Illuminismo per tutti
Perché l’Enciclopedia fu il bestseller del ’700
di Benedetta Craveri (la Repubblica,14.04.2012)
Ritorna in libreria Il Grande Affare dei Lumi (Adelphi), la grande inchiesta sulla Storia editoriale dell’Encylopédie 1775-1800, apparsa nel 1979 presso la Harvard University Press, che ha dato fama internazionale a Robert Darnton insegnandoci a guardare la Francia del Settecento con occhi nuovi.
Lo storico americano vi realizza l’ambizione di una storia "totale", scegliendo come campo d’indagine l’opera simbolo del XVIII secolo, l’Encylopédie di Diderot e d’Alembert e studiandola come "oggetto fisico e veicolo delle idee", come "anima e corpo" dell’Illuminismo.
A fare del celebre Dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers - i cui 17 volumi si susseguirono tra il 1751 e il 1766 - "una delle grandi vittorie dello spirito umano e della carta stampata" non furono solo i grandi intellettuali dei Lumi e l’editore Lebreton, ma una miriade di personaggi secondari e per lo più sconosciuti di cui Darnton ha saputo ricostruire psicologia e comportamenti con una straordinaria verve di ritrattista.
Nell’affrontare un campo di ricerca vasto e complesso come quello dell’Encylopédie, Darnton si è avvalso di due atout formidabili: una fonte settecentesca eccezionale - gli archivi di una società tipografica svizzera specializzata in edizioni pirata di libri francesi - e un autentico talento narrativo che conquista immediatamente il lettore.
Professor Darnton, studiando l’Encyclopédie come manufatto librario e come veicolo delle idee, lei prende le distanze dalla storiografia a dominante politica.
«L’Encyclopédie viene spesso definita come la "bibbia" dell’Illuminismo, tuttavia per me la sua storia è anche quella di un’autentica "comédie humaine". Nel raccontare come essa ha preso forma ed ha raggiunto lettori di tutta Europa, ho cercato di rendere giustizia alla sua dimensione balzacchiana: ai personaggi pittoreschi che hanno prodotto il libro, intrigato perché venisse autorizzato in Francia e che si sono accapigliati e dilaniati per ricavare il massimo dalle sue spettacolari vendite. E se da un lato la mia ricerca ha assunto il carattere di una detective story, dall’altro mi ha dato l’opportunità di affrontare gli interrogativi classici sul carattere dell’Illuminismo e sul suo rapporto con la Rivoluzione francese.
Spiegando quante erano le copie dell’Encyclopédie, dove venivano vendute e chi erano i suoi acquirenti, ritengo che sia possibile dimostrare come l’Illuminismo fosse penetrato in profondità nella società francese. Lungi dall’essere appannaggio di una élite sofisticata, raggiunse un vasto pubblico di lettori».
Chi erano questi lettori?
«Non appartenevano alla borghesia del commercio e dell’industria, erano funzionari statali, ufficiali dell’esercito, giudici, avvocatie persino preti- insomma lo stesso genere di "notabili" che parteciparono agli Stati Generali del 1789 e che, dopo la parentesi del Terrore, dominarono la società francese fino a tutta la prima metà dell’Ottocento.
Lo studio degli autori che avevano redatto le voci, sia dell’Encyclopédie di Diderot che di quella successiva, l’Encyclopédie méthodique, pubblicata dal 1782 al 1832, ha dato gli stessi risultati. Gli enciclopedisti hanno avuto poco a che vedere con le forze del capitalismo. Erano per lo più professionisti e la storia del loro lavoro - che attraversa tutta la Rivoluzione - non appare in alcun modo connessa al giacobinismo. Illustra il modo in cui, tra Sette e Ottocento, il professionismo si affermò come un modo di organizzare il mondo del sapere».
Lei sostiene che il carattere radicale del progetto dell’Encyclopédie stava nella sfida di Diderot e dei suoi collaboratori di spiegare il mondo a partire dalla sola ragione. Ma era davvero una novità?
«Convengo che le idee dell’Illuminismo si trovavano già in massima parte nelle opere dei filosofi del secolo precedente. Ma quello che a mio avviso contraddistingue l’Illuminismo è il suo carattere di movimento, di tentativo perseguito da tutto un gruppo di intellettuali di cambiare il modo di pensare e di modificare le istituzioni alla luce di valori laici, razionali e umani. Per questo considero la storia dei libri fondamentale per la sua comprensione.
Come libro più importante del movimento, l’Encyclopédie riconfigurò il paesaggio mentale dei lettori. Fornì il compendio dell’intero sapere organizzato in accordo a principi epistemologici che prescindevano dalla religione rivelata. Nel servire un’informazione che copriva lo scibile umano dalla A alla Z, essa infuse nelle sue 71818 voci una visione profondamente laica del mondo.
Naturalmente aveva bisogno di nascondere questa tendenza per evitare le persecuzioni da parte delle autorità - e in effetti fu perseguitata, ma solo quanto bastò a farne un successo di scandalo, senza metterne a repentaglio l’aspetto commerciale. Ragion per cui bisognava leggerla fra le righe e rendeva i lettori complici del suo messaggio desacralizzante con tutta una serie di espedienti retorici».
Voltaire - a cui non si può disconoscere il genio della propaganda - era però dell’idea che "se i Vangeli non fossero stato un piccolo libro da due soldi, il cristianesimo non si sarebbe mai diffuso". Il successo dell’ Encyclopédie non dimostra allora il contrario?
«Voltaire poteva avere ragione quando diceva che le pubblicazioni coincise e brillanti erano più efficaci dei trattati in molti volumi, ma la sua ultima grande opera, Questions sur l’Encyclopédie, è un’enciclopedia in otto volumi. Nella sua strategia di conquista dei lettori l’Illuminismo fece ricorso a generi diversi, dal pamphlet volterriano al trattato enciclopedico».
In che modo veniva letta l’ Encyclopédie?
«Devo confessare che non sono riuscito a farmi un’idea sufficientemente chiara di come l’ Encyclopédie venisse letta. Era un’opera così vasta che poteva esserlo in molti modi, non solo fra le righe per un brivido scandaloso, ma anche per condividerne l’informazione, trattandola come un testo di referenza. Alcuni librai riferivano che i loro clienti la mettevano in bella mostra sugli scaffali senza mai aprirla. Così ci doveva anche essere un fattore di snobismo intellettuale. I notabili di provincia volevano dimostrare di essere al corrente delle novità à la page.
Una cosa però è chiara: la richiesta del libro. Librai d’ogni dove scrivevano di non avere mai visto una ressa simile per comprare un’opera, malgrado il costo relativamente elevato».
Lei spiega chiaramente le ragioni per cui, a partire da Luigi XVI, lo Stato, pur ammantandosi di rigore, ebbe interesse a lasciare prosperare "il grande affare". Ma perché la Chiesa non riuscì ad armare una contro-propaganda?
«In realtà la Chiesa fece un tentativo possente di distruggere l’Encyclopédie. L’opera venne condannata da papa, clero francese, giansenisti, gesuiti, corte di giustizia di Parigi, consiglio del re. Nel 1752 un editto reale ne bollò i primi due volumi con termini feroci e il movimento anti-enciclopedista degli anni 1750 si avvalse di una propaganda altamente offensiva affidata a polemisti estremamente abili. L’Encyclopédie fu associata a De l’Esprit, il trattato radicalmente materialista di Helvétius che nel 1758 scatenò uno scandalo ancora più grande. Fu allora che un editto reale soppresse il "privilegio" (l’autorizzazione della censura, ndr) dell’ Encyclopédie, proibendone la continuazione.
Intanto l’opera era stata messa all’indice e papa Clemente XII aveva ordinato a tutti i cattolici che ne detenevano una copia di darla alle fiamme, pena la scomunica. Ragion per cui l’Encyclopédie entrò in clandestinità. Si salvò grazie alla protezione di Malesherbes, responsabile della censura libraria, che simpatizzava con i philosophes, ma i suoi ultimi 10 volumi apparvero solo nel 1765, passata la bufera. Una bufera violentissima che aveva quasi distrutto l’impresa e che avrebbe potuto danneggiare gravemente il movimento stesso dei Lumi.
Dalle nostre relative condizioni di sicurezza in regimi relativamente liberali, abbiamo la tendenza a dimenticare il pericolo reale a cui i philosophes dovettero far fronte. Ho provato a scrivere la storia di come l’Illuminismo sopravvisse, diventando una forza di liberazione, tolleranza ed integrità intellettuale nel mondo moderno».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Sottovalutata per secoli, l’arte meccanica diventa vera scienza solo grazie al genio pisano
Ecco perché inizia da qui la nostra rivoluzione tecnologica
Galileo Galilei e la seconda era delle macchine
di Remo Bodei (la Repubblica, 08.10.2014)
PER cogliere il senso della moderna civiltà delle macchine bisogna partire dal carattere innovativo delle proposte di Galileo nel campo della meccanica, misurandone dapprima la distanza rispetto a una lunga tradizione che parte dalla Grecia antica.
In origine, infatti, il termine mechane significa soltanto “astuzia”, “inganno”, “artificio” e in questa accezione compare già nell’Iliade. Soltanto più tardi (accanto alle connotazioni “uso appropriato di uno strumento” e “macchina teatrale”, da cui l’espressione theos epi mechanes, deus ex machina) viene a designare la macchina in genere, e, in particolare la macchina semplice - leva, carrucola, cuneo, piano inclinato, vite - la macchina da guerra e l’automa. La meccanica, sapere attorno alle macchine, è dunque preposta alla costruzione di entità artificiali, di trappole tese alla natura per catturarne l’energia e volgerla in direzione dei vantaggi e dei capricci degli uomini.
Perché la macchina eredita i significati dell’astuzia e dell’inganno? Perché per lungo tempo non si riesce a spiegare il suo funzionamento. Non si capisce, ad esempio, come una leva possa innalzare con minimo sforzo dei pesi enormi o come un cuneo riesca a spaccare pietre o giganteschi tronchi d’albero. Di questo stupore offre testimonianza la Mechanica, attribuita per lungo tempo (e da alcuni studiosi anche oggi) ad Aristotele, ma forse opera di uno dei suoi successori alla direzione della Scuola come Stratone il Fisico.
In tale testo (su cui Galileo fece lezione a Padova nel 1597/98) è chiaramente affermato che «molte cose meravigliose, la cui causa è sconosciuta, avvengono secondo natura, mentre altre avvengono contro natura prodotte dalla techne a beneficio degli uomini ». Quando la natura è contraria alla nostra utilità, noi riusciamo a padroneggiarla mediante l’artificio (mechane).
Le arti meccaniche, proprio in quanto appartengono al regno dell’astuzia e di ciò che è «contro natura», non fanno parte della fisica, che si occupa di ciò che avviene secondo natura. Le arti meccaniche si presentano come operazioni contro natura o come giocattoli stupendi. Archimede pare si vergognasse di aver costruito macchine e avesse invece fatto scolpire sulla sua tomba il famoso cilindro che contiene una sfera. Ancora nel Cinquecento la meccanica non è scienza a pieno titolo, ma scienza «mista » o «media». Ancora più tardi, specie tra i dotti gesuiti del Colbeffata legio Romano, essa è soprattutto mechanica practica ad uso degli “ingegnierii”.
Pur non pienamente apprezzata, la meccanica guadagna terreno e prestigio nel corso del Cinquecento finché continua a restare legata alla funzione di provocare meraviglia. Nel 1508 Leonardo progetta - per la villa di Carlo d’Amboise a Milano - un mulino idraulico quale motore d’automi che emettevano suoni. A partire dal 1569, poi, Bernardo Buontalenti crea, nella villa medicea di Pratolino, una serie di meravigliose macchine idrauliche e pneumatiche (oggi perdute) che mettono in moto statue, porte e getti d’acqua.
Con Galileo ci si comincia a rendere conto che alla natura si comanda ubbidendole, che essa non può essere semplicemente e che il compito principale della meccanica non è quello di provocare stupore. Per padroneggiare la natura bisogna servirla, piegarsi alle sue leggi e alle sue ingiunzioni, traendo profitto dalla loro conoscenza.
Il concetto di astuzia, nel senso del più debole che prevale sul più forte, dell’uomo che - simile a Odisseo - inganna l’ottuso Polifemo della natura, viene a tramontare. Allo stesso modo, la meraviglia suscitata da una presunta alterazione della legalità naturale si trasferisce su un altro piano, quello del potere effettivo dell’uomo di servirsi legittimamente delle energie naturali.
In Galileo l’astuzia cambia di significato (consiste ora nell’utilizzare le energie naturali a fini economici, così da godere di energia a basso costo) e la violenza in quanto tale scompare, perché la meccanica cessa di essere contro natura.
Queste idee vengono esposte dal giovane Galileo ne Le mecaniche. L’ultima stesura comincia con una polemica contro la tradizione secondo cui le macchine ingannano la natura. Non si deve più cedere alla fantasticheria di cogliere la natura in fallo, di indurla a piegarsi alla nostra volontà. Le critiche non si rivolgono tuttavia soltanto ai teorici della meccanica ma anche ai cattivi pratici, agli ingegneri incapaci. Nel tentativo di spiegare razionalmente «le cause degli effetti miracolosi» che si riscontrano nella «meccanica dell’istrumento » o della macchina, Galileo riconduce tutte le macchine semplici alla bilancia (per la quale riprende temi già affrontati nel suo trattato La bilancetta del 1586) e decreta che l’astuzia delle macchine consiste ora nell’utilità che la meccanica consente.
Ne Le mecaniche vengono elencati tre tipi di utilità. La prima sta nel comprendere che l’astuzia che si crede rivolta verso la natura si ritorce contro il presuntuoso meccanico, il quale (avendo scarsità di forza, ma non di tempo) si ostina nel cercare macchine potentissime e insieme rapidissime nell’esecuzione dei loro compiti. Così chi credesse da un pozzo, «con machine di qualsivoglia sorte cavare, con istessa forza, nel medesimo tempo, maggior quantità di acqua [...] è in grandissimo errore; e tanto più spesso e maggiormente si troverà ingannato ».
La seconda astuzia consiste nel trovare strumenti che si conformino alla funzione da svolgere, poiché «non in tutti i luoghi, con uguale commodità, si adattano tutti gli strumenti». Così, per tenere asciutta la sentina di una nave, non si utilizzeranno delle secchie, ma delle «trombe», che pescano meglio nel fondo.
La terza e più importante «utilità» viene appunto individuata nel trovare fonti di energia a buon mercato e nell’inventare delle «prese» che si adattino ad esse (mentre gli strumenti devono adattarsi agli organi dell’uomo o dell’animale, ad esempio alle mani e al collo, le macchine devono conformarsi al genere di energia che le muove, ad esempio al vento attraverso le pale dei mulini o, molto più tardi, alla caduta dell’acqua attraverso le turbine).
In prospettiva, sono proprio le macchine (ora costruibili con criteri e calcoli pienamente razionali) a non rendere più conveniente la schiavitù e a permetterne la virtuale abolizione. La forza lavoro umana nella forma di mera erogazione di energia non è più indispensabile, mentre - ed è questa un’altra grande intuizione di Galileo - le macchine sostituiscono la mancanza di intelligenza delle forze o degli animali che erogano energia. Mediante «artificii ed invenzioni» egli è ora in grado di far risparmiare fatica e denaro agli uomini, scaricando sulla natura inanimata e animata l’onere di erogare energia previamente indirizzata all’ottenimento dell’effetto desiderato.
È così che, da Galileo in poi, la meccanica prende l’aggettivo “razionale”, proprio per contrastare la sua precedente immagine di sapere pratico, di arte non liberale o di artigianato. Con la qualifica di “razionale” essa riceve la sua patente di nobiltà, il riconoscimento del suo carattere interamente conforme alle leggi della natura. Solo ora viene equiparata alle altre scienze esatte, con la conseguenza che le macchine cessano gradualmente di apparire oggetti miracolosi che incomprensibilmente profanano l’ordine perfetto del mondo. Ma non per questo perdono il loro fascino e il loro ruolo. Anzi la loro astuzia si avvia a diventare la moderna intelligenza tecnica, il dominio dispiegato sulla realtà, l’insieme dei vantaggi a cui è ormai impossibile rinunciare.
© Remo Bodei 2014
La democrazia totalitaria di Rousseau
Il modello dell’assemblea continua consegna il potere all’uomo forte
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 11.06.2012)
In Italia l’interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949. A ciò si possono aggiungere il breve profilo che Gaetano Salvemini dedicò a Rousseau nel suo libro su La Rivoluzione francese (1905) e le poche pagine di Benedetto Croce sul ginevrino negli Elementi di politica (1924). Veramente poco, dunque, rispetto agli studi apparsi in quel periodo non solo in Francia, come è ovvio, ma anche in Inghilterra (con opere come quella di Cobban) e in Germania (è del 1932 il fondamentale saggio di Cassirer, Das Problem J.-J. Rousseau).
In realtà, un interesse profondo per Rousseau è sorto in Italia solo nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi impetuoso del marxismo. Il filosofo che avviò la rivalutazione marxista del ginevrino fu Galvano Della Volpe, seguito dai suoi allievi (Umberto Cerroni e Lucio Colletti). Nel 1957 Della Volpe pubblicò un libro che ebbe un buon successo (ne uscirono varie edizioni): Rousseau e Marx. In quest’opera Della Volpe vedeva in Rousseau il pensatore che aveva distrutto il quadro teorico del liberalismo (in quanto aveva rifiutato la democrazia rappresentativa o delegata e aveva rivendicato una democrazia diretta) e che aveva posto l’esigenza di una società nuova, incardinata non più sull’«astratto diritto borghese», bensì sul riconoscimento sia dei bisogni sia dei talenti degli individui.
Portando avanti questo filone interpretativo, Umberto Cerroni (nel suo Marx e il diritto moderno, 1962) attribuiva a Rousseau il merito di avere avviato la crisi della dottrina dei diritti naturali, potenziandone la componente più strettamente politica e risolvendo il Giusnaturalismo non già nel «garantismo» dei diritti individuali, bensì nella creazione di una comunità politica tendenzialmente egualitaria, coesa e organica.
Ma il saggio che doveva dare la più vigorosa interpretazione marxista di Rousseau fu quello che Colletti pubblicò nel 1968 (e che ebbe larghissima diffusione): Rousseau critico della «società civile». Qui Colletti sosteneva che i concetti centrali della concezione politica di Marx erano già stati svolti dal ginevrino. Infatti Rousseau non solo aveva invalidato l’idea cristiana della «caduta», del peccato originale, ma aveva mostrato che l’uomo, originariamente buono, era stato guastato dall’iniqua organizzazione della società e che quindi il problema della rigenerazione dell’uomo veniva a coincidere con il problema della rigenerazione della società. Secondo Colletti, il ginevrino aveva dato un formidabile contributo alla teoria politica socialista, con la sua percezione precisa del fatto che la società borghese moderna è fondata sulla concorrenza, sulla opposizione e sul contrasto degli interessi e che dunque in essa i rapporti sociali sono in fondo rapporti a-sociali; con la sua concezione dello Stato come di uno strumento costruito dai ricchi a difesa dei loro privilegi; con il suo rifiuto dei cardini dello Stato liberale borghese: la divisione dei poteri, la rappresentanza (poiché la «volontà generale» è inalienabile, dunque non è delegabile, e il popolo deve esercitare direttamente la propria sovranità).
Perciò nel quadro tracciato da Rousseau (sottolineava Colletti), il vecchio Stato doveva essere distrutto e si doveva costruire una società nuova, o piuttosto una comunità, profondamente solidale, coesa e organica, la quale doveva autogovernarsi attraverso l’esercizio della democrazia diretta o assembleare, come nelle antiche poleis greche a reggimento democratico. (È certo singolare che Colletti non ricordasse una significativa ammissione di Rousseau: che la democrazia diretta poteva essere realizzata solo nei piccoli Stati, non nei grandi: una ammissione che riduceva di molto l’applicabilità della sua teoria, come sottolineò Paolo Rossi in un suo saggio introduttivo agli scritti roussoviani pubblicati da Sansoni nel 1972).
Naturalmente, restavano fuori dal quadro tracciato da questi studiosi marxisti le considerazioni che, a proposito di Rousseau, erano state formulate dal pensiero democratico-liberale italiano. Nel suo libro La Rivoluzione francese 1788-1792 Salvemini, tracciando un ritratto del ginevrino, aveva parlato di «infiltrazioni totalitarie» e aveva criticato la sua idea di una «società perfetta» e di una «unanimità infallibile». Alla teoria roussoviana Salvemini contrapponeva l’idea di una democrazia in cui «la maggioranza abbia il diritto di governare ma abbia il dovere di rispettare nella minoranza il diritto di critica e quello di diventare alla sua volta maggioranza».
Era un punto, questo, sul quale insisté molto Luigi Einaudi. In un discorso su Rousseau pronunciato all’Università di Basilea nel 1956 (poi raccolto nelle Prediche inutili), egli sottolineò diversi aspetti inquietanti dell’idea roussoviana di «volontà generale». Einaudi ricordava che nel Contratto sociale si legge che il popolo è «una moltitudine cieca, la quale spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce quel che è bene per lei». E affinché la «volontà generale» possa affermarsi occorrono, secondo il ginevrino, due condizioni: che non ci siano partiti ad alterare il giudizio dei singoli (poiché i partiti sono veicoli di interessi particolari e non generali) e che ci sia una guida (il famoso «legislatore», sul tipo di Licurgo) che educhi profondamente gli uomini, che trasformi la loro natura, che adegui la loro volontà alla ragione. Solo in questo modo i cittadini riuniti sono in grado di esprimere la «volontà generale». E chi dissente da essa deve piegarvisi, deve ammettere di essersi sbagliato, deve riconoscere la Verità.
Dunque, osservò Einaudi, in questa concezione il cittadino che dissenta dalla maggioranza non ha il diritto di propugnare le proprie opinioni e quindi non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e di modificare le leggi. In questo modo però, diceva Einaudi, Rousseau ha teorizzato uno Stato totalitario, con conseguenze esiziali: «Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano: ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare».
Questo appassionato dibattito su Rousseau è vivo ancora oggi. A trecento anni dalla nascita del grande ginevrino, il suo pensiero continua a dividere le menti nella perenne discussione sui principi e sulle regole della democrazia.