IDEE. Il costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde riflette sullo «Stato post-secolare»:
«Nessuna contrapposizione con la fede»
Un patto per la laicità
«Una neutralità aperta cerca l’equilibrio e accetta che i credenti operino come tali anche in ambito pubblico»
di ERNST-WOLFGANG BÖCKENFÖRDE (Avvenire, 19.07.2008)
CHI È
Il giurista sospeso tra Ratzinger e Habermas
Pubblichiamo in queste colonne ampi stralci della riflessione «Lo Stato secolarizzato e i suoi valori» del costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde (nella foto), pubblicato recentemente su «Il Regno».
Tesi di fondo di Böckenförde, da sempre in dialogo con Ratzinger e Habermas, che «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire».
Si parla oggi sempre più sovente dello Stato secolarizzato, talvolta addirittura dello ’Stato postsecolare’. A prescindere dalla crescente importanza attribuita al fattore religioso, lo Stato secolarizzato continua a presentarsi come un’epocale conquista della cultura politica, per aver reso possibile a persone di convinzioni religiose e visioni del mondo differenti di vivere in pace e libertà nell’ambito normativo di un ordine comune.
D’altro lato ci si può chiedere se questo Stato, grazie ai principi cui s’ispira, sia realmente in grado di far fronte alle sfide indotte dall’accentuato riaffermarsi della religiosità e dalla crescita di movimenti fondamentalisti, se cioè non debba essere oggetto di una ristrutturazione, forse addirittura di una metamorfosi basata su una sua ridefinizione in termini di ’Stato post-secolarizzato’.
Il carattere dello Stato secolarizzato può essere descritto prima facie nei seguenti termini: nel suo ambito la religione, e in particolare una determinata religione, non è più né il fondamento vincolante, né il fermento dell’ordine pubblico. Stato e religione sono separati l’uno dall’altra per ragioni di principio: in quanto tale lo Stato non rappresenta nessuna religione. In quanto secolarizzato lo Stato non nega però affatto, né elimina la religione.
Anzi, vi si rapporta poiché essa è preesistente al suo affermarsi. Questo legame è caratterizzato dal fatto che la religione - svincolata dall’ambito di competenza dello Stato - acquista una sua specifica libertà. Al termine di un lungo processo evolutivo, lo Stato secolarizzato rinuncia a ogni forma di sovranità sulla religione, né si presta più a garantire il ricorso della religione al braccio secolare, né le pretese indottevi. D’altro lato, la libertà della religione e la sua capacità d’incidenza sono circoscritte dallo Stato e dal suo ordinamento giuridico in riferimento ai compiti e agli scopi perseguiti in ambito secolare.
Il fatto che la religione sia stata liberata significa che essa - come ha riconosciuto con chiaroveggenza Karl Marx - viene relegata dallo Stato nell’ambito della società. La religione non determina più lo spirito dello Stato, che di conseguenza non può più essere uno Stato cristiano, islamico o vincolato in qualche modo a una religione. La religione si sviluppa invece all’interno della società civile e dell’ordine che ne regola le libertà. Situata in quest’ambito, essa dispone della possibilità di esercitare o di incrementare il proprio influsso nella configurazione e nell’ordinamento della convivenza civile, e di farlo contestualmente ai singoli processi di formazione del consenso politico nonché in ragione della costitutiva capacità di fornire ai fedeli determinati orientamenti nel rapporto tra cittadini e Stato. Non va pertanto esclusa a priori la possibilità di un suo impegno politico nel perseguire finalità e obiettivi indotti da una motivazione religiosa.
Due sono le prospettive di base cui si è prevalentemente ispirato lo Stato nel configurare la propria neutralità: da un lato vi è la categoria della neutralità volta a prendere le distanze, realizzata in termini esemplari nella laicité francese - non invece nella laicità turca che altro non è se non un islam amministrato dallo Stato - dall’altro, vi è la categoria di una neutralità aperta a tutte le religioni, così com’è in vigore nella Repubblica federale di Germania, ma non solo lì.
La neutralità volta a prendere le distanze ha la tendenza a relegare per ragioni di principio la religione nella sfera privata o privato-sociale e a far sì che non la superi, mentre la neutralità aperta a tutte le religioni garantisce, oltre che la loro attuazione nella sfera privata, anche quella nella sfera pubblica, come ad esempio la scuola, le istituzioni culturali e ciò che viene definito in termini generali come ordine pubblico, senza peraltro che questa garanzia comporti una qualche forma di identificazione. La diversità tra le due categorie non è solo di natura formale, ma si manifesta soprattutto nei settori caratterizzati al contempo da un aspetto religioso-spirituale e da uno politico-secolare che non si limiti all’esercizio della liturgia e del culto, ma includa anche la vita nel mondo e le relative norme di comportamento, come avviene nella religione cristiana nonché nell’islam e nell’ebraismo.
La neutralità volta a distanziarsi dalla religione regola l’ordinamento giuridico sulla base di finalità puramente secolari e rifiuta i relativi aspetti di tipo religioso come irrilevanti e privati, mentre la neutralità aperta a tutte le religioni cerca di perseguire un equilibrio tra il credo espresso da una determinata religione e la possibilità che i suoi membri vi conformino la propria vita anche in ambito pubblico.
Come ha affermato di recente il papa Benedetto XVI, la fede ha riconosciuto in nuovi termini la propria ampiezza interiore e la propria, specifica ragione. I cristiani avevano infatti il compito di accogliere «le vere conquiste dell’Illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione ». Tutto ciò è ora avvenuto.
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25 GIUGNO 2006: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [charitas] e “Mammona” [caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno "Padre nostro" [Charitas] e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore [Charitas] dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sul tema, in rete, si cfr.:
Democrazia e religione: spunti di sintesi
SOMMARIO
di Alfonso Di Giovine (Associazione Italiana dei Costituzionalisti).
EUROPA. Crisi finanziaria
L’uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati
di Ernst-Wolfgang Böckenförde (Il Regno, n. 10, 2009)
La crisi bancaria e di conseguenza economica che ci ha investiti ed è ancora ben lontana dal finire solleva molte domande. È stata causata dall’irresponsabilità e dall’avidità di svariate banche, specialmente banche d’investimento? Oppure dalla mancanza di rigide regole per i mercati finanziari internazionali, dal mancato funzionamento della sorveglianza su banche e finanza, dalla separazione e indipendenza di un’economia finanziaria virtuale (e acrobatica), dall’economia reale della produzione e dei beni? Probabilmente vi hanno contribuito parecchi fattori del genere, collegati a un’ingenua fiducia in un mercato "libero" e senza regole.
Ma la ricerca delle cause unicamente in questa direzione non ci porta lontano. Infatti quel sistema che si è venuto costituendo in questo campo per decenni con successo e con ampi profitti materiali ma anche con una crescente distanza fra poveri e ricchi, quel "turbo-capitalismo" (così chiamato da Helmut Schmidt) che con la globalizzazione mondiale ha raggiunto una nuova qualità, prima di provocare un crollo, non può essere definito e spiegato solo facendo riferimento a comportamenti sbagliati di singole persone o anche di gruppi.
Questo certamente può aver contribuito, ma più globalmente si tratta dei frutti di un sistema d’interazione consolidato e molto diffuso che segue una propria logica funzionale, e a essa sottopone tutto il resto. Questo sistema d’interazione si è trasformato in un sistema d’azione: il capitalismo moderno. Esso forgia il comportamento economico (e in parte anche non economico) dei singoli e lo integra nel sistema. Q uesti sono certamente gli attori, ma nel loro comportamento non seguono tanto un proprio libero impulso, quanto piuttosto gli stimoli derivanti dal sistema e dalla sua logica funzionale.
IL CARATTERE DISUMANO DEL CAPITALISMO
Ma come si presenta più precisamente il capitalismo moderno come sistema d’azione? In questo ci può aiutare un grande sociologo umanistico del secolo scorso, Hans Freyer. Nel suo libro "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters [Teoria dell’epoca attuale]" egli parla dei "sistemi secondari" come prodotti specifici del mondo industrializzato moderno e ne analizza con precisione la struttura (1).
I sistemi secondari sono caratterizzati dal fatto di sviluppare processi d’azione che non si collegano a ordinamenti preesistenti, ma si basano su pochi principi funzionali, da cui sono costruiti e traggono la loro razionalità. Questi processi d’azione integrano l’uomo non come persona nella sua integralità, ma solo con le forze motrici e le funzioni che sono richieste dai principi e dalla loro attuazione. Ciò che le persone sono o devono essere resta al di fuori.
I processi d’azione di questo tipo si sviluppano e si consolidano in un sistema diffuso caratterizzato dalla sua specifica razionalità funzionale, che si sovrappone - influenzandola, cambiandola e modellandola - alla realtà sociale esistente.
Ecco la chiave per l’analisi del capitalismo come sistema d’azione. Esso si basa su poche premesse: libertà generale dell’individuo e di associazioni di individui in materia di acquisti e contratti; piena libertà in materia di trasferimenti di merci, affari e capitali al di fuori dei confini nazionali; garanzia e libera disposizione della proprietà personale (compreso il diritto di successione), intendendo con proprietà il possesso di beni e denaro ma anche di sapere, tecnologia e capacità.
L’obiettivo funzionale è la generale liberazione di un interesse lucrativo potenzialmente illimitato, nonché delle potenzialità di guadagno e di produzione, che operano sul libero mercato ed entrano in competizione fra loro. La spinta decisiva è data da un individualismo egoistico che spinge le persone coinvolte ad acquistare, innovare e guadagnare. Tale spinta costituisce il motore, il principio attivo; non persegue un obiettivo contenutistico preesistente, che fissa misura e limiti, ma un’illimitata dilatazione di sé, la crescita e l’arricchimento. Perciò bisogna eliminare o accantonare tutti gli ostacoli e tutti i regolamenti che non sono richiesti dalle succitate premesse. L’unico principio regolativo deve essere il libero mercato.
Il punto di partenza e la base della costruzione non sono il soddisfacimento dei bisogni degli uomini e il loro crescente benessere; essi seguono il processo e il suo progresso, sono per così dire una conseguenza del sistema funzionante. Il diritto e lo Stato come suo tutore hanno unicamente il compito di assicurare la possibilità di sviluppo e il funzionamento di questo sistema d’azione. Sono una variabile funzionale, non una forza preesistente di ordinamento e limitazione.
Il dinamismo e l’influenza sui comportamenti di un tale sistema sono enormi. Lo stesso sistema diventa, ed è, soggetto di commercio. Realizzazione di profitti, crescita del capitale, aumento della produzione e della produttività, autoaffermazione e crescita sul mercato costituiscono il principio motore e dominante, la cui razionalità funzionale integra e subordina tutto il resto. I lavoratori vengono presi in considerazione solo in base alla funzione che svolgono e ai costi che comportano, per cui si riducono al minor numero possibile. La loro sostituzione, dove possibile, con macchine o tecnologie automatizzate per ridurre i costi appare non solo razionale ma economicamente necessaria.
La compensazione per i problemi sociali e i licenziamenti che ne derivano non rientra in questa logica funzionale, ma viene demandata allo Stato e alla sua funzione di garanzia, che proprio per questo può imporre tasse e chiedere contributi, che comunque comportano ancora dei costi per le imprese. Il principio strutturante non è la solidarietà verso le persone e tra loro; essa viene presa in considerazione solo come riparazione per bloccare, e in parte compensare, le conseguenze dannose e disumane del sistema, che si sviluppa in base alla propria logica interna.
Non si possono mettere in dubbio le straordinarie realizzazioni in termini economici e di benessere che il capitalismo così strutturato produce non solo in singoli paesi, ma oggi anche a livello mondiale, nonostante tutte le sue mancanze e deficienze; noi stessi, abitanti dell’Occidente, ne traiamo grandi profitti. Tuttavia non si può non vedere che si tratta di un processo in continua progressione. In base alla sua stessa dinamica esso cerca continuamente di estendersi e d’integrare nella sua logica funzionale tutti gli ambiti della vita nella misura in cui hanno un lato economico, con ampie ripercussioni anche nel campo della cultura e dello stile di vita personale. Di qui il dilagare del tratto economicistico in tutti gli aspetti della vita. Oggi lo constatiamo soprattutto nel sistema sanitario.
MARX AVEVA VISTO GIUSTO
Già più di 150 anni fa Karl Marx lo aveva chiaramente analizzato ed espresso e si resta colpiti dall’attualità della sua prognosi: "Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Ha privato l’industria del suo fondamento nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono giornalmente annientate. Vengono rimpiazzate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime importate dalle zone più lontane e in cui i prodotti non vengono consumati esclusivamente nel paese ma dappertutto nel mondo. [...] Al posto dell’antica autosufficienza e dell’isolamento locale e nazionale subentra un traffico universale, un’universale dipendenza reciproca fra le nazioni. E come nella produzione materiale, così anche in quella intellettuale. Grazie al celere miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, alle comunicazioni rese estremamente più agevoli, la borghesia porta la civiltà a tutte le nazioni. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa rade al suolo tutte le muraglie cinesi, [...] costringe tutte le nazioni ad adottare, se non vogliono morire, il modo di produzione borghese" (2).
Per il nostro tempo bisogna aggiungere che, grazie a una perfetta organizzazione a livello mondiale del trasporto di container via mare, i costi di trasporto di merci e prodotti sono minimi, per cui le grandi distanze non scoraggiano più, ma piuttosto stimolano il commercio a livello mondiale.
E non è al di fuori dello sviluppo, ma corrisponde piuttosto alla sua logica, il fatto che, nella ricerca di possibilità di guadagno sempre nuove, si diffondano sempre più, nel campo dei mercati finanziari, gli affari basati unicamente su capitale fittizio e sulla sua moltiplicazione, con la tendenza a non tener conto dei dati dell’economia reale e a danneggiarli. Karl Marx aveva già visto anche questo (3).
Lo Stato e il diritto possono certamente dall’esterno fissare limiti al sistema del capitalismo e imporgli regole, limitare gli eccessi e le conseguenze inaccettabili, nella misura in cui l’ordinamento statale, che da parte sua è vincolato alla promozione di un’economia favorevole alla crescita, ha la forza per farlo. E in una certa misura lo fa anche. Tuttavia anche in caso di riuscita questa rimane una correzione marginale, che deve essere estorta alla logica funzionale del sistema, in quanto quest’ultima mira sempre alla maggiore deregolamentazione possibile.
ROVESCIARE IL CAPITALISMO DALLE FONDAMENTA
Di che cosa soffre quindi il capitalismo? Non soffre solo a causa dei suoi eccessi e dell’avidità e dell’egoismo degli uomini che in esso operano. Soffre a causa del suo punto di partenza, del suo principio funzionale e della forza che crea il sistema. Perciò è impossibile guarire questa malattia con rimedi marginali; la si può guarire solo cambiando il punto di partenza.
Bisogna sostituire l’esteso individualismo in materia di proprietà, che prende come punto di partenza e principio strutturante il profitto dei singoli potenzialmente illimitato, considerato diritto naturale e non soggetto ad alcun orientamento contenutistico, con un ordinamento normativo e una strategia d’azione, basati sul principio secondo cui i beni della terra, cioè la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano e le sfruttano, ma sono destinati a tutti gli uomini, per il soddisfacimento delle loro necessità vitali e per il raggiungimento del benessere.
È un principio radicalmente diverso; punto di partenza e di riferimento ne è la solidarietà degli uomini nel loro vivere insieme e in competizione. È da qui che bisogna dedurre le norme fondamentali in base alle quali informare i processi d’azione, economici ma anche non economici (4).
La scelta di un tale punto di partenza non è del tutto nuova. Si ricollega a un’antica tradizione, che si è persa solo al momento del passaggio all’individualismo della proprietà e al capitalismo. Tommaso d’Aquino, il grande teologo e filosofo del Medioevo, afferma esplicitamente che in base al diritto naturale, cioè all’ordinamento della natura voluto da Dio, i beni terreni sono ordinati al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli uomini. La proprietà privata del singolo esiste solo nel quadro di questa destinazione universale, e subordinata ad esso. Essa non appartiene al diritto naturale in sé, ma è un’aggiunta legislativa che si giustifica per motivi pratici, perché ognuno cura maggiormente ciò che appartiene a lui stesso, piuttosto che a tutti insieme, perché è più conforme allo scopo che ognuno possieda e amministri le cose da se stesso e, infine, perché la proprietà privata favorisce la pace fra gli uomini (5). Poi Tommaso distingue anche fra possesso, amministrazione e uso di ciò che si possiede. Mentre il primo spetta solo al singolo individuo, l’uso deve tener conto del fatto che i beni esteriori, in base alla loro destinazione originaria, sono comuni, per cui chi ne è provvisto deve condividerli di sua volontà con i poveri (6). Perciò per Tommaso, in caso di estrema necessità, il furto non è peccato (7).
Qui compare un modello che è contrario al capitalismo. Un modello che parte da altri principi fondamentali e così smaschera anche il carattere disumano del capitalismo. La solidarietà non appare più come una riparazione, per bloccare e compensare le conseguenze dannose di uno sbrigliato individualismo in materia di proprietà, ma come un principio strutturante della convivenza umana anche in ambito economico.
Questo punto di partenza opera in molti modi: attribuzione dei prodotti del suolo e delle materie prime naturali; relazione con i beni di consumo e l’ambiente, natura, acqua e aria; ruolo direttivo di ciò che è lavoro rispetto al capitale; limiti all’accumulazione di proprietà e di capitali; riconoscimento degli altri esseri umani - anche delle future generazioni - come soggetti e partner nel campo dell’uso, del commercio e del possesso invece che oggetti di possibile sfruttamento.
In questo modo si ha un quadro normativo, all’interno del quale il senso del possesso e dell’uso personale, la garanzia della proprietà possono e devono avere il loro significato pragmatico e la loro funzione come forze motrici del processo economico e del suo progresso. Ma rimangono legati al concetto prioritario della solidarietà, che offre orientamento contenutistico e pone dei limiti a un’espansione illimitata.
DOPO MARX, È L’ORA DELLA CHIESA
Non è questa la sede per elaborare in dettaglio un tale modello teorico e pratico ispirato dal principio di solidarietà. I fondamenti per farlo si trovano nella tradizione della dottrina sociale cristiana. Basta risvegliarli dal loro sonno di bella addormentata nel bosco e applicarsi con decisione a tradurli in pratica.
Questa dottrina sociale della Chiesa ha assunto a lungo nei riguardi del capitalismo, impressionata dai suoi indiscutibili successi, un atteggiamento piuttosto difensivo. Essa lo ha criticato su punti specifici invece di metterlo in discussione in quanto tale. L’attuale evidente crollo del capitalismo a causa della sua espansione illimitata e quasi sregolata può, e dovrebbe, permettere alla dottrina sociale della Chiesa una sua radicale contestazione.
Per questo il magistero sociale può richiamarsi semplicemente a papa Giovanni Paolo II, il critico più lucido ed energico del capitalismo dopo Karl Marx. Già nella sua prima enciclica egli intraprese una valutazione del sistema in quanto tale, delle strutture e dei meccanismi che dominano l’economia mondiale nel campo delle finanze e del valore del denaro, della produzione e del commercio. A suo avviso, essi si sono dimostrati incapaci di rispondere alle sfide e alle esigenze etiche del nostro tempo (8). L’uomo "non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti" (9).
Ma il nuovo orientamento solidaristico e la trasformazione di un esteso sistema d’azione economico che, come abbiamo mostrato, non tiene conto della natura e della vocazione dell’uomo, e anzi le contraddice, non avviene da sé. Richiede un potere statale in grado di agire e decidere, che oltrepassi la mera funzione di garanzia dello sviluppo del sistema economico e di accertamento del parallelogramma delle forze, ma assuma efficacemente la responsabilità del bene comune mediante la limitazione, l’orientamento e anche il rifiuto del perseguimento del potere economico, cercando continuamente di ridurre al tempo stesso le disuguaglianze sociali.
È impossibile realizzare una tale trasformazione con semplici interventi di coordinamento. Ma dove si trova oggi una tale statualità? Di fronte all’intreccio economico mondiale la forza dello Stato nazionale non è più sufficiente; sarà sempre sconfitta dalle forze economiche che operano a livello mondiale. D’altra parte, è impossibile organizzare una statualità a livello mondiale, sotto forma di Stato planetario. Lo si può fare solo per e in aree limitate, che sono in relazione fra loro e collaborano. L’appello è rivolto quindi anzitutto all’Europa. Ma essa avrà la volontà e la forza per farlo?
NOTE
(1) H. Freyer, "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters", Deutsche Verlag-Amstalt, Stuttgart, 1956, p. 79ss.
(2) K. Marx, F. Engels, "Manifesto del partito comunista", Marietti, Genova, 1973, p. 60.
(3) K. Marx, "Das Kapital", vol. III, c. 25, Dietz-Verlag, Berlin, 1956, pp. 436-452.
(4) Cfr. E.-W. Böckenförde, "Ethische und politische Grundsatzfragen zur Zeit", in Id., "Kirche und christilicher Glaube in der Herausforderungen der Zeit", Münster, 2007, pp. 362-366.
(5) Tommaso d’Aquino, "Summa Theologiae", IIa-IIae, q. 66, art. 2 e art. 7.
(6) Ivi, q. 66, art. 2, resp.
(7) Ivi, art. 7, resp.
(8) Cfr. Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16. Cfr. inoltre: Id., "Laborem exercens", 1981; "Centesimus annus", 1991.
(9) Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16.
Il fascino pericoloso del postsecolarismo
In Italia siamo in presenza di una religione predominante. Non esiste nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento
Il rischio è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso
Parla Nadia Urbinati, autrice con Marco Marzano di un saggio su Stato e Chiesa
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 14.09.2013)
«Papa Francesco rappresenta la realizzazione compiuta del postsecolarismo di Habermas», dice Nadia Urbinati, al telefono dalla Columbia University dove ha la cattedra di Teoria politica. «Ma proprio per questo occorre ancor più distinguere tra diritto e morale, Stato e religione, ristabilendo quelle paratie che sono necessarie in democrazia». All’indomani della lettera «scandalosamente affascinante» scritta dal pontefice a Eugenio Scalfari, e a pochi giorni dall’appello alla pace che ha raccolto in piazza San Pietro cattolici, musulmani, atei e perfino anticlericali, esce dal Mulino uno stimolante saggio di Nadia Urbinati e Marco Marzano dal titolo provocatorio: Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica.Ma è davvero una missione impossibile? La rivoluzione introdotta da papa Francesco, anche il suo nuovo stile di dialogo, non costringe a rovesciare i termini della questione? «Il suo stile e il suo linguaggio certo scompaginano il progetto culturale inseguito per sedici anni dal cardinal Ruini: è su questo schema che abbiamo costruito molti dei no-stri ragionamenti. Ma restano in piedi tutti i rischi della democrazia postsecolare».
Professoressa Urbinati, che cosa è il postsecolarismo?
«Designa il superamento del secolarismo, ossia dell’esclusione della religione dalla sfera pubblica. Secondo Jürgen Habermas, che ne è il principale teorico, la religione - avendo accettato le regole del gioco democratico - non deve essere più tenuta in un recinto, ma al contrario deve essere accolta nel dibattito pubblico perché porta un prezioso nutrimento morale. E qui interviene l’argomento di un importante teologo tedesco, Böckenförde, secondo il quale la democrazia ha bisogno di religione proprio perché è un metodo di decisione, privo della sostanza etica che lo può tenere in vita. Questo è l’aspetto più preoccupante. Secondo la teoria postsecolare, la democrazia diventa un guscio vuoto, mentre sappiamo che le regole democratiche sono dense di principi morali».
Lei e Marzano denunciate gli “effetti perversi” del postsecolarismo, soprattutto in una cultura monoreligiosa come quella italiana.
«Una delle pecche più gravi di questa teoria è la sua astrattezza, che non tiene conto dei contesti storici e sociali specifici. In Italia siamo in presenza di una religione nettamente predominante. Non esiste nella società e nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento naturale. Il rischio per la nostra democrazia è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso. E le leggi possono diventare laiche al rovescio: non perché distanti da tutte le fedi religiose, ma perché vicine alla fede della maggioranza».
Marco Marzano insiste sullo scarso fondamento in Italia della teoria postsecolare, essendo profondo il divorzio tra fede dichiarata e pratica di vita. Una divaricazione denunciata pochi giorni fa dall’arcivescovo di Milano.
«Sì, è in gioco non solo la riconquista della società liberale, ma della stessa Chiesa dei cristiani. Marzano mostra in modo molto dettagliato anche lo scollamento tra la religione rappresentata dalle gerarchie e la religione vissuta dai credenti. La Chiesa del potere e la Chiesa della fede».
Questo schema però viene rovesciato da papa Francesco, che introduce una rottura netta rispetto ai simboli e alle pratiche di potere della precedente curia romana, anche nei suoi rapporti con la politica italiana. E si propone come cerniera tra Chiesa istituzionale e Chiesa missionaria.
«Se mi si consente il termine, è un papa grillino. Egli salta tutto il corpo intermedio per arrivare direttamente all’incontro con i fedeli: basti pensare alla frequenza delle sue telefonate o al suo quotidiano uso del twitter. Questo è un dato interessante perché riflette un fenomeno diffuso in tutte le istituzioni generatrici di autorità, religiose o politiche che siano: i cittadini non si sentono più rappresentati da questi corpi intermedi, sia che si chiamino prelati o rappresentanti politici, clero o partiti. Papa Francesco avverte questo divorzio, e riesce a colmarlo con straordinaria abilità».
Per le sue idee e per le sue azioni Francesco appare come l’incarnazione esemplare del postsecolarismo di Habermas: non introduce mai nella sfera pubblica uno stile dogmatico o una prevaricazione sullo Stato. Ma così operando non rischia di demolire le vostre critiche a quella teoria?
«Non credo. Semmai il contrario. Grazie alla sua efficace predicazione, che arriva dalla grande tradizione gesuita, con la rievangelizzazione l’infiltrazione religiosa rischia di diventare ancora più dilagante e capillare. E questo rende ancor più necessario preservare le staccionate per distinguere le varie sfere, quella civile e quella religiosa per esempio».
Nel libro non mancano critiche al «postsecolarismo all’italiana», da Giuliano Amato a Giancarlo Bosetti e Alessandro Ferrara. «Habermas riflette nelle sue idee la democrazia dell’Europa protestante e degli Stati Uniti, ossia realtà caratterizzate da pluralismo effettivo, mentre questi studiosi provengono da una tradizione che è imbevuta in modo egemonico di una sola religione. Quando si parla del rapporto tra Stato e fede religiosa, la teoria dovrebbe prestare più attenzione al contesto».
di Franca D’Agostini (la Repubblica, 13.02.2013)
Perché Machiavelli piace ai filosofi tardo-moderni o postmoderni (se è lecito ancora usare questa espressione, estremamente equivoca)? Semplice: perché è il filosofo che emancipa la politica dalla filosofia, e la lascia viaggiare da sola, sulle ali del potere. L’ha ricordato Giancarlo Bosetti su Repubblica del 22 gennaio, citando Gramsci (la grande “rivoluzione intellettuale” dell’autonomia della politica), e Isaiah Berlin (crollo definitivo della philosophia perennis, e ingresso nell’era del pluralismo postfilosofico).
Ma forse è proprio il duplice mito dell’autonomia della politica, e della fine della philosophia perennis, ciò a cui dobbiamo rinunciare. In fin dei conti Machiavelli (come Carl Schmitt) fu un grande analista del potere come coercizione, ma ciò di cui parlava era il potere oligarchico, o monocratico. Mentre sappiamo che in democrazia (che è “government by discussion”) il potere è anzitutto pensiero (e ragionamento, e discorso).
Due libri appena usciti rovesciano il paradigma machiavelliano, e rilanciano l’idea del legame strettissimo, anzi quasi inestricabile, tra filosofia (proprio quella philosophia perennis che a Berlin non piaceva) e politica democratica. Il primo è Resisting Reality, di Sally Haslanger, epistemologa sociale dell’Mit (Oxford University Press), e il secondo è Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblico di Antonella Besussi, filosofa della politica alla Statale di Milano (Bollati Boringhieri).
Haslanger applica i risultati della metafisica analitica alle questioni di giustizia. Il punto di partenza è la denuncia del clamoroso e in certo modo ingenuo fraintendimento che ha portato a pensare alle teorie costruttiviste della conoscenza come teorie che annientavano la realtà, sottoponendola a qualche oscura forza modellante (il potere, la soggettività, il linguaggio, gli schemi concettuali).
Questo fraintendimento è stato caratteristico tanto dei critici del costruzionismo quanto di alcuni suoi sostenitori. Si veda per esempio la professione di antirealismo da parte di alcuni settori del femminismo (il concetto di realtà come residuo di una metafisica “logocentrica”), a cui giustamente rispondeva nel 1987 Catharine MacKinnon, ricordando che sbarazzarsi del riferimento alla realtà per i soggetti politici che ne subiscono gli urti è suicida oltre che assurdo.
Dice Haslanger, la nozione di costruzione sociale (o epistemica) ha da Kant in avanti una funzione critica molto precisa: serve a discutere quelle metafisiche perverse che danno per scontato che essere un afroamericano, un omosessuale, una donna, comporti alcune conseguenze date e non negoziabili, e vincoli perciò i portatori di tali determinazioni a subire una serie di condizioni socialmente inique. Ma certo, se ci si sbarazza della metafisica, ovvero della riflessione su che cosa è un omosessuale, una donna, o in generale che cosa è un essere umano, la revisione delle idee condivise su queste “costruzioni” diventa impossibile.
Per esempio, l’aggancio della decisione politica alla discussione sulle “credenze prime e ultime”, come dice Besussi, potrebbe servirci per capire bene che la tesi secondo cui la famiglia richiede l’alleanza uomo-donna non ha più reali fondamenti in quel che sappiamo degli uomini, delle donne, e delle relazioni tra gli uni e le altre. Certo, si può continuare a sostenerla, ma allora deve essere chiaro che lo si fa per pure questioni di potere (per esempio, per favorire una parte politica che figura come espressione di una metafisica dogmatica), e non perché la tesi in questione sia (creduta) vera.
La proposta di Besussi, detto in breve (perché il libro è ricco di argomenti ed esemplificazioni) va in direzione di una “normatività non autosufficiente”. Nota Besussi che la nostra cultura politica si è come inchiodata a ciò che si chiamerebbe la strategia della separazione (estensione del famoso principio di Bökenförde, per cui lo Stato laico non ha fondamenti e non vuole averne).
«Il caso esemplare è rappresentato dalle guerre civili europee tra cattolici e protestanti. Chiuderle è stato possibile a condizione di riconoscere che se ci si uccide per stabilire qual è la religione vera, smettere di farlo richiede che la questione sia privata di rilevanza politica». Questa procedura «sposta credenze metafisiche nel territorio extrapolitico delle convinzioni assolute, apprezzabili purché politicamente mute».
Ma qui è precisamente il punto: che convinzioni false o discutibili non sono affatto apprezzabili, e l’errore per di più è considerarle “assolute”, pertanto non sottoponibili alla discussione circa la loro discutibilissima verità.
L’INTERVISTA. Parla il grande giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde, che apre oggi l’anno accademico all’Università Cattolica di Milano
Il paradosso della laicità
«Lo Stato liberale è un progetto sempre in pericolo: da solo non può garantire l’esistenza delle forze morali di cui ha bisogno per esistere»
DI ANDREA GALLI (Avvenire, 03.11.2009)
« Lo Stato liberale e secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che lo Stato ha scelto di correre per amore della libertà » . Suona così il diktum, il dilemma formulato nel 1967 dal giurista tedesco Ernst- Wolfgang Böckenförde e che da allora aleggia sui dibattiti in merito a laicità, etica pubblica e diritto. Nato a Kassel nel 1930, una prestigiosa carriera accademica - terminata nel 1995 all’Università di Friburgo - e un’altra nelle istituzioni - fino alla nomina a giudice del Tribunale Costituzionale Federale - Böckenförde tiene oggi all’Università Cattolica di Milano, alle ore 11, la prolusione inaugurale dell’anno accademico. Tema: « L’ethos dei giuristi » .
Professore, il « diktum » che l’ha resa celebre risale a 40 anni fa. Lo considera ancora valido oppure no?
« Non solo lo considero valido, ma oggi più di allora. Mi pare che sia stato ampiamente riconosciuto che lo Stato si basa su fondamenti pre- politici, dai quali derivano quello spirito di comunanza e unità dei suoi cittadini e un ethos condiviso che informano lo Stato stesso. Pensi solo alla discussione tra il cardinale Ratzinger e Jürgen Habermas che si è svolto all’Accademia cattolica bavarese nel 2004 » .
Una critica al suo « diktum » è quella di rappresentare lo Stato liberale come incapace di autosostenersi fino in fondo, a rischio implosione. Mentre, secondo i critici, anche con la perdita di un chiaro ethos di riferimento dimostrerebbe di funzionare.
« Non considero lo Stato liberale un progetto destinato al fallimento. E nemmeno privo di valori intrinseci, in quanto fondato sul riconoscimento dell’altro come soggetto indipendente e sulla parità dei diritti dei cittadini. Tuttavia è un progetto sempre in pericolo, perché non è certo che si possano sviluppare e continuamente rinnovare al suo interno quelle forze interiori e morali di cui ha bisogno, o che il suo tessuto sociale non degeneri in un individualismo senza freni. Lo Stato liberale in quanto tale non può garantire l’esistenza di queste forze. Quello che può fare, fintanto che esse sono disponibili, è semmai proteggerle e sostenerle. Prima di tutto prendendo sul serio il compito educativo della scuola e non privatizzando del tutto i media. Ciò può costituire un freno a una ’ modernizzazione’ deviata della società » .
Come le sembra il futuro dell’Europa a questo riguardo?
« Incerto. L’Unione Europea progettata nel 1990 con il trattato di Maastricht è diventata troppo grande ed eterogenea. Quello che Lord Dahrendorf chiamava sense of belonging , il senso di una comune appartenenza, non si troverà in tempi brevi. Ci sono troppa burocrazia e troppa tecnocrazia decisionale. E non è stato ancora trovato un vero modello di federazione europea » .
È d’accordo con l’entrata della Turchia in Europa?
« Per diversi motivi la piena adesione della Turchia non mi sembra una soluzione sensata. Quella giusta mi sembra una partnership privilegiata » .
Considera l’immigrazione islamica una minaccia all’identità europea?
« Con una siffatta soluzione per la Turchia, anche il problema dell’immigrazione islamica si ridimensionerebbe. Penso poi che la presenza dei musulmani fra di noi può spronare i cristiani - che vedono una religione vissuta pubblicamente - a riflettere su quanto abbiano privatizzato la loro fede. D’altra parte bisogna esigere dai musulmani che vivono in Europa il riconoscimento di un ordinamento laico, con la separazione fra Stato e religione » .
« Lei parla di una ’ necessaria opera di persuasione dei cultori e dei difensori del diritto naturale nel discorso pubblico’. Un’opera che, quando viene fatta da parte cristiana, è presto tacciata di ingerenza o di imposizione dei propri valori su quelli altrui.
« In Germania questo tipo di critica non è così forte, perché la neutralità dell’ordine politico è riconosciuta pubblicamente. In Italia, se vedo bene, il discorso pubblico è segnato da un certo laicismo che ha motivi storici. Talvolta, poi, i difensori del diritto naturale rivendicano per esso un’autorevolezza preventiva, come se la democrazia e le decisioni della maggioranza ne fossero estranei. Il che provoca delle reazioni negative. Si deve ricordare che il diritto naturale - come l’etica normativa che lo rappresenta - non può rivendicare un’autorevolezza a priori, ma deve essere introdotto nel processo politico della società secolare e deve trovare ascolto e riconoscimento con la forza delle proprie argomentazioni. Per fare questo è necessario tradurre i fondamenti del diritto naturale in concetti secolari, laici, in modo che siano veicolabili nella società, come ha ricordato non da ultimo Habermas. La direzione giusta l’ha mostrata il cardinale Ratzinger nella sua discussione con lo stesso Habermas: ’ Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella Chiesa cattolica, la figura argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui ricerca i fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista’ » .
"ASCOLTA, ISRAELE": IL DIO "UNO" FONTE DELLA LIBERTA’, LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO", E IL DIALOGO.
La religione e gli ordinamenti dello Stato moderno
Dove poggia la ragnatela del diritto
Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate alla giornata di studio su "La libertà di religione. Un diritto umano che sta cambiando?" che si è svolta nel Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell’Anima. *
di Ottavio De Bertolis
Pontificia Università Gregoriana
Secondo una metafora notissima, ogni ordinamento giuridico ha la fisionomia di una piramide a gradini, una sorta di ziqqurat giuridica: a partire dalle norme inferiori, quelle a noi immediatamente accessibili, regredendo di norma in norma, giungiamo alla norma fondamentale, la Grundnorm, al vertice della piramide, dalla quale tutte le altre fondano la loro validità.
Vale la pena sottolineare come in tal modo l’ordinamento, e dunque lo Stato che è metafora logica della sua unità, si presenta come un tutto, circoscritto e conchiuso, in sé sussistente e perfetto, un vero "dio mortale", o secolarizzato, secondo l’espressione hobbesiana. Dalle leggi ordinarie fino all’ultimo regolamento comunale e agli usi del commercio, tutte le norme sono riassunte e ricapitolate nella norma fondamentale, in essa virtualmente contenute, come una geometria è contenuta negli assiomi di partenza. Ma come ogni geometria si basa su postulati detti "evidenti", così nel fenomeno giuridico la validità logico-formale dell’ordinamento, cioè la sua deducibilità dalle norme sulla produzione poste dalla Grundnorm, dipende dal fatto che l’ordinamento sia effettivamente osservato, ossia che la norma fondamentale sia percepita come cogente, ossia degna di essere obbedita.
Il tessuto dell’ordinamento si poggia su una base, non posta ma presupposta, accettata e condivisa, che rende perciò stesso l’ordinamento non solo valido, ma anche effettivo. In tal modo, siamo in presenza di una sorta di ragnatela: essa si appoggia su dei punti-forza che come tali non appartengono alla ragnatela, ma sulle pareti esterne, alle quali la ragnatela si appoggia. Possiamo chiamare queste pareti i valori condivisi in una determinata comunità, a loro volta influenzati da molti fattori, come l’etica, le religioni, l’economia, le stesse scienze con la percezione del mondo che esse inducono, le strutture umane familiari e sociali, e molti altri ancora. In questo senso, ogni ordinamento giuridico nasce all’interno della cultura umana, essendo esso stesso nient’altro che cultura umana, storica, mutevole e perciò relativa. Fuor di metafora, ogni ordinamento si appoggia su altri ordinamenti, non giuridici ovviamente ma valoriali, pertinenti ad altri saperi. Il diritto è un sapere tra altri saperi, un’interpretazione del mondo che si affianca, e anche appoggia, su altre, che lo supportano e dal quale a loro volta sono supportate. Così i diritti fondamentali, quelli che sono dichiarati tali nelle moderne Costituzioni, non sono altro che prodotti della nostra storia giuridica occidentale e sono il modo che noi abbiamo per tradurre giuridicamente alcuni valori che condividiamo.
Possiamo capire il senso profondo della nota affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per la quale lo Stato moderno, secolarizzato, vive di presupposti che esso non può garantire, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti indubbiamente la religione ha un posto non insignificante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e i vari altri saperi. Questo non significa, come paventato da alcuni, che in tal modo la religione venga invocata non per la salvezza dell’anima, ma per la fondazione o lo stabilimento dello Stato; né tale proposta si risolve in una nuova e strana alleanza tra l’altare e i Governi, in una sorta di moderno giurisdizionalismo per la quale lo Stato si trovi a tutelare con i propri mezzi valori e proposte che non gli competono. Dovrebbe essere ovvio che questo non significa nemmeno che i chierici occupino ruoli non loro, surrogandosi a compartecipi istituzionali della vita dello Stato, quasi moderne assemblee del secondo Stato.
È invece assolutamente vero che non sono politici i fondamenti della politica, proprio come non sono scientifici i fondamenti della scienza: potremmo dire, sviluppando la stessa linea di pensiero, che non sono nemmeno giuridici i fondamenti del diritto. E questo non per un postulato confessionale, come tale non necessariamente condivisibile, né per una sorta di verità metafisica, ma per il fatto che il procedere razionale, ossia deduttivo-sillogistico delle nostre dimostrazioni, che è l’unico sapere accettato nella moderna ragion pubblica, richiede l’accettazione previa di un ubi consistam teorico, delle premesse che non sono dimostrate, ma fondano ogni possibile dimostrazione.
E questo è, mi sia consentita l’espressione, il sempiterno "sgusciar fuori" della metafisica dalle dita della scienza che pretende di rinserrare la realtà nelle proprie interpretazioni. Questo dice semplicemente l’insopprimibilità della domanda sul "perché" delle cose - qui dell’ordinamento giuridico - che sempre si accompagna a quella, legittima, ma non unica, sul "come" del loro funzionamento.
Questa posizione non ha nulla di confessionale: al contrario, è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è così indelebilmente segnata dal cristianesimo. Eppure la storia del diritto non è storia della cristianità o del cristianesimo, e può perfino darsi che nella storia secolare dell’Europa le vicende dei diritti umani si siano sviluppate anche indipendentemente dalle Chiese, come se, almeno in alcuni settori, il lievito evangelico sia fermentato in forme inaspettate e al di là delle stesse istituzioni.
Così è sterile, almeno secondo il punto di vista da me sostenuto, dibattere sul problema se i diritti dell’uomo derivino e in che misura dalle radici cristiane dell’Europa: la domanda (o l’affermazione che vi è implicita) è significativamente posta in un contesto, come quello odierno, in cui con il tramonto delle ideologie pare tramontato anche l’unico modo di concepire i valori evitando di cadere nella pura sudditanza del mercato e delle sue logiche. In realtà tale domanda nasce innegabilmente dalla paura, di fronte a quanti sono percepiti come nemici della nostra civiltà, e può in effetti sembrare equivoco vedere invocato il cristianesimo come collante o supporto di un’identità, quella europea, che sembra affondare, specie se in funzione oppositiva o non inclusiva, il che contraddice alla sua stessa cattolicità. Viene osservato giustamente che in tal modo si tematizza un uso politico della religione, in fondo un suo svilimento, o una miscomprensione del suo significato più profondo, diventando un "ingrediente necessario a ogni forma di governo".
Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero, anche giuridico, e queste operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse immediatamente cultura, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell’uomo - al di là del fatto se questi diritti siano dell’uomo o del cittadino, cioè se la politica venga prima o dopo del diritto, o se lo Stato preceda o no la società - non postula immediatamente quello di persona, che è concetto filosofico, nato all’interno del dibattito teologico cristiano, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura giuridica occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell’individuo, concetto più propriamente empirico, con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico.
Potremmo dire che esso declina in termini giuridici il concetto filosofico, e non giuridico, di persona come essere relazionale, lo dice in modo ad esso proprio, in particolare predicandolo - e questa è la novità - ad ogni individuo. E questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo: secondo la lezione di Hegel, se nel mondo orientale uno solo, il sovrano, è libero, in quello greco e romano lo sono solo alcuni, i migliori, in quello moderno invece, ossia in quello cristiano, tutti sono liberi, perché lo Spirito è dato a tutti e a ognuno.
D’altra parte è fuor di dubbio che il cristianesimo, precisamente attraverso l’epopea meravigliosa delle vicende degli ordini religiosi, ha reso possibile storicamente la stessa esperienza della democrazia e delle sue stesse tecniche elettorali. Potremmo dire che il cristianesimo è stato fonte di riflessione, cioè di cultura, permettendo di torcere il significato delle parole antiche, qui quella di "persona", riempiendolo di significati nuovi. Infatti, come tutte le religioni, anche il cristianesimo veicola simboli - qui quello dell’uomo come "figlio di Dio" - e questi "danno a pensare", cioè creano cultura, anche giuridica. Con le parole di Bernanos, con il cristianesimo ogni uomo, anche il più vile, vale il sangue di Dio: queste parole, messe insieme, esplodono al primo contatto, e di fatto hanno trasformato la cultura antica. E questo continua ad accadere: il lievito continua a fermentare.
Vorrei osservare che rendersi conto di tutto questo non significa necessariamente uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente: è vero che le leggi sono dei "nomodotti", potenzialmente adatti ad assumere o a farvi scorrere qualsiasi contenuto - la storia lo dimostra dolorosamente - ma rimane vero che le stesse Costituzioni, e i diritti umani che vi sono precipitati, ci mostrano che all’interno della stessa prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico. Anzi, i diritti dell’uomo, come la laicità delle istituzioni, il costituzionalismo, la promozione della cultura - compito certamente non assunto né dallo Stato né dai privati, con la conseguenza del panorama certamente spettrale che ci circonda - sono una risorsa contro di esso. In questo senso, la sfida oggi è di rimanere nella modernità senza rimpiangere un passato, facile solo perché da noi non vissuto, e di abitare la complessità che viviamo, evitando il pensiero unico o le irreali semplificazioni che un laicismo sempre più becero e gridato o un rinnovato clericalismo possono fare proprie.
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©L’Osservatore Romano - 16 maggio 2010