Relativismo, una maschera del nulla
Oggi l’«incultura dell’optional» mette tutto sullo stesso piano, dalla pornografia alla fede
di Claudio Magris (Corriere della Sera 12.12.2008) *
In una delle sue ultime interviste, Horkheimer - fondatore, con Adorno, di quella Scuola di Francoforte che, col suo marxismo critico e autocritico, è tuttora fondamentale per capire la nostra realtà - dice che il mondo finito e contingente in cui viviamo è l’unico di cui possiamo parlare, ma non è necessariamente l’unico esistente e comunque non basta. Esso è l’unico oggetto di una onesta conoscenza razionale, ma la sua finitezza evoca quell’inattingibile altrove, quell’irriducibile Altro che danno senso al nostro confronto con esso, con le sue mancanze che chiedono di essere colmate, con le sue ferite che domandano di essere sanate, con le sue esigenze di giustizia e di felicità sempre deluse eppur mai cancellate.
Per la tradizione ebraica, che nutre il pensiero di Horkheimer, il Messia non è ancora venuto, ma anche chi ritiene che non verrà non può comprendere veramente la realtà umana senza fare i conti con il senso e con l’esigenza di quell’attesa, di quella promessa di redenzione. Ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario; d’altronde un pensiero che pretenda di essersi impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica menzognera.
Di Dio, dicono tutti i grandi mistici, non si può dire nulla, perché lo si degraderebbe a misura umana, bestemmiando la sua assolutezza; si può solo sentirsi avvolti dalla sua oscurità, mentre ci si occupa onestamente delle singole cose che si possono vedere.
Quelle parole di Horkheimer, alieno da qualsiasi fede positiva, indicano come la fede, contrariamente a ciò che spesso si dice, non sia un ombrello che ripara da dubbi e incertezze, bensì un violento squarcio del consueto sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le convenzioni passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti. Gesù o Buddha non sono venuti a fondare una religione, perché già allora ce n’erano troppe, bensì a cambiare la vita, con tutto il rischio e lo smarrimento che ciò comporta e che Gesù ha provato nel Getsemani; secondo le sue parole, solo chi è disposto a perdere la propria vita la salverà e perdere la vita - ossia tutto il suo corredo di convinzioni, abitudini, valori, legami, buoni sentimenti e comportamenti assennati - significa non sapere a cosa si va incontro.
Nel suo dialogo con Giulio Giorello - Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti - Dario Antiseri ha sottolineato come la fede, proprio perché afferma di credere in una verità e non di sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell’assoluto. Inoltre la fede, a differenza di tante ideologie, impedisce di innalzare falsamente ad assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, morale, religiosa, ecclesiastica; essa è una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un (falso) assoluto, un idolo che esige cieca obbedienza e magari sacrifici di sangue.
Come Giorello, ammiro più la preghiera a schiena diritta che quella in ginocchio, ma inginocchiarsi solo dinanzi all’assolutamente Altro aiuta a non inginocchiarsi davanti a ogni potere che pretende di essere Dio o il suo unico autorizzato rappresentante e di parlare a suo nome. I fondamentalismi di ogni genere - anche e soprattutto quelli religiosi, di ogni religione e di ogni Chiesa, nessuna esclusa - sono spesso i primi a commettere questo peccato di blasfema e violenta idolatria.
Il dialogo fra Giorello e Antiseri è nato anche dalle ripetute condanne del relativismo pronunciate da Benedetto XVI e dalle polemiche da esse provocate.
Un intenso approfondimento di questa tematica, inteso a sfatare da posizioni laiche la fallace identificazione del relativismo col pluralismo e con la libertà, è costituito dal volume Verità relativismo relatività (ed. Quodlibet), curato da Tito Perlini, autore dell’affascinante saggio che lo apre.
Interprete e seguace del marxismo critico della Scuola di Francoforte, sulla quale ha scritto pagine fondamentali, figura intellettuale di rilievo nella sinistra minoritaria italiana e aperto a quell’«assolutamente Altro» di cui parlava Horkheimer, Perlini è una delle intelligenze che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi decenni.
Pago di capire, pronto a prendere atto con tranquillo disincanto del fallimento di molte sue aspettative politiche, riluttante ad apparire (non per sdegnosa o schiva riservatezza, bensì piuttosto per sana ancorché esagerata pigrizia), Perlini è stato sempre restio a ridurre i suoi acutissimi e torrenziali saggi, sin dalla sua voluminosa tesi di laurea sul Doktor Faustus, che ben più di mezzo secolo fa sfondò lo zaino in cui l’aveva messa il suo maestro Guido Devescovi, l’amico e compagno di classe di Scipio Slataper, per portarsela a leggere in montagna.
Nel suo saggio, Perlini combatte il rifiuto dell’idea di verità e della sua ricerca, che da Nietzsche in poi domina il pensiero occidentale. Benedetto XVI, condannando il relativismo sul piano etico e teoretico, ne riconosce la validità sul piano politico quale fondamento della democrazia, basata sul presupposto che nessuno possa pretendere di conoscere e tanto meno di imporre la strada giusta. Certamente più democratico di Benedetto XVI, Perlini è tuttavia ben più radicale nella critica non della democrazia, in cui crede, bensì della sua attuale degenerazione: una politica che ha abdicato a ogni visione del mondo e si è ridotta a mera gestione - talora a indebita appropriazione - dell’esistente, declassando la democrazia a «dittatura dell’opinione pubblica manipolata che legittima ogni forma di demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e finanziario».
È un ritratto perfetto dell’Italia di oggi. Alle classi tradizionali è subentrato un gelatinoso «ceto medio» che non ha nulla della classica borghesia e che produce e consuma - scrive Perlini riprendendo un’osservazione di Goffredo Fofi - una colloidale «cultura media» che avviluppa come un chewing gum i giornali, l’università, la televisione, l’editoria, il dibattito intellettuale, livellando ed equiparando tutti i valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente digeribile, che smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di mettere realmente in discussione l’ordine imperante - ogni scandalo e follia della croce, per citare il Vangelo.
Questa medietà non è la modesta e onesta tappa in cui quasi tutti noi mediocri siamo ovviamente costretti a fermarci nel cammino verso l’alto, ma è la totalitaria eliminazione di ogni tensione fra l’alto e il basso, l’ordine e il caos, la vita e la morte, il senso e il nulla. Il relativismo è il presupposto di questa (in) cultura dell’optional, che ammannisce un po’ di tutto mettendo tutto insieme sullo stesso piano e sullo stesso piatto, pornografia e prediche sui valori familiari, fumisterie esoteriche e pacchiane superstizioni, un etto di cristianesimo e un assaggio di buddhismo, volgarità plebea e volgarità pseudoaristocratica di spregiatori delle masse graditi a quest’ultime, Madonne di gesso che piangono e veline che discutono con filosofi, abbronzature di famosi su belle isole e pii cadaveri dissotterrati e messi impudicamente in mostra.
Questo relativismo, in cui tutto è interscambiabile, non ha niente a che vedere col rispetto laico dei diversi valori altrui accompagnato dal fermo proposito di contestarli rispettosamente ma duramente in nome dei propri; è il trionfo dell’indifferenza, collante di una solidale e inscalfibile egemonia. Così il relativista, scrive Perlini, è intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l’esercizio della ragione.
L’autentico illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello espresso da Lessing nella sua famosa parabola dei tre anelli: nessuno sa quale sia quello vero, perché l’occhio umano non può distinguerlo, ma si sa che uno è vero, che c’è la verità e che vivere significa cercarla pur sapendo di non poter mai esser certi di averla raggiunta. Il relativismo - scrive Perlini - è uno stimolo salutare all’interno della ricerca della verità, per impedire che essa si snaturi, come è avvenuto e avviene spesso, nell’intollerante dogmatismo. Altrimenti il relativismo è l’altra faccia del fondamentalismo sicuro di sé, poca importa se trionfalmente ateistico o trionfalmente bigotto, muro di supponenza che un io debole e timoroso della vita si costruisce per tenerla lontana. Finché c’è il muro, il timore dei fantasmi è forte. Ma come dice la vecchia storia? «La paura bussa alla porta. La fede va ad aprire. Fuori non c’è nessuno».
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«Verità relativismo relatività» (Quodlibet, pp. 224, e 18) è il titolo dell’ultimo fascicolo, curato da Tito Perlini, dell’«Ospite ingrato», rivista del Centro studi Franco Fortini.
Il libro di Dario Antiseri e Giulio Giorello «Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti» (pp. 180, e 17) è edito da Bompiani.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Federico La Sala
Tito Perlini, vita da filosofo fino al termine del disincanto
Un addio al pensatore che andò oltre Marx, Adorno e Mann
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 27.09.2013)
Vivere, a un certo punto della propria parabola, diviene sopravvivere; non tanto ad altri che si fermano e restano indietro o forse invece corrono avanti e sono già arrivati chissà dove, quanto a sé stessi, alla propria esistenza piena e completa, perché la morte di persone amate non è solo un dolore per loro, bensì - e ancor più - una mutilazione di noi stessi, che senza di loro non siamo più i medesimi, non siamo più veramente noi nella nostra integrità, ma abbiamo perso qualcosa di essenziale che contribuiva a costituirci, a fare di noi quello che siamo. Il dolore, in questi casi, è più per noi stessi che per loro.
Con la morte di Tito Perlini, avvenuta a Trieste, perdo anzitutto una parte della mia intelligenza, della mia capacità di capire il mondo e le sue trasformazioni politiche, sociali, morali, biologiche sempre più vertiginose. Ma questa intelligenza delle cose che, per la parte legata a lui, mi è stata portata via era, è indissolubilmente fusa con l’amicizia, l’affetto, lo scambio di idee di risate di esperienze nelle chiacchierate, nelle passeggiate nella sosta in birreria o a cena a casa mia. Se filosofia, come dice la parola, è amore della sapienza, del sapere e del capire, non ho forse conosciuto nessuno che meritasse il nome di filosofo come lui.
Non solo per i libri che ha scritto, molti dei quali bellissimi, fondamentali: sul marxismo e sulla Scuola di Francoforte, su Adorno e Benjamin, su Thomas Mann, sul giovane Lukács e su quella grandiosa cultura e letteratura tra fine Ottocento e primo Novecento, che rimane tuttora fondante perché ha indagato come nessun’altra la disgregazione di una civiltà plurisecolare, la frantumazione di ogni visione ordinata e totale della realtà, la necessità e l’impossibilità della vita vera, intrisa di significato.
Restano essenziali i suoi saggi sul nichilismo e su Augusto Del Noce, il grande pensatore cattolico affascinato dal comunismo e dalla modernità più perversa, ma duro e geniale assertore della Tradizione senza compromissioni né aggiornamenti. Marxista critico e figura intellettuale di primo piano nella sinistra italiana anche se voce fuori dal coro, Perlini non condivideva la fede né il tradizionalismo di Del Noce, ma si rendeva conto come pochi altri che senza il confronto con le esigenze della fede - con quell’esigenza dell’«assolutamente Altro», che possiamo chiamare Dio e che era stata affermata da uno dei padri della Scuola marxiana di Francoforte, Max Horkheimer - non si può capire il mondo finito, concreto, storico, l’unico che si possa indagare razionalmente ma che rimanda alla propria insufficienza. Perlini è filosofo soprattutto perché capire era la sua passione fondamentale, tale da assorbire pressoché completamente la sua vita serenamente solitaria e inaccessibile.
La sua opera è fortemente segnata da una tensione utopica, sorretta e corretta da un forte e concreto senso della realtà. Dal pensiero negativo di Adorno e di Benjamin aveva imparato - e aveva saputo interpretare e trasmettere originalmente - che solo la ragione può illuminare il reale ma che la ragione stessa, per non diventare un meccanismo automatico e totalitario che di fatto impone un proprio modello di razionalità tirannica, deve continuamente mettersi in discussione e rituffarsi nella polvere del reale, della vita, dell’accidentalità, in quel caos da cui bisogna sollevarsi ma senza alcuna pretesa di averlo superato per sempre, perché la vita urge sempre sotto il pensiero, mettendolo in pericolo ma anche nutrendolo. Ho imparato da lui come da nessun altro che la verità di don Chisciotte deve sempre fare i conti con quella di Sancho Panza, se vuole ritornare autentica in sella a Ronzinante.
La vita di Tito Perlini è tutta nel suo pensiero, nella sua riflessione, nella sua scrittura, con tutta la malinconia che ciò comporta, una malinconia sempre taciuta e superata forse solo nell’amicizia.
Ha insegnato al liceo a Milano, la sua città amata, e all’università di Venezia; ha partecipato, ma sempre da franco tiratore e con distanza critica, alla vita politica della sinistra. È di fatto uno dei più significativi filosofi italiani anche se, a differenza di altri suoi amici, non è divenuto mai una vedette, un guru, sottraendosi a quella spirale che nella nostra società trasforma sempre di più intellettuali, scrittori e filosofi, anche grandi, in veline.
Non si è trattato di una scelta moralistica, perché nulla gli era più estraneo del moralismo; gli interessava capire, non giudicare e dinanzi a certi miei furori etico-politici mi diceva ironicamente che io me la prendevo con i fenomeni deteriori, mentre quel che conta è capire i processi che li rendono inevitabili. Del resto non avrebbe avuto nemmeno la capacità di essere un filosofo interpellato dai media: glielo impedivano la sua pigrizia, la torrenziale ed eccessiva misura dei suoi interventi, cui non era disposto a rinunciare né ne sarebbe stato capace. Non era affatto immalinconito, perché non gli interessava essere protagonista ma gli bastava capire per sentirsi appagato. Una volta, a un dibattito cui partecipavamo entrambi, mi disse, a proposito di un collega seduto allo stesso tavolo: «Vuole avere l’ultima parola e noi gliela lasciamo volentieri».
Con una certa prevaricazione intellettuale, era indifferente alla natura e mi guardava ora con compatimento ora con irritazione perché io invece non posso fare a meno del mare e dei boschi. Si era laureato a Trieste con una tesi sul Doktor Faustus, così grossa che aveva sfondato lo zaino in cui l’aveva messa il suo relatore Guido Devescovi, l’amico di Slataper, portandosela in montagna.
Era molto triestino, anche se - o forse proprio per questo - insofferente di Trieste, in cui peraltro aveva succhiato col latte il senso della storia e della vita come disincanto. Sul disincanto ha scritto pagine memorabili, cercandolo soprattutto nei capolavori della letteratura - Mann, Dostoevskij, l’amatissima Educazione sentimentale di Flaubert - perché è nella letteratura che il pensiero si incarna e diventa vita.
Il suo pensiero dialettico non conosceva verità definitive, ma nel suo stupendo saggio sul relativismo - credo l’ultimo suo lavoro, certo quello in cui, come mi disse, aveva espresso pienamente se stesso - ha demolito una volta per tutte lo stupido culto oggi obbligato del relativismo, distinguendo il relativismo buono quale continua e necessaria correzione nella ricerca della verità, che impedisce a tale ricerca di diventare dogmatica, dal relativismo becero e barbarico che mette tutto sullo stesso piano, come se il razzismo antisemita e il rispetto di tutti gli uomini fossero due opinioni parimenti lecite e rispettabili.
Ha passato l’ultimo periodo della sua vita pesantemente paralizzato dal Parkinson, che gli rendeva molto difficile anche parlare. Ma era sempre tranquillo, pacato; sempre più interessato all’oggetto che alle proprie magagne, non ha permesso che queste alterassero la sua visione del mondo.
Bruno De Finetti. Il padre del relativismo
Il suo pensiero, a partire dagli anni Trenta, demolisce la vecchia idea della ricerca «intesa come scopritrice di verità assolute» e la rende «carne della nostra carne, frutto del nostro tormento»
Matematico scomodo, rifiutò di fare della scienza un idolo Irredentista, fascista della prima ora, simpatizzò con il ’68
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 29.12.2008)
Gli studenti contestano i professori? La maggioranza dei «baroni» trova che sia uno scandalo. «Io credo, invece, che si debba chiedere il privilegio di essere i principali imputati: solo accettando e sollecitando la critica... potremo liberare le molte e valide energie latenti che si trovano tra noi, accendere la volontà di rinnovamento, combattere con fiducia e con fermezza la battaglia contro i mali che altrimenti continueranno a sopraffarci e cui saremo costretti ad assuefarci, non foss’altro che per non morire di rabbia». Così il matematico Bruno de Finetti (1906-1985) parlava della «rivolta degli studenti» nel formidabile Sessantotto: «Se i giovani non rifiutano a 18 o 20 anni quello che è da rifiutare nella società, non ne saranno capaci mai più».
Fa bene leggere parole come queste in momenti in cui alcune tendenze «revisioniste» liquidano come infantile o dogmatica la «ribellione» di quarant’anni fa - dimenticando cos’era l’Italia di allora e come quella «rivolta» abbia contribuito a cambiarla: dalla condizione femminile a una concezione laica della famiglia, dal diritto allo studio allo svecchiamento delle strutture burocratiche (altro che ridurre il Sessantotto alle squallide esibizioni muscolari dei servizi d’ordine di qualche gruppetto neostalinista). Era l’epoca di slogan come «l’immaginazione al potere». Bruno de Finetti non avrebbe mai pensato al potere politico, bensì a quello dell’intelligenza scientifica e artistica: l’immaginazione è «l’energia mentale che permette l’emergere della novità». Un’energia che a torto una scuola fossilizzata reprime «facendo passare per sempre la voglia ai giovani di occuparsi di tutte le cose che vengono loro insegnate».
Bastano riflessioni del genere a farci capire perché de Finetti fosse davvero «un matematico scomodo» - così recita il titolo del volume costruito dalla figlia Fulvia de Finetti e dal giornalista Luca Nicotra come una sorta di «intervista postuma »; che sfrutta non solo pubblicazioni scientifiche ma anche interventi estemporanei, articoli su quotidiani e riviste, lettere a colleghi e familiari ( Bruno de Finetti. Un matematico scomodo, Belforte, pp. 293, € 22).
Nato a Innsbruck da famiglia italiana, «piccolo simpatizzante dell’irredentismo» affascinato dal «patriota» Cesare Battisti, poi fascista della prima ora («movimentista», per usare la terminologia dello storico Renzo De Felice), inizialmente studioso di genetica delle popolazioni, passato quindi alle basi concettuali del calcolo delle probabilità, grande maestro della statistica italiana prima ancora che cattedratico universitario, decisamente avverso a sfruttare la sua affiliazione politica per fare carriera - e, nel secondo dopoguerra, sempre più incline ad appoggiare battaglie libertarie (come quelle condotte dal Partito radicale) - Bruno de Finetti riassume non poche contraddizioni del secolo scorso, ma anche le speranze per quello in cui noi stiamo vivendo. I suoi tentativi di liberare il calcolo delle probabilità da qualsiasi incrostazione metafisica, di rendere l’insegnamento della matematica più vicino alle esigenze dei fisici, degli economisti o degli ingegneri, la sua fiducia nella «economia di pensiero» consentita dai nuovi mezzi dell’informatica non sono soltanto elementi interni a una riflessione che lo aveva condotto dalla matematica alla filosofia, ma scelte di vita in cui continuamente lo studioso si metteva alla prova senza timore di quella «critica» che costituisce il lievito della crescita scientifica come della fioritura di una società libera.
Senza bisogno di entrare in particolari tecnici, basterà ricordare come l’impostazione soggettivistica di de Finetti nel campo della probabilità (semplicemente «il grado di fiducia che ognuno sente nel verificarsi di un dato evento») non solo non distrugge il carattere intersoggettivo dell’impresa tecnico-scientifica, ma anzi lo esalta.
Come scriveva nel suo capolavoro del 1931 (dal titolo Probabilismo), con il soggettivismo viene meno solo una concezione della scienza «intesa come scopritrice di verità assolute» (che rimane «disoccupata» per mancanza di tali verità!), «ma mentre cade infranto il freddo idolo marmoreo di una scienza perfetta, eterna e universale», compare «al nostro fianco una creatura viva, la scienza che il nostro pensiero liberamente crea: carne della nostra carne, frutto del nostro tormento, compagna nella lotta e guida alla conquista».
Lo stesso spirito si ritrova nella splendida lezione filosofica che nel 1934 Bruno aveva dedicato all’Invenzione della verità - testo che ha visto la luce solo due anni fa grazie alla cura di Fulvia (Raffaello Cortina, pp. 204, € 19). La logica «viva e psicologica » invocata da Bruno non nega la verità scientifica; piuttosto, rifiuta di farne un idolo. Lo stesso dovrebbe dirsi delle strutture istituzionali, a cominciare dallo Stato: mezzi cui si ricorre per soddisfare ai nostri bisogni e desideri, non fini a cui sacrificare l’autonomia degli individui o l’indipendenza dei popoli. Solo così i nostri concetti fondamentali - dalla matematica alla morale - non si riducono alle marionette di una commedia dove ogni ruolo è definito una volta per tutte, ma restano «i sei personaggi in cerca d’autore» di Pirandello, capaci di stimolare il cambiamento in campo scientifico e tecnologico. Relativismo? Fin dai lavori degli anni Trenta, Bruno de Finetti non aveva paura di pronunciare quella parola che oggi sembra tanto godere di cattiva stampa!
Mi sia lecita una nota personale: in un appassionato intervento sul Corriere del 12 dicembre, Claudio Magris - alludendo anche al mio dialogo con Dario Antiseri sulla Libertà (Bompiani, pp. 180, € 17) - ha ripreso la fiera immagine dei calvinisti scozzesi che pregano Dio restando in piedi e non strisciando in ginocchio. Quel loro Dio non era un sapere assoluto, ma l’impossibilità di un sapere di tal genere! In un bel libro ( Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale, Raffaello Cortina, pp. 172, € 18) scrive il fisico Enrico Bellone: «Solo gli dei promulgano verità non negoziabili. Gli umani, invece, fabbricano teorie per meglio adattarsi al loro ambiente »; e nelle comunità ove si tende ostinatamente a proteggere dalla critica principi o valori «non negoziabili» si finisce col portare in tribunale l’innovazione, come vari episodi mostrano: dalla condanna di Galileo all’attuale messa sotto accusa delle biotecnologie. Sono d’accordo con de Finetti: teniamocelo stretto, il relativismo - è uno dei modi di resistere a tutto quello che non ci piace del nostro Paese e «non morire di rabbia»!