Messaggio originale----- Da: La Sala
Inviato: domenica 27 gennaio 2002 0.09
A: posta@magistraturaassociata.it
Oggetto:
Per la nostra sana e robusta Costituzione...
Stimatissimi cittadini-magistrati
"Nella democrazia - come già scriveva Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) - comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto. L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).
Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato "Forza Italia", discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: "Prima potevo gridare "forza Italia" e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!". Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: "Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!".
Oggi, più che mai, contro coloro che "vogliono costruire una democrazia populista per sostituire il consenso del popolo sovrano a un semplice applauso al sovrano del popolo"(don Giuseppe Dossetti, 1995), non è affatto male ricordarci e ricordare che i nostri padri e le nostre madri hanno privato la monarchia, il fascismo e la guerra del loro consenso e della loro forza, si sono ripresi la loro sovranità, e ci hanno dato non solo la vita e una sana e robusta Costituzione, ma anche la coscienza di essere tutti e tutte - non più figli e figlie della preistorica alleanza della lupa (o della vecchia alleanza del solo ’Abramo’ o della sola ’Maria’) - figli e figlie della nuova alleanza di uomini liberi (’Giuseppe’) e donne libere (’Maria’), re e regine, cittadine-sovrane e cittadini-sovrani di una repubblica democratica.
Bene avete fatto, con la Vs. Lettera aperta ai cittadini, a rendere pubbliche le vostre preoccupazioni e a dire e a ridire che la giustizia non è materia esclusiva dei magistrati e degli addetti ai lavori, ma un bene di tutti e di tutte, e che tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali davanti alla legge.
E altrettanto bene, e meglio (se permettete), ha fatto il Procuratore Generale di Milano Borrelli, già all’inizio (e non solo alla fine) del suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha detto: "porgo il mio saluto, infine, ai cittadini, anzi, alle loro maestà i cittadini, come soleva dire il compianto Prefetto Carmelo Caruso, avvicinati oggi da un lodevole interesse a questa cerimonia, del resto non esoterica nonostante il paludamento, ma a loro destinata"; e, poco oltre, riferendosi specificamente alle "difficoltà che la giustizia minorile incontra", ha denunciato che "il denominatore comune - generatore del disagio donde nascono devianze, sofferenze, conflitti - è rappresentato dalle carenze di un’autentica cultura dell’infanzia, a volte necessitata dalle circostanze, a volte frutto di disattenzione, spesso causata dall’incapacità negli adulti di trasmettere valori che si discostino dall’ideologia di un’identità cercata, secondo la nota espressione di Erich Fromm, nell’avere piuttosto che nell’essere".
Da cittadino-magistrato non ha fatto altro che dire e fare la stessa cosa che don Lorenzo Milani, il cittadino-prete mandato in esilio a Barbiana, in tempi di sonnambulismo già diffuso (1965): suonare la campana a martello, svegliare - praticare la tecnica dell’amore costruttivo per la legge e, ricondandoci di chi siamo e della parte di corona che ancora abbiamo in testa, avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani....
Cordiali saluti
Federico La Sala
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica della propaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona. E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
IL DIALOGO, Sabato, 31 gennaio 2004
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani.
Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia.
E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
* IL DIALOGO, Mercoledì, 05 aprile 2006
Caro PRESIDENTE CIAMPI
Ripartire dall’ITALIA!!!
di Federico La Sala *
Alla luce della campagna elettorale, che si è svolta come si è svolta, e alla luce della legge elettorale che ha ‘permesso’ i risultati che ha ‘permesso’, è da dire - in modo chiaro e tondo - che sulla vittoria del centro sinistra non ci sono affatto dubbi, ha vinto l’ITALIA, e che alla coalizione di centro sinistra ora tocca l’onere e la responsabilità della direzione del Paese. Se si vuole, e si vuole (come credo), iniziare bene, la prima decisione da prendere, e da prendere con la più grande unità politica di tutti e due i poli (centro destra e centro sinistra) - pena il permanere nell’ambiguità e nella corresponsabilità del trattenere il Paese nel clima di degrado e di scontro - sia è quella di rimuovere assolutamente la ‘confusione’ relativa al Nome della Casa politica di tutti gli Italiani e di tutte le Italiane, ITALIA. Un fatto è che esistano due cosiddette “Italia” (maggioranza e minoranza) nella stessa comune Italia, un altro fatto è che esista un partito, che si sovra-espone, si sovrappone, e si contrappone a tutta l’Italia: "Forza ITALIA"!!!
Nell’epoca della comunicazione, della pubblicità, dell’importanza dei simboli, dei “logo”, dei “marchi”, e della manipolazione psicologica, è assolutamente vergognoso, pericoloso, e delittuoso - da parte di tutti gli italiani e di tutte le italiane, della destra come della sinistra, e di tutte le Istituzioni della Repubblica!!! - lasciare la situazione come sta e far finta di nulla, e che tutto sia normale!!!
Vogliamo o non vogliamo essere cittadini e cittadine d’Italia?! O vogliamo essere, tutti e tutte, di destra e di sinistra, veramente ... operai ed operaie nella vigna del ‘Signore’?!
Nel nome dell’ITALIA, e per l’ITALIA: VIVA, VIVA L’ITALIA - W O ITALY!!! (11.04.2006 d. C.)
Federico La Sala
*IL DIALOGO, Martedì, 11 aprile 2006
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
Ferdinand de Saussure (Wikipedia)
FLS
George Orwell: 17 agosto 1945 pubblica “La fattoria degli animali”
di Riccardo Radi (filodiritto, 12 Agosto 2021)
Il 17 agosto del 1945 venne pubblicata in Inghilterra, dopo molte resistenze, la fattoria degli animali.
George Orwell in realtà si chiamava Eric Arthur Blair, assunse il nome di George Orwell quando negli anni Trenta cominciò a pubblicare i suoi primi romanzi.
Orwell era figlio di un funzionario al servizio di Sua Maestà britannica fu educato a Eton per essere avviato alla carriera diplomatica.
Orwell deluse le aspettative familiari e decise di intraprendere l’attività di narratore e quindi lasciò la famiglia e visse per alcuni anni autonomamente svolgendo mestieri molto umili quali il lavapiatti condividendo in alcuni momenti la vita dei senzatetto.
L’esperienza di vita vissuta, venne raccontata nel libro “Senza un soldo a Parigi e Londra”, pubblicato nel 1933.
La svolta nella sua vita fu quando decise di partire alla volta della Spagna e combattere nelle fila repubblicane. Militò nel POUM, formazione dell’estrema sinistra rivoluzionaria spagnola. La sua esperienza è espressa in “Omaggio alla Catalogna”, vero e proprio atto di accusa contro Franco ma soprattutto contro Stalin e l’URSS.
Durante la seconda guerra mondiale fu commentatore per la BBC e corrispondente per alcune riviste e quotidiani della sinistra inglese.
Tra la fine del ‘43 e l’inizio del ‘44 scrisse “Animal Farm”, ossia “La fattoria degli animali”. In Italia arrivò nel 1947.
L’altra opera immortale “1984” invece è pubblicata nel 1949 decretando con “La fattoria degli animali” la sua fama di grande scrittore.
Orwell morì nel 1950, a soli 46 anni.
Orwell ebbe molte difficoltà per la pubblicazione della fattoria degli animali perché in quel momento l’Urss era alleata della Gran Bretagna e ben quattro editori tra i maggiori non ritennero opportuno pubblicare quel testo.
Solo nel 1945, finita la guerra, il libro venne pubblicato.
Orwell al momento della prima pubblicazione del suo libro decise di non pubblicare la sua prefazione non per timori vari ma perché temeva di dare alla sua favola una netta interpretazione antistalinista e anti intellettuale facendo perdere al romanzo quel carattere di universalità che ogni grande libro deve avere. Ora in tutte le edizioni di Animal Farm si può leggere la prefazione di Orwell.
La storia è ambientata nella “Fattoria padronale” del signor Jones, per i lettori di Filodiritto un breve estratto del magnifico e intramontabile testo: “Per una volta Benjamin consentì a rompere la sua regola e lesse ciò che era scritto sul muro. Non vi era scritto più nulla, fuorché un unico comandamento.
Diceva:
TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI MA ALCUNI SONO PIU’ UGUALI DEGLI ALTRI.
Dopo ciò non parve strano che i maiali che sorvegliavano i lavori reggessero fruste nelle loro zampe. Non sembrò strano di apprendere che i maiali si erano comperati per loro uso un apparecchio radio, che stavano impiantando un telefono, che avevano fatto l’abbonamento al «John Bull», al «Tit-Bits» e al «Daily Mirror».
Non sembrò strano vedere Napoleon passeggiare nel giardino della casa colonica con la pipa in bocca; no, neppure quando i maiali presero dal guardaroba gli abiti del signor Jones e li indossarono e fu visto Napoleon in giacca nera, pantaloni e scarpe di cuoio, mentre la sua scrofa favorita vestiva l’abito di seta che la signora Jones portava la domenica, neppur questo sembrò strano.
Una settimana dopo, nel pomeriggio, numerose carrozze giunsero alla fattoria. Una deputazione di agricoltori del vicinato era stata invitata a fare un giro d’ispezione. Fu mostrata loro tutta la fattoria, ed essi espressero grande ammirazione per ciò che vedevano, specialmente per il mulino. Gli animali stavano sarchiando il campo di rape. Lavoravano con attenzione, quasi senza osar sollevare la testa da terra, non sapendo se avevano più paura dei maiali o dei visitatori umani.
Quella sera alte risa e canti uscirono dalla casa colonica, e ad un tratto, all’udir tutte quelle voci, gli animali si sentirono presi da curiosità. Che cosa stava succedendo la dentro, ora che per la prima volta gli animali e gli uomini si incontravano su un piede di eguaglianza? In un solo accordo, essi cominciarono a strisciare silenziosamente nel giardino della casa colonica.
Al cancello si fermarono dubbiosi se entrare o no. Ma Berta aprì la strada. In punta di piedi si portarono fin presso la casa e quelli che erano abbastanza alti spiarono attraverso la finestra della sala da pranzo. Là, attorno alla lunga tavola, sedevano una mezza dozzina di agricoltori e una mezza dozzina o più di eminenti maiali. Napoleon occupava il posto d’onore a capo della tavola. I maiali sembravano completamente a loro agio sulle seggiole. La compagnia stava giocando una partita a carte, momentaneamente sospesa, evidentemente per un brindisi. Circolava una grande anfora e i bicchieri venivano riempiti di birra. Nessuno si accorse delle facce attonite degli animali che spiavano dalla finestra.
Il signor Pilkington di Foxwood si era alzato reggendo il bicchiere. Fra un istante, egli disse, avrebbe chiesto alla compagnia di fare un brindisi, ma prima sentiva il dovere di pronunciare alcune parole. Era per lui motivo di grande soddisfazione, disse - e, ne era sicuro, per tutti gli altri presenti - di sentire che il lungo periodo di diffidenza e di incomprensione era finito.
C’era stato un tempo - non che lui o alcuno dei presenti avesse condiviso tali sentimenti - ma c’era stato un tempo in cui i rispettabili proprietari della Fattoria degli Animali erano stati guardati, non con ostilità, ma forse con qualche sospetto dagli uomini del vicinato. C’erano stati disgraziati incidenti, c’erano state incomprensioni. Si sentiva che l’esistenza di una fattoria tenuta e governata da maiali era qualcosa di anormale e rischiava di avere un malefico effetto sul vicinato. Troppi agricoltori erano convinti, senza prova alcuna, che in quella fattoria dominava lo spirito di licenza e di indisciplina. Erano inquieti per l’effetto che la cosa poteva avere sui loro animali e anche sui propri impiegati umani.
Ma ogni dubbio era ora dissipato. Quel giorno assieme ai suoi amici aveva visitato la Fattoria degli Animali, ne aveva ispezionato ogni palmo coi propri occhi, e che cosa aveva trovato? Non solo i metodi più moderni, ma una disciplina e un ordine da porre come esempio agli agricoltori di ogni dove. Credeva di poter dire a ragione che gli animali inferiori della Fattoria degli Animali facevano più lavoro e ricevevano meno cibo di tutti gli animali della contea. In realtà assieme ai suoi amici visitatori aveva quel giorno osservato molte cose che intendeva introdurre subito nelle proprie fattorie.
Chiudeva la sua perorazione, disse, esaltando ancora i sentimenti di amicizia che esistevano e dovevano esistere tra la Fattoria degli Animali e i suoi vicini. Tra i maiali e gli uomini non vi era e non doveva esservi alcun conflitto d’interessi. Le loro lotte e le loro difficoltà erano uniche. Non era il problema del lavoro lo stesso ovunque? Qui parve che il signor Pilkington stesse per lanciare qualche ben preparata arguzia sulla compagnia, ma per il momento era troppo sopraffatto dal piacere per poterla pronunciare. Dopo molti colpi di tosse durante i quali i suoi numerosi menti si fecero di bracia, riuscì a metterla fuori: «Se voi avete i vostri animali inferiori contro cui lottare» disse «noi abbiamo le nostre classi inferiori!». Questo bon mot fece scoppiare dalle risa tutta la tavola; e il signor Pilkington ancora si congratulò coi maiali per le razioni scarse, le lunghe ore di lavoro e la generale assenza di sovrabbondanza che aveva osservato nella Fattoria degli Animali.
E ora, disse infine, chiedeva alla compagnia di alzare la zampa e assicurarsi che il bicchiere fosse pieno.
«Signori» concluse il signor Pilkington «signori, brindo a voi e alla prosperità della Fattoria degli Animali!»
Seguirono entusiastici applausi e battere di piedi. Napoleon era tanto soddisfatto che si alzò dal suo posto e fece il giro della tavola per venire a toccare il suo bicchiere con quello del signor Pilkington prima di vuotarlo. Quando gli applausi si placarono, Napoleon, che era rimasto in piedi, annunciò che aveva qualche parola da dire.
Come tutti i discorsi di Napoleon, anche questo fu breve ed esplicito. Anche lui, disse, era felice che il periodo dell’incomprensione fosse finito. Per molto tempo erano corse voci - messe in giro, aveva ragione di credere, da qualche nemico maligno - che le direttive sue e dei suoi colleghi rivestissero qualcosa di sovversivo e di rivoluzionario Erano stati accusati di suscitare la ribellione fra gli animali delle vicine fattorie. Niente di più lontano dalla verità! Il loro solo desiderio, ora come nel passato, era di vivere in pace e in buone e normali relazioni con tutti i vicini. Questa fattoria che aveva l’onore di controllare, aggiunse, era una specie di impresa cooperativa. Le azioni che erano in suo possesso erano comune proprietà dei maiali.
Egli non credeva, disse, che alcuno degli antichi sospetti continuasse a sussistere; ma alcuni cambiamenti, recentemente introdotti nelle consuetudini della fattoria, dovevano aver l’effetto di promuovere un’ancor maggiore fiducia. Fino ad allora gli animali della fattoria avevano avuto la sciocca abitudine di chiamarsi l’un l’altro "compagni". Ciò doveva aver termine. C’era anche stato lo strano costume, la cui origine era sconosciuta, di sfilare la domenica mattina davanti al teschio di un verro posto su un ceppo nel giardino. Questo pure sarebbe stato abolito, e già il teschio era stato sepolto. I suoi visitatori avevano certo visto la bandiera verde spiegata in cima all’asta e avevano forse notato che lo zoccolo e il corno dipinti in bianco, di cui prima era fregiata, erano scomparsi. La bandiera, d’ora innanzi, sarebbe stata verde soltanto. Egli aveva solo una critica, disse, da fare all’eccellente e amichevole discorso del signor Pilkington. In esso il signor Pilkington si era sempre riferito alla "Fattoria degli Animali". Non poteva sapere, naturalmente - é lui, Napoleon, lo annunciava ora per la prima volta - che il nome "Fattoria degli Animali" era stato abolito. Da quel momento la fattoria sarebbe ritornata "Fattoria Padronale", quello cioè che, egli credeva, era il suo vero nome d’origine.
«Signori» concluse Napoleon «ripeterò il brindisi di prima, ma in forma diversa. Riempite fino all’orlo i vostri bicchieri. Signori, ecco il mio brindisi: alla prosperità della Fattoria Padronale!»
Come prima, vi furono calorosi applausi e i bicchieri vennero vuotati fino al fondo. Ma mentre gli animali di fuori fissavano la scena, sembrò loro che qualcosa di strano stesse accadendo. Che cosa c’era di mutato nei visi dei porci? Gli occhi stanchi di Berta andavano dall’uno all’altro grugno. Alcuni avevano cinque menti, altri quattro, altri tre. Ma che cos’era che sembrava dissolversi e trasformarsi? Poi, finiti gli applausi, la compagnia riprese le carte e continuò la partita interrotta, e gli animali silenziosamente si ritirarono.
Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio. Vi erano grida, colpi vibrati sulla tavola, acuti sguardi di sospetto, proteste furiose. Lo scompiglio pareva esser stato provocato dal fatto che Napoleon e il signor Pilkington avevano ciascuno e simultaneamente giocato un asso di spade.
Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”.
"Lo scrittore ha il dovere di abitarsi nella propria lingua"
"Io sono la mia lingua italiana"
di Pierfranco Bruni (Portale Letterario, 26/02/2019)
La lingua italiana é l’espressione della cultura italiana. Così come ogni cultura é l’espressione di una lingua. Il percorso della lingua è un interfacciarsi con modelli di civiltà. Ormai è accertato che la lingua italiana occupa la quarta posizione tra le lingue del mondo. Un fatto non relativo e altamente positivo in un tempo in cui si cerca di recuperare anche la forma dialettale delle lingue, creando delle contaminazioni.
La lingua italiana, nata da un contaminato di linguaggi, diventa un punto fermo all’interno di quei processi culturali in cui la comunicazione del linguaggio è comunicazione antropologica, sociologica, linguistica, arrivando ad occupare un’interrelazione all’interno del contesto mondiale significativo.
Ho attraversato diversi percorsi visitando molti paesi, portando la lingua italiana nel mondo dal Sud America ai Paesi balcanici e mi sono reso conto che c’è stata sempre una forte simpatia e vicinanza non solo alla lingua italiana, ma soprattutto alla cultura italiana. Ciò significa che il modello greco-latino occidentale, sul piano culturale e linguistico, non solo è conosciuto ma studiato attentamente.
La storia di un popolo, di una civiltà, di una visione identitaria ha permesso di leggere tutta una realtà storica e linguistica. La realtà storica si forma sui processi culturali che, a loro volta, nascono da visioni e da interpretazioni linguistiche.
La lingua è comunicazione. Attraversare una lingua significa attraversare e conoscere una cultura.
La conoscenza di una lingua, o l’apparentamento nei confronti di una lingua, ci porta ad approfondire le radici di quella determinata lingua. Le radici della lingua italiana sono all’interno di un processo profondamente occidentale. La lingua italiana, al di là del dibattito sul “De vulgari eloquentia”, che ha permesso di sviluppare un percorso tra la lingua latina e la lingua volgare, ha dato il segno tangibile di come una lingua possa svilupparsi all’interno di una dimensione storica.
Il dibattito sulla lingua in Italia ha sempre tracciato e lasciato dei segni indelebili, dal 1200 - 1300 fino al percorso bembiano. Il Rinascimento nasce all’interno di una civiltà delle culture, ma anche attraverso il dibattito di Bembo sulla questione della centralità della lingua. Un processo che è possibile verificare anche nei secoli successivi.
La lingua barocca, che ha avuto origine all’interno del contesto lessicale semantico barocco, ha come dimensione le culture barocche che si sviluppano dal Regno di Napoli fino a tutta l’Europa e in seguito anche in Brasile. Si pensi al barocco brasiliano che parla il linguaggio che era del Regno di Napoli, fino ad arrivare al grande dibattito leopardiano sulla lingua contestualizzata nella temperie tra Leopardi e Manzoni.
Con Manzoni si unifica un concetto di lingua omogenea che non resterà mai tale, perché sono i dialetti che insistono. Ecco perché ho sempre sostenuto che la lingua italiana è il concentrato dei dialetti, quando il dialetto assume l’identità di una comunità.
L’attuale discussione sulla lingua italiana come quarta realtà comunicativa del mondo, lascia intendere che questa realtà ha assorbito tutte le dimensioni storiche, politiche di un Occidente che è stato un Occidente Mediterraneo italiano. Quando Cristoforo Colombo va nelle Americhe si porta dietro il dialetto genovese, il dialetto ligure, il dialetto veneziano e tutto un contesto pre-rinascimentale della cultura umanistica. Quindi, dentro questo rapporto tra cultura umanistica rinascimentale, porta nelle Americhe una storia che è quella della civiltà dell’Occidente e del Mediterraneo italiano.
Oggi si riscopre questa visione della lingua italiana e si riscopre, accanto alla lingua italiana, la cultura italiana. Si pensi alla letteratura. Alle grandi personalità che hanno disegnato la geografia culturale mondiale. Da Dante a Machiavelli. Da Machiavelli a D’Annunzio. Personalità che hanno parlato la lingua italiana pur attraverso le dimensioni del dialetto e si sono innescate all’interno di quelle realtà e nazioni che hanno avuto la volontà, la possibilità e la capacità di approfondire una comparazione o una contaminazioni di culture.
Non mi meraviglio affatto che la lingua italiana sia considerata la quarta lingua. Anzi, ritengo che possa essere considerata anche la seconda o terza lingua, perché la lingua non viaggia mai da sola, ma sempre accanto a delle definizioni a delle contestualizzazioni culturali. Dante è studiato in tutto il mondo, esattamente come Manzoni.
Queste particolarità sono parti integranti di un processo di civiltà. La cultura latina la troviamo dappertutto. Ovidio, per esempio, è la personalità che ha disegnato una dimensione ben definita all’interno di una visone culturale. Bisogna ragionare su questi aspetti e promuovere sempre più la cultura italiana nel mondo. È un dovere per uno scrittore rappresentare la propria appartenenza. Io mi caratterizzo attraverso la lingua che parlo.
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
GUERRA DI GENERE. .. E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta"
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
Paolo Fabbri, la conversazione infinita
di Maria Pia Pozzato (Alfabeta2, 21.09.2017)
In genere si dice che discorso orale e discorso scritto rispondano a due technicalities diverse e che ognuno di noi sia più versato nell’uno o nell’altro. Paolo Fabbri, uno dei più importanti semiologi europei, pur essendo brillante autore di moltissimi saggi, è famoso soprattutto per il fluire maestoso e accattivante di un eloquio che ci teneva avvinti in tre-quattrocento nell’aula III di Lettere a Bologna, anche molto dopo che avevamo finito gli studi. In un’epoca in cui gli studenti vanno a lezione solo in vista dell’esame e per fotografare con il cellulare le slide del powerpoint, l’immagine di quell’aula gremita e silenziosa è decisamente vintage: si andava ad ascoltare Fabbri per il puro piacere di farlo, nella convinzione di assorbire comunque qualcosa di interessante. Nella sua gratuità, l’andare a seguire una sua lezione, magari seduti per due ore su uno scalino dell’aula, era quel che si dice un bel gesto, qualcosa che sta all’intersezione fra la fedeltà a un maestro e la capacità estetica di cogliere il bello, l’interessante, il piacevole dell’esistenza senz’altro tornaconto immediato. È stata quindi un’idea eccellente quella di Gianfranco Marrone di raccogliere in volume le trascrizioni di ventuno conversazioni-intervista che il nostro autore ha avuto con altrettante persone dal 1998 al 2016. Come molto azzeccata, per ragioni che riprenderò in chiusura, è la scelta del titolo dato al libro: L’efficacia semiotica.
Nella prefazione Marrone sottolinea il fatto che i materiali raccolti sono solo apparentemente eterocliti perché in realtà, leggendo di seguito le varie interviste, si profila un orizzonte di ricerca con alcuni punti fermi precisi come lo strutturalismo, la testualità, il racconto, l’enunciazione, le passioni, la semiosfera, il dialogo costante con discipline come la linguistica, l’antropologia, la teoria della comunicazione, la storia dell’arte, la critica letteraria. Così, anche se ritornano alcuni temi specifici, evidentemente nelle corde dell’autore (ognuno ha i suoi!) come ad esempio le strategie, il camouflage, gli zombie, la profezia, il falso, il terrorismo, ecc., ciò che struttura in profondità il discorso di Fabbri è una riflessione epistemologica che differenzi la semiotica strutturale da altre possibili, di fatto esistenti e praticate. La lunga parabola professionale e l’immensa cultura gli consentono di tratteggiare, lungo le varie interviste, una storia molto articolata delle idee linguistiche e filosofiche da cui è emersa un certo paradigma semiotico. Come faceva nei suoi corsi, anche in alcune di queste conversazioni Fabbri insiste sull’aspetto socio-storico delle teorie. Rileggendo in particolare Thomas Kuhn, ne sposa l’idea secondo cui in ogni epoca e in ogni ambito disciplinare ci sono delle persone, dei gruppi di individui che credono in alcuni assunti di base e li organizzano in paradigmi sempre più strutturati finché altre teorie, inizialmente confuse e in progress, non li soppiantano relegandoli in soffitta. Quindi anche la semiotica strutturale farà questa fine? È, quella del Nostro, la classica profezia auto-avverantesi? A giudicare da quello che afferma ironicamente l’autore stesso, sembrerebbe di sì: “Ho amici che pensano che la semiotica sia stata una dei più grandi fallimenti intellettuali del secolo scorso, altri, meno amici, che dicono che la semiotica è una moda degli anni Settanta” (intervista con F. Marsciani, 2014). È indubbio che molti filosofi, linguisti, studiosi di letteratura, massmediologi ne hanno decretato da tempo la morte. Se si guardano i loro riferimenti, si nota che questi ultimi non sono aggiornati, e la disciplina viene criticata in base a tre fondamentali pregiudizi: da un lato la si accusa di apporre modelli linguistici a ciò che non è linguistico in senso stretto, come ad esempio la comunicazione visiva; dall’altra di ridurre a modelli narrativi standard, molto semplici e astratti, la testualità complessa; infine, al contrario, la si taccia di dire in modo astruso e complicato qualcosa che può essere parafrasato in maniera semplice, seguendo il senso comune.
La lettura di queste interviste a Paolo Fabbri potrebbe finalmente sgombrare il campo da queste tre visioni del tutto inattuali della semiotica. Innanzi tutto la vastità degli ambiti di applicazione (grandissima, ad esempio, l’attenzione alle immagini) spazza via l’idea che la semiotica possa affrontare solo ciò che è espresso linguisticamente o traducibile sub specie linguistica; ma soprattutto la visione della significazione, e il linguaggio teorico della sua descrizione, sono tutt’altro che semplificatori o inutilmente complicati. Come dice Fabbri nell’intervista che apre la raccolta: “È il mondo che è complicato, non le spiegazioni che ne diamo. Il linguaggio naturale non è ingenuamente dato e semplice e le spiegazioni complicate. No! Il mondo naturale e il linguaggio sono complicatissimi e sono già là. E non possiamo revocarli o ricostruirli. Però possiamo tentare di rispecificarli, e i meccanismi di rispecificazione sono di una grandissima complessità” (intervista raccolta da A. Toftagaard 1998).
Non sarà che la semiotica, oggi, è attaccata proprio perché la sua via, che è quella della complessità, va poco di moda? O perché la sua vocazione formale è vista con sospetto in un’epoca in cui tutto deve essere immediatamente funzionale e concreto? Non dimentichiamo infatti che si tratta di “una disciplina metodologica a vocazione interdisciplinare” e quindi non legata a nessun tema o medium in particolare. Che essa non sia un “prodotto” facile da vendere lo suggerisce Fabbri stesso quando, nell’intervista raccolta da Gianfranco Marrone che conclude il volume (2016), oppone il guru al maestro: il primo, istrionico protagonista di festival, farebbe informazione; mentre il secondo, chiuso per giornate intere in una stanza a dirigere piccoli seminari, farebbe formazione. Proprio questo tipo di lavoro, duro e poco appariscente, renderebbe efficace la semiotica: efficace nel rompere logore consuetudini di pensiero, nel trovare piani di traducibilità fra diversi linguaggi e addirittura nello scovare, attraverso il confronto con l’Altro culturale, cioè che è ancora “impensato” dalla propria cultura. Facendo riferimento al lavoro del sinologo François Jullien, Fabbri dice: “Io non vado verso la Cina, cioè verso l’esotico, ma verso il ‘mio’ esotico, cioè verso qualcosa che non sono riuscito a pensare”. Qui, accanto a mille altri temi contenuti nella raccolta di cui non posso dar conto in questo breve spazio, emerge uno snodo cruciale del dibattito culturale contemporaneo, quello del ritorno all’ontologia. Dice Fabbri: “Quando Eco sostiene che c’è una ontologia di fondo, gli tocca prendere una metafora, lo zoccolo duro. [...] Per questo la cosiddetta deontologia non può essere fondata su principi di funzionamento ‘di ultima istanza’, ma sull’idea di un confronto culturale. È per quello che mi interessa il ragionamento di Jullien, quando dice che la relazione con le culture altre è un saggio di deontologia”.
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
De Mauro, la lingua batteva dove l’Italia duole ancora
Dalla lotta contro l’analfabetismo negli anni ’60 a quella contro gli anglismi e le volgarità dei politici
di Giuseppe Conte *
Tullio De Mauro è stato un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo, nel campo della ricerca scientifica e universitaria, e poi nel campo della politica e della organizzazione culturale.
Insigne linguista, ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega: una carriera tutta nel cuore del potere, ma gestita con una certa indipendenza di giudizio, una vita costellata di successi, ma non senza drammi, se si pensa alla uccisione del fratello Mauro De Mauro, giornalista all’Ora di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970.
Il giovane De Mauro si laurea in Lettere Classiche e intraprende subito l’attività universitaria, insegna filosofia del linguaggio e glottologia, prima di arrivare alla cattedra di Linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sua opera importante è la curatela completa, introduzione, traduzione e commento, al Trattato di linguistica generale di Ferdinand De Saussure, nel 1967, che contiene i fondamenti essenziali di quello strutturalismo che stava per esplodere negli studi non solo linguistici, ma in tutto il campo della critica letteraria, condizionando una intera stagione molto fervida di novità, anche se presto risolta in niente più che una moda. De Mauro, nonostante questo suo lavoro così importante, non fu uno strutturalista. Non partecipò alla appena successiva ondata semiologica. I suoi interessi di studioso lo portano ad ancorare la linguistica alla società e alla storia. Lo testimonia il suo saggio Storia linguistica dell’Italia unita, uscito nel 1963, ripreso molti anni dopo in Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, pubblicato nel 2014 da Laterza. Oltre a tanti altri saggi, che presto virano dal linguistico al sociologico, bisogna ricordare la sua direzione del Grande dizionario italiano dell’uso, in otto volumi (UTET, 2007).
Tullio De Mauro fu risoluto nel combattere l’analfabetismo di ritorno, in un Paese dove pare che soltanto il 20 per cento delle persone adulte siano in grado di seguire un discorso che presenti anche minime difficoltà semantiche e di compiere operazioni matematiche un po’ al di sopra di quelle elementari. Nonostante la difesa dell’italiano, De Mauro non fu mai contrario ai dialetti, li ritenne una ricchezza e una risorsa. Se nel 1974 il 51 per cento degli italiani parlavano il dialetto, oggi la percentuale è scesa al 5. Ma in compenso sono aumentati quelli che lui chiama gli «alternanti», cioè coloro che usano indifferentemente italiano e dialetto, passando dal 18 per cento del 1955 al 44 del 1995. Questa alternanza può diventare miscela, carburante per nuove forme di espressività. Forse come nel «vigatese», forma ibrida di italiano e siciliano di Andrea Camilleri, con cui non a caso De Mauro firma un volume.
De Mauro interviene anche su fenomeni del linguaggio tipici del nostro tempo. Per esempio, prende in esame il turpiloquio dei politici recenti, o la smania di ostentare frequenti e inappropriati anglismi, e giudica entrambi i fenomeni come prove della scarsa capacità di usare al meglio le risorse di una lingua come l’italiano, complessa sin dai tempi di Dante (che per altro nell’«Inferno» non disdegna il turpiloquio, ma certo con una potenza e necessità espressiva che le parolacce udite in Parlamento non hanno). La storia linguistica diventa per De Mauro storia di una comunità e del suo evolversi. Nella prefazione a Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, di Daniele Gouthier e Elena Ioli, De Mauro scrive: «Per Einstein il richiamo al linguaggio comune a ogni essere umano forniva anzitutto un argomento decisivo per affermare la natura profondamente sociale della conoscenza e della cultura». Così, il genio della fisica offre al linguista italiano una conferma delle proprie posizioni.
Era forse fatale che la piega sociologica presa dagli interessi di De Mauro, oltre la sua disposizione all’impegno, lo portasse non soltanto verso la pubblicistica militante, su organi di stampa come Il Mondo, Paese Sera, L’Espresso, ma anche verso la politica vera e propria. Nel 1975 De Mauro è eletto nel consiglio regionale del Lazio, nelle liste del Pci, nel 1976 diventa assessore alla cultura e lo rimane sino al 1978. Dopo un ventennio, dalla ribalta regionale passa a quella nazionale, diventando ministro dell’Istruzione nel secondo governo Amato, dall’aprile 2000 al giugno 2001. Troppo poco per lasciare un vero segno in un campo come quello della scuola, dove si susseguono i disastri, e dove per la stessa ammissione di De Mauro quelle che il governo Renzi ha chiamato riforme sono niente più che «provvedimenti collaterali».
Ultimo viene lo Strega. L’impressione è che lì De Mauro abbia svolto il proprio ruolo cercando meritoriamente di cambiare qualcosa. Ma senza quella vera passione che cambia le cose davvero.
Federico La Sala
L’importanza delle radici
di Gian Luca Favetto (la Repubblica, 15 novembre 2011)
Un festival di letteratura con l’Italia come paese ospite. In cerca di luoghi dove seminare e raccogliere parole, le parole che producono pensieri e sentimenti. Che poi sono i libri, questi luoghi, e sono anche tutti gli uomini che con i libri parlano, comunicano, s’incontrano e confrontano, fanno esperienze, condividono tempo e storie. Si chiama I luoghi delle parole, è giunto all’ottava edizione ed è un festival sparso sul territorio. Dura una settimana e ha casa in dieci comuni piemontesi non distanti da Torino: Chivasso, Settimo, Brandizzo, Caluso, Castagneto Po, Leinì, San Benigno Canavese, San Maurizio Canavese, San Sebastiano da Po, Volpiano.
Quest’anno ha scelto un tema semplice: l’identità. All’ombra del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una trentina di incontri declinano in tutte le possibili forme e sfumature il concetto, l’ipotesi, il dubbio, il sostantivo, la sostanza identità. Che cos’è?, di cosa è fatta?, da dove viene e dove va?, cosa dice oggi e cosa diceva ieri e cosa dirà domani. Se si parla di identità, l’Italia ospite ci sta bene. Come fosse un paese straniero, persino qui, in un lembo di pianura fra Po e Dora. In fondo, e neanche troppo in fondo, l’Italia è un paese straniero. Straniero a se stesso prima che agli altri. Ancora deve conoscersi, sperimentarsi, capirsi, incontrarsi. E non è certo che sia un male.
Detto questo, nell’abbuffata di incontri sull’identità, io parlo di radici, porto le radici. Radici versus identità. Quelle prescindono da questa. Non appartengono allo stesso sentire. Non c’è da far confusione. Le radici sono plurali, l’identità è un monolite cementificato. Le radici camminano, sono viaggio, l’identità è un arresto di tempo che fu. L’identità è dietro, le radici sono davanti. L’identità è un arrocco che difende, le radici entrano in contatto con l’altro, cercano e danno nutrimento, cercano e danno mondo. L’identità ha l’idem dentro, lo stesso, il medesimo, l’omologato, le radici sono differenze che si diramano. L’identità ha denti che mozzicano, strappano, lacerano, le radici non mordono, succhiano. Solo parole, si può obiettare. Ma sono le parole che contano e cantano, e fanno esistere le cose. Nessuna cosa è dove la parola manca, dice un verso del poeta tedesco Stefan George.
Le parole sono fatti: fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza. Le parole sono materia, sono carne e sono architravi. Non bisogna temerle, bisogna usarle. Allenarsi e usarle bene, con cura. Chi ha cura di se stesso e degli altri, di se stesso in mezzo agli altri, cura le parole. Le preoccupazioni vengono da come si usano. Non hanno colpe, non portano colpe, loro; a seconda dei casi, portano senso, fantasie, bisogni, speranze, dolore. E però capita che qualcuno usi identità - aggiungendo l’aggettivo culturale - come una mazza ferrata o un muro di protezione.
C’è chi dice che l’identità culturale sia la madre di tutti i razzismi. Non è così: non è madre, nemmeno matrigna, è zitella. L’identità culturale è la zitella di tutti i razzismi. Arida, non dà frutti, solo pene. Invece, le radici sono l’inizio delle storie, stanno al principio e vanno. Mentre l’identità - con questo accento che sa di passato remoto - è alla fine delle storie, è il loro tramonto. Noi siamo fatti di storie più che di atomi. Grazie alle storie viviamo. Là dove c’è una storia, c’è un uomo. Sono l’uno le radici dell’altra, e viceversa. L’identità è un valzer con se stessi, ogni tanto bisogna cambiare partner
MATERIALI:
L’appello del Presidente Napolitano: "Dobbiamo riguadagnare fiducia come paese" (dal sito del Quirinale)
http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2292
L’appello del quotidiano di Confindustria: "Fate presto" (Il Sole 24Ore)
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-09/fate-presto-225103.shtml?uuid=AapjvGKE
Crisi e mercati, possiamo farcela (Corriere della Sera)
http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_10/debortoli_possiamo-farcela_5eb5c08c-0b60-11e1-ae33-489d3db24384.shtml
Il testo della legge di stabilità (Il Fatto quotidiano)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/09/maxiemendamento-ecco-testo/169583/
Berlusconi, 17 anni di potere (La Repubblica)
http://www.repubblica.it/static/speciale/2011/caduta-di-berlusconi-fine-di-un-epoca/index.html
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni (il Fatto, 22.10.2011)
L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc - facile riconoscerli - nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d’accordo, e intendono mettersi d’accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l’ingegno e la retorica si cerca di convincere l’altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l’ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all’azione, nel senso che l’etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l’etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l’etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L’etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell’esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l’applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell’uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un’innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull’innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L’istituzione è una sorta di casa dell’uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L’istituzione è l’ombra allungata dell’uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l’istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l’istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c’est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell’Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale - l’esperienza insegna - il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l’incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un’attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L’ha scritto quasi cent’anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po’ burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio.
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
L’avanzata dei responsabili tra paradosso e spudoratezza
di Ermanno Rea (la Repubblica, 7 marzo 2011)
Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota: me lo insegnò già al ginnasio un originale professore di storia che mi diede da leggere una sintesi delle famose tesi di Lutero: impara, ragazzo, impara. Siamo uno strano paese, sempre in bilico tra paradosso e spudoratezza.
Oggi si autodefiniscono «responsabili» quei parlamentari, transfughi da varie formazioni politiche, che sono corsi a puntellare il traballante baraccone governativo. Naturalmente, dicono, in maniera del tutto disinteressata, animati da genuino amore per il premier calunniato, insomma senza alcuna ricompensa, in cambio di nulla.
Siamo sinceri: che gli onorevoli in questione affermino amenità simili, e si costituiscano ufficialmente in «gruppo dei responsabili», ci può anche stare: chi dirà mai che si è lasciato sedurre da qualche succosa promessa politica (per esempio dalla riconferma sicura del mandato parlamentare in caso di elezioni) o addirittura da un bel gruzzolo di contanti (mai lasciare tracce bancarie)? Allarmante invece è il fatto che il titolo di «responsabili», sempre meno velato d’ironia, sia riuscito ad affermarsi nel comune gergo televisivo e giornalistico, per cui Tizio e Caio, come che sia, sono dei «responsabili»; piaccia o no, incarnano una delle massime virtù civili e politiche e perciò sono esempi da imitare. Prendiamo Scilipoti. Nei telegiornali è decisamente un «responsabile». Lo stesso accade a Razzi e a Galearo: fanno parte dell’«area dei responsabili», insomma sono la quintessenza della «responsabilità», senza scherzi. La gente ascolta: qualcuno se la ride ma altri ci credono.
Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più.
Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale. Accade anche fuori d’Italia? Forse. Non però in maniera così incisiva, così spudorata. Chi altri sa mentire come noi? Chi altri sa negare l’evidenza con altrettanto trasporto? Prendiamo Berlusconi. È un autentico maestro in questo campo. Alla maniera di un famoso personaggio femminile di Stendhal che, scoperta dall’amante attraverso il buco della serratura tra le braccia di un altro uomo, smentisce l’adulterio con delirante fatuità (ma come, voi credete più ai vostri occhi che alle mie parole?) egli pretende un credito assoluto, anzi cieco, quale che sia la balla che propina.
Si dirà: ma da dove saltano fuori simili personaggi? Possibile che siano soltanto frutti di stagione senza progeniture culturali? Senza precedenti storici? Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità». E scoprendo anche che la propria coscienza - perfino quella di un politico corrotto - vale forse qualcosa di più di centocinquantamila euro che, a ben pensarci, è cifra alquanto modesta, soprattutto per chi, in quanto parlamentare, gode di un reddito più che rispettabile. Dio, che paese di straccioni perfino nella corruzione! Ma siamo caduti veramente così in basso?
Lunedì al Quirinale un incontro su “la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale” nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia *
Il 21 febbraio 2011 alle ore 11.00 avrà luogo al Palazzo del Quirinale un incontro su "la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale", nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
L’evento è promosso dalla Presidenza della Repubblica con la collaborazione dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e della Società Dante Alighieri.
L’incontro sarà aperto da Gianni Letta in rappresentanza del Governo. Seguirà un filmato realizzato da Giovanni Minoli con i materiali d’archivio della Rai. Quindi Giuliano Amato, Presidente del Comitato dei Garanti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, introdurrà l’iniziativa affrontando il tema "La lingua italiana e l’unità nazionale". Seguiranno gli interventi di personalità del mondo accademico e culturale: Tullio De Mauro su "L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica", Vittorio Sermonti su "La voce di Dante", Luca Serianni su "La lingua italiana nel mondo", Carlo Ossola su "I libri che hanno fatto gli italiani", Nicoletta Maraschio su "Passato, presente e futuro della lingua nazionale" e Umberto Eco su "L’italiano del futuro". L’ultimo intervento sarà del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Le riflessioni sul rapporto tra la lingua italiana e l’identità della nazione saranno intervallati da letture di brani letterari che hanno segnato l’evoluzione della lingua nazionale, da parte di Fabrizio Gifuni, Umberto Orsini, Ottavia Piccolo, Toni Servillo e Pamela Villoresi. Due pagine musicali saranno interpretate da Roberto Abbondanza (baritono) e da Federico Amendola (pianoforte).
Nella stessa giornata sarà aperta nella Sala delle Bandiere del Quirinale la mostra "Viaggio tra i capolavori della letteratura italiana. Francesco De Sanctis e l’Unità d’Italia", promossa dalla Fondazione De Sanctis, che sarà aperta al pubblico da martedì 22 febbraio a domenica 3 aprile: "Un viaggio - ha scritto il Capo dello Stato nel catalogo della esposizione - tra i capolavori che hanno radicato in noi il sentimento di appartenere a una comunità di lingua e di ideali".
SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Notizia&key=14465
Per un buon uso delle parole
di Annamaria Rivera (Missione Oggi, n. 4, aprile 2010)
Se, parafrasando Leopardi, si mutassero i detti e si cominciasse a chiamare le cose coi nomi loro, forse si potrebbe contrastare con più efficacia il razzismo dilagante. V’è però che il cattivo linguaggio oppure "solo" tendenzioso è parte del problema. I lessici deformanti, le retoriche e le rappresentazioni negative degli altri o la propensione a mascherare "il male" dietro gli eufemismi sono, infatti, al tempo stesso una delle cause e uno degli effetti di quel sistema complesso e multidimensionale che chiamiamo razzismo: un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche e sociali, di solito caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.
Dunque, per contrastare il razzismo è utile, benché non sufficiente, decostruire e smascherare le parole e le retoriche di cui esso si serve o che inventa, avalla o afferma come se fossero verità indiscutibili.
PER UN’ECOLOGIA DELLE PAROLE
Come scriveva Etienne Balibar nel lontano 19882, la distruzione del sistema-razzismo presuppone tanto la rivolta delle sue vittime quanto la trasformazione dei razzisti stessi, "e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo". Anche se da sola è insufficiente, l’opera di "ecologia delle parole" rappresenta uno dei mezzi, se non per decomporla, almeno per intaccare la compattezza della comunità razzista, e per provare così a metterla in crisi.
Per non rimanere nell’astrazione, conviene fare riferimento alla situazione specifica del nostro paese, caratterizzata, a mio parere, da un razzismo istituzionale tanto estremo e incalzante da alimentare, per il tramite decisivo dei mezzi di comunicazione di massa, forme diffuse di xenofobia popolare. Corollario e nel contempo agente di questo processo è il progressivo scadimento del linguaggio pubblico, che ormai sembra sottratto a ogni freno inibitorio.
Ciò che fino a un ventennio addietro era considerato pubblicamente indicibile oggi è del tutto ammesso. Per meglio dire, la caduta dell’interdetto fa sì che neppure ci si interroghi sulla sua dicibilità: pochi si scandalizzano se qualcuno, per fare un esempio fra i tanti, osa affermare in pubblico che i topi "sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli".
QUANDO SI DICE "BUONISMO" "CPT" E "SICUREZZA"
Ma non v’è solo il consueto fraseggio leghista denigratorio e grossolano, né solo il lessico usuale del disprezzo (assunto perfino dal linguaggio normativo e burocratico) che, come fosse del tutto ovvio, nomina i/le migranti con appellativi stigmatizzanti, inferiorizzanti e de-umanizzanti: "clandestini", "extracomunitari", "badanti", "vu cumprà" o addirittura "vu lavà". V’è anche un gergo del senso comune razzista in apparenza innocente, che usa vocaboli connotati ideologicamente come fossero neutri. Si pensi al neologismo buonismo (e buonista), con il quale si è soliti bollare le politiche inclusive ed egualitarie e i discorsi solidali e umanitari nei confronti dei migranti e delle minoranze.
È un termine che appartiene alla stessa famiglia semantica di pietista, a suo tempo usato come un’accusa contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere, proteggere, aiutare i loro concittadini ebrei.
Quando poi si tratta di mascherare la gravità di misure contro i migranti, si abbonda in eufemismi ingannevoli: per tutti si può citare l’ormai sorpassato ossimoro verecondo "Centri di permanenza temporanea", al quale coloro che non conoscono pudore né interdetti, o che amano sfidarli, hanno di recente preferito il ben più esplicito "Centri di identificazione e di espulsione" (che fra breve potrebbero decidere di sostituire col più sbrigativo lager). E si consideri il ricorso sempre più frequente, quasi ossessivo, a "sicurezza", anch’esso usato a minimizzare la portata di norme emergenziali, anticostituzionali o apertamente razziste come il recente "pacchetto-sicurezza".
"POGROM" E "RAZZISMO": ESAGERAZIONI VERBALI?
Per contro, nominare il male, questo sì è considerato scandaloso: coloro che non temono gli interdetti e che abitualmente ripropongono dicerie, pregiudizi, lessici denigratori richiamano al rigore e alla correttezza verbale chi osa nominare col loro nome le cose del razzismo.
Per esempio, v’è, anche fra i colti, chi obietta che razzismo e pogrom non sono altro che esagerazioni verbali di tipo isterico: che pogrom è quello che non ha come esito il massacro e che razzismo è quello che non contempla esplicite gerarchie razziali, apartheid e soluzione finale? E poi si sa, affermano di solito costoro, a evocare certi fantasmi si rischia di dar loro corpo. "Calunniare come oscurantista chi si ribella contro l’oscurità"’ è una delle strategie retoriche per occultare il male, con ciò perpetuandolo.
Si dirà che queste considerazioni sono secondarie rispetto alla realtà corposa della discriminazione e del razzismo. Eppure è su una montagna fatta anche di cattive parole e di pessime retoriche che si è sedimentato - e riprodotto e legittimato - il razzismo quale oggi si manifesta in Italia.
Non comprenderemmo pogrom come quelli di Ponticelli (con la cacciata dell’intera popolazione rom della zona a sassaiole e insulti) e di Rosarno (con messa in fuga o la deportazione, decisa dalle istituzioni, di tutti i braccianti africani) se non dessimo importanza anche alle parole che li hanno resi possibili: le dicerie - la leggenda della zingara rapitrice che ha scatenato la furia popolare a Ponticelli - e gli insulti razzisti - "questi sono bestie", si è sentito dire a Rosarno da comuni cittadini - non sono secondari poiché fanno parte del meccanismo che dà avvio al pogrom.
Per inceppare e disarticolare la meccanica razzista è d’obbligo cominciare a chiamare le cose coi loro nomi. Per fermarla è necessario che i discriminati, inferiorizzati, perfino deumanizzati si facciano artefici collettivi della propria liberazione e quindi della dissoluzione della comunità razzista.
La lingua usata come un randello
di Francesco Merlo (la Repubblica, 24 aprile 2010)
Il sashimi a Verona lo venderanno sotto il nome di pesse cruo, il kebab a Napoli sarà o piecoro fatto a felle e la bottega di sushi, in italiano ‘involtino di riso e pesce’, a Palermo diventerà sfinciuni. L’italiano che la Lega sta inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito.
La parodia della famosa e già ridicola purificazione fascista, quando al posto di bar fu imposto mescita, i magazzini Standard divennero Standa, il film era la pellicola e un artista di nome Rachel dovette cambiarsi in Rascel (resistendo a Starace che voleva imporgli addirittura Rascele disse: «forse che Manin diventerà Manino?»)
Davvero non ci danno pace i creativi leghisti. Vogliono dunque abolire le insegne in lingue extracomunitarie, tradurle in italiano coltivando l’illusione violenta e impossibile di oscurare i cartelli per strozzare le culture di riferimento, non vedere più le tracce dei cinesi, dei tailandesi e dei musulmani come primo passo verso la loro abolizione, vessarli intanto con il manganello della lingua italiana o peggio ancora del dialetto locale perché la differenza con il fascismo è che alla nazione è stato sostituito il paese, all’Impero il Condominio, alla Lupa di Roma il Pitu (tacchino) di Scurzolengo, al salto nel cerchio di fuoco la gara dei birilli delle donne cuneesi e all’olio di ricino il nativismo e il folklore bergamasco.
Di sicuro l’emendamento proposto ieri è la fotocopia di quel decreto del 1938 che puniva «con una multa da cinquecento a cinquemila lire quei negozianti che vendono prodotti con marchi e diciture straniere». Erano i tempi in cui era obbligatorio darsi del voi e persino la rivista ‘Lei’ dovette cambiare la testata in Annabella («forse Galilei deve diventare Galivoi?» scrisse il giornalista - fascista - Paolo Monelli). Allo stesso modo i leghisti vogliono purificare la lingua non dagli anglismi della perfida Albione e dai francesismi incipriati ma dalle influenze arabe e dunque, se studiassero un po’, cancellerebbero un terzo del nostro vocabolario: niente più algebra e moka per esempio, e niente più arancia e ammiraglio, via pistacchio aguzzino zucchero e azzurro e basta persino con lo zafferano del risòtt; aboliremo Caltanissetta e bisognerà riscrivere la toponomastica e l’onomastica, dovremo rivedere la geografia e la storia oltre che la gastronomia.
Già il votatissimo Luca Zaia, quando era ministro dell’Agricoltura, spiegò a un allibito giornalista del Guardian che l’Italia, non solo per alimentare il consumo e la produzione interna, voleva e doveva tornare alla tavola italiana e che nelle cucine leghiste era già stato preparato il kebab «tutto italiano» negli ingredienti e anche nel nome: muntun afetà.
Ma c’è poco da ridere se si pensa alla trasversalità di questa sottocultura fascio-leghista che lambisce e intride la nostalgia alimentare della sinistra, la quale scopre sia la presunta raffinatezza della cucina dozzinale e sia la necessità del dialetto meneghino, il formaggio con le pere e il mugugno del villaggio brianzolo contro la dialettica dei dialetti e dei cibi imperiali: americano, arabo, cinese, russo, indiano, turco-ottomano.
Anche l’idea di sottoporre a un esame di lingua italiana i commercianti extracomunitari, che a prima vista sembra un pochino più sensata ed è certamente meno ridicola, in realtà finisce con l’essere un’altra tracimazione rancorosa, un’altra delle volgarità gratuite che stanno sapientemente avvelenando il paese. A Tonco di Asti e a Rho è più importante che sappiano usare il congiuntivo i commercianti extracomunitari di magliette o i compratori locali di magliette, quelli che le vendono o quelli che le indossano?
Non ci piace fare il solito spirito sui Bossi, padre e figlio, e sui leghisti che umiliano la lingua italiana pur facendo mestieri più significativi e ben più prestigiosi come il ministro e il consigliere regionale. Ma colpisce che impongano la conoscenza dell’italiano agli stessi extracomunitari che pretendono di tenere lontani dalle nostre scuole sempre più orientate verso un modello regionale e xenofobo.
La scuola della Gelmini vuole contingentare gli stranieri, cacciare i professori terroni dal Nord, sottoporre tutti gli insegnanti all’esame di meneghino, di vicentino e di torinese, con l’obiettivo - l’abbiamo già detto altre volte - di avere una scuola "parteno-siculo-borbonica", un’altra "brianzola-austriacante" e un’altra ancora "papalina-tiberina". I soli a dovere imparare l’italiano sono dunque i "vvu cumpra’" che chiedono la licenza di vendere braccialetti, cinturini d’orologio e cibi etnici. Li mettessero davvero in condizioni di imparare la lingua invece di imporre un esame vessatorio come fosse un anello al naso!
L’arroganza linguistica ha sempre alimentato l’odio. C’è, per esempio, un rapporto tra le foibe e l’imposizione fascista dell’italiano in Istria. La lingua e dialetti, che sono ricchezza, possono anche diventare randelli e arcaiche violenze, fetori che appestano le comunità internazionali, ammorbano il mondo che va avanti a contaminazioni e meticciati.
Irritazione al Colle per le affermazioni fatte dal premier al forum di Confindustria a Parma
Il Cavaliere contro la Consulta, "l’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria"
Berlusconi critica Napolitano
"Controlla anche gli aggettivi"
dal nostro inviato FRANCESCO BEI *
PARMA - Parla con una mano in tasca. Davanti a questi imprenditori, che si spellano le mani a ogni sua battuta, si sente a casa. Chiama la Marcegaglia "la nostra Emma", la Confindustria diventa "la nostra associazione". Che, come un postino, potrebbe anche fargli il favore di distribuire "a tutti i colleghi imprenditori" il libro blu con le "tantissime realizzazioni del governo del fare, che solo a leggerle tutte ci si annoia". Rifiuta la "teoria del declino" italiano e annuncia "riforme in tutte le direzioni", compreso ovviamente il presidenzialismo con il rafforzamento dell’Esecutivo che "oggi non ha nessun potere". Una sottolineatura che lo manda in fuorigioco rispetto al Quirinale, visto che Berlusconi, lamentandosi dei suoi scarsi poteri, ricorda come "ogni provvedimento che esce dal Consiglio dei ministri debba poi essere sottoposto al presidente della Repubblica e al suo staff, che controlla minuziosamente anche gli aggettivi". Una frase che, a detta degli uomini del Cavaliere, non andrebbe intesa contro Napolitano, con il quale anzi "i rapporti sono eccellenti".
Ma che al Colle non è piaciuta affatto: "Non è la prima volta che lo dice e non sarà l’ultima. Certo, stupisce il momento".
La novità è che il premier spedisce in fondo alla lista delle cose da fare la riforma della Costituzione, mettendo in vetrina la riforma fiscale. La riforma istituzionale, annuncia infatti dal palco, "non so se sarà la prima in ordine di tempo, forse la posticiperemo alle altre. Non è un grave problema". Quanto al ministro Calderoli, che ha già portato al Quirinale la sua bozza, Berlusconi gli tira le orecchie: "Calderoli "piè veloce" ha voluto usare la cortesia al presidente della Repubblica di portargli una prima bozza di cui aveva sommariamente discusso con me, ma state sereni, di questa riforma della Costituzione discuteremo in tante sedi. Ci metteremo tutto il buon senso necessario, con l’apertura più totale ad ascoltare tutte le voci".
Promesse agli industriali ne fa poche, si ferma ai titoli. "La vostra richiesta di riforme - assicura - trova la nostra più assoluta condivisione. Dobbiamo liberare i cittadini e le imprese dall’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria". E’ ancora e sempre la giustizia il chiodo fisso ed è ai giudici e alla Corte costituzionale che riserva le stoccate più dure. La Consulta, "essendo frutto di tre successivi presidenti della Repubblica di area di sinistra è fatta da undici membri di sinistra e da quattro Ladi centrodestra". La "patologia della nostra democrazia" è dunque una Corte che "è diventata organo politico anziché organo di garanzia", visto che "abroga le leggi che non piacciono ai pm di Magistratura Democratica". Insiste sulla separazione delle carriere e torna a difendersi: "Continuano a processarmi solo per mantenere l’avversario politico sulla griglia mediatica". Si definisce "il più grande imputato della storia dell’Universo" e promette una rapida approvazione del giro di vite sulle intercettazioni. "Alzi la mano chi di voi teme di essere spiato al telefono", grida nel microfono. E tutta la platea, come ai comizi del Pdl, alza la mano. Attacca anche Santoro, definendo "inaccettabile che si facciano processi sulla tv pagata da tutti". Quindi rivendica le telefonate fatte per bloccare Annozero, anzi "vorrei che fossero tutte pubblicate".
C’è poco spazio le richieste degli imprenditori. Berlusconi loda a piene mani il "rigore" del ministro dell’Economia. "Al signor Tremonti chapeau! Potevamo finire come la Grecia, invece è riuscito a tenere in ordine i conti pubblici". La riforma fiscale si farà, ma con calma: "Ci vorranno almeno tre anni di tempo, anche se spero non servano tutti". Lo applaudono 20 volte in 50 minuti. Poi pranzo con la Marcegaglia e bagno di folla in centro, a piazza Garibaldi.
* © la Repubblica, 11 aprile 2010
INFORMARE PER RESISTERE.
I nostri eroi
di Diego Cugia*
Mi chiamo Diego Cugia, detto Jack Folla, facevo l’autore, lo facevo alla radio e alla Tv, fondai un movimento, “Gli invisibili”, talmente invisibili che se ne vedono pochissimi, parlo di me al passato, sono estinto come le foche monache o le betulle nane, da più di tre anni non posso mettere piede in una radio o in una televisione di questo Reame, sono estinto perché qualcuno ha usato l’estintore, infatti certe parole bruciano, lasciano ustioni sulla coscienza e le ustioni son brutte da vedere, e allora bisogna spegnerle le parole, come si fa per estinguere le fiamme.
Estintore e silenziatore sono gli strumenti della dittatura mediatica, di questo fascismo sottile, i nuovi pompieri del potere hanno sostituito manganello e olio di ricino, oggi non serve spedire i dissidenti al confino, da noi basta e avanza un clic, una lucetta rossa che si spegne, uno studio radiofonico vuoto, buio, un microfono col cappuccio, non sei più in onda, così sei isolato, sei zombie. E “Zombie” è stato il titolo del mio ultimo programma alla radio, Radio24, perché a Radiorai mi avevano già estinto, adesso sono definitivamente scomparso, amen. Io non sono un eroe, né un martire, ero solo un italiano che parlava con sincerità.
Da bambino mio nonno alla domenica mi portava lassù, sulla terrazza del Pincio. Mi portava a vedere il teatrino di Pulcinella. Pulcinella veniva preso a manganellate in testa dal carabiniere e moriva. E da morto strillava: “A carabiniè!” Dio mio quanto mi piaceva questa battuta. Allora il carabiniere gli diceva: “Zitto, sei morto, e i morti non parlano.” E Pulcinella rispondeva: “E io voglio parlà!” Ecco, oggi Gino Strada mi ha risorto e io voglio parlà. Ma non di me, chi se ne fotte di me, l’io fa schifo, io-io-io il raglio dell’asino, no, voglio parlare delle parole, che in Italia non sono più quelle di una volta, come mio nonno diceva delle stagioni. Per esempio proprio queste: le parole martire o eroe.
Un mercenario armato fino ai denti, con un elevato ingaggio economico, che veniva ucciso in zona di guerra, un tempo era un soldato professionista morto nell’espletamento del suo dovere. Che nel caso di un soldato è il dovere di uccidere. Un mestiere (per questo li pagano tanto) che mette in conto l’eventualità contraria, quella di essere ucciso. Da noi, invece, oggi un mercenario morto in guerra armato fino ai denti è un eroe.
Ai tempi in cui nonno mi portava a vedere Pulcinella, -mio nonno era siciliano- mi educava al concetto che i mafiosi erano gentaccia, mala pianta, delinquenti. Oggi il genitore politico di tutti noi italiani, il presidente del consiglio, ci educa al concetto che un mafioso di nome Mangano è un eroe.
Ma da qualche giorno, in Italia, è accaduto qualcosa di clamoroso, qualcosa che ha scombinato definitivamente il mio sistema di valori, tanto che mi sto rivoltando nella tomba. (Tra parentesi sono sepolto qui a Roma, se volete portarmi un fiore sto in via Salaria, a Villa Ada, la prima panchina a destra). Che vi stavo dicendo? Ah si. Il fatto clamoroso. Prima però devo fare una doverosa premessa. Come tutti gli scrittori io ero un narcisista di merda. E’ brutto, è puzzolente essere narcisisti, e ci sono cascato anche stavolta, da resuscitato, porca pupazza l’ho rifatto, vi ho parlato di me, di mio nonno, di Pulcinella e di quella cosa perduta che amo più di una donna perduta: la radio. Ma proprio perché ho questo difetto...proprio perché sono un narcisista, un egoista... io amo chi ama gli altri. Io amo chi si dona. Chi rischia la propria vita per salvare quella degli altri, ecco, quello per me è un eroe. Un faro, un esempio, un modello da imitare. E per tutta la vita mi sono schiaffeggiato dicendo “Impara da questi, scordati del tuo stupido te stesso, donati, datti agli altri e poi dimenticalo.”
C’è un bellissimo verso di un poeta francese, René Char, dedicato agli scrittori, che dice “Affrettati a trasmettere la tua parte di meraviglioso, di ribellione, di amore, e poi disperditi con la polvere. Nessuno saprà la vostra unione.”
Fine della premessa. Allora cos’è successo di nuovo, di clamoroso in Italia? Quale altra parola ha mutato radicalmente senso? Una delle nostre più belle parole, una di quelle che gli italiani dovrebbero lucidare come l’argenteria di casa: volontario. Volontario: il contrario del narcisista.
Fra i miei ricordi di zombie ce n’è uno che mi è particolarmente caro. Quand’ero Jack Folla una ragazza chiese d’incontrarmi prima di partire da volontaria per un Paese africano. Venne a trovarmi qui a Roma. Aveva appena 19 anni, dei sandali da frate, una gonnellina a fiori, e degli occhi così azzurri che il cielo stesso, a guardarli, si sarebbe dovuto vergognare. Stava partendo per andare a dare una mano in un ospedale dei padri comboniani. “Ma vai così, a Fiumicino, adesso, da sola?” Questa piccola infermiera fece la faccia di chi scende un momento da casa per prendere il latte. “Certo. Perché?” E’ morta di Ebola pochi mesi dopo. E in Italia lo sappiamo in tre: il suo ragazzo, sua mamma e io.
Anche per questo, da allora, sono amico di Emergency. Perché stimo queste persone nate per donarsi che poi si sperdono con la polvere, in un’unione di fuoco. E non c’è estintore che tenga. Le loro vite sono grandi notizie accese eternamente che la televisione non ci dà, ma che ci colmano di senso la vita. Perché sono le loro vite che ci danno forza. A me per esempio, da’ forza che esista Gino Strada, e migliaia e migliaia di volontari di Emergency e che ci siate tutti voi, per loro, in questa piazza. Ho dunque appreso dalla televisione italiana che anche questa parola, volontario, nel loro nuovo vocabolario, è cambiata. Ho sentito un ministro, appena saputa la notizia dei tre operatori di Emergency portati via dai servizi segreti afghani (perché, secondo loro, stavano ordendo un attentato), un ministro che ha detto, qualora la notizia si fosse rivelata vera, che si sarebbe vergognato di essere italiano, laddove non si era affatto vergognato di proclamare eroe un mercenario armato fino ai denti. La novità di oggi, quindi, il nuovo sinonimo italiano, è che i volontari sono “terroristi”. I mafiosi eroi di cui vantarsi, i mercenari martiri di cui andare orgogliosi, e i volontari di Emergency terroristi di cui vergognarsi. Neanche Pulcinella l’avrebbe sparata così grossa. Ma in Tv l’hanno confermata: “I tre volontari hanno confessato! HANNO CONFESSATO!”. Chirurghi bombaroli. Non ci si crede. Anche le cazzate non sono più quelle di una volta.
L’altra sera, ad Annozero c’era coso, non mi ricordo mai il nome, quello che si chiama come il burro danese che ho in frigorifero: Lutpak. Ah, no, Luttwak. Ecco Luttwak- faccia- da- burro ha dichiarato che tutte le Ong, le organizzazioni non governative che sfamano le popolazioni in fuga dalle zone di guerra, sono colpevoli di prolungare la guerra. In sostanza il concetto era il seguente: se tu li sfami, invece di lasciarli morire, (che la guerra finirebbe per mancanza di gente da ammazzare), tu, si proprio tu, buona e brava organizzazione umanitaria, sei una guerrafondaia! Se noi paesi occidentali siamo costretti a prolungare la guerra, che adesso si chiama missione di pace, la colpa è tua che ci sfami le nostre vittime e ce le rinvigorisci! Erano mezzi zombie, e tu che mi combini? tu me li fai risorgere davanti così io sono costretto a sparargli di nuovo per colpa tua. Cristo!
E’ proprio vero, caro nonno: le parole non sono più quelle di una volta. Noi sì. Invecchiati, ingrassati, mezzivivi e mezzi morti, noi continuiamo a pensarla con la spietata, celeste franchezza di quando eravamo bambini.
Da adulto, i miei Tremal-Naik, Nembo Kid e Flash Gordon, i miei eroi, sono diventati quelli di Emergency, gli uomini che si danno nell’anonimato, i non narcisisti, quelli che si donano agli altri, salvano la loro vita e si disperdono con la polvere. E io sto con loro. Sono loro i miei eroi, i miei monumenti di polvere che nessuno vede. Non hanno medaglie, né funerali di Stato. I politici li detestano perché questi medici custodiscono la più atroce delle verità: in guerra muoiono più bambini che soldati. E questa è una di quelle notizie che non deve mai arrivare alla pancia degli italiani che si informano in Tv. La loro pancia dev’essere piena di burro Luttwak. Di eroi a rovescio. Di parole tradite. Di guerre chiamate pace per cui nessuno deve vederne il sangue. Perciò fuori dalle palle i giornalisti, le telecamere, i fotoreporter, i volontari e adesso anche i chirurghi che ricuciono quel che noi, missionari di pace, abbiamo fatto a brandelli. Se lo dici, se parli, sei isolato, sei morto. Statevi tutti zitti e buoni davanti alla Tv. Vi diremo noi, a cose fatte, chi era il buono e chi era il cattivo. Io non sto zitto, voglio parlare da morto come Pulcinella, non sto buono, non mangio il burro cattivo, e non guardo la Tv. Io sto con Emergency.
* l’intervento di Diego Cugia alla manifestazione per Emergency in piazza San Giovanni a Roma
http://www.articolo21.org/989/notizia/i-nostri-eroi.html
L’identità culturale italiana e la difesa delle sue radici laiche
di Guido Rossi (Corriere della Sera, 9 febbraio 2010)
Il dibattito sulle radici dell’Europa, che ha preceduto l’approvazione del nuovo Trattato Costituzionale, ha indotto forse a trascurare la questione dell’identità culturale italiana. Riprenderla oggi significa però mettere in rilievo il fitto intreccio che la collega alle altre, ma allo stesso tempo spiegare come essa condizioni il nostro presente. Le radici nazionali sono antiche, varie, profonde, e tra loro sovente conflittuali.
Sono radici, diciamo così, cresciute «storte». Per spiegarne la ragione è bene considerare che ogni cultura è un accumulo globale di conoscenze e costumi trasmessi, attraverso generazioni, al proprio gruppo sociale. Quella italiana, in particolare, ha maturato un carattere unitario nel pluralismo. Un risultato originalissimo, frutto di bilanciamento e composizione dei conflitti che ha trovato espressione nelle tre storiche rivoluzioni illustrate da Carlo Cipolla: quella comunal-cittadina dei secoli XI-XIII, centrata sul mercato e sulla produzione di manufatti; quella scientifica del secolo XVII, caratterizzata dall’incontro proficuo fra conoscenza teorica e tecnica artigianale; e quella industriale dei secoli XVIII e XIX, capace di impiegare i progressi della ricerca a fini produttivi.
Un filo «ineluttabile» - come lo ha definito Cipolla - ha legato fra loro queste tre rivoluzioni, contribuendo a definire la cornice della nostra identità storica. All’interno di essa, un ruolo essenziale lo ha svolto la lingua. È giusto ricordarne alcune tappe fondamentali: la grande letteratura e in particolare la lirica siciliana di Giacomo da Lentini, inventore del sonetto; il ruolo della corte palermitana di Federico II; i toscani e i loro tre grandi trecentisti; l’unità politica e letteraria teorizzata dal lombardo Manzoni. In parallelo, i progressi della stampa con il primo libro italiano nella benedettina Subiaco; a Venezia i grandi editori, quali Aldo Manuzio e Ottaviano Petrucci, che introdusse la stampa musicale a caratteri mobili.
È facile qui rilevare la varietà di provenienza geografica delle eccellenze, e il carattere non conflittuale dei rispettivi dialetti, espressioni della lingua popolare. Dopo di essa, l’arte, ove è marcata l’influenza storica della Chiesa. La svolta viene da Giotto che introduce nella pittura i soggetti borghesi; poi sarà il Rinascimento a inventare l’unità nella prospettiva; e in seguito la cultura italiana si imporrà ancora all’attenzione del mondo concependo l’estetica del barocco (e assai più tardi quella del futurismo) e riempiendo di opere i grandi musei del mondo.
Un rilievo particolare lo merita poi la musica, anche per un suo aspetto esemplare e poco noto. Vincenzo Galilei, padre del celebre scienziato, fu liutista, compositore, teorico e ideatore della monodia come nuovo stile di canto. La famiglia Galilei simboleggia dunque un collegamento diretto fra arte e scienza nello studio delle note e dei numeri (del resto i pitagorici affascinavano Giordano Bruno).
Una simile contaminazione si può ritrovare anche nella teoria politica (la filosofia mazziniana della musica, con il relativo rapporto fra Dio e popolo) e persino nella pratica diretta (la celebre identificazione patriottica nell’acronimo sabaudoverdiano, W VERDI). Del resto, nella storia della musica si può riscontrare la stessa cifra di unità pluralistica: l’Orfeo di Monteverdi, prima opera italiana, vede la luce a Mantova nel 1607, mentre brillano di luce propria Napoli e Venezia.
Ne segue un’osservazione generale. È erroneo individuare una dicotomia tra umanesimo e scienza, come pure tra quest’ultima e la tecnica: vale per tutte l’immagine di Galileo impegnato a confrontarsi con gli artigiani nell’Arsenale. È invece nella sofferta conquista della laicità, intesa come unione di scienza e libertà, aperta anche al riconoscimento della funzione civile della religione, che si ritrovano le cause di quella «stortura» cui accennavo all’inizio.
È nello scontro con la Chiesa di Roma che i nostri grandi intellettuali sperimentano la durezza della repressione: Giordano Bruno è bruciato nel 1600 al Campo dei Fiori; Campanella subisce 27 anni di galera; Galileo è costretto all’abiura per salvare la pelle. La strada della laicità e della sapienza civile, dall’Alberti a Machiavelli, da Vico a Sarpi, è segnata fin dall’inizio dal conflitto, dalla durezza dello scontro con il potere religioso.
Ancora nel 1764 sarà questa esigenza di laicità ad accendere i lumi di Beccaria, e a spingere anche il Manzoni, nella «Storia della colonna infame», a rifiutare la pena di morte. È toccato alla grande politica il compito di comporre il conflitto: dal concetto cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato» all’introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con l’articolo 7. La laicità coincide dunque storicamente con la ricerca di unità nella democrazia costituzionale.
Ma due grandi questioni ancora ci condizionano: il rapporto con la Chiesa di Roma e le persistenti diversità fra Nord e Meridione. Il primo, emerso con chiarezza durante il lungo dibattito sulle radici dell’Europa, deve fare i conti oggi con la pericolosa identificazione, da parte di Joseph Ratzinger, della identità europea con la cristianità. Adottando il concetto di jus publicum europaeum di Carl Schmitt, che sfocia in una contrapposizione totale fra Europa cristiana e ciò che le sta intorno, Benedetto XVI con l’enciclica «Caritas in Veritate» si è allontanato dal sogno laico di Kant, inteso come jus publicum cosmopoliticum. Dal discorso di Ratisbona del 2006, grecità e illuminismo vengono arruolati dal Papa sotto la bandiera della ragione cristiana e cattolica.
Ribadire invece le radici laiche dell’identità culturale italiana, significa oggi non solo fare opera di verità storica, ma anche porre le premesse per una ricomposizione unitaria nella democrazia costituzionale. Quanto al problema delle diversità culturali degli italiani, esso presenta una doppia faccia. Quella laica, modellata sul federalismo del Cattaneo, attenta alle prerogative locali, composte nell’autorità di un parlamento federale. E quella secessionista, nella storica variante meridionale e oggi, soprattutto, in quella aggressivamente nordista, con sullo sfondo l’incognita del federalismo fiscale. Una risposta della politica, al tempo della Costituente, è stata l’istituzione delle Regioni a statuto speciale.
Andare oltre, oggi, dovrebbe significare riscoprire il Salvemini del 1949, che assimilando gli attuali «padani» ai «terroni» come un busto è attaccato alle gambe, concludeva: «I nordici devono occuparsi dei sudici, se non vogliono ritrovarsi a mali passi». A volte si è tentati di credere che davvero, da noi, tutto cambi restando uguale.
Rileggere oggi il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani», scritto nel 1834 da Giacomo Leopardi, significa ritrovare, come fotografate ieri, le debolezze della cultura nazionale, e in particolare quel diffusissimo cinismo pratico, unito alla mancanza di una vera società civile in cui comporre i conflitti, che induce i più a «mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi».
Ma non è il caso di rassegnarsi a simili costanti. La storia della cultura italiana, nella sua incomprimibile varietà, ci ricorda che, proprio nei momenti difficili, più gravi essi sono, più gli italiani reagiscono.
Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
la sua bellezza è nella continua evoluzione
Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne
di STEFANO BARTEZZAGHI *
C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").
Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.
Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.
La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
"In principio c’era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani (la Repubblica, 9.11.2009)
Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c’era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell’annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l’opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all’origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c’è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l’elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un’idea non condivisibile, per non dire che è un’idea sciagurata».
L’adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all’infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all’uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l’esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all’interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.
Di Pietro: i cittadini devono sapere, il regime avanza
di Marcella Ciarnelli *
Attacco alle istituzioni. Interesse privato. Antonio Di Pietro non tradisce il suo stile e va all’attacco del governo di Silvio Berlusconi, che ieri ha provveduto all’approvazione del Lodo Alfano, sfoderando l’arma dei referendum abrogativi.
Onorevole Di Pietro, un’altra legge salva premier con l’iter blindato in Parlamento?
«Come giustamente è stato notato anche dal Partito democratico in riferimento al Dpef e alla legge finanziaria, si sta svuotando totalmente la funzione del Parlamento, che è diventato semplicemente un organo di passaggio e ratifica di decisioni che vengono prese in altri luoghi. Un metodo che non va. Ancor meno il merito. Questa è un’avvisaglia importante del regime che ci aspetta a cui voglio aggiungere anche il tentativo di zittire ogni forma di controllo, vedi la vicenda della Commissione di Vigilanza».
Come si contrasta?
«Credo proprio che sia necessario informare bene l’opinione pubblica sul futuro che ci aspetta. La manifestazione che terremo l’8 luglio è una prima risposta di quell’altra Italia che non ci sta a chiudere gli occhi e a farsi prendere in giro da un imbonitore che dice una cosa e ne fa un’altra, parla di sicurezza e fa leggi contro la sicurezza. Parla di libera informazione e fa leggi contro la libera informazione, parla di rilancio delle infrastrutture e dell’economia e propone norme punitive sia per lo sviluppo del Sud e che per il federalismo fiscale».
Berlusconi lavora per sé?
«Il presidente del Consiglio a fronte delle emergenze vere del Paese sta truffando letteralmente, non solo politicamente, i cittadini facendo credere che questi provvedimenti servano alla sicurezza, al rilancio dell’economia, alla governabilità, alla credibilità delle istituzioni. Invece se li valutiamo uno per uno, con la lente di ingrandimento, interessano solo lui».
È la P2 che ritorna?
«Berlusconi non sta ragionando da lupo braccato per l’esasperazione dei suoi guai giudiziari, ma è la longa manus di un progetto mai sopito, sempre presente nelle nostre istituzioni. Preoccupazione che peraltro, lo stesso presidente dell’Antitrust ha rilanciato l’altro giorno, quando ha detto che è neccessario fermare i cartelli. Il progetto di asservire le istituzioni e gestirle nell’interesse di pochi è più che ma attuale. La dimostrazione è nel fatto che se c’è qualcuno che gli mette il bastone tra le ruote lo si ferma, se bisogna cambiare una legge si cambia, se c’è bisogno di criminalizzare un’istituzione, si fa. Anche Benito faceva così».
I numeri in Parlamento sono quelli che sono...
«Abbiamo deciso di fare un’opposizione parlamentare ma anche d’informazione. Vogliamo parlare alla gente, non ai partiti. Attraverso il Parlamento e le nostre manifestazioni vogliamo far sapere agli italiani che in realtà hanno votato una truffa».
Parlamento e piazza?
«Certo. E anche rete».
E poi i referendum?
«Sette, che dovranno servire a formare ed informare. Vogliamo chiamare a raccolta i cittadini per dire no ad un grappolo di leggi che, messe tutte insieme sono, l’esemplificazione del regime che verrà. Vogliamo liberare l’informazione, liberare l’economia, liberare la giustizia».
C’è tempo per la raccolta?
«Abbiamo una procedura da rispettare. Ovviamente non si può depositare il quesito prima che il provvedimento sia diventato legge. Ma soprattutto non lo si può depositare nei sei mesi successivi all’indizione dei comizi elettorali. Quindi il 13 settembre. E non si possono depositare le firme dopo il 30 settembre se lo vuoi far valutare dalla Corte di Cassazione entro il 30 novembre. Altrimenti si va all’anno successivo. Per cui noi lanciamo da subito l’allarme firma, per poi andare rapidamente alla raccolta vera e propria, in modo di far sì che l’anno prossimo si voti per le europee ma anche per il referendum sulla legge elettorale, già previsto, e per quelli per i quali ci siamo impegnati».
Questo è un paese normale?
«Berlusconi e i suoi hanno detto che vogliono un Paese normale. In realtà ne vogliono uno normalizzato, in cui non si deve disturbare il manovratore ed in cui il popolo deve essere un po’ più suddito. Una volta c’era l’olio di ricino e adesso le veline di turno».
* l’Unità, Pubblicato il: 28.06.08, Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.25
IL COMMENTO
Il luglio del Cavaliere
di GIUSEPPE D’AVANZO *
BERLUSCONI scatena sempre l’inferno quando saltano fuori en plein air le sue performance ai bordi (o al di là) della legge. Una memoria acustica non più protetta dal segreto racconta la materia delle mirabilia di tycoon e delle fortune di premier. Sono parole che possono finalmente spiegare la natura della sua odierna, frenetica "ossessione giudiziaria"; la direzione dei passi di oggi, le iniziative di domani imposte come capo del governo a un Parlamento obbediente.
È il magnate delle televisioni e, come capo dell’esecutivo (2001/2006), ha promosso i suoi rampanti ovunque. Nella Rai, impresa concorrente, e nell’Autorità di controllo sulle comunicazioni, dove sistema un famiglio che lo chiama "il Gran Capo" Nelle conversazioni, pubblicate ora da l’Espresso, Berlusconi - manco fosse ancora a Palazzo Chigi e in Mediaset - tira i fili e li riannoda in uno stesso gomitolo dove si intrecciano sinergie affaristiche; il pubblico e il privato; passioni personali; piccole utilità private; convenienze d’impresa; promesse di favori futuri per chi gli si mostrerà devoto anche se lavora per il competitore (è il caso di Agostino Saccà); oscure trame politiche tese a ribaltare il governo Prodi, a ottenere il "salto della quaglia" di un pugno di senatori "ulivisti" (siamo nel 2007). Tornano utili, in questi casi, anche le fiction dove sistemare le "protette" di questo o di quello o anche le sue personali, magari irritate da un’improvvisa disattenzione e diventate "pericolose".
La scena che si scorge è il fondale buio in cui immaginavamo si costruissero gli affari fortunati e i successi politici di Silvio Berlusconi. Controllo pieno dell’intero sistema televisivo; insofferenza alle regole. In una formula ormai affogata nell’oblio, il teatro di un conflitto d’interesse dispiegato e catafratto dove la politica si sovrappone all’impresa; l’impresa alle strategie politiche; addirittura la vita privata alle decisioni pubbliche.
Di questo si dovrebbe discutere, no? Di un conflitto d’interesse maligno, ormai metabolizzato dalla politica e dall’opinione pubblica, quasi rivendicato come un diritto sacro. Del risibile fervore di Autorità di controllo (l’Agcom) che nascono servizievoli e quindi morte, se affidate al controllato. Di un mercato e di una concorrenza degradate a beffa per gonzi. Di un servizio pubblico radiotelevisivo appaltato ai potenti di turno per lotti, anche nei più arrischiati angoli.
Il premier non se ne dà per inteso. Non conosce alcuno scrupolo, si sa. Nei canoni immaginati dalla iustitia secundum Berlusconem, la privacy è un valore supremo, qualunque cosa, buco nero, gesto gaglioffo, riveli. Donde il divieto di indagare (è già in parlamento il disegno di legge che vieta, per la gran parte, l’uso delle investigazioni acustiche). Come dire che rivendica il diritto di non essere scoperto. Diritto che deve accompagnarsi, dice, al dovere del giornalismo di tacere, nascondere, dimenticare, pena la galera e la disgrazia finanziaria.
"Addetti alla corvée dell’urlo", così li chiama Franco Cordero, saltano allora come jack in the box (sono i fantocci a molla che scattano dalla scatola) e gridano forte. Tutto sta nel gridare fino a soverchiare i fatti, a farli fluttuare e a crearne di fittizi, a parlare di quelli. Soltanto di quelli. Naturalmente declinando in ogni lingua la parola "complotto" perché il Capo avverte ogni regola, limite o dissenso come un atto persecutorio. Complottano così la solita opposizione "comunista"; i pubblici ministeri annidati come neoplasie nel corpo sano della magistratura; i giudici infiltrati nei tribunali per staccargli la testa; ogni foglio che non sia laudatore o muto e cieco.
Lo strepito, sostenuto dalla rituale tempesta mediatica, dovrebbe farci dimenticare che non vuole essere giudicato. Si considera legibus solutus. Unto dal voto, ritiene di rappresentare un potere intoccabile, "divino" e non solo carismatico perché custode del "potere costituente del popolo" che lo sistema al di là e al di sopra del feticcio costituzionale e di ogni altra autorità dello Stato (figurarsi di funzionari vincitori di un concorso). Il mondo è lui. L’Italia è lui.
È agitato perché lo attende un luglio macchinoso. Molti nodi possono venire al pettine. Il 4 luglio a Napoli si decide se chiedere l’utilizzo delle conversazioni registrate con il boss della Rai a cui promette affari. Il 7 luglio, udienza a Milano per l’affare Mills (Berlusconi è accusato di aver comprato una testimonianza: corruzione in atti giudiziari). 8 luglio, udienza preliminare contro Agostino Saccà. Il 10, la Corte d’Appello di Milano avvia la discussione sulla "ricusazione" del presidente del tribunale che, in quella città, lo sta giudicando (il processo è agli sgoccioli). 14 luglio, ultima udienza milanese prima della pausa estiva. 18 luglio, il giudice dell’udienza preliminare di Napoli decide se c’è materia degna per rinviarlo a giudizio per corruzione di Saccà, incaricato di pubblico servizio (se si dovesse decidere di distruggere le intercettazioni, si sarebbe grattato la rogna).
Come è già accaduto in passato, con i processi milanesi "Sme" e "Mondadori", Berlusconi - ritornato a Palazzo Chigi - gioca su quattro tavoli contemporaneamente. 1. A Milano e a Napoli scatena i suoi avvocati-consiglieri-senatori-quasi ministri con qualche trucco tecnico, cavillo perditempo, asfissia ostruzionistica come la "ricusazione" del giudice. Occorre tempo, è prezioso. 2. Alle Camere corrono i disegni di legge che possono manipolare o addomesticare i giudizi. In passato, si sono aboliti reati (il falso in bilancio) o fonti di prova (le rogatorie). Oggi, è all’approvazione della Camera (il Senato ha già obbedito) la sospensione per un anno del processo milanese (poco conta che è stato necessario congelarne altre migliaia). Domani, prenderanno a correre le norme sulle intercettazioni che avrebbe voluto decreto con forza immediata di legge (se approvato, come si potrà autorizzare l’uso di quelle memorie acustiche che lo imbarazzano e forse lo dannano?). 3. Meglio non fidarsi e dunque a Milano, come già nel passato il suo sodale Previti, proporrà la fuga dal suo giudice naturale: l’ambiente giudiziario milanese è infetto, empio, politicizzato. È sul quarto tavolo, però, che giocherà la carta vincente. Il Parlamento è una bottega sua, è pronto ad approvargli una definitiva legge immunitaria. Recita: il Capo non è giudicabile. I processi si sospendono automaticamente. Finché siede a Palazzo Chigi, la sua posizione resta nel limbo. Rieletto - magari al Quirinale, come desidera - recupera l’immunità. La corsa a ostacoli annuncia mostri giuridici e sgorbi costituzionali. Vedremo come reggeranno gli equilibri e quale piega prenderanno le cose italiane.
INTERCETTAZIONI: DI PIETRO, BERLUSCONI MAGNACCIA
CAMPOBASSO - Prima l’attacco a Berlusconi sulla vicenda delle telefonate con Agostino Saccà. "L’allora aspirante capo del governo - ha detto il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro - mi sembra facesse un lavoro più da magnaccia per piazzare questa o quella velina". Poi la promessa di una linea di condotta sempre più dura: "Il nostro compito è quello di fare un’opposizione - ha continuato Di Pietro nel corso di una conferenza stampa stamattina a Campobasso - responsabile, che non ha gli occhi chiusi, che conoscendo chi c’é dall’altra parte sa che se lo si lascia fare ci porterà a essere più sudditi e meno cittadini".
"Berlusconi sta utilizzando tutto questo tempo in parlamento per farsi le leggi che servono a lui, soprattutto una legge che gli permette di non essere più processato, fosse manco il Padreterno", sottolinea Di Pietro sul nuovo "lodo Schifani" sull’immunità alle alte cariche dello Stato. "Noi dell’Idv - ha confermato l’ex ministro - faremo un referendum per permettere ai cittadini di abrogare questa legge in modo che anche lui sia uguale agli altri".
"L’azione politica di questo governo mi sembra piduista e non so fino a che punto - ha aggiunto Di Pietro - la volontà sia solo di Berlusconi. Il Parlamento è stato svuotato dalle sue funzioni, si fanno solo decreti legge. Ieri il Csm ha espresso un parere su una legge che hanno fatto e loro hanno detto: cambiamo il Csm".
Ma a tenere banco sono sempre le dichiarazioni sulle intercettazioni tra Berlusconi e Saccà: "Le intercettazioni - ha poi insistito Di Pietro - offrono uno spaccato di questa classe dirigente italiana che ci fa vergognare, e dicono anche che non si devono pubblicare le intercettazioni". "Per un giochetto a Clinton gliene hanno fatte e dette di tutti i colori, qui se senti le intercettazioni telefoniche... voglio dire: vendevano parti di film piuttosto che di fiction e quant’altro utilizzando i soldi della Rai, soldi nostri, soldi del canone. In cambio di che cosa? Quella è bona, quella è bella, quella c’ha le tette grosse. Ma insomma, abbiate pazienza, fate gli statisti o i magnaccia?", ha concluso Di Pietro.