Valencia. Una rassegna in Spagna ospita artisti che hanno esplorato le frontiere, culturali e geografiche
I confini sono campi di battaglia. Ma anche «workshop creativi» in cui germogliano i semi di forme future di umanità.
Il sociologo Zygmunt Bauman, inventore di fortunate formule sulla «società liquida», ridefinisce i concetti di confine e di frontiera.
Le barriere e i muri sono i laboratori dove si modellano le nuove società, ma i muri sono per principio valicabili.
Nelle società contemporanee si moltiplicano le demarcazioni: il futuro dipenderà dal dialogo che si creerà lungo questi confini.
Dalle idee di Lévi-Strauss alle grandi migrazioni:
l’analisi del creatore della «società liquida»
Nei confini si trovano le identità del futuro
Oltre i muri. Barriere spontanee, recinti, divieti legislativi: i laboratori in cui si modella l’evoluzione umana
Sono pochi i muri privi di cancelli e di porte. I muri sono, per principio, valicabili e sono anche interfacce tra i luoghi che separano
Distinguere un luogo dal resto dello spazio vuol dire modificare le probabilità, rendere certi eventi possibili e altri impossibili
di Zygmunt Bauman (Corriere della Sera, 24.05.2009)
Il grande antropologo Claude Lévi-Strauss, nelle Strutture elementari della parentela (1949), il primo dei suoi libri, sostiene che la proibizione dell’incesto (o, più precisamente, la creazione dell’idea di «incesto», cioè di un rapporto possibile ma da non praticare, proibito tra umani) segna l’atto di nascita della cultura. La cultura, e quindi il (particolare) modo umano di essere, inizia tracciando un confine che prima non esisteva. Le donne (tutte, dal punto di vista biologico, potenziali partner in un rapporto sessuale) vengono divise tra quelle con cui è proibito unirsi sessualmente, e le altre, con cui invece è permesso.
Alle somiglianze e differenze naturali viene aggiunta una distinzione artificiale, creata e imposta dagli uomini; più precisamente, a certi tratti naturali (in questo caso biografici) viene attribuito un significato ulteriore, associandoli a specifiche regole di percezione, valutazione e alla scelta di un modello di comportamento.
La cultura, dagli inizi e per tutta la sua lunga storia, ha continuato a seguire lo stesso modello: usa dei segni che trova o costruisce per dividere, distinguere, differenziare, classificare e separare gli oggetti della percezione e della valutazione, e i modi preferiti/raccomandati/ imposti di rispondere a quegli oggetti. La cultura consiste da sempre nella gestione delle scelte umane.
1. I confini sono tracciati per creare differenze, per distinguere un luogo dal resto dello spazio, un periodo dal resto del tempo, una categoria di creature umane dal resto dell’umanità... Creare delle differenze significa modificare le probabilità: rendere certi eventi più probabili e altri meno, se non addirittura impossibili. Quando questo si verifica in determinati luoghi, periodi, o categorie di persone, il mondo si semplifica, diventa più comprensibile, si trasforma in un ambiente in cui è più facile agire in modo ragionevole (efficace, intenzionale). Il confine protegge (o almeno così si spera o si crede) dall’inatteso e dall’imprevedibile: dalle situazioni che ci spaventerebbero, ci paralizzerebbero e ci renderebbero incapaci di agire. Più i confini sono visibili e i segni di demarcazione sono chiari, più sono «ordinati » lo spazio e il tempo all’interno dei quali ci muoviamo. I confini danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.
2. Per avere questo ruolo, per imporre ordine al caos, rendere il mondo comprensibile e vivibile, i confini devono essere concretamente tracciati. Intorno alle case troviamo steccati o siepi. Sulle porte e sui cancelli ci sono nomi che mostrano la distinzione tra chi sta dentro e chi fuori, tra i residenti e gli ospiti. Ignorare questi segni, disobbedire alle regole che ci indicano, è una trasgressione che comporta conseguenze che vorremmo evitare: eventi temibili, imprevedibili e incontrollabili. D’altro canto, conformarsi alle istruzioni, esplicite o implicite, e modificare il proprio modello di comportamento quando si attraversa il confine crea (ricrea, rafforza, manifesta) l’ordine che il confine deve instaurare, servire e mantenere.
Ordine vuol dire la cosa giusta al posto giusto e al momento giusto. Sono i confini a determinare quali sono le cose, i luoghi e i momenti giusti. Gli oggetti del bagno devono essere tenuti separati da quelli della cucina, quelli della camera da letto da quelli del soggiorno, quelli destinati all’esterno da quelli per l’interno. Le cose fuori posto sono sporcizia e devono essere spazzate via, rimosse, distrutte o trasferite altrove, al luogo a cui «appartengono » - se esiste (non sempre esiste, come potrebbero testimoniare i rifugiati apolidi o i vagabondi senzatetto).
Chiamiamo «pulizia» la rimozione di ciò che è indesiderabile, il ristabilimento dell’ordine. «Pulizia» significa ordine.
3. I confini sono tracciati per creare e mantenere un ordine spaziale: per raccogliere in certi luoghi alcune persone e cose lasciandone fuori altre. Negli edifici pubblici gli avvisi di «divieto di accesso» sono sempre posti su un solo lato della porta, per separare chi viene da quella parte (clienti, pazienti-esterni) da chi sta dall’altro lato (impiegati, sorveglianti, manager - interni). Le guardie all’entrata dei centri commerciali, ristoranti, edifici amministrativi, quartieri esclusivi, teatri o territori statali permettono a qualcuno di entrare e ad altri no, controllando biglietti, lasciapassare, passaporti e simili documenti, o cercando di capire le intenzioni di chi vuole entrare o predire la sua capacità di attenersi alle regole stabilite. Ogni modello di ordine spaziale divide gli esseri umani in «desiderabili» e «indesiderabili ». Ogni confine ha lo scopo di evitare che le due categorie si mescolino nello stesso spazio.
4. I confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici barriere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni. Sono pochi (se pure ci sono) i muri privi di cancelli o porte. I muri sono, per principio, valicabili - anche se le guardie da entrambi i lati hanno scopi opposti e cercano di rendere l’osmosi (la permeabilità e penetrabilità dei confini) asimmetrica. L’asimmetria è completa, o quasi, nel caso delle prigioni, dei campi di detenzione e dei ghetti, o delle «aree ghettizzate» (Gaza e la Cisgiordania sono oggi gli esempi più vistosi di questo tipo), dove le guardie sono solo da un lato; ma le zone delle città che notoriamente è bene evitare tendono ad assomigliare a questo modello estremo, affiancando al rifiuto di entrare di chi è fuori la condizione di non poter uscire di chi è dentro.
5. Tracciare e proteggere i confini sono attività prioritarie, volte a ottenere e mantenere la sicurezza; il prezzo da pagare è la perdita della libertà di movimento. Questa libertà diventa ben presto il fattore discriminante tra i diversi gradi sociali e il criterio secondo cui un individuo o una categoria vengono misurati all’interno della gerarchia sociale; il diritto di passaggio (o meglio il diritto di ignorare il confine) diventa quindi una delle questioni più contestate, di carattere strettamente classista; mentre la capacità di sfidare il divieto di valicare un confine diviene una delle principali armi di dissenso e di resistenza contro la gerarchia di potere esistente. Queste pressioni sfociano in un evidente paradosso: nel nostro pianeta che si sta rapidamente globalizzando, la diminuzione dell’efficacia dei confini (la loro crescente porosità, associata al fatto che la distanza spaziale ha sempre minor valore difensivo) si accompagna alla rapida crescita di significato che si tende ad attribuire loro.
6. Lontani dall’attenzione e dalle pesanti interferenze dei governi, in una sorta di penombra mediatica, si moltiplicano confini di tipo differente, spontanei, senza demarcazioni. Sono la conseguenza della crescente urbanizzazione (due anni fa gli abitanti delle aree urbane hanno superato il 50 per cento della popolazione mondiale). I «confini spontanei», costituiti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato, svolgono una doppia funzione: oltre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di essere delle interfacce, di promuovere quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. È a questo livello «micro sociale» che tradizioni, credi, culture e stili di vita differenti (che i confini amministrati dai governi a livello «macro sociale» cercano con alterne fortune di tenere separati) si incontrano e inevitabilmente ingaggiano un dialogo - pacifico o antagonistico, ma che porta sempre a stimolare la conoscenza e la familiarità reciproca, e potenzialmente la comprensione, il rispetto e la solidarietà.
7. Il difficile compito di creare le condizioni per una coabitazione, pacifica e vantaggiosa per tutti, di forme differenti di vita, viene scaricato su realtà locali (soprattutto urbane), che si trasformano, volenti o nolenti, in laboratori in cui si sperimentano, e alla fine si apprendono, i modi e i mezzi della coabitazione umana in un pianeta globalizzato. Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o simboliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte del vivere insieme, dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità.
Nella storia nulla è predeterminato; la storia è una traccia lasciata nel tempo da scelte umane molteplici e di diversa origine, quasi mai coordinate. È troppo presto per prevedere quale delle due funzioni - tra loro interconnesse - dei confini prevarrà. Di una cosa però possiamo essere certi: noi (e i nostri figli) dormiremo nel letto che ci saremo collettivamente preparati: tracciando confini e trattando sulle norme che regolano il funzionamento delle frontiere. Che avvenga di proposito o casualmente... che ne siamo coscienti o no. (Traduzione di Maria Sepa)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
È morto il sociologo Zygmunt Bauman
È stato il teorico della «società liquida» *
Il sociologo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman è morto oggi a Leeds all’età di 91 anni. Lo scrive Wyborcza online.
Bauman è stato il teorico della «società liquida», le sue analisi sul modo di vivere dell’uomo moderno e sulla sua percezione della realtà lo avevano reso celebre tra gli intellettuali.
Secondo Bauman, la trasformazione della società aveva privato l’uomo moderno di qualunque riferimento “solido”, lasciandolo privo di strumenti per orientarsi.
Bauman era nato a Poznan, in Polonia, il 19 novembre 1925 da una famiglia di origini ebree. In seguito all’invasione del suo Paese da parte delle truppe naziste all’inizio della seconda guerra mondiale, Bauman fugge, adolescente, con i genitori in Unione Sovietica e si arruola in un corpo di volontari per combattere contro i nazisti. Finita la guerra, torna nel suo Paese e inizia a studiare sociologia all’Università di Varsavia dove si laurea in pochi anni. Nel 1968, è costretto di nuovo a emigrare in seguito a un’epurazione antisemita messa in atto dal governo polacco e si rifugia prima in Israele, dove ha insegnato all’Università di Tel Aviv, poi in Gran Bretagna dove, dal 1971 al 1990, è stato professore di sociologia all’Università di Leeds, di cui ora era emerito.
Era professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia. Considerato il teorico della postmodernità, Bauman è autore di moltissimi libri, famosi anche in Italia, nei quali si è occupato di temi rilevanti per la società e la cultura contemporanea: dall’analisi della modernità e postmodernità, al ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti studi sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione.
Quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati da Laterza: «Vita liquida», «Consumo dunque sono» e «L’arte della vita», «Il demone della paura», «Modernità liquida», «Amore liquido», «Capitalismo parassitario», «L’etica in un mondo di consumatori», «Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone», «Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell’età globale», «Paura liquida», «La società sotto assedio», «Sesto potere», «Stranieri alle porte».
* LA STAMPA, Pubblicato il 09/01/2017 Ultima modifica il 09/01/2017 alle ore 17:56
Beni comuni
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 27 maggio 200)
Enclosures, ovvero recinzione, definizione di confini e sviluppo complementare di leggi sulla avvenuta appropriazione privata di bene fino ad allora comune. Il case study più noto di un bene comune divenuto proprietà privata è sicuramente quello più volte commentato da Karl Marx in una serie di articoli scritti a partire dal 1842 per la rivista Rehinische Zeitung. Il futuro autore de Il capitale era alle prese con una serie di provvedimenti che la Dieta renana era chiamata a approvare e che avevano come oggetto la definizione di regole e sanzioni per chi si appropriava di legna raccolta nelle foreste e nei boschi che la consuetudine e il vecchio diritto medievale stabiliva come «comuni». Con ironia, Marx, in una serie di lunghi articoli, si era scagliato contro queste proposte di «recinzione» fino a quando un editto imperiale aveva chiuso la rivista. Ma la sua esperienza di direttore della rivista gli tornerà utile, nei Grundrisse e ne Il capitale, per uno dei più affascinanti affreschi storici sulla genesi del capitalismo industriale. Ancora oggi quelle pagine marxiane costituiscono uno delle sintesi ineguagliate nel descrivere la violenza insita nello sviluppo capitalista.
Solo recentemente però alcuni ricercatori e attivisti sono ritornati a studiare e discutere con interesse le pagine marxiane sull’accumulazione originaria sostenendo, a ragione, che le enclosures non sono un episodio circoscritto e transitorio dello sviluppo economico, ma che si rinnovano ogni volta che il capitalismo si diffonde come modo di produzione e come rapporto sociale. E così se le recinzioni delle terre hanno favorito l’emergere della manifattura, altre appropriazioni private di beni comuni hanno consentito la riproduzione allargata del capitalismo. Tra la fine del lungo Novecento e l’inizio dell’attuale millennio, le enclosures sono state infatti un fenomeno che ha coinvolto l’acqua, la sanità, la formazione, la conoscenza, cioè fattori che, usando termini marxiani, attenevano tutti alla riproduzione della forza-lavoro e che hanno costituito l’esoscheletro del welfare state nel capitalismo industriale.
Dalla terra al genoma umano
È a questo insieme di problemi che il filosofo francese Daniel Bensaid affronta ne Gli spossessati, volume che ha l’indubbio pregio di tessere il filo rosso che lega le riflessioni marxiane sull’accumulazione originaria e le attuali politiche di enclosures (Ombre Corte, pp. 116, euro 11). Nelle pagine che lo compongono, l’autore riesce infatti a stabilire linee di continuità e di discontinuità tra quell’insieme di leggi che hanno consentito tra la il Settecento e l’Ottocento la cancellazione di consuetudini secolari, la formazione del proletariato e le politiche contemporanee di privatizzazione. Ma se le recinzioni delle terre comuni ha visto la formazione della industria manifatturiera e lo sviluppo del moderno diritto proprietario, le attuali enclosures aprono la strada a un diverso capitalismo che l’autore qualifica come neoliberista a partire dalla deregulation dei servizi sociali che ha costituito una delle linee di sviluppo economico in un mondo sempre più interconnesso.
Tesi convincente se assieme a questo va assunto come nodo teorico e politico la trasformazione della conoscenza come fattore direttamente produttivo, come testimoniano la produzione di software, la trasformazione delle università in imprese culturali o la mappatura del genoma umano. La politica delle enclosures è cioè sempre propedeutica alla diffusione e all’innovazione del modo di produzione capitalistico. Le attuali politiche di enclosures rispondono così proprio a questa necessità politica e economica del capitalismo di innovarsi e di diffondersi su scala planetaria el capitalismo, come ha d’altronde brillantemente sostenuto Sandro Mezzadra in un saggio dedicato all’accumulazione primitiva (La condizione postcoloniale, Ombre corte).
Come è noto, per Marx la recinzione delle terre, oltre a introdurre meccanismi mercantili nell’agricoltura e a distruggere consuetudini secolari nell’accesso alle terre comuni, ha favorito la formazione di una forza-lavoro che si è riversata nelle città in cerca di un lavoro. Seguendo le riflessioni marxiane, occorre capire come le attuali politiche dell’enclosures hanno modificato la realtà sociale contemporanea, quali le consuetudini che ha cancellato e sopratutto quali le forme di resistenza che ha incontrato.
Per Daniel Bensaid l’aspetto più rilevante che la recinzione del sapere e la privatizzazione dei beni comuni è appunto lo sconfinamento dei rapporti sociali capitalistici in ambiti vitali - la riproduzione della forza-lavoro, per usare termini marxiani - finora esclusi dal regime di accumulazione basato sul lavoro salariato e il profitto. Sconfinamento che pone con drammatica urgenza la dimensione politica delle enclosures, come d’altronde ha affermato in una recente intervista apparsa nell’ultimo della rivista Erre.
Va comunque ricordato come il problema dei beni comuni sia stato uno dei temi portanti del movimento no-global, che ha saputo, spesso creativamente, mettere insieme, ad esempio, le battaglie contro la privatizzazione dell’acqua alla denuncia delle politiche modernizzatrici portate avanti dalla Banca mondiale, il Fmi e il Wto. Oppure indicazioni «politiche» assieme a una significativa «prassi teorica» attorno a questi temi sono venute anche dall’eterogeneo mondo del free software, dell’open source o dai recenti movimenti universitari in Italia, Francia, Grecia e Stati Uniti.
L’impossibile scarsità
Ed è a partire dalla riflessione attorno a queste esperienze che si muovono i migliori degli ultimi anni raccolti nel volume La conoscenza come bene comune (Bruno Mondadori, pp. 404, euro 42) curato dagli studiosi statunitensi Charlotte Hess e Elinor Ostrom. A differenza del testo di Bensaid questi saggi sostengono, a ragione, che per la conoscenza en general la politica delle enclosures devono misurarsi con un fattore che certo non appartiene alla recinzione delle terre comuni, dell’acqua e delle fonti energetiche. Infatti questi beni comuni tangibili sono risorse limitate e le enclosures hanno consentito, tra le altre cose, di definire il loro valore economico proprio, le regole del loro sfruttamento, attraverso la proprietà privata, all’interno di un regime di scarsità. La conoscenza non risponde però a questo criterio.
La produzione e la circolazione del sapere non sono vincolati al suo consumo, perché la lettura di un libro, l’ascolto di un brano musicale, la visione di un film diventano atti propedeutici alla produzione di altri manufatti culturali senza che questo significa la «cancellazione» dei precedenti. In altri termini, la conoscenza non correre il rischio di incappare nella «tragedia dei beni comuni», quella strana leggenda che, in nome della tutela e ottimale gestione di un bene scarso, serviva a legittimare l’individualismo proprietario. E tuttavia l’applicazione del diritto proprietario alla conoscenza cerca di ricondurre la sua produzione e circolazione a un regime di scarsità, in nome proprio del suo miglior utilizzo economico.
Questa peculiarità della conoscenza - un bene comune pressoché inesauribile - rende il regime della proprietà intellettuale insopportabile e, al di là della difesa del singolo autore, è da considerare solo uno strumento che garantisce una rendita di posizione delle multinazionali impegnate nella produzione di software o più in generale dell’industria culturale. Da qui la rilevanza del free software, dell’open source e di tutte le esperienze che rivendicano il libero accesso e la condivisione della conoscenza.
Una critica marxiana alle contemporanee politiche delle enclosures deve così assumere il fatto che sono proprio le norme della proprietà intellettuale che puntano a rendere scarso un bene, la conoscenza, che risponde invece a una logica accumulativa. Attiene infatti alla natura umana sviluppare relazioni sociali che producono continuamente sapere, conoscenza, informazione che a loro volta alimenta quelle stesse relazioni sociali. Le norme sul copyright, i brevetti e i marchi puntano invece, attraverso il diritto proprietario, a rendere scarso ciò che non lo è.
Le tante proposte tese a inasprire le leggi sulla proprietà intellettuale assieme alle riforme che tendono a definire una ferrea gerarchia tra una dequalificata formazione scolastica e universitaria di massa e pochi centri di eccellenza sono quindi propedeutiche a estendere alla conoscenza en general il regime dell’accumulazione capitalistica. Da qui l’importanza che entrambi i volumi pongono sulla centralità della produzione culturale nel capitalismo contemporaneo. E rilevanti politicamente sono anche i movimenti di resistenza che tanto nella produzione scientifica che nelle università si sono sviluppati attorno al rifiuto della proprietà intellettuale e dell’accesso differenziato alla formazione e universitaria.
Il volume di Daniel Bensaid e quello della Bruno Mondadori, ognuno a suo modo, aiuta a comprendere il fatto che le enclosures come un terreno di conflitto a cui sarebbe folle sottrarsi. Perché la posta in gioco non è solo la possibilità di scaricarsi dalla rete un film o un brano musicale, ma le condizioni del nostro vivere in società. E di come al regno della necessità, così fortemente alimentato dal diritto proprietario, è preferibile costruire un regno della libertà.
Il saggio di Stefano Rodotà sulla proprietà
Dall’acqua al sapere i beni che sono di tutti
La conoscenza non può essere oggetto di "recinzioni" come quelle che subirono le terre delle comunità in Inghilterra fra il Seicento e il Settecento
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.04.2013)
I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità" e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.
È aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una "società idraulica", che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone.
Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta "l’opposto della proprietà".
In questa riflessione altre memorie storiche possono soccorrerci, evocando esperienze come quella di Roma, dove la gestione dell’acqua con la costruzione delle infrastrutture necessarie - e le vestigia degli acquedotti ovunque ci tramandano quello spirito - era concepita come strumento per mantenere la coesione sociale, tanto che fino all’età imperiale era proibito ai privati di avere l’acqua nelle loro abitazioni.
Molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni. Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto. Tra disponibilità di un bene e sua "recinzione", che impedisca utilizzazioni da parte di altri. Tra diritti di proprietà e creatività intellettuale. Tra beni materiali e beni comuni virtuali. Tra valore economico e riduzione a merce. Tra sguardo locale e proiezione globale.
Un punto chiave della discussione è rappresentato dalla conoscenza, bene comune "globale", per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della accresciuta produttività della terra.
Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale «la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude». E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di «un’erosione delle basi morali della società», come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo.
Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno.
Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.
Proprio nella dimensione globale queste considerazioni assumono particolare rilevanza. La possibilità di affidarsi ad una logica diversa è legata anche alla consapevolezza che dev’essere garantita una "protection of planetary commons", appunto di quei beni comuni ormai irriducibili alla misura del mercato e che sempre più spesso non possono essere rinchiusi nei confini nazionali.