Eucaristia, il doppio scandalo al cuore del cristianesimo
di Piero Citati (Corriere della Sera, 21 luglio 2013)
In un libro affascinante, Entrare nei misteri del Cristo (Qiqajon, pp. 652 50), Luigi d’Ayala Valva raccoglie i testi della liturgia eucaristica, come si sviluppò nella letteratura bizantina dal II al XIV secolo, da Ignazio d’Antiochia a Nicola Cabasilas. Seguirà un secondo volume, con i paralleli testi latini.
Nella letteratura bizantina, l’eucaristia è il cuore della religione cristiana: «miracolo dei misteri», «il farmaco d’immortalità», la «messa sacra e tremenda». «Oh tremendo mistero! Oh ineffabile economia di salvezza!», «Oh incomprensibile condiscendenza», «Oh insondabile compassione!», così esclama Teofilo d’Alessandria, verso la fine del quarto secolo.
Durante la messa eucaristica e la liturgia che la ricorda, le parole dei fedeli celebrano i cherubini, i serafini, e tutte le potenze angeliche. In quello stesso momento, le innumerevoli schiere, che stanno attorno al trono di Dio, cantano l’inno di gloria, interrompendo e variando la voce del sacerdote. A piena voce, dall’alto, echeggiano le parole: «Santo, Santo, Santo, il Signore Sabaoth».
Questo doppio inno umano ed angelico ha una funzione apocalittica, perché rivela che la liturgia della Chiesa trascende non solo ogni realtà mondana ma anche sé stessa come liturgia, trovando compimento nella realtà celeste e anticipando l’inno glorioso della fine dei tempi. Se i cristiani hanno l’ardire di servirsi delle stesse parole dei cherubini e dei serafini, lo fanno perché sono coscienti che Cristo ci ha permesso di diventare immortali come gli angeli.
In quei canti che dal basso salgono in alto e dall’alto scendono in basso, regna il timore, la reverenza, la cautela: le parole che arditamente volano in alto, nell’alta camera occupata da Gesù, non interrompono mai la più profonda misura. Ma questo timore è pieno di un immenso fuoco. «Ohi magari - scriveva Origene - si infiammasse anche il nostro cuore dentro di noi mentre spieghiamo le Scritture, e divampasse un fuoco nella nostra meditazione. Così Geremia accendeva gli ascoltatori: niente di tiepido e di freddo rimaneva dentro di loro; ma come il fuoco distrugge ogni materia, e non accoglie in sé nulla di contaminato, così anche coloro il cui cuore è stato toccato dalla fiamma della parola divina, non sopportano più di essere contenuti nelle apparenze materiali e mondane, ma le loro lampade resteranno sempre accese e le loro lucerne ardenti, come quelle dei servi che aspettano il padrone di ritorno dalle nozze».
Questo fuoco non deve bruciare chiuso sotto il moggio: ma illuminare liberamente le lontananze, restando acceso sopra il candelabro. Tutta la meditazione sull’eucaristia viene improntata dalla doppia forza del timore e del fuoco.
L’antica, originaria alleanza tra Dio ed Israele era avvenuta nell’Esodo. Mosé costruì un altare ai piedi della montagna, con dodici steli per le dodici tribù d’Israele; i giovani ebrei sacrificarono i tori al Signore; Mosé lesse ad Israele il libro dell’alleanza, asperse il popolo con il sangue dei tori, e disse: «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha stabilito per voi, sulla base di tutte queste parole». Non era il solo legame tra Dio ed Israele.
Prima della fuga dall’Egitto, ogni famiglia prese un agnello, maschio, puro e senza difetti, e lo sgozzò al crepuscolo, macchiando di sangue i due montanti e l’architrave di ogni porta. Poi tutti gli ebrei, quella notte, arrostirono la carne degli agnelli sul fuoco, e la mangiarono con pane senza lievito e con erbe amare: niente di crudo o di cotto nell’acqua, ma tutto arrostito sul fuoco, con la testa, le zampe e le frattaglie. Quello che restò il mattino, venne bruciato.
Anche il Nuovo Testamento conosce una alleanza tra Dio e il suo popolo: la nuova alleanza, che avrebbe insieme confermato e cancellato l’antica. Durante l’ultima cena, come raccontano i tre vangeli sinottici, Gesù disse ai discepoli: «Ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi prima della mia passione. Vi dico infatti che non la mangerò fino a quando sia compiuta nel regno di Dio». E preso un calice, dopo aver reso grazie, disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi. Vi dico infatti che da questo momento non berrò del frutto della vigna finché sia venuto il regno di Dio». Poi, preso un pane e reso grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me». E allo stesso modo con il calice, dopo aver cenato, dicendo: «Questa è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per noi».
I sacrifici degli agnelli nell’antica alleanza avvenivano molte volte: giacché erano molteplici, dicono i padri greci, erano anche vani. Il sacrificio della nuova alleanza avviene invece una volta sola, per volontà di Dio e di Cristo, quando Gesù sale sulla croce e muore in croce anticipando il suo gesto ai discepoli durante l’ultima cena: per questo carattere di assoluta unicità, la cerimonia della nuova alleanza è fondata ed eterna. È vero che anch’essa si ripete, ogni volta che i fedeli accostano alla bocca il pane ed il vino: ma il fondamento dell’alleanza sta indietro, all’origine, quando Gesù si immola sulla croce per perdonare i nostri peccati.
Il gesto di Cristo durante l’ultima cena è, in primo luogo, un ricordo: quel pane spezzato in pezzi più o meno minuti ci racconta di scorcio l’episodio della crocefissione, quando, allo stesso modo, le membra di Gesù erano state colpite, ferite, vilipese, spezzate.
Ma, nella sua essenza, il gesto di Gesù è molto più di un ricordo. È una conversione: una metamorfosi. Mentre Gesù offre il pezzo di pane e il sorso di vino ai discepoli, egli trasforma quelle semplici specie naturali nel suo stesso corpo, nel suo stesso sangue, e solo in questo modo il suo gesto diventa il segno fisico della nuova alleanza.
Ora, le membra e il sangue di Cristo sono lì, sulla tavola, nelle mani di Gesù, o nel calice, che egli tiene in mano: sono state trasformate in pane ed in vino; e Gesù raccomanda ai discepoli di mangiare e di bere, come fanno ogni giorno quando mangiano e bevono il pane e il vino della loro esistenza.
Questo è il doppio scandalo, il doppio, grandioso paradosso dell’Eucaristia: la conversione del pane e vino in corpo e sangue di Cristo; il cannibalismo mistico, per cui i fedeli gustano il corpo del loro Signore.
Per quanto possa sembrare assurdo e incomprensibile, i fedeli devono accettare questo mistero: senza l’eucaristia, intesa non in senso simbolico ma in senso fisico, non esiste nessun cristianesimo, il quale ha bisogno di questo doppio scandalo e ne fa la sua essenza.
Guardando ed ascoltando ciò che accade con occhi e orecchie mistiche, i fedeli comprendono che le parole del sacerdote, le quali ripetono alla lettera quelle del Cristo, operano la grande metamorfosi: la stessa che le parole e i gesti di Gesù avevano operato durante l’ultima cena. Tutto avviene per intervento miracoloso dello Spirito Santo, sebbene questo intervento venga ricordato nei testi dei padri greci e non ancora nei vangeli sinottici.
Mentre Gesù offre il suo corpo ai discepoli durante l’ultima cena, egli è già morto: sembra vivo, parla con perfetta ragionevolezza, come fanno i viventi e non i morti; eppure il corpo della vittima, se fosse ancora vivo, non sarebbe adatto alla manducazione da parte dei discepoli.
Questa interpretazione non viene data dai vangeli sinottici, ma dai padri greci, i quali pensano che il corpo di Cristo sia già stato segretamente immolato, forse dallo Spirito Santo. Tutto ciò che racconta la liturgia bizantina dell’eucaristia è egualmente ineffabile e inconcepibile. I fedeli sanno che ognuno di loro assorbe soltanto un pezzo di pane e un sorso di vino: dunque una parte minima del corpo di Cristo; eppure i padri greci ci assicurano che, nell’eucaristia, i fedeli possiedono e gustano l’intero corpo di Cristo. Origene assicura che ognuno di essi lo gusta secondo la propria necessità e la propria natura: tocco non meno misterioso di quelli di cui abbiamo parlato finora.
* * *
Alla fine, avviene la metamorfosi definitiva. Pur restando in apparenza esseri umani, i fedeli si trasformano nel corpo vivente di Cristo: tutto viene divinizzato, secondo il profondo desiderio del pensiero bizantino. Non ci sono più corpi isolati e divisi, non c’è più nulla di terreno e di mondano; ma c’è soltanto l’unico, immenso corpo divino della Chiesa, che si identifica totalmente e assolutamente con quello del Cristo. L’aveva già detto Ignazio di Antiochia, pochi decenni dopo la morte di Gesù. «Cercate dunque di avere un’unica eucaristia. Una sola infatti è la carne del Signor nostro Gesù Cristo e uno solo il calice che ci unisce nel suo sangue, uno solo è l’altare, come uno solo il vescovo, insieme al presbiterio e ai diaconi, miei compagni di servizio. Tutto ciò che farete, lo farete secondo Dio»
L’udienza.
Il Papa: diciamo "grazie" e il mondo sarà migliore
Da Francesco l’esortazione a non valutare il 2020 solo attraverso le sofferenze e i limiti causati dalla pandemia. La vicinanza ai terremotati della Croazia e la preghiera per le vittime
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
"Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza". Lo ha detto papa Francesco nell’udienza generale, l’ultima del 2020, che ha dedicato alla "preghiera di ringraziamento".
"Il mondo ha bisogno di speranza - ha affermato il Pontefice, nella catechesi trasmessa in streaming dalla Biblioteca del Palazzo apostolico -, e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dare grazia, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito e legato, e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova".
Ricordando il racconto evangelico dei dieci lebbrosi che incontrano Gesù, il Papa ha osservato che esso, "per così dire, divide il mondo in due: chi non ringrazia e chi ringrazia; chi prende tutto come gli fosse dovuto, e chi accoglie tutto come dono, come grazia". "Il Catechismo scrive: ’Ogni avvenimento e ogni necessità può diventare motivo di ringraziamento’ (n. 2638) - ha proseguito Francesco -. La preghiera di ringraziamento comincia sempre da qui: dal riconoscersi preceduti dalla grazia".
"Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; siamo stati amati prima che imparassimo ad amare; siamo stati desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio. Se guardiamo la vita così, allora il ’grazie’ diventa il motivo conduttore delle nostre giornate. Grazie, e tante volte dimentichiamo, abbiamo paura di dire grazie".
Eucaristia vuol dire ringraziamento
Il Pontefice ha anche ricordato che "per noi cristiani il rendimento di grazie ha dato il nome al Sacramento più essenziale che ci sia: l’Eucaristia. La parola greca, infatti, significa proprio questo: ringraziamento". "I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è anzitutto aver ricevuto - ha sottolineato -. Ricevuto la vita. Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita. E questo è solo il primo di una lunga serie di debiti che contraiamo vivendo. Debiti di riconoscenza".
"Nella nostra esistenza, più di una persona ci ha guardato con occhi puri, gratuitamente - ha aggiunto -. Spesso si tratta di educatori, catechisti, persone che hanno svolto il loro ruolo oltre la misura richiesta dal dovere. E hanno fatto sorgere in noi la gratitudine. Anche l’amicizia è un dono di cui essere sempre grati".
Secondo Francesco, con il "grazie", "che dobbiamo dire continuamente", manifestiamo "la certezza di essere amati"."Questo è il nocciolo - ha affermato -: quando tu ringrazi esprimi la certezza di essere amato, e questo è un passo grande, la certezza di essere amato. È la scoperta dell’amore come forza che regge il mondo. Dante direbbe: l’Amore ’che move il sole e l’altre stelle’". "Cerchiamo di stare sempre nella gioia dell’incontro con Gesù - ha concluso -. Coltiviamo l’allegrezza. Invece il demonio, dopo averci illusi, con qualsiasi tentazione, ci lascia sempre tristi e soli".
Un anno difficile, ma non valutiamo solo le sofferenze
Al momento dei saluti ai fedeli di lingua tedesca, il Papa ha osservato: "Alla fine di questo anno difficile, siamo forse tentati di vedere anzitutto ciò che non era possibile fare e ciò che ci mancava. Ma non dimentichiamo le tante, innumerevoli ragioni per cui ringraziare Dio e i nostri vicini. Vi auguro di cuore la gioia che nasce dalla gratitudine!".
E salutando i fedeli polacchi ha aggiunto: "Avvicinandoci alla fine di quest’anno, non lo valutiamo solo attraverso le sofferenze, le difficoltà e i limiti causati dalla pandemia". "Scorgiamo il bene ricevuto in ogni giorno, come pure la vicinanza e la benevolenza degli uomini, l’amore dei nostri cari e la bontà di tutti coloro che ci circondano. Ringraziamo il Signore per ogni grazia ricevuta e guardiamo con fiducia e con speranza al futuro, affidandoci all’intercessione di San Giuseppe, patrono dell’anno nuovo. Sia per ciascuno di voi e per le vostre famiglie un anno felice e pieno di grazie Divine".
Vicinanza ai terremotati della Croazia
Al termine dell’udienza Francesco ha ricordato: "Ieri un terremoto ha provocato vittime e danni ingenti in Croazia. Esprimo la mia vicinanza ai feriti e a chi è stato colpito dal sisma, e prego in particolare per quanti hanno perso la vita e per i loro familiari. Auspico che le autorità del Paese, aiutate dalla comunità internazionale, possano presto alleviare le sofferenze alla cara popolazione croata".
La storia.
Prato, il medico che ha pianto distribuendo l’Eucarestia
Su mandato del vescovo Nerbini i dottori hanno dato l’Eucarestia ai malati a Pasqua. Il momento più toccante è stato quando a ricevere l’Eucarestia sono stati mamma e figlio ricoverati insieme
di Giacomo Cocchi (Avvenire, mercoledì 15 aprile 2020)
L’idea è venuta ai medici del reparto Covid dell’ospedale di Prato: dare la comunione ai pazienti il giorno di Pasqua. «È stata una proposta nata in modo spontaneo e condivisa immediatamente con il cappellano ospedaliero don Carlo che ci ha preparati a vivere questo momento», dice il dottore Lorenzo Guarducci, che insieme ad altri cinque colleghi ha distribuito l’Eucarestia ai malati di coronavirus.
Il vescovo Giovanni Nerbini ha accolto con favore l’iniziativa e nel primo pomeriggio della domenica di Pasqua, nella cappella dell’ospedale, ha impartito loro il mandato di ministri straordinari della comunione. Oncologia, pronto soccorso, area Covid e terapia intensiva. Questi i reparti dove i degenti contagiati da coronavirus hanno avuto la possibilità di ricevere il Sacramento. E oltre un centinaio di malati ha accettato di comunicarsi. «Ho pianto assieme ai pazienti. Gli ospedali sono luoghi di cura, ma non possiamo pensare di separare il corpo dallo spirito: mi rendo conto che nella lotta al coronavirus il nostro sforzo è troppo indirizzato a combattere i mali fisici dei pazienti», afferma Filippo Risaliti, uno dei medici coinvolti. -«Sono state le parole di papa Francesco a spronarci - sottolinea -. Quando ha detto che i sanitari avrebbero dovuto svolgere il ruolo di intermediari della Chiesa per le persone sofferenti abbiamo preso la decisione di proporci per distribuire la Comunione a Pasqua. Siamo gli unici che potevano farlo, dato che solo noi possiamo entrare in quelle stanze».
È stato un rito straordinario che nell’intenzione di questi medici ha voluto sanare una «doppia separazione», come spiega Guarducci: «una delle conseguenze drammatiche di questa pandemia è proprio l’isolamento, di malati e sanitari, da tutto e da tutti». Come la maggior parte del personale ospedaliero impegnato quotidianamente nella lotta al virus anche lui da oltre un mese non torna a casa da moglie e figli. «Dare la comunione ai malati per me ha significato colmare questo vuoto, questo gesto mi ha fatto ricongiungere anche con i miei attraverso il Signore. È stata una delle esperienze più belle che ho vissuto nel corso della mia vita di uomo, di cristiano e di medico », dice ancora Guarducci.
Nel suo racconto il momento più toccante è stato quando ha dato l’Eucarestia a mamma e figlio ricoverati insieme per coronavirus. «Al di là dell’aspetto confessionale - riprende Risaliti - in questo momento di difficoltà i medici percepiscono la condizione di isolamento dei pazienti dagli affetti e dai parenti. Sono persone sole, sofferenti, non solo nel fisico ma anche nell’anima. Vivono una situazione di distanza umana».
Indossando i dispositivi di protezione anche il cappellano don Bergamaschi è entrato nel reparto. Con sé aveva una pisside con le ostie, separate una a una da una garza per evitare una eventuale contaminazione. Mentre in rianimazione, per i pazienti intubati impossibilitati a comunicarsi, è stata letta una preghiera davanti al letto.
«Il vescovo Nerbini ci ha formalmente incaricato - conclude il dottor Risaliti - ha fatto un piccolo discorso spiegando che in questi tempi difficili noi medici siamo chiamati anche a questo. Ed io sono d’accordo: attualmente il nostro sforzo è troppo indirizzato sulla cura del male fisico, ma mi rendo conto che la spiritualità dell’uomo non si può scindere dal suo corpo. Anche quella ha bisogno di importanti cure».
Presentazione volume - Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019
Lunedì 24 febbraio, alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 31.08.2016)
Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità - allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta.
Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità - conscio-inconscio, persona-cosmo -, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa.
Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ».
Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin.
Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fiumi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia (***) ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca. Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando - come intuito da Pound - i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi.
È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
***
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal). Una nota di Pietro Citati sulle "Lettere da Torino"
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche