorni prima del referendum costituzionale era una bufala. Il testo è stato pubblicato online il 22.11.2016 dal «Fatto Quotidaino» (sic; d’ora in avanti “Fq”), un sito border line di satira e bufale. La primissima versione diceva che a «Rignano sull’Arno» (cioè nel paese d’origine di Matteo Renzi) erano state ritrovate 500.000 schede referendarie già segnate con il sì. La pagina è stata poi rimossa in seguito al clamore suscitato dalla bufala. Che la prima versione dicesse proprio «Rignano sull’Arno» è suggerito dall’anteprima visibile su «Un caffè al giorno» (che chiameremo “U”), una delle prime pagine Facebook che hanno condiviso la notizia (sempre il 22.11). -L’anteprima trova poi conferma nell’URL di Fq («rignano-sullarno-trovate-500-000-schede-gia-segnate-voto-si-shock»). Invece, le altre pagine in cui sopravvive la bufala, tutte datate dal 23.11 in poi, portano una variante sulla località, che diventa «Rignano sul Membro» (ovviamente inesistente). Se adesso si prova a condividere l’URL di Fq, l’anteprima non dà più «Arno» (come in U), ma «Membro».
Come spiegare questo caos? La lezione «Arno» dev’essere quella più antica, perché non se ne trova traccia dopo il 22.11. L’ipotesi che avevo in mente - poi confermata dai redattori di Fq, che hanno avuto la gentilezza di rispondere alle mie sollecitazioni − è che il testo originario, con la lezione «Arno» (Fq1), sia stato modificato poco dopo la pubblicazione e corretto in «Membro» (Fq2). Questo con l’intento di chiarire ulteriormente che si trattava di uno scherzo. E forse anche per evitare grane. Dal 23.11 in poi, dunque, si diffonde la variante «Rignano sul Membro». Andando a confrontare il testo della notizia in varie pagine di rilancio, si scoprono altre varianti: le più macroscopiche sono un’interpolazione (contenente alcune considerazioni sul numero delle schede in rapporto al corpo elettorale) e un’ulteriore variante sulla città, che diventa «Napoli» (qui con un altro intento ancora, quello di restituire un tocco di realismo a un’evidente panzana). In alcuni casi, i siti citano la propria fonte; altre volte bisogna accontentarsi della data e delle varianti testuali. Vediamo una tabella di confronto:
Fq = Il Fatto quotidaino: 22.11, R. sull’Arno (Fq1) → R. sul Membro (Fq2) (totale: 158.161 shares su Facebook)
U = Un caffè al giorno: 22.11, R. sull’Arno (1094 shares)
I = ItalianiInformati.com: 23.11, R. sul Membro [con interpolazione] (351.828 shares)
R = Repubblica24.com: 23.11, R. sul Membro (21 shares)
Ni = Notizie Incredibili: 23.11, R. sul Membro [fonte dichiarata: Fq] (121 shares)
M = Mafia Capitale.info: 23.11, R. sul Membro (761 shares)
Nw = Newsitalys: 24.11, R. sul Membro (44 shares)
S = Shock-News.it: 24.11, R. sul Membro [con interpol.; fonte dichiarata: I] (158 shares)
G = Giornale Informativo: 27.11, Napoli (shares: n.d.)
Non si possono dettagliare ulteriormente le relazioni tra i siti portatori della semplice variante «Membro», che può derivare direttamente da un copia-incolla di Fq2 oppure da altre pagine che hanno rilanciato la stessa bufala senza introdurre varianti. Sulla base dell’analisi, si può ricostruire questo schema di diffusione:
Avendo a che fare con testi e varianti, non credo che l’attuale tecnologia informatica possa produrre uno schema più preciso di questo. Non si tratta - è bene sottolinearlo - di condivisioni di pagine con un codice o una formattazione tracciabile, ma di copia-incolla parzialmente ri-editati, quindi usciti momentaneamente dalla Rete, modificati, e poi rientrati. Dai vari siti di pseudo-notizie − che non sono moltissimi − la bufala è stata poi condivisa centinaia di migliaia di volte sui social (la “vulgata” del testo). A questo punto l’informatica torna utile: applicazioni come BuzzSumo o SharedCount permettono di conteggiare il numero di condivisioni irradiate da ogni URL, dunque il “peso” di ogni fonte nella diffusione di una bufala sui social (nel nostro caso il sito I è il principale responsabile, seguito dalla fonte originale Fq).
E quindi?
5. Mentalità o cultura filologica sono cose diverse (più profonde) rispetto alla filologia, che per vocazione si occupa soprattutto di testi letterari. Il rapporto tra cultura dei testi e filologia è lo stesso che esiste tra cultura del cibo e alta cucina, tra cultura della salute e medicina. Se il secondo polo (quello della ricerca specialistica) viene meno, è difficile che il primo (quello della cultura condivisa) continui a prosperare da solo.
Le discipline filologiche non hanno rimedi immediati da offrire. Non basterà prendere un filologo, dargli una sedia girevole e metterlo in cattività nella redazione del «New York Times» per far evaporare le bufale dal web. Ma potrebbe essere utile continuare ad avere dei filologi che insegnano agli studenti di Lettere, alcuni dei quali insegneranno ai nostri figli, che poi faranno tanti mestieri diversi nella società.
Quello che deve preoccuparci non è l’Arno o il Membro, naturalmente, ma la voragine culturale che sta dietro alla proliferazione di fenomeni come quelli che stiamo osservando. Se la filologia può dare un contributo per affrontare le radici del problema (non l’epifenomeno contingente), allora è necessario un impegno concreto dei filologi, insieme a una riabilitazione della disciplina nel dibattito culturale.
In un famoso pamphlet anti-filologico, Bernard Cerquiglini ha scritto che la filologia, tutta presa com’è dall’ossessione di tracciare alberi genealogici dei manoscritti, «è una forma di pensiero borghese, paternalista e igienista sulla famiglia: ha cara la filiazione, perseguita l’adulterio, teme la contaminazione» (Éloge de la variante, 1989). Credo che Cerquiglini abbia torto e non abbia capito come funziona davvero la filologia.
Non vorrei però che avesse ragione sul fatto che i filologi sono effettivamente dei borghesi, cioè persone che preferiscono parlare difficile e leggere vecchi libri anziché confrontarsi con quello che succede a un metro dal loro salotto.
*
Claudio Lagomarsini insegna Filologia romanza all’Università degli Studi di Siena.
* IL POST, 04 GENNAIO 2017 (ripresa parziale - senza note).
Minima
Auerbach: il realismo non è positivista ma romantico (e soprattutto cristiano)
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, 05.04.2008)
Fra i più grandi critici del Novecento, se Edmund Wilson, maestro nell’arte della recensione, è spesso dimenticato, Erich Auerbach, maestro di critica stilistica e comparatistica, è tornato al centro dell’attenzione. Finalmente si riconosce che il suo metodo critico non lo rende ’sorpassato’ e che il suo capolavoro Mimesis. La rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale (1946) è probabilmente il vertice della critica novecentesca. Il libro resta memorabile per chiunque lo abbia letto: soprattutto per chi lo ha letto a vent’anni, quando si ha bisogno di opere eccellenti, di ampio respiro e insieme analitiche.
Nei suoi venti capitoli, Mimesis percorre la letteratura europea partendo da Omero e dalla Bibbia per arrivare a Virginia Woolf, Proust, Joyce, Mann. A metà strada incontriamo Dante e Montaigne, Shakespeare e Cervantes. Leggendo il saggio ’Romanticismo e realismo’, pubblicato da Auerbach nel 1933 e ora tradotto sul numero 56 di ’Allegoria’, si capisce ancora meglio quale sia stato lo spunto iniziale di Mimesis. Si tratta delle radici romantiche (e non positiviste) del realismo: stile e metodo che nasce, come si vede in Stendhal e Balzac, dalla particolare, rivoluzionaria inclinazione della fantasia romantica per la realtà quotidiana. In Balzac il quotidiano è lo spazio-tempo in cui si concentra e si incarna la totalità della vita. La fantasia romantica serve a descrivere ciò che esiste. Stendhal e Balzac usano un’immaginazione che non esclude niente di quanto concretamente accade. Fondano nella fisicità la vita interiore e inventano un nuovo tipo di eroe tragico, aldilà della separazione classicista fra sublime e comico. La realtà quotidiana è la sola autentica e viene perciò ’presa sul serio’. Questo (conclude Auerbach) ha origine nel Medioevo e nella storia di Cristo, il Dio incarnato. È perciò la ’dedizione di Dio alla realtà terrena’ ciò che ha fondato la rappresentazione della realtà nella letteratura moderna.