La fenomenologia al centro della attualità determinata dal dibattito sulle neuroscienze
Un saggio di Vincenzo Costa titolato «Il cerchio e l’ellisse», pubblicato da Rubbettino, ripercorre la strada che porta da Brentano alle più recenti ricerche sulla percezione
di Fabrizio Palombi (il manifesto, 15.01.2008)
Oggi la fenomenologia è protagonista di una singolare vicenda che confonde ruoli intellettuali consolidati. Numerosi filosofi della mente propongono di naturalizzarla, ricorrendo alle recenti scoperte della neurologia per spiegare le indagini fenomenologiche della percezione e della coscienza sul piano scientifico, con non pochi problemi teorici, dal momento che già Edmund Husserl aveva tra i suoi principali bersagli polemici proprio l’atteggiamento naturalista. Qualche anno fa Francisco Varela ha coniato il termine neurofenomenologia attribuendogli una valenza di battaglia per differenziarla dalla cosiddetta neurofilosofia di matrice angloamericana. L’originario intento polemico si è rapidamente smarrito e questa sorta di ossimoro si è serenamente aggiunto al lungo elenco di neologismi che giustappongono al prefisso neuro le discipline più disparate, tra le quali l’economia, l’estetica, la teologia e la politica.
Per parte sua, Vittorio Gallese, membro dell’équipe che ha scoperto i neuroni specchio, ha proposto un percorso teorico inverso, interessato a fenomenologizzare le neuroscienze, ritenendo importante mantenere la distinzione tra spiegazione scientifica e comprensione filosofica, alla quale va affidato il ruolo di generare le domande e i problemi che contribuiscono ad alimentare la ricerca neuroscientifica.
È su questo sfondo che va letto il saggio di Vincenzo Costa titolato Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Rubbettino, 2007), alcune pagine del quale si rivelano utili a alimentare anche la riflessione filosofica sulle neuroscienze. Sono brani nei quali viene chiarito il senso della ricerca fenomenologica prendendo in esame le indebite confusioni con quella scientifica, e affrontando l’attualità filosofica senza lasciarsi travolgere dalle polemiche contingenti, bensì tornando a indagare le fonti storiche e teoriche.
È un orientamento, questo, che caratterizza il testo sin dal suggestivo titolo in cui si evoca un esempio originariamente proposto dal maestro di Husserl, il filosofo tedesco Franz Brentano. L’esempio è quello della pavimentazione di piazza S. Pietro, dove sono collocate due pietre che indicano i punti dai quali si può vedere il colonnato a pianta ellittica del Bernini come un cerchio. Il visitatore, rassicurato sulla salute dei suoi occhi, sa che sta percependo l’edificio come distorto, a causa della sua speciale prospettiva. Questo esempio di natura barocca illustra l’interpretazione prospettica del reale tipica della fenomenologia, attraverso cui viene ripensata la tradizionale articolazione filosofica tra essere e apparire.
Adottando il lessico fenomenologico usato da Costa, si può dire che «la cosa non è al di là dell’apparire, ma è proprio ciò che appare». Un assunto che si riflette sul dibattito filosofico dal quale avevamo preso le mosse, mostrando come l’indagine fenomenologica della percezione possieda una metodologia e un senso profondamente diversi da quelli scientifici, poiché il suo campo non è quello degli eventi fisici cerebrali ma quello dell’esperienza. Anche se conoscessimo con sufficiente precisione quali neuroni si attivano, e come, quando percepiamo, non perciò potremmo affermare di conoscere il significato del percepire, così come un cieco non riuscirebbe a avere esperienza del colore rosso, poniamo, studiando un manuale scritto in braille sulla teoria elettromagnetica della luce. Non cogliere il significato filosofico di queste distinzioni porterebbbe a commettere quel peccato gnoseologico originale individuato da Husserl, che consiste nel confondere la teoria della conoscenza con la psicologia.
Secondo Costa, anche l’idea che sta alla base di quella che oggi chiamiamo teoria computazionale della mente non è nuova e, almeno nella sua «possibilità di principio», già Brentano l’aveva criticata per la sua inadeguatezza. Tra le pagine del libro viene anche denunciata la leggerezza con cui alcuni studiosi lasciano cadere il primato trascendentale della coscienza per abbracciare il realismo naturalista, una scelta che, secondo l’autore, equivale a prendere congedo dalla fenomenologia; e d’altra parte contribuisce a mettere a fuco alcune difficoltà dell’orientamento neurofenomenologico. Il senso dell’evidenza husserliana, alla quale Costa dedica il suo testo, implica il fatto che la nostra coscienza assuma «l’oggetto come esistente in sé», e per coglierlo l’autore affronta alcuni nodi fondamentali della filosofia moderna indagando la «struttura della ragione» costituita dalle operazioni che permettono di accedere a tale forma dell’oggettività. Sono molte le analisi in merito sviluppate tra queste pagine, e quelle forse meglio comprensibili e più efficaci riguardano la reiterabilità degli atti percettivi. Una cosa continua a «esistere anche quando di essa non abbiamo alcuna percezione» in forza del tratto caratteristico dell’evidenza husserliana, che non è mai singola ma infinitamente ripetibile.
Secondo Vincenzo Costa, l’esistenza in sé delle cose marca la differenza tra la fenomenologia, che riconduce la stabilità del mondo al soggetto, e il fenomenismo, che dissolve la realtà negli atti soggettivi: la differenza è fondamentale e evita di trasformare la coscienza fenomenologica nella trappola di un «cerchio incantato», in cui la filosofia finisce talvolta per cadere.
Sul tema, si cfr.:
"X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. -Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI"
SCHEDA EDITORIALE DEL LIBRO:
Vincenzo Costa
Il cerchio e l’ellisse
Husserl e il darsi delle cose
L’epoca moderna si apre richiamandosi al principio di soggettività. Tutto ciò che appare deve manifestarsi a un soggetto. E tuttavia, proprio questa riconduzione al soggetto finisce per dissolvere la nozione stessa di razionalità, in quanto il reale e l’oggettivo (le cose) vengono confuse con gli atti soggettivi in cui si manifestano. Così, il mondo stesso e le cose del mondo divengono eventi mentali, qualcosa che accade “dentro” la coscienza.
In questo libro, a partire da una lettura del percorso filosofico husserliano, ci si interroga sulle ragioni che hanno prodotto questo tipo di deriva, e si indica che, nel padre fondatore della modernità, in Descartes, non vi è una riduzione alla coscienza, ma una riduzione della coscienza, e dunque che la sua nozione di evidenza si installa sulla rimozione della manifestatività delle cose. Vengono così reinterpretati e rivisitati, a partire da Husserl, le nozioni fondamentali della filosofia moderna: sensazione, evidenza, datità, trascendentale, soggettività, immanenza, trascendenza, idealismo, realtà, seguendo però sempre come traccia l’idea secondo cui se il reale si costituisce in una coscienza questo non significa che la coscienza lo costruisca, ma, più semplicemente, che essa è il luogo dell’accogliere, in cui il reale si annuncia.
(2007) pp. 196
€. 10,00
Il corpo vivo, tra una situazione limite e l’altra
Una recensione a ‘Il corpo vivo nel mondo’, di Thomas Fuchs
di Paolo Colavero *
"[...] Si tratta infatti di una raccolta di lavori di Thomas Fuchs, scelti e tradotti da Valeria Bizzarri e Raffaele Vanacore [Giovanni Fioriti editore], filosofa e psichiatra che di Fuchs sono stati allievi ad Heidelberg.
Una raccolta di cui si sentiva il bisogno.
Intanto, anche solo se i luoghi vogliono dire qualcosa, come intuisce - senza dirlo esplicitamente - Gilberto Di Petta nella sua prefazione alla raccolta, e come invece giustamente sottolinea Valeria Bizzarri, allora c’è da aprire con grandi aspettative questo testo, figlio innanzitutto di un ambiente particolare. Heidelberg è infatti in qualche modo la città-architrave della fenomenologia continentale, luogo che fu di Kraepelin, Gruhle e di Jaspers, luogo che ha visto l’incontro di Schneider e Callieri (occasione che quest’ultimo ci ha spesso raccontato di persona, descrivendoci sin anche il plaid con il quale il grande psichiatra tedesco teneva al caldo le proprie gambe). Heidelberg, luogo di studio e riscoperte, di incontri accademici mai più ripetibili.
È in questo luogo mitologico tra pianura e foreste, sulle rive del fiume Neckar che proprio ad Heidelberg fa il suo ingresso nella valle del Reno, che il prof. Fuchs svolge da molti anni la sua attività di ricercatore, psichiatra e fenomenologo al limitare del mondo delle idee e di quello dei corpi.
Ed è proprio invece in quella zona limite che è nostro inosservato habitat quotidiano - nella confluenza di mondo, soggetto e corpo - che il presente libro introduce il lettore. [...]
Fuchs, introdotto e circondato amorevolmente dagli scritti dei curatori, si muove sicuro e con grande maestria concettuale, tecnica e scientifica, di citazione in appello, all’interno di un pensiero che vede superato definitivamente il dualismo mente-corpo e soggetto-mondo. Non a caso, infatti, il titolo rimanda ad una dimensione senza soluzione di continuità, perché viva e pulsante; rimanda all’appello dei corpi e delle prospettive all’interno del mondo, ad una prospettiva che brilla sulla superficie dei rapporti, dell’intercorporeità vissuta, affettiva, sentita e agìta. Si tratta di un pensiero che si fa immediata comprensione vissuta dell’altro nel lettore, nel lavoro clinico e teorico del lettore, nella sua pratica di relazioni umane, affettive, terapeutiche. Un pensiero che, tra le altre cose, parte fenomenologicamente dal mettere in discussione l’ovvietà del concetto di movimento, portandolo al centro di una danza condivisa (p. 18) osservabile solo dopo aver sospeso la nostra abituale sosta aproblematica presso le cose, e gli altri:
Dopo una, appena implicita, richiesta al lettore - quella ovvero di sospendere ciò che conosce e che lo relega in precisi schemi di scuola, preconcetto e conoscenza - il discorso-sul-corpo, in questo testo, si fa discorso-del-corpo, dialogo vivo per immagini e materia, alla ricerca dell’origine, della fonte prima di differenti fenomeni: dalla socialità umana alla psicopatologia, dall’autismo alla comprensione empatica.
In questo testo, il corpo, ma non solo, il mondo, l’atmosfera e la relazione si liberano dal peso della tecnica per adire a quello della visione delle meccaniche trascendentali delle relazioni, che appaiono in qualche modo riprodotte (e con ovvie difficoltà, visto l’oggetto) nei numerosi schemi con i quali si prova a dare senso visivo a quanto spiegato a parole, così come lungo il testo siamo invasi da immagini e movimenti impercettibili che, ne sono certo, compiamo leggendolo sulla base di nostri ricordi e schemi motori che vengono richiamati dalle parole dell’autore (si veda, tra tutti, l’esempio dei giocatori di football, p. 12):
Lungo tutto il testo siamo nell’area crepuscolare del preriflessivo, dell’embodiment, del corpo-che-sono, del Leib insieme e oltre il Körper. [...]
[...] Fuchs, in uno dei capitoli che più mi sono rimasti in mente, cita il trauma e la vulnerabilità quali situazioni limite (p. 116 e oltre), ed è proprio questo ciò di cui si tratta, con cui si tratta quando abbiamo a che fare con delle persone alle prese con il proprio corpo, con il proprio mondo malato, con il proprio corpo che è divenuta una minaccia, il proprio corpo vulnerabile, il proprio mondo ferito. L’angoscia è la chiave della serratura, in tutti i casi. L’angoscia è la chiave della serratura psicotica, così come è la chiave della serratura organica. La chiave che scoperchia un mondo, che apre il sipario sulle quinte, che “toglie il tappeto da sotto i piedi” (Jaspers, citato p. 116) [...]".
* Psicologia Fenomenologica, 31 gennaio 2022 (ripresa parziale).
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
"CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT) E DEL "MONOMITO" (JAMES JOYCE). UN OMAGGIO A JOSEPH CAMPBELL
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
Siamo mito
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi” ; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così : “l’idea elementare è radicata nella psiche ; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145) ; si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali : una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive : “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung : il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo ; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921 ; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo :
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione :
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio” ; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione : vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico :
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico"):
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una traccia per la lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di procreare, non ho l’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere l’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui un distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto l’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nel distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. Le tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire l’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata.
Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE ILLUSIONI DEL "CERCHIO INCANTATO" E ... LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") *
Johannes Keplero
Com’è armonico il mondo
Cade quest’anno l’anniversario della scoperta della terza legge dei moti planetari. Ma il senso delle sue opere era proclamare la gloria di Dio studiando la natura
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
I libri, si sa, vanno quasi sempre incontro a un destino che si cura assai poco delle intenzioni di chi li ha scritti. Una volta pubblicati, prendono la loro strada e finiscono irrimediabilmente in balìa dei lettori, che se ne appropriano spesso in modo selettivo. Non stupisce quindi che l’Harmonice mundi (1619) di Johannes Keplero sia oggi ricordata soltanto perché vi si trova esposta la terza legge dei moti planetari, di cui proprio quest’anno ricorre il quarto centenario della sua scoperta, avvenuta il 15 maggio 1618. Esattamente come la sua opera precedente, l’Astronomia nova (1609), è nota per l’enunciazione delle prime due leggi, quelle cioè che stabiliscono che i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche e che con i loro raggi condotti verso il Sole descrivono aree uguali in tempi uguali.
Sembra insomma che il senso e il valore delle opere di Keplero siano compendiati nelle tre leggi che portano il suo nome e che tutti abbiamo imparato a scuola. Come se fosse irrilevante che il loro autore le avesse invece originariamente concepite per altre e ben più elevate ragioni: proclamare la gloria di Dio attraverso lo studio della natura.
Un destino un po’ beffardo, non c’è che dire. Ma di cui forse Keplero non si sarebbe rammaricato più di tanto, poiché da buon protestante, che da giovane voleva diventare un pastore luterano, lo avrebbe interpretato come l’esito del disegno imperscrutabile della volontà divina.
Sono tuttavia convinto che una lettura così riduttiva delle sue opere, oltre a essere decisamente anacronistica, ne trascuri l’imprescindibile retroterra spirituale. Ma questo dipende anche, e soprattutto, dal diverso punto di vista che distingue lo storico della scienza dallo scienziato di professione.
Se è vero infatti che Keplero fu uno degli astronomi più dotati che la storia abbia mai conosciuto, lo è altrettanto che a guidare gli sviluppi delle sue ricerche fu sempre una profonda devozione religiosa. Che emerge fin dal Mysterium cosmographicum (1596), la sua prima pubblicazione, dove dimostrava con estrema audacia come la necessità del sistema copernicano scaturisse direttamente da Dio, che aveva creato l’universo attraverso l’armonia dei cinque solidi regolari della geometria euclidea. E che prorompe come un’esigenza insopprimibile anche dalle pagine dell’Harmonice mundi che annunciano la scoperta della terza legge dei moti planetari.
Era appunto il 15 maggio 1618. Un giorno memorabile per Keplero, che stava finendo di scrivere il libro, gran parte del quale era già in corso di stampa. Aveva aspettato questo momento per ben ventidue anni, e ora un’illuminazione improvvisa dissolveva le tenebre dalla sua mente, facendogli perfino temere di essere vittima di un sogno. Ma non c’erano dubbi: «È cosa certissima ed esattissima che il rapporto che esiste tra i tempi periodici di due pianeti qualsiasi è precisamente nel rapporto della potenza 3/2 delle loro distanze medie». Ovvero, nella formulazione più usuale, il rapporto tra i quadrati del periodo di rivoluzione di due pianeti è uguale a quello tra i cubi della loro distanza media dal Sole.
La scoperta della relazione tra le distanze e i periodi dei pianeti si era dunque rivelata a Keplero proprio mentre stava ultimando l’opera che considerava il culmine della sua carriera scientifica. Un fatto che lo aveva letteralmente mandato in estasi, in preda a un «sacro furore», al punto che non gli importava se a leggerla sarebbero stati i suoi contemporanei o i posteri. Poteva benissimo aspettare cent’anni i suoi lettori, «se Dio stesso aveva atteso seimila anni il Suo contemplatore».
Eppure, per quanto strano possa sembrare, soprattutto di fronte ad affermazioni così entusiastiche, questa legge non gioca affatto un ruolo centrale nell’astronomia dell’Harmonice mundi. Per Keplero, quella che noi chiamiamo «terza legge» - ma che lui, al pari delle altre due, non definì mai in tali termini, né tanto meno le diede alcuna numerazione - esprimeva semplicemente uno dei tanti rapporti celesti riscontrabili nell’armonia dell’universo. Un’armonia inoltre che rispecchiava i principi della consonanza musicale, che indicava lo stretto legame tra Dio e la sua creazione, e che si poteva scorgere in ogni parte del cosmo. Un’armonia infine che si trovava impressa come un archetipo negli esseri umani, i quali, essendo plasmati a immagine di Dio, erano quindi in grado di apprezzarla, anche se ignoravano le proporzioni geometriche da cui essa discendeva.
L’idea di scrivere sull’armonia universale risaliva al 1599. A incoraggiare Keplero nell’impresa aveva contribuito anche la recente lettura dell’Armonica dell’astronomo alessandrino Tolomeo, che confermava la sua convinzione che il cosmo fosse governato da un’armonia musicale. Ai suoi occhi, tutto ciò non poteva essere soltanto un caso: se la segreta natura dell’universo si andava rivelando a due uomini separati da una distanza di quindici secoli, voleva dire che «c’era il dito di Dio». Può darsi. Sta di fatto che durante i vent’anni in cui Keplero inseguì il suo progetto, la vita gli aveva fornito ben pochi segni di una divinità armonica e benevola.
Certo, i dieci anni trascorsi a Praga, dove nel 1601 era succeduto al grande astronomo danese Tycho Brahe nel ruolo di matematico dell’imperatore Rodolfo II, furono alquanto sereni e tra i più fecondi della sua attività scientifica, facendogli ottenere importantissimi risultati nel campo dell’astronomia e dell’ottica. Ma prima e dopo, era stato tutto un susseguirsi di incredibili tragedie personali e professionali. Il 1599, proprio l’anno in cui concepì l’idea dell’Harmonice mundi, coincise con la prematura scomparsa della sua secondogenita, che aveva soltanto trentacinque giorni. Nel 1611, quando la situazione politico-religiosa a Praga lo aveva costretto a trasferirsi a Linz, aveva assistito impotente alla morte di un altro suo figlio e della prima moglie Barbara. Tra il 1617 e il 1618, in poco meno di sei mesi, aveva perso i due bambini avuti dalla seconda moglie Susanna. Come se non bastasse, nel 1615 la madre Katharina era stata accusata di stregoneria e Keplero dovette assumerne la difesa legale per i successivi sei anni.
L’Harmonice mundi fu completata il 27 maggio 1618, dodici giorni dopo la scoperta della terza legge. La sua famiglia era stata letteralmente decimata e il mondo che lo circondava stava precipitando nel disordine. Ma da uomo dalla fede incrollabile, Keplero vedeva nell’armonia celeste la più alta manifestazione della saggezza di Dio. E dedicava l’opera a Giacomo I Stuart, nella speranza che il sovrano che aveva riunito le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, potesse usare gli esempi della gloriosa armonia di cui Dio aveva dotato la sua creazione per portare altrettanta armonia e pace tra le chiese divise. Si trattava però di una pia illusione: soltanto quattro giorni prima, il 23 maggio 1618, la rivolta boema con la celebre defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni, una delle più lunghe e sanguinose della storia europea.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“La sinodalità è segno di cattolicità"
Un commento sulla Chiesa sinodale
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo* (La Stampa/Vatican Insider, 24 Ottobre 2019)
ROMA. Siamo alle ultime battute del Sinodo sull’Amazzonia e già si leva un soffio di vento sinodale per la Chiesa italiana. Papa Francesco il 17 ottobre 2015 ricordava i tre livelli della sinodalità nella Chiesa: quello Diocesano o delle chiese particolari; quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali; e quello Universale. Abbiamo avuto modo di seguire da vicino il cammino del Sinodo sull’Amazzonia, coinvolgendoci nella bella esperienza di Amazzonia Casa comune, che accompagna i lavori in aula con numerose iniziative di preghiera, ascolto e sensibilizzazione sulle tematiche del Sinodo. Possiamo dire che abbiamo vissuto “il popolo di Dio” nella sua realtà attuale, nelle sue differenze e particolarità che diventano “sinfonia” alle orecchie di chi è pronto all’ascolto senza pregiudizi.
La sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa e lo sforzo, dopo il Concilio Vaticano II, di presentare al mondo l’umanità rinnovata e salvata in Cristo nella libertà e nell’amore. Raccogliendo una tradizione molto antica e viva soprattutto nelle Chiese orientali, si vuole oggi mostrare un modello di vita nella fratellanza, superando i vincoli mondani basati sull’autoritarismo e sulla forza.
La prima osservazione molto positiva che lascia ben sperare per il futuro, è la conferma che la Chiesa cattolica è veramente universale in modo concreto e visibile: le problematiche che si affrontano in un luogo specifico hanno risonanza e conseguenze positive di rinnovamento in tutto il popolo di Dio, nel mondo intero. La sinodalità è segno di cattolicità. Non c’è bisogno di fare ogni volta decreti pontifici per sperimentarla. Si supera una concezione troppo astratta di “universale” o “cattolica”, come se la Chiesa fosse tale in modo invisibile e impalpabile, come una idealità. Abbiamo incontrato tante persone che hanno questa visione concreta. La cattolicità spinge a sfamare, curare e guarire in modo reale tutta l’umanità. I tre «verbi» più utilizzati da Gesù portano a respingere posizioni parziali, avendo il senso della pienezza e della completezza.
Una seconda osservazione riguarda direttamente coloro che appoggiano la sinodalità, si dichiarano sinodali, ma in realtà vorrebbero che il Papa e la Santa Sede risolvessero le loro problematiche intervenendo nel Sinodo con documenti risolutivi. Sono quelli del “sì! ... Però”. Sono quelli della così detta “sinodalità affettiva”, del “fare”, angosciati per risolvere i problemi, ma senza analizzarli a fondo ed ascoltare lo Spirito Santo che parla anche attraverso il suo popolo. Non di rado si tratta di religiosi abituati ad organizzare l’apostolato attraverso una struttura centralizzata. Vivono legati al concetto di “sudditanza”, come se nella Chiesa le relazioni vere fossero fra autorità e sudditi, e la sinodalità soltanto una forma moderna di conservare questi equilibri. La mancanza di questo intervento dall’alto li spaventa e disorienta. Ci sono anche laici abituati ad aspettare e a credere che le vere soluzioni vengano dalla gerarchia e dal clero.
Nella loro mente non è ancora scomparsa l’immagine della piramide per rappresentare la Chiesa. C’è chi la vorrebbe capovolgere, chi la vorrebbe scomporre. Ma non riescono a distaccarsene con il rischio che prima o poi qualcuno la rimetta in sesto, di fronte agli insuccessi dei cambiamenti. Non pochi seminaristi ancora oggi accarezzano la visione di una gerarchia di potere e di prestigio a cui appartenere.
Possibile che non si riescano a trovare altre immagini da proporre che aiutino a realizzare una maggiore condivisione nella Chiesa? Anche tra i teologi manca il coraggio. A noi piace quella illustrata l’anno scorso a Milano dall’ecclesiologo della Gregoriana Don Dario Vitali. Parlando del sensus fidei presentava come “immagine adeguata della Chiesa” la figura dell’ellisse: essa esiste in ragione dei due fuochi. Rappresentano il popolo di Dio con il sacerdozio comune e la gerarchia con il sacerdozio ordinato. Non devono essere né troppo lontani né troppo vicini, perché se sono troppo vicini uno “soffoca l’altro” e “finisce il campo magnetico”, se sono troppo lontani “non si crea il campo magnetico”. Si tratta di una figura familiare nella Chiesa, utilizzata anche nell’architettura barocca, con l’esempio più famoso della piazza san Pietro, dove sono segnati i due fuochi dell’ellisse. Evidente il legame con le teorie di Keplero che descrivono come ellittiche le orbite dei pianeti.
Una terza osservazione riguarda gli aperti oppositori alla sinodalità, con i loro cavalli di battaglia: Papa Francesco come il nemico da combattere perché introduce il disordine; la Chiesa è gerarchica e non esiste alcuna forma di partecipazione oltre l’obbedienza; il timore per l’integrità della fede e l’alterazione del Credo; la condanna della diversità nella liturgia e la diminuzione dei fedeli cattolici attribuita a questo fatto; la presunta falsa individuazione di nuovi “luoghi teologici”; tutte le problematiche relative all’ordinazione sacerdotale e all’eucaristia, che amplierebbero in modo inappropriato l’ambito dell’autorità e del governo; il celibato come unica forma di verifica della vocazione sacerdotale.
Davanti ai nostri occhi si presenta un quadro preoccupante come avvenne all’epoca del Concilio Vaticano II: ai meno attenti sembrava che ci fossero solo due schieramenti, quello dei progressisti e quello dei tradizionalisti. Confortati dai risultati delle votazioni, si sottovalutò il grande pericolo del terzo schieramento, formato dalla grande maggioranza degli attendisti, che hanno congelato il Concilio nella sua applicazione. A noi sembra che anche oggi questo terzo partito costituisca la grande maggioranza e il pericolo reale.
Auspichiamo una più ampia diffusione dell’esperienza sinodale, sia nelle chiese giovani, sia in quelle di antica tradizione. L’evangelizzazione non può più aspettare. Vorremmo vedere presto la nascita di una umanità rinnovata in Cristo nell’amore e nella libertà. C’è ancora tanto lavoro da fare. La sinodalità muove i primi passi.
Ma la fiducia nello Spirito Santo prevale e saremo stupiti da quanto accadrà: per vie inaspettate e impreviste il popolo di Dio si aprirà al cammino sinodale e sarà per il mondo una luce. Preghiamo per questo. Raccontiamo ai nostri studenti come segno di speranza che il 25 gennaio 1959, in ritardo rispetto al programma a causa del prolungarsi della cerimonia nella basilica ostiense, Giovanni XXIII alle 13,10 annunciava nella sala capitolare del monastero di San Paolo, “trepidando un poco di commozione”, ai 17 principi della Chiesa presenti, la convocazione del Concilio Vaticano II. Tutti ignari della circostanza che il mondo già lo sapesse. Il “popolo di Dio” era stato informato in anteprima. Infatti, il responsabile del servizio stampa vaticano aveva trasmesso come indicatogli, con un laconico comunicato alle 12,20, la celebrazione del Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale (1). I mezzi di comunicazione ancor prima del Papa avevano annunciato la nuova primavera della Chiesa, realizzando il loro servizio. Nei fatti c’era stato il superamento della piramide, in un mondo connesso in tempo reale con la gente.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia Nota
1) Giovanni Caprile (a cura), Il Concilio Vaticano II. L’annuncio e la preparazione 1959-1962, La Civiltà Cattolica, Roma 1966, p. 50-51
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS