Günter Grass rivela: ero nelle Ss
di Roberto Brunelli*
Lui l’aveva raccontato, il tracollo del suo Paese, sessant’anni fa, le oscure fascinazioni e la capitolazione del nazismo, i destini e i volti di chi fu travolto, per caso o per volontà, nel grande vortice che aveva inghiottito la Germania e tutta l’Europa. Un passato che ancora oggi sembra si rifiuti di allentare la sua tenaglia sul Paese, e sul suo scrittore più grande, uno dei più amati, odiati e controversi della Germania, l’uomo del Tamburo di latta. Sessantuno anni dopo la caduta del Terzo Reich, arriva da Günter Grass, premio Nobel per la letteratura nel 1999, appassionato socialdemocratico, grande sostenitore di Willy Brandt e oggi pacifista, la confessione più drammatica: giovanissimo fu arruolato nelle Waffen SS, i reparti militari d’elite guidati da Himmler. Ne parla per la prima volta, in una lunga intervista al maggiore quotidiano tedesco, la «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che la pubblica integralmente nel numero in edicola oggi.
Nel flusso dei racconti, un episodio degno di un suo libro: l’incontro, durante la successiva prigionia, a Bad Aibling, con Jospeh Ratzinger. «Insieme a ragazzi diciassettenni come me ero in questo campo, dove a cielo aperto erano internati 100mila prigionieri di guerra... uno si chiamava Joseph, era molto cattolico e pronunciava spesso citazioni in latino. Diventò mio amico e giocavamo insieme a dadi, parlavamo e facevamo speculazioni sul futuro, come fanno volentieri i ragazzi. Io volevo diventare un artista, mentre lui voleva entrare nella Chiesa e fare carriera. A me dava l’impressione di essere un po’ impacciato, ma era un tipo simpatico. Si tratta di una bella storia, non è vero?».
Ma perché raccontare oggi, oggi che Grass ha quasi ottant’anni e che da almeno quaranta viene considerato la coscienza morale della Germania, una verità taciuta per oltre sei decadi? L’occasione, per così dire, è l’uscita - a settembre - del suo libro di memoria Beim Hauten der Zwiebel («Sbucciando le cipolle»), in cui sviscera gli anni della giovinezza a Danzica, le ultime settimane di guerra come soldato, del suo ferimento, nel 45, e della prigionia. Ma dice anche, Grass, che «non poteva farne a meno», a quasi ottant’anni, di raccontare tutto. «Il mio tacere in tutti questi anni è uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere questo libro. Tutto questo doveva uscire fuori, finalmente...».
A quindici anni - racconta a Frank Schirrmacher e a Hubert Spiegel della Faz- ancora nella "Hitlerjugend", si era arruolato volontario in Marina, per andare negli «U-Boot», nei sommergibili. Ma fu respinto perché troppo giovane. L’anno successivo fu richiamato nella Waffen SS. «Lo scoprii una volta arrivato a Dresda, che quella era la Waffen SS. Sensi di colpa? All’epoca, no. Dopo, questo senso di colpa m’ha attanagliato come una vergogna profonda». Lo sapevamo, dice in sostanza lo scrittore, avevamo capito, potevamo aver capito quello che stava succedendo, l’orrore più grande di tutti? Grass ironizza: «Oggi abbiamo così tanti resistenti, che ci si meraviglia di come Hitler abbia potuto andare al potere». E invece no: «Nei giorni dopo il crollo, era come se il povero popolo tedesco fosse stato rapito da un’orda di compagnucci neri. Non era vero. Ero ragazzino e ho vissuto tutto quello che succedeva in pieno giorno. Naturalmente c’era anche la seduzione. La gioventù? Molti, molti erano entusiasti. E questo entusiasmo l’ho voluto raccontare nel Tamburo di latta...». E infine: «Per me la domanda è sempre stata: avrei io potuto riconoscere in quel momento cosa stava accadendo?». È «la» domanda tedesca per eccellenza, dal 1945 a oggi.
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www.unita.it, Pubblicato il 12.08.06
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
Noi tedeschi in crisi d’identità
di Peter Schneider (la Repubblica, 26.09.2015)
LEGGENDO le drammatiche notizie sul caso Volkswagen, mi sembra che una parte dell’anima tedesca oggi appartenga ai colossi dell’auto made in Germany.
E QUINDI l’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo - lo dico per Vw, non so quanti e quali altri produttori mondiali siano coinvolti - è fondata da tempo sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità attendibile che a fatica il Paese si era ricostruito.
Il caso colpisce al cuore l’anima tedesca, anche perché abbiamo sempre pensato che tutti gli altri paesi sono corrotti, ma noi no: addio all’illusione di essere diversi, migliori rispetto agli altri, in Europa e nel mondo.
Inutile illudersi, noi tedeschi e il resto d’Europa e del mondo, che sia in gioco solo la reputazione di Vw: è in gioco l’immagine del Made in Germany quale sinonimo costitutivo della ricostruzione postbellica, e della fierezza di se stessi, delle virtù tedesche - onestà, serietà, affidabilità - che dopo il 1945 ci fu così arduo ritrovare. Sono spesso in America, sento spesso dire dagli amici americani che per loro i sinonimi della Germania nel loro immaginario collettivo sono “Hitler and good engineering”. Ora purtroppo quel primo orrendo sinonimo resta, ma il secondo diventa “cheating engineering”, tecnologia imbrogliona. Truffa con cui Vw si è creata un vantaggio illegale e scorretto rispetto alla concorrenza mondiale, e questa sua truffa pesa oggi sulla coscienza della nazione.
Riflettendo ancor più a fondo, emergono altre consapevolezze amare: per anni Vw e forse altri produttori hanno mentito al mondo. Proprio loro simbolo del Made in Germany, di eccellenze di un Paese ecologista come pochi altri, hanno detto il falso, hanno sostenuto che è possibile produrre e vendere auto sempre più grandi, potenti e pesanti ma sempre meno inquinanti.
Fu soprattutto l’industria dell’auto tedesca e americana a illudere i consumatori mondiali convincendoli che i SUV, quelle orrende jeep di lusso sinonimo di visibile egoismo arrogante, erano ecologici. E’una menzogna di cui adesso paghiamo il conto.
La situazione è tanto seria, che persino la Schadenfreude (la gioia maligna per le disgrazie altrui, in questo caso gioia di altri per la disgrazia tedesca) non fa piacere. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere nella Germania più felice, migliore, più amata dal mondo che la Storia abbia mai visto. Fino a pochi giorni fa era così... anche con Angela Merkel e le sue braccia aperte ai migranti, risposta civile europea ai razzisti come Orbàn. Ma adesso ci troviamo a una cesura seria. Non siamo alla fine della Storia di questa Germania felice e in pace col mondo, ma alla fine della sua identificazione folle con i successi dell’industria dell’auto. Che tristezza, se pensiamo a come le nostre “famose capacità tecnologiche” avrebbero potuto essere usate per produrre auto sempre più pulite, anziché per imbrogliare con quei software che falsavano i test.
Ci è mancato qualcosa di costitutivo, in un comparto economico chiave e determinante. Ci è mancata, per scelta dei big dell’auto che volevano soltanto vendere ogni anno più vetture, l’immaginazione e la creatività che a volte non vediamo, a volte fingiamo di non vedere altrove. Penso per esempio agli Stati Uniti dove l’alta tecnologia è culturalmente piu legata all’innovazione in nome della curiosità e della qualità della vita. Basta l’esempio della Tesla, la supercar familiare elettrica da 500 cavalli che loro hanno pensato e costruito, e che vendono con successo. Noi avremmo la capacità tecnologica di farlo, ma i nostri grandi Autokonzern hanno scelto di rinunciarvi.
Purtroppo rimane un’altra domanda sul Dieselgate. Come spiegare il silenzio di anni del sindacato più potente del mondo, rappresentato in forza al vertice Volkswagen in nome della Mitbestimmung, la cogestione? Che cosa significa, e che cosa cela, questa armonia dei silenzi tra azienda-simbolo e sindacato- simbolo della democrazia nata dalle macerie? Finché ci mancheranno i risultati delle indagini sui responsabili, sulle aziende colpevoli e mentitrici tedesche e magari anche non tedesche, ci rimane solo etichettare ogni auto Volkswagen come un pacchetto di sigarette, con avvisi obbligatori sul pericolo dell’uso.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)
Il tamburo di latta
Il libro che cambiò la Germania
A cinquant’anni dal romanzo di Günter Grass esce una nuova traduzione Fu un’opera che con le sue verità scomode la sua furia anarchica modificò lo sguardo dei tedeschi sul proprio passato
di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 17.01.2009)
In una piazza di Danzica, su una panchina di bronzo, siede Oskar Matzerath, il nano che con il suo tamburo di latta bianco e rosso cinquant’anni fa cambiò la letteratura tedesca e lo sguardo dei tedeschi sul loro passato. Alla sua destra era seduto, con i suoi baffoni spioventi, la pipa e l’espressione aggrondata, anche il suo creatore e cittadino onorario di Danzica, Günter Grass. Ma lo scrittore si era ribellato a questo monumento mentre era ancora in vita � così come ferma chiunque lo lodi quando osa parlare di "bilancio" della sua vita letteraria: «Ho ancora alcuni progetti», avverte. E al sindaco di Danzica aveva suggerito di spendere meglio quei soldi per fare i bagni nelle case popolari che ancora ne sono prive invece che per un monumento di bronzo.
Paradossalmente, la sua città natale, oggi Gadnsk e non più Danzig, polacca e non più anche tedesca, che lui era stato costretto a lasciare dopo la guerra voluta da Hitler, è rimasta la sola a difenderlo incondizionatamente. Mentre i tedeschi non riescono ancora a perdonare al loro Tamburo di latta che per anni aveva tambureggiato in tutte le direzioni verità scomode, di aver detto ad alta voce solo in uno dei suoi ultimi libri, Sfogliando la cipolla, che a sedici anni, negli ultimi mesi di guerra, era andato volontario nelle Waffen SS (che peraltro, va precisato, erano, sia pure con un nome simile, altra cosa delle SS che hanno compiuto i crimini più orrendi in Europa durante la guerra).
Del resto nessuno, in questi cinquant’anni, ha contribuito alla riconciliazione tra polacchi e tedeschi più dello scrittore tedesco casciubo che, lasciata Danzica, era poi diventato nella Germania occidentale per metà dei tedeschi la coscienza della nazione, e per l’altra metà un nestbeschmutzer, uno che sporca il proprio nido, la propria patria � oltre che un pornografo, uno scrittore osceno: laddove valevano per tutte le descrizioni in cui Oskar , ormai sedicenne ma creduto da tutti un bambino perché a tre anni aveva smesso di crescere, dopo averlo cosparso di polvere profumata lecca il corpo della giovane Maria, e la lingua si perde «laddove nessun guardiaboschi ha il suo distretto».
Bissau, Kaschubei, è oggi diventata Bysewo, periferia di Danzica. Grass cominciò a parlare già cinquant’anni fa «di ciò che era andato perduto». Il tamburo di latta - affermò - è un tentativo «di fissare un pezzo di patria perduta per sempre». Laddove patria, s’intende, è per lui sempre e solo Heimat, il luogo natìo, le strade dell’infanzia, e mai Vaterland, una parola che nessun tedesco dopo la guerra poteva più pronunciare. Grass non volle pronunciarla nemmeno nei giorni euforici dell’unificazione, e come sempre osò andare contro la corrente. Per lui la nazione tedesca restava la Kulturnation, quella nazione culturale che aveva sempre amato e coltivato mantenendo durante la Guerra Fredda i rapporti con gli scrittori dell’altra Germania a dispetto della Stasi; non la nazione politica che si era macchiata di crimini infami.
Il romanzo uscì nel 1959, ma già qualche mese prima il trentenne scrittore aveva letto il primo e il trentaquattresimo capitolo davanti al Gruppo 47, e subito si era capito che quel romanzo avrebbe cambiato la letteratura tedesca. Era la risposta a tutti coloro che si domandavano perché, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo le devastazioni e le lacerazioni che avevano segnato la storia di un popolo tra i più civilizzati della terra, non ci fosse ancora un grande romanzo che stesse alla pari con la tradizione letteraria tedesca. Il tamburo di latta (che oggi riesce con una nuova traduzione di Bruna Bianchi, Feltrinelli, pagg. 604, euro 15) fu la risposta, e di tutte le risposte venute dopo è rimasta anche dopo cinquant’anni la più importante.
Per i tedeschi fu come se qualcuno avesse spaccato all’improvviso un muro e l’aria fosse entrata in una stanza tenuta chiusa troppo a lungo. Questo romanzo burlesco sugli anni più bui della storia tedesca fu come uno specchio in cui i tedeschi si videro riflessi - uno specchio opaco abbastanza da permettere di percepire il passato come qualcosa di altro, di estraneo, e allo stesso tempo abbastanza chiaro da potervi riconoscere i propri tratti. Tratti che erano impregnati dalla vanità di tutto ciò che è terreno, dalla semplicità della vita contadina, dalla fuga dal mondo, da tutto ciò che gli studiosi hanno chiamato "il barocco" di Günter Grass. Il tamburo di latta fece saltare in aria tutto quello che era stato detto fino ad allora in lingua tedesca e con furia anarchica, forza barocca e straordinaria fantasia dette un’immagine epica del passato tedesco. Il solo paragone che si poté fare fu con il Simplizissimus di Grimmelshausen che con un sguardo apparentemente naïf descrive l’orrore della Guerra dei Trent’anni.
Fu il libro tedesco del dopoguerra. Un successo mondiale. Con un colpo solo Grass aveva dato risonanza alla Germania, che era sparita dal consesso dei paesi civili, una risonanza nella quale si affievolivano tutte quelle parole che erano rimaste fino ad allora nelle orecchie dei popoli europei dopo la Seconda Guerra mondiale.
La Germania è sempre rimasta il terreno di risonanza dove lo scrittore ha battuto il suo tamburo. Dieci anni dopo il Tamburo esce il Diario di una lumaca, il ricordo personale di una campagna elettorale combattuta a fianco di Willy Brandt, anche lui un nestbeschmutzer, un insozzatore del nido per buona parte dei tedeschi, per il suo anticonformismo e per essersi inginocchiato nel ghetto di Varsavia. Günter Grass sostenne attivamente Willy Brandt (in un momento in cui l’"impegno", in Germania, non era visto di buon occhio), più tardi lo criticò.
Poi si riavvicinò al cancelliere condividendo la Ostpolitik che rese il muro un po’ più permeabile. Guardano a quegli anni si ha l’impressione che come scrittore a un certo momento (con Anni di cani) si sia trovato a un bivio: avvicinarsi all’avanguardia sperimentale europea ,o scegliere l’impegno politico anche come scrittore. E lui scelse la seconda strada.
Il Nobel che gli fu assegnato nel 1999 ebbe in Germania quasi l’effetto di una riconciliazione. Tanto era stato detestato da parte dei tedeschi. Il cancelliere Schroeder parlò di "oltraggi" che lo scrittore aveva dovuto subire. Lui è rimasto uguale a se stesso, anche dopo aver rivelato quella adesione alle Waffen SS a sedici anni: una figura pubblica di resistenza e di eroica caparbietà. Lo sua iconografia con la pipa e i baffi rivolti burberamente verso il basso ne sono ancora oggi la testimonianza.
Il cardinale Karl Lehmann interviene sulle recenti rivelazioni dello scrittore tedesco sul passato nazista: «Sorpresa e turbamento»
Grass, troppo tardi
«Le buone opportunità per parlare prima non sono mancate. E perché quelle invettive contro Adenauer e Strauss?»
di Karl Lehmann (Avvenire, 30.08.2006)
La confessione di Günter Grass, di essere stato all’età di 17 anni membro delle Waffen SS, è stata motivo di sorpresa e anche di turbamento. Per il coraggio dimostrato nel rivelare questa verità, molti - soprattutto tra i suoi colleghi scrittori - gli hanno espresso rispetto e riconoscimento. Ma molti hanno anche biasimato l’ammissione troppo tardiva.
Non si tratta qui di condannare moralmente o di screditare dal punto di vista umano un grande scrittore tedesco, uno dei pochi premi Nobel del nostro Paese. Tuttavia bisogna riconoscere che questa confessione è arrivata veramente con grande ritardo. Non è difficile comprenderne il motivo. Quando con il titolo «Sbucciando le cipolle» usciranno le sue memorie - tutto il resto al momento non è, alla fin fine, che pubblicità - per Grass, 78 anni a settembre, non si tratterà solo di una semplice questione di onestà, ma forse anche di una delle ultime occasioni per rivelare la cosa. Grass ha dichiarato di aver sempre considerato il fatto come una macchia sulla sua coscienza e che per questo non era mai riuscito a parlarne. «Doveva venir fuori» è la motivazione che ha dato. Il cristiano accoglierà con benevolenza anche una confessione piuttosto in ritardo. Per tutto l’arco della nostra vita ci è dato tempo - tempo donato - per riconoscere i nostri errori. Non è difficile essere indulgenti verso un giovane allora diciassettenne venutosi a trovare in quelle circostanze (1944). Certe affermazioni di Günter Grass fanno pensare che abbia sempre avuto presente questo suo coinvolgimento, per esempio quando nel 1966 in un discorso davanti al parlamento bavarese a Monaco ebbe a dire: «Da esperienze del mio passato e dall’inclinazione dei giovani in questo paese verso mire assolute ed autodistruttive...».
E tuttavia resta ancora qualcosa con cui fare i conti. Le buone opportunità non erano mancate. Quando in Germania nell’aprile del 1985 divampò la discussione intorno alla visita al cimitero militare di Bitburg - dove erano sepolti membri delle Waffen SS - da parte dell’allora cancelliere Helmuth Kohl e del presidente americano Ronald Reagan, quella, come ha detto Michael Wolffsohn (professore di Storia moderna presso l’Università della Bundeswehr di Monaco), sarebbe stata un’occasione d’oro per una confessione. Ma trovo ancor più grave che in questi giorni non si faccia quasi cenno alle invettive che Günter Grass lanciò nel corso degli anni contro Konrad Adenauer, Ludwig Ehrardt e Franz Josef Strauss. E di quando alla fine del 1966, con una lettera aperta, attaccò violentemente Kurt Georg Kiesinger, opponendosi alla sua elezione a cancelliere per la sua appartenenza al partito nazionalsocialista.
Può darsi che Günter Grass vi accenni nelle sue memorie, delle quali finora conosciamo solo pochi frammenti. Non è troppo tardi. Il cristiano pensa poi alla Sacra Scrittura: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Giov. 8,7). Se da un lato non è opportuno stilare oggi in gran fretta certificati d’innocenza o assumere toni compiacenti, non è nemmeno bene godere delle disgrazie di un grande scrittore. Di fronte a un’ammissione di colpa tardiva ognuno è chiamato alla cautela nell’emettere giudizi, in particolare se lui stesso ha qualcosa da nascondere: «Non giudicate, e non sarete giudicati» (Matteo 7,1). In tal senso una confessione come questa non arriva troppo tardi. In una simile prospettiva resta ancora tempo per trovare un’adeguata espressione di scuse, per quella che, con un termine solo apparentemente fuori moda, si chiama «riparazione».
(traduzione di Diego Vanzi)
Grass: una cipolla non sbucciata del tutto
di Luigi Reitani*
Nulla è più incerto e fragile del ricordo, esposto alle correzioni e alle censure dell’inconscio o della volontà. E quando la vergogna si intromette nei processi della memoria, per allontanare episodi imbarazzanti o sgradevoli, anche la verità si frange in mille rivoli, che non sempre corrono nella stessa direzione.
Da quando Rousseau, nelle sue Confessioni, dichiarò di voler raccontare gli episodi più intimi e penosi della propria esistenza, in nome di una verità sentita come assoluta, l’autobiografia è giudicata con il metro di una impossibile autenticità, come se la vita fosse rispecchiabile nella trasparenza della letteratura. Eppure sappiamo che non è così (neppure in Rousseau), e che la molteplice contraddittorietà dell’esistenza si lascia ricomporre solo nella finzione o con l’inganno. Sappiamo anzi che è proprio la memoria a fondare la nostra identità, e che dunque nel passato proiettiamo volentieri il nostro presente e forse anche le nostre attese per il futuro. Per questo la teoria della letteratura invita a considerare l’autobiografia come un genere fondato su un «patto» tra autore e lettore: quel patto che identifica il fittizio eroe di una storia con quell’io che la narra, ed entrambi con quel nome - stampato sulla copertina del libro - a cui corrisponde un indirizzo, un passaporto e un passato. Ma questo «patto» è naturalmente una finzione, sebbene, come tutti i patti, abbia un effetto normativo. Stabilisce le regole della lettura, senza tuttavia attestare la veridicità di ciò che è narrato. L’autobiografia non è un documento: è letteratura, e come tale va giudicata. Ricordando però che anche la letteratura è parte della vita e della storia.
Chi voglia leggere Sbucciando la cipolla - l’autobiografia con cui Günter Grass ha aperto porte e finestre sul proprio passato (Steidl, 480 pagine, 24 euro) - farà bene a dimenticare il turbine di polemiche seguito alla dichiarazione dell’autore di aver per la prima volta raccontato in questo libro della propria militanza nella Waffen-SS. E non dovrà cercare puntigliosamente nel testo concordanze con i documenti ufficiali. Che cosa importa sapere, ad esempio, se Grass fu chiamato alle armi nel settembre (come si legge nella autobiografia) o solo nel novembre (come è scritto nei documenti degli Americani) del 1944? Qui si presenta la storia di una SS divenuta un artista, ed è questo che conta.
Grass è del resto autore fin troppo smaliziato e consapevole per cadere nella ingenuità di chi presenta al lettore i suoi ricordi avvolti nell’aura intoccabile del vero e dell’autentico. L’intera autobiografia è invece costruita sulla problematicità del ricordo e sulla difficoltà del ricordare. La struttura portante con cui l’autore rievoca scene centrali della sua vita è così la formula interrogativa dell’ipotesi. Come avvenne, ad esempio, il commiato dal padre, prima di prendere il treno che l’avrebbe portato al fronte? Ci fu una stretta di mano, un abbraccio, un cappello o un fazzoletto sventolato nell’aria, una parola solenne di saluto, un sorriso imbarazzato, o altro? L’autore sventaglia un insieme di possibilità e si rifiuta di rispondere. E quando la narrazione sembra invece assumere il piglio di una autorevolezza indiscutibile, ecco arrivare subito dopo la smentita, l’ammissione che forse le cose non sono andate proprio così e che probabilmente nella rievocazione hanno avuto peso le parole lette in un libro o le immagini viste in un film. Perché se la nostra vita è unica, universali sono gli schemi con cui la formuliamo.
Questa consapevolezza narrativa è espressa nella metafora centrale che dà il titolo al libro: il ricordo è come una cipolla, stratificato. Dietro la prima crosta indurita si nascondono altre foglie, altri strati. Immagini e impressioni sepolte dal tempo e dall’orgoglio. E il processo del ricordare è doloroso: sbucciare la cipolla fa piangere, quando si arriva agli strati più nascosti. Così talvolta si chiudono gli occhi o si smette. Anche lui, l’autore, scrive di aver ceduto a questa tentazione, così che «il mio silenzio ora, sbucciando la cipolla, mi rimbomba nelle orecchie».
A intervalli regolari l’autore riprende questa immagine (disegnata in molteplici variazioni dallo stesso Grass per le illustrazioni al volume), seguendo una tecnica compositiva caratteristica della sua intera prosa. Perché in tutti i suoi libri c’è un oggetto metaforico - il tamburo di Oskar Matzerath, il pomo d’Adamo del Gatto e topo, il rombo e la ratta dei romanzi omonimi, l’ascensore di È una lunga storia, il crostaceo del Passo del gambero (già vicino nel suo significato alla dimensione del ricordo) - da cui scaturisce la narrazione. E persino sbucciare la cipolla non basta, quando a nascondersi sono elementi duri e sgradevoli. Allora lo scrittore prende dal suo cassetto un altro oggetto: un’ambra che alla luce rivela di custodire al suo interno insetti e altre impurità.
Emerge così strato dopo strato un ragazzo come tanti, che colleziona le figurine con i dipinti dei grandi pittori e divora l’eterogenea biblioteca della madre; un ragazzo che aiuta la madre a recuperare i crediti del negozio e con i soldi guadagnati scappa appena può al cinema, ma che non fa domande quando lo zio di origine polacca viene fucilato dai tedeschi e la famiglia interrompe ogni contatto con i cugini, prima regolari ospiti e compagni di giochi. Un ragazzo che accetta passivamente la propaganda e la retorica dei cinegiornali, milita con entusiasmo nelle organizzazioni giovanili naziste, e non si pone nessun interrogativo sulla natura del regime. Un ragazzo che impara a memoria - come i personaggi del Gatto e topo - i nomi e le caratteristiche della flotta tedesca e vive il progressivo coinvolgimento nella guerra, prima nella contraerea e poi nel servizio civile, come una piacevole avventura che lo fa uscire dalla ristrettezza dell’ambiente familiare, dalle due stanze con il bagno sul pianerottolo in comune con gli altri inquilini del palazzo. Nessun dubbio, nemmeno quando un testimone di Geova al corso di formazione lascia sistematicamente cadere il fucile e dice «noi queste cose non le facciamo». Le divise lo aiutano a superare l’insicurezza dell’adolescenza, crede in Hitler e nella «vittoria finale», crede soprattutto in se stesso. Per questo in una giornata «probabilmente di pioggia» a quindici anni fa domanda per arruolarsi volontario. Gli piacerebbe combattere nei sottomarini tanto mitizzati dai cinegiornali, ma gli andrebbe bene anche un carro armato, magari per imitare Rommel. Così, quando due anni dopo riceve la chiamata alle armi in una divisione corazzata delle SS è contento e ancora una volta non fa e non si fa nessuna domanda. E neppure dopo trapela il dubbio: né vedendo i disertori impiccati agli alberi, né dopo la guerra in visita di rieducazione a Dachau. Solo il processo di Norimberga servirà ad aprirgli gli occhi e a mettere in moto un processo di lenta consapevolezza.
Ma quanto più il ragazzo vive in questa incosciente adesione alla tragedia collettiva tedesca, tanto più lo scrittore che quel ragazzo è diventato lo sottopone sessant’anni dopo a un interrogatorio impietoso. L’intera autobiografia di Günter Grass mette in scena un dramma del ricordo, fondato sulla distanza tra l’Io che narra e l’Io che ha agito, tra un narratore e un eroe dallo stesso nome. E se il secondo cerca scusi o appigli, e talvolta vorrebbe trovare scampo nel grembo della mamma, il primo riflette implacabile e ricorda (magari compiaciuto) come abbia dato espressione artistica a questo o quel sentimento, a questo o quel problema.
Perché anche Sbucciando la cipolla non sfugge alla legge autobiografica di voler stabilire una connessione - come aveva fatto Goethe - tra poesia e verità, tra la finzione e la vita. E così sono molteplici i rinvii a tutti gli scritti dell’autore, poesie e drammi compresi, e in particolare al Tamburo di latta, che si presenta una volta di più come il cuore dell’intera opera di Grass. Scopriamo dunque i modelli ispiratori di figure e situazioni, ma soprattutto intuiamo come alla letteratura (e alle arti visive) Grass abbia assegnato la funzione catartica e liberatoria di una vita insidiata da nodi irrisolti.
Articolato in undici capitoli, il libro abbraccia i vent’anni compresi tra lo scoppio della guerra e la pubblicazione del Tamburo di latta, dal 1939 al 1959, con una forte prevalenza degli anni della guerra e del dopoguerra. Inframmezzati vi sono episodi successivi, in cui l’autore già affermato ritorna da solo o con la propria famiglia sui luoghi della giovinezza, e sporadiche incursioni in zone più remote dell’infanzia. Da questo punto di vista l’autobiografia di Grass (non a caso dedicata «a tutti coloro da cui ho imparato») si presta ad essere letta come un romanzo di formazione: la nascita dell’artista dallo spirito della corresponsabilità nella tragedia. Un romanzo di formazione a tratti picaresco, che si concede volentieri scene di sanguigno erotismo e di grassa comicità, dove il protagonista è un antieroe che non sa nascondere la propria paura e il proprio spesso inopportuno desiderio sessuale. Troviamo dunque il giovane soldato delle SS che si rifugia sotto un Panzer al primo scontro a fuoco con i Russi e si piscia addosso per la paura, e lo ritroviamo salvo per miracolo perché non in grado di partecipare a una sortita in bicicletta, non essendo in grado di pedalare. Storie forse in parte inventate, come anche quella, costantemente ripresa, che lo vede giocare a dadi nel campo di prigionia con un certo Joseph, fervente e ambizioso cattolico...
Ma è questo - da sempre - il Grass migliore, capace di rievocare i colori e gli odori della vita con mille e mille aggettivi, di dare vita a figure e a immagini grottesche e sensuali con una prosa imbevuta di metafore, dove quasi ogni parola ha un senso traslato; il Grass che si ispira alla prosa barocca di Grimmelshausen e serve ai suoi lettori pietanze forti e speziate, come quelle a lui insegnate in un improvvisato corso di cucina, tenuto nel campo di prigionia da un cuoco che è uno dei più riusciti personaggi della narrazione. E se c’è un appunto estetico da muovere a questo libro, è che troppo spesso l’autore fa della sua arte una maniera e non ha il coraggio di eliminare episodi in fondo superflui, soprattutto negli ultimi capitoli, dove la narrazione si sbriciola in aneddoti non sempre riusciti (comprese alcune avventure in Italia).
Uscito indenne dalla guerra e dalla prigionia, dopo aver sbarcato il lunario come contadino, minatore, trafficante della borsa nera e persino indovino tra le campagne, Grass approda come Oskar Matzerath a Düsseldorf, dove alloggia alla Caritas e diviene apprendista scalpellino, sognando di diventare scultore. Da studente all’Accademia delle belle arti si guadagnerà da vivere suonando in una jazz-band. Diventa fumatore seguendo «la moda dell’esistenzialismo». Trasferitosi a Berlino conosce la sua prima moglie, Anna, e si innamora. Poi, dopo aver debuttato da scultore e poeta, a Parigi scrive il Tamburo di latta con l’Olivetti ricevuta come regalo di nozze e si afferma come uno dei più promettenti romanzieri europei. Questo è l’epilogo del libro, la metamorfosi dell’io colpevole (almeno nella sua irresponsabilità) in artista cosciente, il raggiungimento di un obiettivo di vita. L’autobiografia si chiude con il ritorno a Berlino della famiglia e l’annuncio di pagine e libri successivi.
E qui in ogni senso si colloca il limite più evidente del libro, perché se l’autobiografia riesce, in modo quasi sempre convincente, a interrogare quell’altro io lontano e remoto, che condivise la colpa e la follia di una nazione, lascia stare invece l’io presente dell’intellettuale di ieri e di oggi. Questo io appare su un piedistallo intoccabile, al riparo da ogni dubbio e da ogni critica, ed è questo, forse, a rendere talvolta irritante l’atteggiamento dello scrittore Günter Grass. Non si tratta solo della lunga incapacità di rompere il tabù - peraltro ampiamente condiviso - di un silenzio sul proprio passato (un aspetto che nel libro è di fatto solo sfiorato), ma di un certo modo di mettersi in cattedra e di trinciare giudizi. Questa cipolla Grass non l’ha ancora sbucciata. Ed è questo che almeno in parte rovina la digestione al lettore.
www.unita.it, Pubblicato il: 27.08.06 Modificato il: 27.08.06 alle ore 11.06
DOPO LE POLEMICHE PER LA CONFESSIONE SUI SUOI TRASCORSI NELLE SS, LA REPLICA DELLO SCRITTORE IERI SERA ALLA TV TEDESCA Günter Grass: la mia verità
di Marina Verna (La Stampa,18/08/2006)
BERLINO. Polverizzata in due giorni la prima edizione: 150 mila copie. Già in stampa la seconda: 100 mila copie. Tiratura dell’edizione limitata con 25 sanguigne dell’autore: tremila copie. Tiratura prevista per il tascabile: un milione di copie. Diritti di traduzione: venduti in dodici Paesi. Classifica Amazon: primo posto. Le memorie giovanili di Günter Grass - Pelando la cipolla - sono subito un bestseller. E una miniera d’oro. Bild ha fatto i conti in tasca allo scrittore e previsto guadagni di 1,7 milioni di euro solo per le vendite in Germania. E se fosse questa la ragione della confessione tardiva sul passato nelle Waffen-SS? Le interpretazioni maliziose non mancano: pochi sembrano credere alla sincerità dell’impellenza morale. «Due terzi dei tedeschi hanno appreso del nuovo libro di Grass solo dalla grancassa di questi giorni. Adesso molti lo compreranno a occhi chiusi», ha detto l’agente letterario Lionel von dem Knesebeck. E lo storico Christoph Stoelz: «Il vecchio leone della letteratura si è di nuovo rivelato un geniale professionista dei media».
Un vecchio amico di Grass come il regista Volker Schloendorff - autore della versione cinematografica del romanzo più famoso, Il tamburo di latta - ha espresso bene gli umori della Germania in una lettera aperta, pubblicata ieri dal quotidiano berlinese Tagesspiegel: «Perché ha messo in moto una macchina che ha ridotto in polvere il suo monumento? A un esperto di media come te, caro Günter, una cosa del genere non succede per caso».
Schloendorff non ha una risposta. Ma una pista potrebbe essere la tempestività con cui martedì è stato recapitato al settimanale Der Spiegel un documento uscito dagli archivi storici della Wehrmacht: il modulo prestampato per i prigionieri di guerra internati nel campo di Bad Aibling, dove Grass rimase alcuni mesi. Alla voce «unità di appartenenza» sta scritto «Waffen-SS». Sotto, la firma. Gli storici, dunque, gli erano alla calcagna. Il quotidiano di Colonia ha addirittura ipotizzato l’esistenza di una documentazione compromettente nell’Archivio Nazionalsocialista acquisito dalla polizia segreta della Ddr, ma è stato ufficialmente smentito: nel dossier Grass non c’è nulla di relativo alle SS.
Lo scrittore intanto continua le sue vacanze sull’isoletta danese di Moen, dove ha ricevuto un unico giornalista: il vecchio amico Ulrich Wickert, anchorman di Ard. L’intervista è andata in onda ieri sera. Grass - senza la pipa ma con la giacca di fustagno - ha parlato del suo libro, della confessione tardiva, di quegli anni. Questi i passi più significativi.
Signor Grass, perché solo adesso ha affrontato il tema della sua appartenenza alle Waffen-SS? «Questo ricordo è rimasto a lungo sepolto dentro di me. Non so bene perché ho taciuto. Ma quel ricordo è sempre stato presente ed ero dell’idea che bastasse tutto quello che facevo come scrittore, come cittadino di questo Paese, perché era il contrario di ciò che mi aveva impregnato in gioventù al tempo del nazismo. Non avevo consapevolezza di una colpa: ero stato arruolato nelle Waffen-SS e non avevo preso parte a nessuna azione criminosa. Sentivo però l’esigenza di scriverne un giorno, ma pensavo a un contesto più ampio. L’occasione è arrivata solo adesso che ho vinto le mie resistenze interne a scrivere qualcosa di assolutamente autobiografico e ho fatto dei miei anni giovanili - dai 12 ai 30 - il tema del mio ultimo libro. E in questo contesto più ampio ho potuto parlare apertamente anche di quel passato».
La presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Charlotte Knobloch, sostiene che la sua confessione riduce ad assurdità tutto quello che lei ha detto sinora. «Riconosco il diritto della signora di criticare il mio silenzio, ma è anche mio diritto spiegarne le ragioni, per quanto a qualcuno possano sembrare insufficienti. Io posso solo augurarmi che la signora Knobloch trovi il tempo per leggere il mio libro perché nell’arco temporale che descrivo - i miei anni giovanili - il tema Waffen-SS ha sì un ruolo, ma le domande più critiche io me le pongo in tutt’altro contesto. Per esempio, il mio accecamento come membro della Hitlerjunge e le ragioni per cui io, in certe situazioni tra pochi intimi, per esempio in famiglia, non ho fatto domande, o almeno non ho fatto quelle giuste. Per esempio, non ho mai chiesto perché uno zio polacco, impiegato delle Poste a Danzica, fosse stato fucilato dai tedeschi dopo una rivolta. E perché noi non avessimo mai più frequentato la sua famiglia».
Perché a 15 anni aveva fatto domanda per arruolarsi volontario? «L’appartamento era piccolo, i genitori soffocanti. Era un modo di liberarmi della famiglia».
Perché credeva nell’ideologia nazista? «Sono cresciuto in quel clima, facevo parte della Gioventù hitleriana, ho sempre creduto nella vittoria finale del Terzo Reich. Né io né la mia famiglia siamo però mai stati antisemiti. Non c’era un clima da pogrom, tutto è stato fatto a freddo. Ho avuto grandi difficoltà a credere all’Olocausto: quando come prigioniero di guerra mi hanno portato al campo di Dachau pensavo che fosse un’invenzione propagandistica del nemico. Ho capito che era tutto vero solo un anno dopo, quando confessarono al Processo di Norinberga».
Lei nel 1967 ha tenuto un importante discorso in Israele, raccontando dei suoi trascorsi nazisti. Perché non ha confessato allora la sua appartenenza alle SS? «Certo, avrei potuto dirlo anche allora, ma lo faccio adesso, e nel libro cerco di spiegare perché. Non è stato facile avvicinarmi a quel ragazzino che ero allora, cercando di evitare gli scherzi che la memoria può giocare dopo tanto tempo. La memoria tende sempre a trovare scuse per il proprio comportamento, ad abbellire i ricordi. Quando mi avvicino a quel ragazzino, lui scappa dalla mamma e grida: sono solo un bambino! Io cerco di essere severo con lui, ma devo anche fare attenzione all’uomo che sono oggi, a non essere troppo severo con il bambino di allora».
Dopo la confessione choc dello scrittore sull’arruolamento nelle SS Grass divide i tedeschi: restituisca il Nobel. Il biografo Michael Jürgs: «È la fine di una istanza morale», ma il filologo Walter Jens lo difende DAL NOSTRO INVIATO (www.corriere.it, 13.08.2006)
BERLINO - «Adesso restituisca quel premio. Non gliel’avrebbero mai dato, se si fosse saputa la verità». La Germania è scossa dal terremoto-Grass, e le onde si propagano fino ai blog e ai forum dei quotidiani. «Quel premio» è il Nobel, conferito allo scrittore nel 1999. «L’Accademia ha una sensibilità spiccata - commenta ora il critico letterario Hellmuth Karasek -. Non avrebbe mai scelto qualcuno di cui si sapesse che aveva militato nelle SS, e che a lungo era rimasto in silenzio».
Il giorno dopo l’intervista choc alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, quel «silenzio tonante dell’istanza morale della nazione», così lo chiama il Kölner Stadt-Anzeiger, ha spaccato in tre parti la società tedesca: chi difende Grass, senza se e senza ma; chi si trincera dietro il medesimo mutismo; e chi attacca. Nel primo gruppo, la parola d’ordine è una sola: rispetto. «Un maestro della penna si concede una sosta e riflette: cosa ti sei scordato di raccontare, nella tua lunga vita?», riassume il filologo Walter Jens, 83 anni e un passato da «forzato» del partito nazista. Gli fa eco il regista e scrittore Ralph Giordano, ebreo scampato alle SS: «Peggio di un errore è non trarne nessuna conseguenza. E questo Grass l’ha fatto già da tempo». Per Klaus Staeck, presidente dell’Accademia delle arti di Berlino, «nessun dubbio sulle sue opere e la sua integrità morale e politica». «Si vive nel mondo in cui ci è toccato di nascere», chiude lo scrittore Dieter Wellershoff. Che della vita di Grass ha condiviso il ventennio del Gruppo 47, il «caffè centrale» della letteratura tedesca impegnata. Paradossalmente, due tra i membri più noti di quel gruppo oggi scelgono di tacere. Hans Magnus Enzensberger dichiara al Corriere: «Sì, so perché mi avete chiamato. Mi spiace, ma ho deciso di non commentare. Lo fanno già altri, non lo considero necessario». Stessa linea per il critico Marcel Reich-Ranicki: «Neanche una parola, non ho il dovere di rilasciare dichiarazioni».
La Germania, però, si rifiuta di calare il sipario sull’outing del suo intellettuale più amato (e odiato). «Come si concilia un silenzio di 60 anni con la vita, i discorsi, la scrittura di un uomo che è diventato la coscienza morale della Repubblica?». L’interrogativo del Lübecker Nachrichten è quello che oggi si pone una buona parte della nazione. Tra i «delusi» c’è Michael Jürgs, il biografo di Grass. La sua «vita con il Nobel» è durata «427 giorni e notti», ma l’intervista lo ha colto di sorpresa. «È la fine di un’istanza morale», decreta. Non è il solo a prendere le distanze; questa confessione, sostiene Walter Kempowski, l’autore di Echolot, diario collettivo sugli anni della guerra, «è arrivata un po’ tardi». Ancora più severo lo storico Michael Wolffsohn (fu lui ad accusare di antisemitismo il leader Spd Franz Müntefering, che aveva paragonato i capitalisti alle cavallette): «Anche tu, GG? - scrive sull’online Netzeitung -. E sì che nell’85 hai avuto la tua occasione d’oro», quando Kohl e Reagan visitarono, tra mille polemiche, un cimitero che ospitava tombe di SS. E Frank Schirrmacher, l’intervistatore della Faz, ricorda il letterato Hans Robert Jauss, rovinato dalla scoperta del suo passato di SS (la stessa sorte toccò ai giornalisti Schönhuber e Höfer): «Una voce chiarificatrice sarebbe servita».
«Si è lasciato sfuggire ogni occasione per parlare - concorda il Tagesspiegel -. Per paura? O per vanità, perché non voleva essere confrontato con altri destini?». «Molti uomini che hanno ricoperto funzioni importanti nel Paese sono stati nelle SS, era risaputo. A Grass va rimproverato di essere rimasto fedele per 60 anni alla sua bugia», scrive la Bild.
Quel che è certo, dichiara il critico della Süddeutsche Zeitung Joachim Kaiser, è che ora Grass «perderà un po’ del suo rango e della sua reputazione». «Ce l’ha fatta di nuovo, a farsi ascoltare da tutti - chiude il Tagesspiegel -. Il libro venderà di sicuro bene; è l’uomo politico che delude. Per sempre. Milioni di persone. Non solo in Germania».
Gabriela Jacomella 13 agosto 2006
Germania
Il ritorno di Adolf Hitler
Berlino apre il Museo storico per raccontare il rapporto tra il Führer e la nazione: un successo inatteso che ha fatto prolungare la mostra
di Marco Dolcetta (il Fatto, 13.01.2011)
Uno spettro si aggira per la Germania: la pulsione popolare a conoscere (e capire) chi era Hitler. E quale misterioso feeling aveva con la nazione dei padri e dei nonni...
In questo spirito, ovvero il Geist, molti tedeschi di tutte le estrazioni, età, professione e credo politico, affollano la mostra di Hitler. Accanto al maestoso museo di Pergamo con la porta babilonese di Isthar e l’altare del tempio di Zeus, nell’isola dei musei, nel cuore della grande Berlino Imperiale. “Il rimosso si muove”: così dice Pauli Peter-Lotchez, saggista, storico e scrittore berlinese. “È un progressivo riemergere di parole, di gesti, colori e immagini; prima una Germania, poi Berlino capitale e quindi ora la corsa ad Est: per milioni di tedeschi la Germania Est da redimere ora è la pomerania, via fino a Königsberg, che i russi chiamavano Kaliningrad”.
IN QUESTO CLIMA esce una mostra innovativa su Adolf Hitler che si è aperta per la prima volta dal dopoguerra in un grande museo, e ha esplorato il rapporto tra il Führer e la nazione tedesca. “Hitler e i tedeschi: Nazione e il crimine”, a Berlino - Museo Storico Tedesco, è stata elogiata per aver rotto i tabù e aprire nuovamente il dibattito su come Hitler riuscì con successo a sedurre una nazione. “Che ci piaccia o no resta il nostro più forte marchio di fabbrica”, ha ricordato Karl Schnorr, un ingegnere di 68 anni in pensione. “Forse è tempo che ce lo scrolliamo di dosso, ma prima dobbiamo capire come abbiamo creduto con lui così totalmente”. L’apertura coincide con uno studio pubblicato in queste settimane in cui un tedesco su 10 ha professato che una figura come “Führer” governerebbe la “Germania con una mano dura”, mentre il 35% ha detto che considera il paese “pericolosamente favorevole” con gli stranieri.
La mostra si propone di spiegare come la persona di Hitler e dei suoi ideali si siano infiltrati, ai suoi tempi, negli angoli più nascosti della vita dei tedeschi. Tra le centinaia di reperti ci sono raccolte di cimeli nazisti e propaganda, tra cui sottobicchieri, cartoline, carte da gioco, soldatini di piombo e paralumi. Ma in un riflesso della delicatezza della materia non ci sono oggetti cui Hitler potrebbe aver toccato. “Queste reliquie avrebbero portato con sé il rischio di incoraggiare un culto Führer”, ha detto Simon Erpel, uno dei curatori. “Ci è stata offerta la sua valigetta da un collezionista, ma l’abbiamo rifiutata per questo motivo”.
In un paese dove il saluto nazista è vietato, come il Mein Kampf e le svastiche, il nervosismo dei curatori è palpabile. Così come la decisione di non ascoltare le registrazioni audio dei suoi discorsi, come nessuna immagine di Hitler da solo. Accanto ai tre (enormi) ritratti di lui in diverse fasi della sua vita, che aprono la mostra c’è un fotomontaggio del suo volto contro un teschio. Dietro ogni immagine stampata su tela ci sono le immagini dei suoi sostenitori, soldati in marcia e lavoratori disoccupati. Un film di propaganda che mostra la visita di Mussolini a Berlino nel 1937 si contrappone a estratti dal film satirico di Charlie Chaplin Il grande dittatore. “Siamo pienamente consapevoli di ciò che stiamo facendo e abbiamo pianificato tutto questo con molta attenzione”, ha detto il professor Hans-Ulrich Thamer, il curatore capo. “La ragione per cui questo sta accadendo ora è che ogni generazione ha la necessità di porre domande. Il demone è morto tempo fa, ciò che resta sono molte impressioni contraddittorie e spiegazioni. La generazione attuale si avvicina a questo con una nuova apertura curiosa”, ha detto. Ammassati in un armadio c’è una serie di busti di Hitler in bronzo e terracotta. “Abbiamo posto particolare attenzione in modo che nessuno può facilmente avvicinarsi a loro”, ha detto Thamer. Accanto a lui Diana Dlkmer, fotografa: “Oggi capisco meglio mio padre e mia madre”.
LA MOSTRA - che alle spalle ha sei anni di preparazione è stata costruita anche con l’apporto del biografo britannico Ian Kershaw - abbraccia la tesi che il leader nazista è riuscito a mobilitare le speranze dei tedeschi e sconfiggere paure, ma che la sua capacità di sedurre aveva poco a che fare con le sue caratteristiche personali. “Era un personaggio apparentemente poco attraente, e guardi cosa ha combinato” ha detto il professor Hans-Ulrich Thamer, curatore insieme con il dottor Simone Erpel e Klaus-Jürgen Sembach.
Dopo 65 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Hitler e il nazionalsocialismo restano un tema scottante. Ogni generazione si pone lo stesso interrogativo: come è stato possibile? Come Hitler e il nazionalsocialismo, responsabili della guerra e di stermini di massa, hanno avuto fino alla fine il consenso di gran parte della nazione? Perché così tanti tedeschi erano pronti a sostenere il nazionalsocialismo? La mostra cerca risposte, ma lo fa non solo guardando a Hitler, ma anche alla società tedesca e all’importanza che per essa ha avuto la dittatura nazista. Il giovane Hitler era una figura modesta, poco appariscente. Nulla in lui sembrava predestinarlo a una carriera politica. Eppure, ha avuto un gran seguito ed è diventato rapidamente uno degli uomini più potenti d’Europa. Il suo potere non si può spiegare con le sue qualità personali. Sono più importanti le condizioni politico-sociali del periodo e la situazione in cui si trovavano i tedeschi. Hitler mobilizzò le paure e le speranze sociali e si impegnò a raggiungere obiettivi politici. Prometteva lavoro, ascesa, benessere e il ritorno della grandezza nazionale. La politica nazionalsocialista mise tutto ciò nella retorica della “comunità del popolo”.
Ogni giorno è la stessa storia, affermano gli stupefatti guardiani del museo. Improvvisamente nella eccitazione generale, il silenzio. Il mormorio si tace, le teste si voltano lontano da una porcellana con il ritratto di Hitler, dagli apparecchi radio e dalle descrizioni delle SA e del NSDAP. Per due, tre secondi, tutti guardano incantati nel centro della stanza, da dove proviene il rumore. A un padre di famiglia è caduto il chip del guardaroba sul pavimento. Questo leggero rumore ha spaventato tutti. Tutti, infatti, sono tesi nell’interrato del museo di storia tedesca. I visitatori, gli addetti alla sicurezza, tutti. È un momento particolare perfino per l’edificio gravido di storia, nel centro di Berlino. Non si tratta di una mostra qualsiasi.
LA GRANDE questione è: si può spingere Hitler al centro e spostare al margine la colpa dei tedeschi? Sul nazionalsocialismo e sulle persecuzioni contro gli ebrei ci sono state centinaia di mostre. Ora ce n’è una anche su Hitler. L’olocausto è ai margini; in un angolo, quasi nascosti, gli abiti dei prigionieri dei lager.
Eppure la mostra è meno su Hitler che sui tedeschi e la loro ammirazione per il Führer. Seicento pezzi d’esposizione mostrano la popolarità di Hitler: ci sono lettere di alunni, un tappeto fatto a mano da donne evangeliste, un album fotografico che documenta l’entusiasmo del 1933.
La personalità di Hitler non è presa in considerazione dalla mostra. Ma solo il suo nome, attrae. Dopo 4 ore, già 2000 persone hanno visitato la mostra. Pensionati, studenti, berlinesi, turisti. Assieme a loro, oltre 100 corrispondenti esteri e 30 squadre di cameramen, di cui quattro dal Giappone. L’agitazione dei media ha a che fare anche con i timori che la mostra diventi un luogo di culto della destra radicale. I busti di Hitler, tappeti con le svastiche, giocattoli nazisti, tutta roba che piacerebbe ai neonazi. Nel museo l’attenzione è più alta del normale. Quasi tutti i pezzi esposti sono in vetrine di vetro, non si può toccare quasi niente. Ogni giorno a mezzogiorno la mostra è completamente piena. In molti spazi c’è bisogno di spingere. Un’indicazione che l’argomento è lungi dall’essere esaurito, e una lezione che accompagna la mostra, dal titolo “Siamo ben lungi dall’aver finito con Hitler”.
Il burocrate dell’orrore che portava gli ebrei nei lager
Dopo 50 anni, Berlino ricorda il processo al nazista Eichmann
di Laura Lucchini (il Fatto, 07.04.2011)
I numeri dei deportati erano indicati su un grafico dietro alla sua scrivania. “Ne è certo?” chiede il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner. “Sì”, risponde Adolf Eichmann. “Quindi intende dire che la sua sezione sapeva con assoluta esattezza quante persone stavate deportando e quale era la loro destinazione?”. “Sì, lo sapeva. Era mio compito informare al riguardo i miei superiori”.
La condanna a Gerusalemme
QUESTO STRALCIO dell’interrogatorio di Adolf Eichmann è un momento fondamentale del processo contro uno dei principali responsabili dell’Olocausto celebrato a Gerusalemme nell’aprile del 1961, cioè 50 anni fa. La registrazione completa dell’interrogatorio fa parte della mostra Il processo: Adolf Eichmann davanti al tribunale inaugurata l’altro ieri a Berlino per ricordare questo giudizio-chiave nella ricostruzione dell’orrore nazista e della persecuzione d icui furono oggetto gli ebrei da parte del Terzo Reich. Eichmann, che dopo essere stato condannato alla pena capitale dal tribunaledi Gerusalemme fu impiccato nel 1962,fu un ingranaggio decisivo della macchina che rese possibile l’eliminazione sistematica di sei milioni di ebrei.
Nato a Solingen nel 1906 era stato, in particolare, il responsabile del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Prese parte a tutte le fasi della cosiddetta soluzione finale con la quale Hitler e i suoi accoliti pianificarono l’annientamento definitivo e totale degli ebrei in Germania e poi nei paesi occupati. Dalla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942 fino alla organizzazione dei treni diretti ad Auschwitz, tutta la parte burocratica dello sterminio passò per le mani di questo uomo che finì per diventare l’esempio perfetto ed emblematico del funzionario nazista che si limitava ad eseguire gli ordini.
Il suo ruolo e la sua psicologia furono analizzati in un celebre libro della filosofa Hannah Arendt, La banalità del male. Qui la Arendt sostiene la tesi secondo cui il male può anche non avere radici, non avere memoria e proprio per questo - cioè per l’assenza di un dialogo “morale” - uomini apparentemente banali possono trasformarsi in autentici agenti del male.
Gabriel Bach, il pubblico ministero israeliano che nel 1961, insieme a Gideon Hausner, sostenne l’accusa contro il criminale nazista, l’altro ieri era presente all’inaugurazione della mostra presso il centro di documentazione berlinese Topografia del Terrore. Gabriel Bach, oggi ottantaquattrenne, seduto in prima fila durante la conferenza stampa, aveva con sè una cartella.
Alla fine della conferenza stampa ne ha svelato il contenuto: foto, stampe originali dell’aula del tribunale, immagini che lo ritraggono in prima fila con Adolf Eichmann a pochi metri di distanza, seduto dietro un vetro con due poliziotti a fianco. “Cosa ricordo di più di quel processo? Forse il mio primo incontro con Eichmann. Avevo appena terminato di leggere un libro nel quale si descriveva con quanta crudeltà assassinava i bambini nei campi di concentramento. Gliene parlai. Mi rispose che se ci si è posti l’obiettivo di eliminare una razza, allora bisogna eliminare tutte le generazioni, bambini compresi. Da un punto di vista logico il suo ragionamento non faceva una piega”. Il processo fu possibile grazie a un’azione oggetto di molte polemiche e controversie. Il burocrate nazista nel 1950 era riuscito a fuggire in Argentina: lavorava in una fabbrica della Mercedes Benz nelle provincia di Buenos Aires quando fu sequestrato dal Mossad, trasferito clandestinamente in Israele e processato.
Fu il primo processo contro un criminale nazista celebrato in Israele e si concluse con la condanna a morte di Adolf Eichmann. Al processo potè assistere tutto il mondo in quanto fu filmato e trasmesso per televisione (la relativa documentazione fa parte della mostra di Berlino). Molti, tra i quali la stessa Hannah Arendt, cittadina americana ma di origine tedesca e di religione ebraica, condannarono il tribunale per la sua mancanza di imparzialità.
Assassinare bambini senza provare nulla
“È UN’ACCUSA ridicola”, ha detto l’altro ieri Gabriel Bach. “La sentenza poggiava su prove incontestabili e in nessun momento del procedimento si ebbe la sensazione che la sentenza fosse già stata scritta e che già si sapeva come sarebbe andata a finire”. Quanto ad Hannah Arendt, Gabriel Bach ha ricordato che “prima del processo mi avevano avvertito che dagli Stati Uniti sarebbe arrivata una filosofa per scrivere un libro contro il processo. Come a dire che si sapeva già da prima quale era la sua posizione”.
La mostra di Berlino,che rimarrà aperta fino a settembre, raccoglie tutta una serie di testimonianze dei protagonisti del processo e i filmati degli interrogatori più significativi oltre al materiale messo a disposizione dai mass media di tutto il mondo che all’epoca seguirono il dibattimento. La mostra organizzerà fino a settembre diversi incontri con esperti e testimoni diretti dell’Olocausto.
Copyright El Paìs; traduzione Carlo Antonio Biscotto