IL VANGELO DI GIUDA ... E IL MESSAGGIO EVANGELICO
di Federico La Sala
Se è vero, come è vero, che “il nucleo centrale del cristianesimo” è - come puntualizza Gianfranco Ravasi (“Giuda tra libertà e disegno divino, Il Sole-24 ore, 23.04.2006, p. 2) - “l’incarnazione del Logos, il Verbo, il Figlio di Dio divenuto uomo”, divenuto essere umano, allora perché non ci si chiede come mai il Codice da Vinci (“scempiaggini storiografiche che non meritano nessuna seria considerazione”) e il Vangelo di Giuda (“uno dei prodotti dei tanti prodotti di quella galassia cristiana egiziana che a partire dal II sec si configurò secondo i canoni di una gnosi”) hanno il successo mondiale che hanno avuto, hanno, ...e avranno?! Non è forse perché perché papa, cardinali, e vescovi hanno chiuso porte e finestre al mondo e cercano ancora e sempre di costruire mura e fortificazioni intorno alla ‘propria’ interpretazione e ai ‘propri’ libri?! Non è, forse, perché i due bestsellers alludono e toccano in qualche modo proprio “il nucleo centrale del cristianesimo” e aprono questioni sulla vecchia, vecchissima, e pre-evangelica antropologia ‘cattolico’-romana?!
Che dire? Dopo Marx, dopo Nietzsche, e dopo Freud ... mi sembra che la gerarchia della chiesa abbia perso ogni capacità di intendere e di tenere vivo il ‘fuoco centrale’ della buona-novella, se si dichiara (come si è dichiarato non tanto - come ha fatto il cardinale Poletto - che “il Codice da Vinci mi ha fatto ribrezzo, non si può romanzare la vita di Gesù Cristo”, quanto e soprattutto) che non è più lo Spirito che agisce nella storia e costruisce tradizione e tradizioni, ma - nel totale capovolgimento - che “la tradizione è lo Spirito che agisce nella storia” (Catechesi del Papa, L’Udienza Del Mercoledì; Avvenire, 04.05.2006), “attraverso la mediazione degli apostoli e dei loro successori, in fedele continuità con l’esperienza delle origini”.
Se è così, come sembra - al di là delle solite dichiarazioni e illusioni di potenza istituzionale - la Chiesa cattolico-romana nata non con Gesù Cristo ma con l’imperatore Costantino, nel IV sec. dopo Cristo, solennemente e pomposamente richiamata dallo stesso presente papa (e, dopo la tempesta di vento, alla morte di Wojtyla!!!) all’inizio del suo stesso pontificato, è definitivamente arrivata ...al capolinea - e non ha più alcun futuro!!!
“NON CI INDURRE IN TENTAZIONE”!!! Il problema della donna, e il problema del male - qui è Rodi, qui salta: qui la rosa, qui danza (Hegel)! Se, dopo duemila anni dopo la nascita di Gesù, la Chiesa cattolica continua a insegnare e a pregare un Dio, “Padre Nostro”, che può indurre in tentazione, si può chiaramente e francescanamente dire che non si è proprio capito niente né del messaggio eu-angelico né del “Dio” di Gesù - il “Dio” dei nostri Padri e delle nostre Madri .... proprio come l’apostolo Giuda!!!
E, benissimo, si può ridire - alla e per la gerarchia della Chiesa!!! - quanto Gianfranco Ravasi alla fine del suo articolo scrive in riferimento allo stesso Giuda. Curiosamente una mistica del ‘400, S. Caterina da Genova, affermava di aver ascoltato in visione un Cristo sorridente dirle: “Se tu sapessi quello che ho fatto per Giuda...!”. Proprio così - e nello stesso senso!!!
Federico La Sala (06 maggio 2006, nel 150° anniversario della nascita di S. Freud).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL DISAGIO ALLA CRISI DI CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
PER UN RI-ORIENTAMENTO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO!!!
Federico La Sala
RIPENSANDO A CELESTINO V E A DANTE ALIGHIERI.
Nota a margine dell’attuale presente storico e del pontificato di papa Bendetto XVI...
A 700 anni (più 1, 701 anni) dalla morte (1321) di #DanteAlighieri, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso (1319)" [M. Feo] e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" [Purg. XXXII, 102], si può pensare (come alcuni hanno proposto) che sia #Pilato (e non #CelestinoV) la persona del "gran rifiuto", e che il comportamento di Pilato in campo romano possa essere messo in corrispondenza speculare con il comportamento di #Giuda in campo ebraico.
Se questo è accettabilmente vero, e la cosa appare celestinamente convincente seguendo il percorso di Pietro da Morrone prima e dopo della sua elezione a papa, tutto il castello storiografico costruito in sette secoli crolla e apre a nuovi orizzonti e a inediti punti di vista sia sulla lettura del lavoro di Dante, sia della storia della Chiesa e, al contempo, della stessa storia d’Italia.
Alla luce dello spirito di cittadinanza costituzionale di #Dante (e, su questo, ricordare l’amore del presidente della Repubblica italiana, #Carlo #Azeglio #Ciampi, per il cittadino #Dante), non è possibile non pensare immediatamente al #doppio #tradimento, quello della #monarchia del #Regno d’Italia (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda), nei confronti della intera popolazione italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), e, ancora e subito, riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra?
Oggi, nel 2023 (appena iniziato) #Eleusi è una delle capitali europee della #cultura, forse, può essere una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra), riabbracciare la "antica madre" (#Virgilio) e, con #Astrea, ripensare il problema antropologicamente, in spirito di #Giustizia.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
FLS
Il tredicesimo apostolo
Agiografia. La Chiesa cattolica elebra il 14 Maggio San Mattia, il discepolo sorteggiato per sostituire il traditore Giuda tra i Dodici e ricostituire il collegio apostolico. Una sola citazione nel Nuovo Testamento, ma una ricca aneddotica successiva
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
L’elezione di Mattia nel gruppo dei Dodici in sostituzione di Giuda, il traditore, è narrata da Luca nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli; precede cioè la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo, riportata nel capitolo successivo. La notazione è importante, perché aiuta a comprendere le modalità con cui avvenne la scelta: si tratta infatti dell’unico episodio di sorteggio ricordato nel Nuovo Testamento e più specificamente negli Atti degli Apostoli. In altri casi, ad esempio per la designazione dei sette diaconi destinati al servizio dei poveri, citata nel sesto capitolo, o per l’elezione dei missionari da inviare in alcune province dei capitoli tredicesimo e sedicesimo, Luca si limita a ricordare l’imposizione delle mani da parte degli Apostoli, a conferma di decisioni prese di comune accordo, dato che dopo la Pentecoste lo Spirito Santo abitava ormai stabilmente il gruppo dei seguaci di Gesù.
Invece, la scelta di Mattia, celebrato come santo dalla Chiesa cattolica il 14 maggio, si colloca nell’intervallo di tempo tra la presenza di Cristo sulla terra, terminata con l’Ascensione, e la discesa dello Spirito: non poteva quindi essere ricondotta in nessun modo a Gesù, né il gruppo dei Dodici - più precisamente degli undici - poteva vantare in quel momento l’autorità necessaria per una simile decisione.
Al contrario, il ricorso al sorteggio era prassi comune nell’ebraismo, in quanto l’esito era ritenuto opera di Dio stesso, come afferma il Libro dei Proverbi: «Nel grembo si getta la sorte, ma la decisione dipende tutta dal Signore». La procedura compare spesso nell’Antico Testamento, ad esempio per la nomina dei sacerdoti al servizio del tempio o per selezionare i capri da sacrificare nel giorno dell’espiazione (il cosiddetto «capro espiatorio»); pure Giona fu estratto a sorte per essere gettato in mare e placare la tempesta. Non è quindi necessario ipotizzare un influsso delle pratiche di Greci e Romani, che ricorrevano al sorteggio per l’elezione ad alcune cariche politiche.
Come che sia, nel caso di Mattia il sorteggio sembra rovesciare le previsioni: infatti, l’ordine e il modo con cui sono presentati i due candidati a sostituire Giuda non è casuale. Negli elenchi che compaiono negli scritti biblici, il primo posto costituisce una posizione di riguardo; inoltre, dell’altro candidato, Giuseppe, vengono riportati il patronimico, Barsabba («Figlio di Saba») e un soprannome, «Giusto», che lo qualifica in modo decisamente positivo. Di Mattia, invece, è ricordato solo il nome. Si può quindi ipotizzare che l’ordine dei nomi riflettesse anche le preferenze di chi li aveva proposti, ovvero il gruppo dei circa centoventi fratelli citati da Luca, dinanzi a cui Pietro aveva espresso la necessità di sostituire Giuda. In quello stesso discorso, troviamo qualche brandello di informazione su Giuseppe e Mattia; Pietro afferma che il sostituto di Giuda doveva aver fatto parte del gruppo allargato di coloro che avevano seguito Gesù insieme ai Dodici «per tutto il tempo che va dal battesimo da parte di Giovanni sino al giorno in cui Cristo è stato assunto in cielo».
Dopo l’episodio dell’elezione, né gli Atti, né gli altri scritti neotestamentari menzionano ulteriormente i due. Gli scrittori cristiani successivi, però, non hanno mancato di interessarsi a Mattia; nelle loro opere si intrecciano dati che rivelano un possibile retroterra storico e altri invece di chiaro sapore leggendario, o quantomeno problematico.
All’inizio del IV secolo, Eusebio di Cesarea, autore della prima storia della Chiesa, riteneva che Mattia facesse parte del gruppo dei settantadue discepoli inviati da Gesù in missione, secondo il racconto del Vangelo di Luca al capitolo decimo. Probabilmente, in quella circostanza doveva essersi distinto, così da poter essere proposto in seguito come sostituto di Giuda nel «collegio apostolico». Un secolo prima di Eusebio, Clemente di Alessandria d’Egitto identificava Mattia con Zaccheo, il pubblicano di bassa statura che si era arrampicato sull’albero per vedere Gesù, sempre nel racconto del Vangelo di Luca. Nel II secolo, invece, il romanzo dello Pseudo-Clemente fa coincidere la sua figura con quella di Barnaba, il compagno di Paolo nell’attività missionaria. Ma difficilmente, se fosse stata vera, l’autore degli Atti degli Apostoli non avrebbe menzionato l’una o l’altra identificazione.
Si può ritenere che Mattia abbia ottemperato al mandato ricevuto al momento dell’elezione di «essere testimone della resurrezione di Cristo» insieme agli Apostoli. Ciò avrà comportato una intensa attività di predicazione, che deve essersi svolta nel contesto palestinese o poco lontano. Le notizie relative alla sua morte, infatti, la collocano in Palestina o in Etiopia, che nel mondo antico corrispondeva all’area indefinita che si affaccia sul Mar Rosso. In ogni caso è da escludere una missione verso la Grecia o l’Asia Minore accanto a Paolo. Secondo Niceforo, uno storico della Chiesa di epoca bizantina che però fa uso di fonti precedenti, Mattia sarebbe morto martire in Etiopia, mentre per altri sarebbe stato lapidato dagli Ebrei a Cesarea di Palestina, anche se il colpo decisivo gli sarebbe stato inferto dall’ascia di un soldato romano. Per questo, il suo attributo iconografico è la scure; il che lo ha reso patrono dei macellai e degli ingegneri (che non siamo soliti associare alle armi da taglio, ma nel mondo antico la scure rappresentava un accessorio indispensabile per qualsiasi costruttore). Va però tenuta presente la tendenza delle fonti posteriori a fare di tutti gli apostoli dei martiri, come nel caso di Giovanni, che le testimonianze più antiche fanno morire ad Efeso in tarda età, mentre nel Medioevo si diffuse la leggenda della sua morte in un pentolone di olio bollente (perciò è il santo da invocare in caso di scottature).
Secondo l’eretico gnostico Eracleone, Mattia sarebbe invece morto di morte naturale in Egitto, non senza avere fissato il suo insegnamento in alcune opere, tra cui un Vangelo apocrifo e un altro scritto intitolato Le tradizioni. Insegnamento fatto di brevi e incisive frasi, sull’esempio delle raccolte dei detti di Gesù, del tipo: «Combattere la carne e maltrattarla, senza concedere nessuna licenza al piacere, per accrescere l’anima mediante fede e conoscenza». Proprio lo stile espressivo favorì la fama di Mattia presso i circoli eterodossi e gnostici di ambito egiziano, quale portatore di una rivelazione particolare da parte di Cristo, successiva alla sua elezione, un po’ come accaduto a Paolo al momento della conversione e immediatamente dopo. Per questo motivo, l’eretico Basilide si vantava di aver fatto suo l’insegnamento di Mattia.
Le testimonianze più antiche convergono dunque nel collegare all’Egitto la figura del discepolo sorteggiato. Non è quindi un caso che la Chiesa copta conservi l’antica prassi di scegliere il proprio Papa tramite sorteggio fra tre nomi frutto di una procedura che culmina in una votazione da parte di un’assemblea composta da tutti i vescovi della Chiesa copta e dai rappresentanti, anche laici, delle varie diocesi in Egitto e ora anche nel resto del mondo. Le reliquie di Mattia sono però conservate nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, nella basilica di Santa Giustina a Padova e nella cattedrale di Treviri.
Francesco sulle tombe di don Mazzolari e don Milani
Nello stesso giorno, il 20 giugno, il Papa si recherà in forma privata sulla tomba del priore di Barbiana e del prete cremonese guardato con sospetto dalle gerarchie nel dopoguerra ma che fu riabilitato dall’arcivescovo Montini e da Giovanni XXIII
di Andrea Tornielli (La Stampa, 24/04/2017)
Città del Vaticano. Martedì 20 giugno, nello stessa mattinata, spostandosi in elicottero, Francesco si recherà a pregare in forma riservata e non ufficiale sulle tombe di don Lorenzo Milani a Barbiana e di don Primo Mazzolari a Bozzolo. Ieri, domenica 23 aprile, il Papa ha partecipato con un un videomessaggio alla presentazione del volume dei Meridiani contenente l’opera omnia di don Milani, definendolo un «grande educatore innamorato della Chiesa».
E sempre ieri la diocesi di Cremona ha reso noto che il Pontefice si recherà sulla tomba di don Primo Mazzolari, in forma riservata e non ufficiale a pregare sulla tomba di don Primo nella chiesa parrocchiale di Bozzolo. Oggi, con il bollettino vaticano, è stata confermata anche la visita a Barbiana. In poche ore, due significativi segnali verso altrettante importanti figure profetiche e incomprese della Chiesa italiana del Dopoguerra
Don Primo Mazzolari, prete che si diede alla clandestinità collaborando con la Resistenza, nel Dopoguerra aveva sviluppato un originale pensiero sociale: «Nessuno è fuori della carità», affermava. Venne criticato e sanzionato dall’autorità ecclesiastica. Amico di Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli, e dello stesso don Lorenzo Milani, aveva fondato la rivista “Adesso!”.
Nel 1955 aveva pubblicato anonimamente un saggio intitolato “Tu non uccidere” con il quale attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l’ideologia della vittoria, optando per la non violenza e auspicando un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» che si impegnasse per la giustizia, considerata l’altra faccia della pace. Nel 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare in diocesi, e negli ultimi mesi di vita, nel febbraio 1959, Giovanni XXIII lo aveva ricevuto in udienza salutandolo pubblicamente come «Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana» (Bozzolo, dove il sacerdote era stato confinato è in provincia di Mantova ma in diocesi di Cremona).
Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno 2016 il convegno della diocesi di Roma, parlando di Giuda e della necessità di andare incontro alle persone qualunque sia la loro condizione, aveva detto: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco, a commento dell’immagine di un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, nel quale secondo alcune interpretazioni si vede raffigurato il Buon Pastore che porta sulle spalle il corpo di Giuda, aveva citato una famosa omelia di Mazzolari dedicata all’apostolo traditore. Il parroco di Bozzolo, precursore del Concilio Vaticano II, il Giovedì Santo del 1958, aveva detto: «Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
Quel Buon Pastore che prende Giuda sulle spalle
Il Papa durante l’apertura del convegno della diocesi di Roma ha citato l’esempio del capitello della basilica di santa Maria Maddalena a Vèzelay, che ritrae l’apostolo traditore portato da Gesù. L’omelia di don Primo Mazzolari
di Andrea Tornielli (La Stampa, 17/06/2016)
Città del Vaticano. Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno in San Giovanni in Laterano il convegno della diocesi di Roma, in un passaggio del suo intervento ha invitato a non «mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti», ricordando che il realismo evangelico «non significa non essere chiari nella dottrina». «Non si tratta - ha aggiunto - di non proporre l’ideale evangelico, al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta».
A questo proposito Bergoglio ha parlato di un antico capitello medievale che a un estremo rappresenta Giuda e all’altro Gesù che porta il traditore ormai morto sulle spalle: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco ha fatto riferimento a un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, dedicata a santa Maria Maddalena, che sorge sulla via che porta a Santiago di Compostela. Una chiesa dalla perfetta architettura romanica ben conservata, meta di pellegrinaggi nel Medio Evo, con migliaia di persone che venivano a invocare misericordia guardando all’esempio della donna che aveva incontrato la profonda compassione di Cristo ed era stata prima testimone della sua resurrezione.
In alto, sul primo capitello a destra per chi entra, c’è una scultura poco conosciuta, anche a motivo dell’altezza a cui è posta, circa venti metri dal suolo.
Una scultura che vista da vicino colpisce e sconcerta. Da un lato si vede Giuda impiccato, con la lingua di fuori, circondato dai diavoli. E fin qui nulla di nuove: esistono tante rappresentazioni della drammatica e violenta fine da suicida dell’apostolo che aveva tradito Gesù vendendolo per trenta denari.
La sorpresa arriva dall’altro lato del capitello. Si vede un uomo che porta sulle spalle il corpo di Giuda. Quest’uomo ha una strana smorfia sul volto: metà bocca appare corrucciata, l’altra metà sorridente. L’uomo veste la tunica corta ed è un pastore. È il Buon Pastore che porta sulle sue spalle la pecora perduta, la centesima pecora per cercare la quale ha lasciato le altre 99. L’artista che ha scolpito la scena e il monaco che l’ha ispirata ha voluto rappresentare qualcosa di estremo ipotizzando che anche Giuda vi sia stata salvezza.
A commento di questa immagine, Papa Francesco ha citato un’omelia che don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo precursore del Concilio Vaticano II, tenne il Giovedì Santo del 1958, dedicata proprio a «Giuda, il traditore». «Povero Giuda - aveva esordito il sacerdote - Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. -Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
«E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico».
Il fattore Ratzinger l’ultima tentazione dell’integralismo anti-Bergoglio
Così la singolare convivenza dei due papi alimenta (contro la volontà di entrambi) le mire di chi vuole indebolire il pontificato di Francesco
di Alberto Melloni (la Repubblica, 28.06.2016)
In occasione del 65° anniversario della sua ordinazione presbiterale sono state raccolte in un volume quasi quaranta omelie sul sacerdozio pronunciate da Joseph Ratzinger in diverse occasioni, fra gli anni Cinquanta e gli anni del pontificato. Queste fonti hanno una introduzione del cardinale Gerhard Müller che legge il calo delle vocazioni come una “crisi” del sacerdozio e lo riconduce, come tanta apologetica integralista, a fattori quali «l’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso».
Il volume, però, ha anche una prefazione di papa Bergoglio, uscita in anteprima su Repubblica, nella quale Francesco entra con tagliente levità sulla fisionomia odierna del “ministero petrino”. Il pontefice scrive che «rinunciando all’esercizio attivo del ministero petrino, Benedetto XVI ha ora deciso di dedicarsi totalmente al servizio della preghiera» e spiega che preghiera non è il tempo libero del sacerdozio ministeriale, ma la sua ragion d’essere. Dunque Francesco considera che il compito orante che il vescovo emerito di Roma si è dato assorba ed esaurisca la sua funzione: lo ha ripetuto anche tornando in aereo dall’Armenia.
È la linea a cui Ratzinger si è inflessibilmente e ineccepibilmente attenuto: come aveva detto non è tornato alla «vita privata » del professore fatta «di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera» e si è sottratto a tutti i tentativi di trasformarlo nella bandiera degli scontenti di Bergoglio - e proprio Bergoglio gliene ha dato atto facendo sapere che Benedetto XVI aveva cacciato chi, prima e durante il sinodo, gli era andato a chiedere di dare forza alla minoranza zelante. La questione del posizionamento di Benedetto però è riaffiorata a più riprese e continua a riaffiorare periodicamente con tesi bislacche, ma rivelatrici.
Nel 2014 un prete modenese, Stefano Violi, scrisse un articolo per la rivista della facoltà teologica di Lugano. Vi sosteneva che Benedetto XVI si era privato solo dell’esercizio attivo del ministero petrino e dunque aveva portato con sé, per dir così, una parte del “munus”. Secondo costui quello che papa Francesco aveva avuto non era dunque “il” papato: ma l’esercizio in condominio di una autorità che rimaneva in qualche modo anche al suo predecessore.
La tesi - saldatasi col febbricitante “sedevacantismo” di Antonio Socci, che vede in Bergoglio un papa illegittimo e di fatto eretico - aveva in sé un postulato semplicemente eversivo: e cioè che il papato non sia un ministero dotato di prerogative e limiti propri del vescovo di Roma (“statim ordinetur episcopus” dice la regola del conclave nel caso venga eletto un laico o un prete): ma sia un ottavo sacramento, da cui non ci si spoglia. Non sarebbe dunque l’esser vescovo che conserva al papa emerito una dignità, ma l’esser stato papa che fa mantenere delle prerogative.
Allora monsignor Georg Gänswein, segretario di Benedetto XVI e prefetto della casa pontificia, liquidò la asineria del docente ticinese in una frase: «Ritengo che sia una sciocchezza teologica e anche logica». Lapidario, come dev’essere un canonista della scuola di Monaco. Eppure, nel presentare alla Università Gregoriana la biografia di Benedetto XVI di Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI (Lindau), lo stesso Gänswein, è tornato sul tema. Dopo aver detto che non ci sono «due papi», ha aggiunto che oggi, nella chiesa cattolica, ci sarebbe, «di fatto un ministero allargato, con un membro attivo e uno contemplativo: per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca; per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora: Santità».
Poteva trattarsi di una battuta: come quella sul «lento spegnersi » di Ratzinger che gli sfuggì a marzo e che poi ritirò, rendendosi conto che una frase affettuosa sembrava un preannuncio funebre. Ma è il segno di una inquietudine che non ha a che fare con la rinunzia di Benedetto, ma col papato di Francesco e con chi se ne lamenta.
La questione infatti non è l’abito o il nome. Benedetto XVI avrebbe potuto riprendere gli abiti neri e il nome di battesimo. Ma chi ha visto in battistero a Firenze il monumento funebre di Donatello al cardinale Cossa, il Giovanni XXIII “quondam papa” deposto a Costanza, sa che lui indossa i sontuosi abiti cardinalizi concessigli in cambio della sua sottomissione. La talare bianca di Ratzinger è dunque un modo per dire che egli non è emerito per deposizione, ma per un gesto libero. Compiuto con lo stesso amore per la chiesa di tanti vescovi, che cessano dall’ufficio a norma del canone 401 a 75 anni (età che negli anni Sessanta era ritenuta la soglia della decrepitezza e che la Santa Sede non ha mai aggiornato, pur avendo avuto i due ultimi papi eletti oltre quella soglia).
Non è nemmeno rilevante la questione del titolo. Come suggerì Gianfranco Ghirlanda, Benedetto, per analogia col canone 401, poteva avvalersi del titolo di “vescovo emerito di Roma”: fu preferito il titolo generico di “papa” (anche il patriarca di Alessandria è “papa”).
Il vero punto è l’altro: cioè se si può inserire - a sua insaputa - il papa emerito in un “ministero allargato” con due “membri”, uno che prega (e consiglia?), l’altro che governa (e ha il dovere di consultarsi?). Bergoglio si posiziona su un “no” netto: dopo «l’esercizio attivo del ministero petrino», un vescovo e un prete continuano a esercitare il ministero sacerdotale della preghiera. Nient’altro. Amen.
Eppure il ripetuto affiorare di escogitazioni sul ministero petrino c’è. E non si placa, con inutili ingegnerie volte a produrre in vitro una “continuità” fra Francesco e Benedetto che si ottiene solo immergendoli in un assoluto papista in cui tutti i papi sono neri.
Il ministero di unità e la sinodalità sono oggi il problema di tutte le chiese (e di tutte le società, se mettiamo al posto del ministero la sovranità e al posto della sinodalità le istituzioni democratiche). Il vigore spirituale della rinunzia di Ratzinger prima e poi lo straordinario vigore evangelico di Francesco, che si fonda su una mistica contemplativa che sconsiglierei di sottovalutare, hanno fatto affiorare nella chiesa una insofferenza per l’uno e per l’altro. E confermano che la riforma del papato e della chiesa è necessaria, è in corso.
Riti di Mitra, misteri dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania.
Ritorna “Jesus Rex”, il capolavoro di Robert Graves
Tutti gli dèi nascosti dietro al dio chiamato Gesù
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 06.01.2016)
Nel 1614 Keplero, dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario etiopico colloca nell’8 a.C. e che comunque non poté precedere il 5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi caldei. Una di queste congiunzioni fu nel mese di dicembre.
Non che l’evento in sé spieghi la “stella grandissima”, che secondo i testi sacri - Matteo 2, 1-12, ma soprattutto gli apocrifi - sarebbe apparsa in quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di “un re per Israele”; o giustifichi un aumento della luminosità tale da oscurare le altre stelle, come scritto nel Protoevangelo di Giacomo. Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12 a.C. Ma la relazione tra il formarsi del calendario liturgico protocristiano e gli eventi astronomici che già sostanziavano i riti delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi romana, è indubitabile.
La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta “delle Luci” ( ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell’élite pagana d’oriente e la festa solare chiamata nell’antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto misterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica rituale degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giudaica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano alla nascita di un “nuovo re di Israele” proprio in occasione dell’evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifania.
Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l’epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al centro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Drei Könige sulle cui magnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia,i tre savii stranieri dai nomi incerti e contorti che seguirono la stella ed ebbero l’epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un’altra e nuova religione, recandogli il crisma dei sommi doni sapienziali.
«I misteri religiosi sono in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive con apparente candore Robert Graves all’inizio della terza e culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da Longanesi, e all’epoca intitolato
Jesus Rex) che settant’anni fa dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani - i seguaci del Chrestòs, in greco “il Buono” - nell’epoca che va appunto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso. Un culto che sancisce - è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa - la vittoria delle religioni dominate da divinità maschili, di cui JHWH, il dio onnipotente del monoteismo biblico, è l’esempio massimo, sulla religione femminile originaria, quella della Grande Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo libro più noto, La dea bianca.
L’eclissi della divinità lunare e l’oblio del suo culto porteranno a fraintendere l’identità storica di Gesù, che nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberatamente fantasmagorica ma non per questo meno scientificamente probante, riunisce in sé, per discendenza matrilineare, un’effettiva e clamorosa regalità.
La legittima successione del trono di Davide, ossia dell’antica Israele, e di Erode, ossia della Giudea romana, gli è assicurata da Maria, vergine di sangue regale consacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno dei figli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto impeccabile discendenza idumonea.
È alla luce dell’effettivo status di aspirante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale del libro, l’udienza personale concessa da Pilato a Gesù, il suo straordinario favore, l’inusuale titulus, INRI, apposto per suo ordine alla croce; così come il successivo, irrazionale e imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti, censure, tendenziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a pervadere i confini dell’impero romano, dal medio oriente giudaico all’estremo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e linearità, legata a un’inquietante promessa di “al di là”, che si sostituirà alla preesistente idea femminile di ciclicità della storia come della natura del cosmo.
Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell’ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta dominato da un rito conosciuto col nome di eucarestia [eu-charis-tia, fls] e adibito «a comodo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz viene mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sacro sangue di Dioniso», il dio “Figlio della Duplice Porta”, nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell’avere due date astronomiche di nascita: a quella del solstizio d’inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiunge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo - rappresentato con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Francesca - che coincide con la levata eliaca di Sirio, la stella messianica del versetto di Isaia.
In Io, Gesù Graves, superbo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento è necessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov’è adagiato il Bambino ripropone quella usata allo stesso scopo nei misteri delfici ed elusini e il bue e l’asino, cui già allude Isaia, simboleggiano i due messia promessi, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce.
Nella narrazione di Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega, implacabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due millenni l’esegesi dei teologi cristiani o degli storici delle religioni o tanto meno degli esoteristi e teosofi in voga in quegli anni ha abilmente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre ebrei damasceni della tribù di Issachar, che nel palazzo di Erode a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova setta degli “alleanzisti”: hanno stipulato una nuova alleanza con Dio attraverso la mediazione di uno spirito chiamato “Colui che viene” ovvero “la Stella”, che secondo la loro previsione si incarnerà quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eterna. Ma Erode stesso ha basato la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e Saturno individuata da Keplero nel 1614.
Dal fallimento del piano dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale aderenza a Matteo, ascende l’astro del nuovo re che i tre astrologi giudei hanno correttamente individuato e adorato, ma che non sarà scorto in vera luce dai gentili. I suoi Atti e detti, originariamente scritti in aramaico, riceveranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni multiple di una traduzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto in tanto fraudolenta », cosicché i fondatori delle chiese gentili fraintenderanno «così stranamente la sua missione da fare di lui la figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo, giudicherebbe solo con avversione e orrore». Lo vedranno come un giudeo rinnegato che «unendo la propria sorte a quella degli gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede - suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo, «potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».
Il ritorno di Mithra, il dio rimosso dalla storia
È la militanza che spaventa? La sua somiglianza con Cristo?
Antico come i Veda, diffuso in tutto il mondo dai soldati romani, poi scomparso
Mentre in Italia gli studi si sono interrotti, all’estero si cerca di capire perché
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 02.11.2016)
Àgnostos theòs, il dio ignoto, il dio sconosciuto. O forse misconosciuto, nascosto, rimosso. Ogni epoca ne ha uno. Il suo volto si cela perché troppo prossimo a un altro, che lo eclissa e lo oscura, come l’altra faccia, non colpita dal sole, di un’erma bifronte. Finché la luce, lentamente, non gira. Quando ad Atene scoprì l’ara del Dio Ignoto, san Paolo disse: «Quello che adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio » (Atti 17, 23). Rendeva omaggio alla lungimiranza degli ellèni, che avevano presentito il nuovo dio di cui portava il verbo; o forse all’insondabilità del divino, appunto al dio in ombra che cela il suo volto dietro quello del dio maggiore su cui un’epoca dirige il suo sguardo frontale.
Se è vero, come Hillman insegna e già Jung scrive, che gli dèi, oltreché archetipi, sono sintomi, individuare il dio ignoto di un’epoca è salutare per l’anima del mondo. È ciò che il mondo rimuove, prima di ciò che contempla, a definire i contorni sommersi del suo inconscio.
Se oggi esiste un dio misconosciuto ai molti, questo è Mithra. Nel revival della storia delle religioni, nel proliferare di libri sui culti orientali o sul paganesimo grecoromano, da anni l’editoria italiana trascura il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall’India vedica. L’ultimo saggio pubblicato in Italia, che chiarisce genesi e rapporti, è Il culto di Mitra di Julien Ries, uscito da Jaca Book ormai tre anni e mezzo fa, mentre non sono stati ancora tradotti capisaldi come quelli di Franz Cumont.
Ora però alcune uscite imminenti nel mondo anglosassone e germanico (R. Beck - O. Panagiotidou, The Roman Mithras Cult, Bloomsbury Academic; AA.VV., Images of Mithra, Oxford University Press; AA.VV., Entangled Worlds: Religious Confluences between East and West in the Roman Empire, Mohr Siebeck) spezzano il riserbo del mondo cattolico sul culto che gli studiosi tra fine Ottocento e metà Novecento hanno indicato come il più prossimo a quello di Cristo nonché, per almeno due secoli, il suo più diretto rivale.
Come ha scritto Ernest Renan, «se il cristianesimo fosse stato fermato nel suo sviluppo da qualche malattia mortale, il mondo sarebbe diventato mitraico». A lungo, tra i debiti del mistero cristiano verso i culti pagani, quello nei confronti di Mithra è stato considerato il più sorprendente.
Le coincidenze sono innumerevoli. Il Natale di Mitra è celebrato il 25 dicembre, al solstizio d’inverno, come si addice a un dio della luce. Il dio nasce in una grotta ed è adorato dai pastori. Per questo sono detti in latino spelaea, “grotte”, i mitrèi che ancora oggi traforano il sottosuolo delle città romane, coi loro due banchi per i fedeli lungo i lati maggiori, l’altare per il sacro banchetto, gli affreschi catechetici e la grande lastra marmorea coi rilievi misterici, in cui il giovane dio dal mantello svolazzante trapunto di sette stelle uccide con la spada il toro cosmico: è la tauroctonia, che come all’inizio dei tempi si riavrà alla loro fine, quando nell’ora del Secondo Avvento il sangue del toro nuovamente ucciso, mescolato a vino, verrà dato da bere ai giusti e donerà loro vita eterna. Queste “speranze d’oltretomba”, come le chiamava Cumont, erano il segreto della forza del mitraismo, che prometteva non solo la sopravvivenza dell’anima, ma la resurrezione della carne. Non solo il Primo Giudizio, cui Mithra presiedeva al momento della morte del singolo, poteva farne accogliere l’anima, se meritevole, in paradiso, o altrimenti respingerla alle torture dell’inferno; ma il Giudizio Finale avrebbe risuscitato i morti dalle tombe e tutti avrebbero ripreso le loro sembianze e si sarebbero riconosciuti gli uni con gli altri.
Ma il più importante nucleo del mitraismo in occidente, importato nell’impero romano dalle legioni che i cesari mandavano a combattere e morire sul limes orientale, era l’idea di militia. Nessun culto pagano precedente la esibiva, anche perché nessuno quanto Mithra era stato il dio dei soldati e degli eserciti.
L’iniziato mitraico al terzo grado di ascesa astrale era miles (qualifica tecnica, dopo corvo e crisalide e prima di leone). Il mitraismo esaltava la condizione interiore di militanza, la sacralizzava, e d’altra parte assimilava esteriormente l’esercizio della religione al servizio militare: il nome di sacramentum non era diverso da quello del “giuramento” che come le reclute dell’esercito gli iniziati dovevano prestare per combattere, nel nome del dio invincibile le potenze del male.
Proviene secondo alcuni dal mitraismo, o in ogni caso vi si sovrappone, quell’ostinato concetto di militia Christi, che compare fin dalle epistole di Paolo o da quelle di Clemente, e che non ci aspetteremmo in una religione basata su una predicazione di pace come quella del Vangelo. In principio il cristiano è miles Christi: lo è costantemente il martire, o “testimone”, nella fase originaria e antiautoritaria del cristianesimo, studiata ed esaltata dalla prima letteratura protestante sui più antichi Acta martyrum, ossia sugli “atti” dei processi intentati dallo Stato romano contro i cristiani. Il cristianesimo “rivoluzionario” dei primi secoli promuoveva una “lotta armata”, pur incruenta, allo Stato, contrapponendo la militanza religiosa (per dio) alla militanza laica (per l’imperatore) e rifiutando la seconda.
È forse la militanza religiosa il vero oggetto della nostra rimozione? Lo spettro di una bellicosità che vogliamo considerare esclusiva di altre fedi? È forse il timore e nello stesso tempo la tentazione di un’idea di fede militarizzata a farci temere di riscoprire Mithra, e con lui una radice del cristianesimo? Il fatto è che gli studiosi sono incerti: potrebbe ben essere stato il mitraismo ad avere assorbito elementi ideologici dei primi cristiani, e ad averli peraltro disinnescati.
Se la militanza del cristianesimo primitivo era eversiva e antistatale, la militanza mitraica era invece lealista all’imperatore. Cosicché il culto di Mithra potrebbe essere stato incoraggiato proprio come risposta alla militia protocristiana. Che rientra infatti nel III secolo, quando la penetrazione della nuova religione tra le élite è ormai compiuta e l’apologetica, a partire da Tertulliano, sigla il grande compromesso tra cristianesimo e Stato romano.
Ed ecco che anche il mitraismo, nella sua accezione originaria, sfuma nel culto orientale del Sol Invictus, assunto a religione ufficiale dagli imperatori: Diocleziano consacra il proprio carisma deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui.
Nel IV secolo, nonostante Costantino, il mitraismo continuerà ad affiancare il cristianesimo quasi come culto gemello, e ancora sotto Giuliano e poi nell’Alessandria del V secolo, capitale delle filosofie, della gnosi e dei sincretismi, le campane di Mithra continueranno a chiamare a raccolta i fedeli insieme a quelle delle chiese cristiane. Ma da questo momento in poi, dall’affermarsi, con i decreti teodosiani, del cristianesimo come religione di stato, l’iniziazione mitraica resterà ancora più sotterranea.
Le rovine dei mitrei, coi loro scheletri incatenati, rivelano la violenza della damnatio di Mithra nel mondo occidentale, ma la sua liturgia rimarrà viva, se pure clandestina, lungo il Medioevo orientale. Tutta la teologia della salvezza, nel mitraismo, è legata a una sapienza zodiacale e a una dottrina dell’ascesa dell’anima che si fonde con quella del neoplatonismo, in particolare nella sua versione romana, attraverso cui i misteri mitraici entrano nel bagaglio esoterico delle accademie platoniche e di qui si trasmettono, via Bisanzio, ai segreti del Rinascimento.
Il revival del mitraismo nelle corti europee influenzerà tra Otto e Novecento la letteratura oltre che gli studi religiosi, dove troverà negli eruditi ecclesiastici, come Alfred Loisy, i suoi grandi divulgatori. Oggi, in un’epoca di nuove guerre, in cui si è estinta la militanza ideologica per le fedi di redenzione terrena, forse il volto del dio rimosso non ha ancora ritrovato la sua luce diretta, la sua immagine frontale, la sua versione concordata fra gli studiosi. Ma la figura di un miles sacralizzato, iniziatico, in lotta non per un’idea, come nella militanza politica del Novecento, ma contro le forze di un male sempre più astratto e demoniaco, è esaltata dal cinema, dai cartoni, dai fumetti. Mithra rivive nei supereroi dualisti acquerellati nelle cupe tinte di un postmoderno e grafico crepuscolo mazdèo. Come le vestigia dei mitrei nel sottosuolo di Roma o di Ostia, i residui della più antica e diffusa Religione della Militanza si incidono sguainando le loro armi, volando coi loro mantelli, nel tenebroso underground della cultura pop.
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964) *
"1. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo".
*
PER IL TESTO COMPLETO, VEDI:
DOMINUS IESUS (6 Agosto 2000) *
"INTRODUZIONE
1. Il Signore Gesù, prima di ascendere al cielo, affidò ai suoi discepoli il mandato di annunciare il Vangelo al mondo intero e di battezzare tutte le nazioni: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16); «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20; cf. anche Lc 24,46-48; Gv 17,18; 20,21; At 1,8)".
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PER IL TESTO COMPLETO, VEDI:
DICHIARAZIONE
"DOMINUS IESUS"
CIRCA L’UNICITÀ E L’UNIVERSALITÀ SALVIFICA
DI GESÙ CRISTO E DELLA CHIESA
Joseph Card. Ratzinger
Prefetto
Tarcisio Bertone, S.D.B.
Arcivescovo emerito di Vercelli
Segretario
Nell’angelus nella residenza estiva di Castel Gandolfo il pontefice ha commentato il brano di vangelo sulla figura di Giuda e il suo tradimento nei confronti di Gesù
di Redazione (La Stampa, 26/08/2012 )
Castel Gandolfo. La fede precede la conoscenza di Dio. Lo ha ribadito nel corso della catechesi che preceduto l’Angelus, ricordando le parole rivolte da San Pietro a Gesù, in risposta alla domanda «Volete andarvene anche voi?». Pietro rispose: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. Offrendoci il tuo corpo e il tuo sangue. E noi abbiamo creduto e conosciuto».
La «falsità» è «il marchio del diavolo», e fu questa la «colpa più grave» di Giuda, ha ricordato ancora papa Ratzinger. Lui, inoltre, voleva «vendicarsi» di Gesù, da cui si sentiva «tradito», perchè essendo uno zelota «voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani».
All’Angelus Benedetto XVI si è soffermato sulla figura di Giuda, l’apostolo che tradì Gesù, commentando i brani del vangelo sui discepoli che abbandonarono il Cristo non credendo alle sue parole sul suo essere «il pane vivo discesodal cielo».
«Gesù - ha detto il Papa ai fedeli riuniti nel cortile interno della residenza di Castel Gandolfo - sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli, anzi, avrebbe dovuto andarsene, se fosse stato onesto».
«Invece rimase con Gesù - ha proseguito -. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro». «Perchè? - si è chiesto papa Ratzinger - Perchè Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Ma Gesù aveva deluso queste attese».
Secondo il Pontefice, «il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: Uno di voi è il diavolo!». Il Papa ha quindi invitato a pregare perchè si possa «credere in Gesù» ed «essere sempre sinceri con Lui e con tutti».
-PAROLA A RISCHIO - Risalire gli abissi - La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti. - Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
Militante o traditore, l’eterno mistero di Giuda
di Armando Torno (Corriere della Sera, 28 agosto 2012)
In questi ultimi giorni d’agosto Giuda Iscariota, il discepolo che consegnò Gesù ai sacerdoti in cambio di denaro, suscita di nuovo interesse e attenzione. Innanzitutto perché papa Benedetto XVI domenica scorsa, all’Angelus, lo ha ricordato come zelota (fatto non scontato), appartenente a quel movimento che chiedeva l’indipendenza politica del regno ebraico, utilizzando anche la violenza. Giuseppe Flavio, lo storico di riferimento dei fatti di Palestina di quel tempo, nel secondo libro della sua Guerra giudaica non esita a definire gli appartenenti al gruppo «banditi», capaci di assassinare senza problemi. Giuda, in altri termini, che desiderava - ricorriamo alle parole del Papa - «un Messia vincente che guidasse una rivolta contro i Romani», si sentì tradito dal maestro che «aveva deluso queste attese». E cercò di risolvere a modo suo la questione. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha replicato ricordando altre ipotesi di interpretazione della controversa figura.
Inoltre, è morto Marvin Meyer, lo studioso americano che diresse il progetto della National geographic society sul Vangelo di Giuda. Il testo di tale apocrifo, due fogli, fu restaurato dal 2001 e pubblicato nel 2006. Ritrovato a Minya (Egitto) nel 1978, composto tra il 130 e il 170 della nostra era, riporta alcune conversazioni tra Gesù e Giuda: l’apostolo acquista nuova luce, sino a diventare uno degli amici più vicini al Figlio di Dio. Ebbe notevole successo - ha superato il milione di copie nel mondo - e ora Domenico Devoti lo traduce nuovamente, con il copto originale a fronte e un accuratissimo commento, per i classici dell’editore Carocci (pp. 392, 26). La scomparsa di Meyer, direttore del Coptic magical texts project, ha riportato in queste ore su diversi siti americani l’attenzione per il Giuda «buono».
Ricordiamo per dovere di cronaca che durante l’omelia del giovedì santo del 2006, Benedetto XVI parlò già di Giuda come di doppiogiochista e bugiardo. I riferimenti di allora e oggi sono basati sui testi canonici, alla base della tradizione ecclesiale. Stando alle interpretazioni fatte sino a ora, la figura che emerge dall’apocrifo è opposta (ma lo gnosticismo è un campo minato...). Né si dimentichi che Giuda è colui che consegna Gesù ai sacerdoti, ma quale fosse il senso del «tradimento» è tutto da decifrare e anche da interpretare dal punto di vista storico.
L’ipotesi più stimolante sembra quella di un tentativo dell’Iscariota (potrebbe significare «l’uomo del pugnale»; da esso deriva il nostro «sicario») di creare un contatto tra Gesù e i sommi sacerdoti di Gerusalemme per far scattare la grande rivolta contro l’occupazione romana (il pagamento sarebbe il compenso per l’informazione corretta). Interpretazione che vede d’accordo storici come Claude Aziza, con Judas le premier martyr (in L’Histoire, settembre 1985). Giuda e gli zeloti desiderano una liberazione politica; si allea con i sacerdoti, ma Gesù rifiuta l’abboccamento e va per la sua strada. L’Iscariota si sarebbe poi ucciso per il fallimento del progetto.
La qualifica di «traditore» non è facile trovarla nel Nuovo Testamento. Marco (14, 10-11) scrive: «Si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù. Quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro»; Matteo (26, 14-16), pur peggiorandone il profilo, non parla di tradimento; Luca (22, 3-6), anche se vede Satana entrare in Giuda, ricorda che «andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani». Soltanto Giovanni evoca il termine (12, 4-6), ma ricorda che «teneva la cassa». E i soldi, di solito, non si affidano a uno stupido. Morale: il Papa ha offerto una bella lezione di esegesi. Senza l’apocrifo Vangelo di Giuda.
Quel Giuda politico sarebbe più eversivo
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 29 agosto 2012)
All’Angelus del 26 agosto, il papa Benedetto XVI è ritornato su Giuda: “ritornato”, avendone trattato nel II volume del suo Gesù di Nazareth (Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 78 ss.), sotto il titolo “Il mistero del traditore”. Ora, sembra che il Papa abbia voluto sciogliere il mistero: «Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese». Questa è la spiegazione “fattuale”, a cui si aggiunge il giudizio morale: Giuda non se ne andò quando sarebbe stato il momento di riconoscere che in lui stesso non c’era (più) la fede in Gesù, e la sua colpa più grave fu la falsità. Per questo Gesù aveva detto ai Dodici: «Uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70).
Tra le tante interpretazioni del “caso Giuda” (titolo d’un romanzo di Walter Jens del 1975 che tratta di Giuda come “capro espiatorio” delle prime comunità cristiane), il Papa sceglie dunque quella politica. Tradimento per disillusione: Giuda lo zelota (cioè appartenente a una setta irredentista che faceva uso della violenza, nei confronti dei Romani) deve essersi sentito tradito nella sua speranza di riscatto nazionale. Da qui la vendetta. Una variante dell’interpretazione politica è questa, avanzata da Thomas De Quincey nel suo studio su Giuda Iscariota del 1853: di fronte a quello che al suo discepolo poteva sembrare un temporeggiare di Gesù (entrato in Gerusalemme come il liberatore, ma che disperdeva il suo tempo predicando nel Tempio), Giuda avrebbe deciso di rompere gli indugi. Mettendolo nelle mani dei sinedriti e dei romani, forse pensava che Gesù sarebbe stato costretto a rompere gli indugi e a passare all’azione.
La motivazione politica è certo meno ignobile di quella venale - la sordida avarizia - che ha una lunga e radicata storia nell’immaginario cristiano. Giacomo Todeschini (Come Giuda, Bologna, il Mulino, 2011) ha ricostruito fascinosamente l’uso dell’icona-Giuda, che per trenta denari butta via il suo tesoro (come gli usurati fanno con gli usurai), e della icona contraria della Maddalena, che sembra “sperperare” i suoi beni per onorare il Signore e, in realtà, li investe in qualcosa che vale davvero: uso che ritorna costantemente nei dibattiti tre-quattrocenteschi sulla povertà francescana e sui doveri di consapevolezza economica di chi opera nella moderna economia basata sul valore di scambio. Già queste due “interpretazioni di Giuda” mostrano quanto ricca di significati possa essere la sua figura.
In effetti, il “caso Giuda” resta un enigma insoluto, e ciò permette di interrogarlo sempre di nuovo e trarne alimento per riflessioni tutt’altro che banali, che interessano la teologia, la psicologia, la sociologia, la morale. In generale, intriga tutti coloro che cercano in Giuda le tracce di qualcosa che potrebbe sonnecchiare in ciascuno di noi, come un nostro “doppio”, che non amiamo vedere ma che, tuttavia, c’è. Da qualche parte, qualcuno di certo conserverà ancora un vecchio disco in vinile a 78 giri dal quale può venire la voce inconfondibile di don Primo Mazzolari che, in una sera piovosa del Giovedì Santo del 1958, predicava di “Giuda, nostro fratello” con parole che vanno molto al di là della cerchia dei credenti in Cristo.
Il volto enigmatico di Giuda, “il traditore”, ha aperto la strada ad arditissimi percorsi intellettuali e teologici. In greco, paradídomi (parola usata nei testi evangelici) significa consegnare, trasmettere, tramandare, come in latino tradere, senza alcun riferimento morale. Il “tradimento”, nel senso nostro, sarebbe prodídomi (usato una volta solo, da Luca, da cui proditore proditorio). Su questa parola, il teologo protestante Karl Barth ha costruito la sua interpretazione: Dio “si consegna” all’umanità tramite il Cristo, e la “consegna” è effettuata da Giuda. La lista dei “consegnatori” si allunga poi con Paolo di Tarso. L’oggetto della consegna è la parola di Dio. In questo modo, Giuda compare come l’esecutore di un disegno divino, anzi come una vittima di questo disegno: un disegno che, per tutti, ma non per lui, è di salvezza.
L’essere esecutore, secondo Barth, non assolve Giuda: egli è presentato come «il riprovato da Dio» (anzi, come il rappresentante d’un popolo di “riprovati”, il popolo d’Israele), così come il Cristo è “il riprovato” dagli uomini. Giuda come esecutore colpevole. In generale, noi pensiamo che il colpevole non sia l’esecutore materiale, se questi non dispone della libertà di autodeterminazione, ma sia il mandante: nel nostro caso, Dio addirittura! La teologia cristiana ha qui un problema: Giuda, come tutti i dodici, fu scelto da Gesù, che - dicono le scritture - sapeva fin dall’inizio del suo tradimento. Dunque, lo scelse come collaboratore, anzi - secondo una versione della corrente gnostica dei Cainiti (registrata nel cosiddetto Vangelo di Giuda) - come il più intimo tra i collaboratori: l’unico tra gli apostoli a conoscenza del mistero della salvezza.
Il celeberrimo bacio, cui Gesù risponde con la parola “amico”, non sarebbe allora prova di somma doppiezza. Sarebbe invece un segno d’amorevole intesa. In ogni caso, come si può ammettere la condanna senz’appello, riferita dai Vangeli (Lc 22, 22; Mt 26,24), di uno che, non solo ha partecipato alla realizzazione d’un disegno divino, ma è addirittura stato chiamato a parteciparvi? Eseguire la volontà divina e al tempo stesso essere colpevole d’un misfatto imperdonabile? Mistero. Si tratta forse della lotta mortale tra il regno di Cristo e il regno di Satana? Riferisce Giovanni (6, 70) queste parole di Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è il diavolo!». Ma Giuda, seppur posseduto dal demonio, era pur sempre un essere umano e Gesù non è forse venuto per salvare tutta l’umanità? Altro mistero. La figura di Giuda ha attirato l’attenzione anche per aspetti che vanno al di là della questione della “colpa provvidenziale”.
Nel Doktor Faustus di Thomas Mann, la vera e somma colpa di Giuda sarebbe consistita nella convinzione di non poter ottenere il perdono, una desperatio coincidente con la praesumptio d’aver commesso un delitto così grande che neppure Dio l’avrebbe potuto perdonare (da qui il suicidio). Giuda, nel peccato, sarebbe stato più grande di quanto non sia Dio nel perdono. Un atto di sommo orgoglio, dunque. Ma, dice Mann, la disperazione totale è al limite della contrizione totale. Infatti, se si pensa di poter ottenere il perdono, allora forse è perché, in fondo, non si crede d’aver commesso chissà quale delitto e il pentimento, allora, è solo apparente. Ma, se si pensa che il delitto sia imperdonabile, allora sì: la contrizione è perfetta, e la contrizione perfetta porta diritto ad assicurarsi il perdono. Un rovesciamento! Giuda come il più meritevole di assoluzione.
Le interpretazioni paradossali, contrarie al senso comune, non finiscono qui. Questa storia, già a prima vista, è piena di assurdità e aspetti inspiegabili. Allora, via libera alle fantasticherie. Jorge Luis Borges, in Tre versioni di Giuda, narra di un teologo svedese, Nils Runeberg, autore d’un raffronto tra Cristo e Giuda (1904) dove si riferisce d’una sua “scoperta”. Secondo la profezia, il messia sarebbe apparso al mondo come «l’uomo di dolori, esperto in afflizioni» (Isaia, LIII, 2-3), davanti al quale, per la vergogna, ci si copre la faccia. Dio si volle “fare carne”, non come un sovrano trionfante, ma come il più abietto e derelitto tra gli esseri umani. E chi è il più abbietto e derelitto, se non Giuda? Cristo è Giuda, e Giuda è Cristo! Dice Borges che quest’interpretazione non trovò seguaci, ma proprio in questa indifferenza totale Runeberg vide la conferma ch’egli cercava: Dio ordinava quell’indifferenza per pietà verso le sue creature, non volendo che si propagasse sulla terra un segreto sconvolgente. «Ebbro d’insonnia e di vertiginosa dialettica» il suo cuore non resse e morì d’un aneurisma, il 1° marzo 1912.
Ma al Giuda-Cristo di Runeberg può essere contrapposto il Giuda-uomo di Mazzolari: uno come noi, figura dell’impulso alla ribellione e alla distruzione, perfino delle cose, fino a quel momento, più belle e più care. Soprattutto quando incominciano ad apparire grondanti di simboli, rituali, promesse, esoterismi, segni d’elezione sublimi e oscuri, come nel tempo finale della vita di Cristo. Chi, in presenza di tutto ciò, non ha provato, non prova o non proverebbe un impulso liberatorio, il desiderio di dire: basta così!? Il Papa dice che Giuda fu colpevole perché in lui albergava la falsità. Forse, si può dire il contrario: l’impulso all’autenticità. Uno altro scandaloso rovesciamento
Che cosa resta del “tradimento” se l’azione dell’apostolo viene letta dal punto di vista del combattente
Giuda e l’autonomia della politica
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 06.09.2012)
Il caso di Giuda, anzi il mistero di Giuda che vendette Gesù per trenta denari e poi si impiccò mentre il cielo esplodeva solcato da fulmini e la terra tremava e il Cristo sulla croce esalava l’anima mortale prima di risorgere trasfigurato: così si conclude la storia terrena del Dio incarnato e si apre quella della nuova religione e della Chiesa che da duemila anni la rappresenta.
Il personaggio di Giuda lo zelota è uno dei punti centrali di quella storia e bene ha fatto Gustavo Zagrebelsky a rievocarlo con ampia documentazione teologica e letteraria nel suo articolo del 29 agosto sul nostro giornale. Le fonti e le interpretazioni da lui richiamate sono numerose, da libro di Benedetto XVI su Gesù al Vangelo di Giuda, fino al Thomas Mann del Doctor Faustus, a Borges e a molti altri teologi, scrittori, pensatori.
Bene ha fatto, perché il traditore, il rivoluzionario, lo strumento di Dio, il peccatore designato e addirittura necessario, la sua punizione che segna il massimo di incoerenza della divinità e del destino, sono temi sempre ricorrenti e tanto più nella nostra modernità agitata da contraddizioni al tempo stesso laceranti e non risolvibili, ricchezza e disperazione dell’epoca che viviamo.
Alle numerose citazioni di Zagrebelsky ne aggiungo una che sintetizza in modo esemplare i termini del problema e l’enigma che esso contiene. Sono due versi d’un sonetto di Gioacchino Belli, scritto a difesa degli ebrei accusati da secoli di deicidio: «Se Cristo era venuto pe’ morì / quarcheduno l’aveva da ammazzà».
Se la nostra vita è dominata dal destino, cioè è già scritta, l’enigma rappresentato da Giuda è irrisolvibile. O meglio, sancisce la non punibilità e l’irrilevanza delle opere ai fini della salvezza nel regno dei cieli. Dio ha già deciso tutto prima ancora che il tutto avvenga; ha deciso anche come dispensare la grazia e sarà la grazia a consentire alle anime prescelte di bearsi nella luce del Signore.
È vero che insieme alla grazia riservata ai prescelti il Dio cristiano ha dato a tutti la libertà di decidere i propri comportamenti. Dio, ovviamente, sa già quale sarà la decisione, ma consente che i figli di Adamo la prendano assumendone la responsabilità. Attenzione: non Adamo. Adamo aveva ricevuto l’ordine di non mangiare i frutti dell’albero. La libertà di scelta non l’aveva. Trasgredì cedendo alla tentazione di Eva e del serpente. Fu scacciato dagli angeli e balzò nella storia insieme alla sua compagna; da meraviglioso animale diventò persona dotata di pensiero con tutto che ne seguì a cominciare da Caino e Abele.
Il «Genesi» la racconta così. Il Dio cristiano è diverso quasi in tutto dal Dio biblico ma accetta l’«incipit» così come accetta il decalogo mosaico come fondamento della morale sebbene la predicazione evangelica modifichi profondamente le tavole del Sinai.
Allora: Adamo come Giuda, anzi Giuda come Adamo? Due prescelti a farsi strumento necessario del disegno divino? Chi mai può dire - tra quanti credono nel Dio cristiano - se quei prescelti sono stati puniti o accolti nella grazia del Dio misericordioso? Adamo sicuramente sì: il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo proprio per assumere su di sé il peccato commesso all’origine dei tempi e ripristinare l’alleanza di Dio con le sue creature. A condizione che cessino di peccare. In che modo possono adempiere a questa condizione? Lo dicono i Vangeli che raccontano il discorso della Montagna: scegliendo la «carità» come canone primario della nuova morale. La carità, cioè l’amore del prossimo, l’amore per gli altri è il solo modo d’amare il Dio cristiano infinitamente misericordioso.
Ma Giuda non ha amore per gli altri. Giuda ha una visione «politica», appartiene ad una setta nazionalista, vuole cacciare i Romani, disprezza i membri del Sinedrio, spera che Gesù si metta alla testa di quel movimento. Quando vede che il presunto Messia persegue tutt’altra strada, allora lo tradisce. Non c’è carità nell’animo politico di Giuda. Quindi è punibile e forse punito.
***
Ecco che siamo arrivati al punto. Un punto di estrema attualità, che può essere analizzato da diverse angolazioni: quella del credente cristiano, quella del non credente e quella della politica. Del credente si è già detto. Non può certo penetrare nei misteri divini, ma che Giuda sia punibile non c’è per lui dubbio alcuno e la dottrina della Chiesa lo conferma.
La visione politica introduce una variante di grande importanza e cioè l’autonomia della politica e qui il discorso riguarda sia i credenti che i non credenti. Per questi ultimi Giuda ha tradito un rapporto di amicizia profonda e quindi è moralmente squalificabile; ma non ha commesso alcun reato poiché ha denunciato alle autorità religiose e civili un sovversivo che sta turbando la pace pubblica. Da questo punto di vista dunque Giuda è una sorta di «pentito» che accusa un terrorista.
Ma qual è invece la posizione dei teorici dell’autonomia della politica? La politica, per i pensatori che hanno fondato la filosofia come scienza del sapere, è e dev’essere al vertice dell’attività umana perché riguarda le regole di convivenza della società, quello che si dice il bene comune.
La visione del bene comune deve tener conto di molti elementi: la storia d’un paese, il suo stadio di sviluppo culturale ed economico, i suoi punti di forza e di vulnerabilità, i paesi suoi vicini. La valutazione di questi elementi è ovviamente soggettiva, sicché la politica ha come fine dichiarato la conquista del potere per attuare quella visione del bene comune. Alla lontana (molto alla lontana) il bene comune ricorda la «carità», cioè l’amore per gli altri; ma la carità non ha bisogno del potere, è e dev’essere il contenuto d’una vita. Il bene comune invece ha la conquista del potere come obiettivo irrinunciabile. E quindi la lotta tra le diverse visioni. Questo è il connotato permanente dell’autonomia della politica.
Da questo punto di vista Giuda non è un traditore e neppure un «pentito» che denuncia un sovversivo, bensì uno «zelota» che ha una visione precisa di quello che per la sua parte è il bene comune del popolo di Israele, così come gli «esseni» avevano una loro visione e le tante altre sette che in quell’epoca di presagi pullulavano in Palestina. Giudicato come combattente politico, nelle azioni di Giuda non c’è nulla di condannevole anche perché non è affatto sicuro che volesse la condanna a morte del «maestro». Voleva probabilmente che scoppiasse uno scandalo, che il processo che gli fu intentato mobilitasse le varie sette politiche; che si formasse un’opinione pubblica, che in parte infatti si formò nel momento di scegliere la libertà tra Gesù e Barabba.
Da notare che il Sinedrio non voleva processare Gesù, tanto meno lo voleva Erode e neppure Pilato. Alla fine fu il procuratore romano a rompere gli indugi: lo interrogò, lo fece suppliziare, lo sottopose al referendum popolare e invitò (ordinò) al Sinedrio di confermare la condanna. Così avvenne e furono i legionari romani ad eseguirla. Il potere romano in sostanza ne uscì rafforzato.
Poca cosa. In quel momento ben altre forze erano in moto nelle regioni del Medio Oriente e Roma era ormai un impero di cui la Palestina era un piccolo anche se importante tassello.
Comunque, la condanna di Gesù fu per lo zelota Giuda un fiasco colossale. Forse proprio per questo si impiccò, se le fonti che lo raccontano dicono il vero.
***
Concluderò osservando che la Chiesa è stata nei secoli ed è tuttora un’istituzione che ha - o dovrebbe avere - alla sua base la predicazione di Gesù e dei suoi apostoli, ma in quanto istituzione opera nella politica e non è seconda a nessuno nella lotta per la conquista del potere.
Naturalmente per attuare la sua visione del bene comune utilizza una doppia categoria: la pastoralità e la temporalità, la Chiesa predicante e missionaria e la Chiesa militante e politica. L’istituzione è la scatola, la pastoralità il contenuto; ma spesso è accaduto che la scatola, cioè la politica, diventasse il fine e soffocasse il contenuto.
Zagrebelsky scrive ad un certo punto che un Giuda, cioè un potenziale traditore, c’è probabilmente in ciascuno di noi, è il nostro «doppio» che contrasta l’autenticità della persona. Arrivo anch’io ad un’analoga conclusione ma per un’altra strada: ciascuno di noi ama se stesso ed è perfettamente fisiologico che ciò avvenga, ma ama anche gli altri, il suo prossimo. La nostra vita individuale e sociale nasce dalla continua dialettica tra queste due polarità. Oggi stiamo attraversando una fase in cui l’amore di sé predomina e le regole del bene comune giacciono dimenticate in qualche sudicio scantinato. Facciamo il possibile per riattivarle, soprattutto per i figli e i nipoti che sperano nel futuro.
Il nuovo libro del Papa: non furono gli ebrei a chiedere la crocifissione
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2011)
L’enigma di Giuda, il ruolo del popolo ebraico, gli equilibrismi di Ponzio Pilato. Nel secondo volume del suo Gesù di Nazaret (il primo è stato pubblicato nel 2007) Benedetto XVI si confronta con i protagonisti fondamentali della scena su cui si staglia la Passione di Cristo. E, fedele alla sua teologia, papa Ratzinger respinge decisamente ogni interpretazione razzista del “crucifige”. Non fu il “popolo ebraico” a chiedere la pena capitale - scrive il pontefice - ma l’establishment sacerdotale e la “massa” dei seguaci di Barabba, scesi in piazza per reclamare la tradizionale amnistia pasquale per il “brigante” che in realtà era un combattente della resistenza antiromana.
Per ancorare questa interpretazione Ratzinger è costretto a contraddire il Vangelo di Matteo che in realtà parla di “tutto il popolo”, ma al fondo la versione di Matteo voleva focalizzare l’eterna antitesi fra i profeti e il popolo che non li riconosce ed è pronto a lapidarli. Non era certo sua intenzione fondare l’antigiudaismo religioso cresciuto nei secoli quanto più il cristianesimo si è istituzionalizzato come potere totalitario, che escludeva ogni altra forma di fede e di pensiero, creando la figura dell’eretico da un lato e del deicida dall’altro.
IN OGNI CASO la lettura proposta da Ratzinger si colloca nella svolta del Concilio che condanna ogni interpretazione antisemita dei Vangeli. Nel secondo volume su Gesù, che apparirà in libreria la settimana prossima e di cui il Vaticano anticipa alcune pagine, Benedetto XVI esplora l’enigma psicologico di Giuda e l’atteggiamento politico di Pilato. Su di loro il pontefice non offre letture particolarmente innovative. Raccontando le vicende dei Vangeli, Benedetto XVI racconta in effetti se stesso, cioè le riflessioni che nascono in lui. Così i motivi contingenti, che spingono Giuda a consegnare Cristo, a Ratzinger, sulla traccia del Vangelo di Giovanni, non interessano molto. Non sono “psicologicamente spiegabili”.
Conta piuttosto che la slealtà, l’infedeltà, il tradimento della
missione trovino posto all’interno della Chiesa - si potrebbe dire strutturalmente e sociologicamente
sin dagli inizi dell’avventura cristiana. Non è un’assoluzione all’italiana per dire che le mele
marce ci sono ovunque, ma un monito alla comunità cristiana a liberarsi continuamente del
tradimento e della “sporcizia”, che si manifestano nell’istituzione.
L’analisi del comportamento di Ponzio Pilato, strattonato nell’animo tra carrierismo e realismo - tra la paura di essere denunciato all’imperatore di Roma per acquiescenza al “ribelle” Gesù e la consapevolezza che lui non è per niente un leader mondano - serve a Ratzinger per esaminare i rapporti tra “verità” e politica. Dove l’uomo non coglie il senso autentico dell’esistenza - rimarca Ratzinger - finisce per dare spazio al potere dei più forti.
Come sempre i passaggi più belli dell’opera ratzingeriana si manifestano nell’emozione prodotta dalla radicalità del messaggio evangelico. Il sangue della crocifissione, spiega, non è contro. Non esige vendetta né punizione. Non deve ricadere su nessuno. Perché è un sangue che redime, che è stato versato per tutti gli uomini. L’Ecce homo è l’immagine di Dio, che sta dalla parte dei sofferenti. In questo senso, afferma Ratzinger, il suo sangue ricadendo sugli uomini non porta maledizione, ma “redenzione e salvezza”.
UNA CURIOSITÀ: nel libro Ratzinger dimostra - al contrario dei Vangeli sinottici - che l’Ultima Cena non è avvenuta il giorno di Pasqua, ma alla vigilia come suggerisce evangelista Giovanni. Il giorno di Pasqua, invece, si colloca la sua morte. All’ora esatta in cui si macellavano gli agnelli pasquali. E così la simbologia dell’“Agnello di Dio” raggiunge il suo compimento.
La versione di Giuda. Il grande traditore come specchio dell’uomo
Anticipiamo un estratto da Giuda - Il tradimento fedele (Einaudi). La controversa figura dell’apostolo è il tema di un saggio sotto forma di dialogo tra il costituzionalista e la studiosa di teologia.
di Gabriella Caramore e Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 2 marzo 2011)
GABRIELLA CARAMORE. Innanzitutto, perché "Giuda"? Da dove nasce il suo interesse personale per quell’"uno" dei dodici che tradì Gesú?
GUSTAVO ZAGREBELSKY. La domanda è coinvolgente e, in certo senso, intima. Ricordiamo entrambi il momento in cui l’idea di parlare di Giuda ci parve promettente, per un dialogo su cose importanti. Non immaginavo che l’attenzione sarebbe finita per spostarsi da una vicenda di duemila anni fa, intrecciata col processo e con la morte di Gesù di Nazareth, a un’interrogazione su noi stessi. Come per tutte le grandi narrazioni bibliche, è però inevitabile che questo accadesse anche per la figura di Giuda. Così, lei ora mi chiede perché è interessante per me. Il che significa proporre Giuda come uno specchio in cui siamo invitati a guardarci senza nasconderci ciò che vediamo, cioè a non mentirci. Naturalmente, la risposta - anch’essa - è "per me", cioè valida per me. Per altri, non saprei. Diano la loro risposta.
Credo di poter dire così: si tratta innanzitutto del fascino del personaggio che si è cucito, o al quale è stato cucito addosso, l’abito dell’abiezione. L’abiezione ci porta alla conoscenza più autentica dell’essere umano. Ricorda l’uomo del sottosuolo dostoevskjiano? Quando sinceramente ci si rivela nell’abiezione, si è senza dubbio più sinceri, e quindi interessanti, di quando ci si mostra nel nostro lato più pulito, degno di stima e considerazione. Chi indossa o colui al quale è fatta indossare una divisa da santo è di solito più artefatto, se non addirittura falsificato, di chi si rivela nella sua bassezza. Non che manchi anche un esibizionismo dell’abiezione, ma certo Giuda non può essere accusato di questo. Nessuno dei suoi gesti è descritto come se fosse stato compiuto per essere notato, per fare scandalo, per passare alla storia. Altri, tra i dodici, indulgevano talora alla vanità. Giovanni, per esempio, anche a giudicare da quel che dice di sé nel suo Vangelo, doveva essere un grande vanesio. Giuda, il contrario. Nessun beau geste da parte sua, non nel bene e nemmeno nel male. Non vuole lasciare un’impronta di sé, non cerca di diventare un eroe agli occhi di chi gli sta attorno, o semplicemente di assumere e rappresentare una sua parte in una "storia". Agisce avvolto nell’ombra e, a differenza di altri dei dodici, non pare affatto desideroso di farsi notare. È così appartato che i Vangeli, al di là della vicenda del tradimento di cui è protagonista, gli dedicano pochissime parole alquanto insignificanti, oltre che non certo lusinghiere. La sua morte è un suicidio disperatamente solitario. Sarà pure un caso di damnatio memoriae da parte degli altri seguaci di Gesù, registrata dai Vangeli per ragioni dettate da esigenze di fondazione della fede e coesione dei fedeli. Ma questa mancanza di esibizione conferisce indubbiamente al suo profilo il pregio dell’autenticità. In certo senso, dobbiamo dargli credito. Almeno questo, povero Giuda! Perciò, come ogni figura dell’autenticità umana, anch’egli ci interpella immediatamente. E, anche se l’interpello si manifesta nell’abiezione, ci pone tuttavia di fronte a una possibilità che dobbiamo riconoscere essere implicita nella nostra condizione di esseri umani.
Ecco un primo motivo per fermarci a riflettere un poco sulla sua figura, direi: sulla "maschera" che ci è offerta di lui, indipendentemente dalla questione della veridicità storica della sua vicenda, una questione che, in effetti, è stata sollevata. Credo che nel corso di questa conversazione ci accadrà di parlare di un "Giuda, fratello nostro". Ecco, allora, la risposta alla sua domanda: un nostro "doppio" che ci svela un lato di noi che non amiamo vedere e, tanto meno, mettere in mostra.
CARAMORE. Torniamo ancora per un momento a considerare l’abiezione. È vero che i personagginegativi incuriosiscono più di quelli positivi, ma, prescindendo dall’interesse morboso, qui ci troviamo di fronte a un tipo di abiezione particolare: il tradimento. Giuda è un "traditore", anzi "il" traditore. E il tradimento è una forma sottile, nascosta, di abiezione.
ZAGREBELSKY. Sì. Il tradimento è sempre nascosto. Il traditore si dissimula. Agisce in modo tale che il tradimento non traspaia, tramite la simulazione dell’amicizia e della fedeltà. Anche in questo il racconto del tradimento di Giuda assume un andamento simbolico attraverso il bacio, il bacio del traditore. Nessun altro segno sarebbe stato altrettanto efficace, nella costruzione del paradigma del traditore come figura d’ipocrisia. Naturalmente, anche il bacio, come ogni altro elemento della narrazione evangelica, si presta a interpretazioni diverse. Sarà necessario ritornarci. Quello anzidetto è solo il significato, per così dire, più facile, e forse anche banale.
CARAMORE. E quello più profondo? Più difficile? Quello che ci fa guardare alla figura di Giuda come all’abisso che si nasconde in ciascuno di noi?
ZAGREBELSKY. Perché il tradimento di Giuda non potrebbe parlare a noi di noi? Forse perché si tratta del tradimento del giusto per eccellenza, del figlio dell’uomo o del figlio di Dio, in una vicenda svoltasi duemila anni fa che, secondo la fede cristiana, è irripetibile? Forse perché il "tradimento" di Giuda assume significati che trascendono gli accadimenti puramente umani, significati che nessun nostro tradimento potrebbe avere? I Vangeli, però, non parlano della passione e della morte di Gesù come eventi interamente guidati dal soprannaturale. Perciò gli esseri umani che vi compaiono, non operano come marionette mosse dall’alto, su un palcoscenico che non potrà mai più essere allestito.
Le grandi figure e le grandi vicende bibliche si prestano così a interpretazioni su piani diversi. La stessa cosa è anche per Giuda. Ai lati estremi, mi pare si possa dire, c’è l’interpretazione di lui come uno degli intimi del Signore, divenuto sordido traditore del "giusto" per mero danaro. Al lato opposto, troviamo l’identificazione in lui dell’atteggiamento dell’umanità intera, di fronte al divino che entra nella storia. In mezzo, sta l’immagine della disperazione, del capro espiatorio del primo gruppo di discepoli, dell’uomo posseduto da satana, del rappresentante del popolo ebraico nel rifiuto del messia, oppure dell’amico di Gesú, suo complice, del coadiutore di Dio nell’opera della salvezza, dell’iniziato alla conoscenza delle verità ultime...: una gamma d’interpretazioni, talora anche contraddittorie, che portano con sé giudizi diversi, nella quale la fede conta solo parzialmente. È difficile non trovarvi un posto anche per noi. Naturalmente, la figura dell’abiezione, con quella connessa della disperazione, è la più facile da comprendere e quindi la più diffusa. Non per questo, però, è la più banale, almeno per chi creda che ci sia più verità nell’abiezione e nella disperazione che nella santità e nella pacificazione con se stessi.
Sondaggio su Facebook: «Chi è il tuo personaggio del vangelo preferito?». Vince Giuda
di Cesare Buquicchio *
Fu il perdono la chiave di tutto. Il vero passo avanti compiuto dalla dottrina cristiana rispetto all’ebraismo. Il tassello che spinse i fedeli di Gesù a diventare la religione più diffusa del mondo. E, a distanza di oltre 2000 anni da quella svolta, fa piacere constatare che i cristiani non abbandonano la scelta del perdono nemmeno in questi tempi di scarsi ideali. Certo, molte cose sono cambiate nel frattempo, e l’ortodossia cristiana ha dovuto fare i conti (a volte malvolentieri) con l’evoluzione del pensiero dell’uomo.
Una novità che però la chiesa sembra aver sposato con entusiasmo è quella del marketing. E così, sul settimanale Famiglia Cristiana è apparsa una iniziativa che punta a rivitalizzare l’interesse dei lettori cattolici. Eccola qui, come appare testualmente sulla pubblicazione e sul sito internet di Famiglia Cristiana: «“Scegli il personaggio del vangelo che ti piace di più” e raccontaci perché lo preferisci (Gesù e Maria esclusi). Ti abbiamo preparato un elenco dei più importanti sul sito www.famigliacristiana.it, ma scegli liberamente. Puoi votare anche via mail a simpatico@famigliacristiana.it, o al numero di fax 02/48.07.27.78, o per posta. Oppure cercaci su facebook (http://www.facebook.com/pages/Famiglia-Cristiana/71682892936) e vota on-line. Ogni settimana pubblicheremo la classifica aggiornata».
Internet, addirittura Facebook, valgon bene una messa se c’è da attualizzare il vangelo tra i più giovani a rischio agnosticismo, devono aver pensato nella redazione di don Antonio Sciortino. Ma la vera sorpresa è la classifica che appare sul più popolare dei Social Network. Primo e, finora, senza rivali, tra i personaggi più amati c’è lui: Giuda. Sì proprio l’Iscariota che vendette Gesù per trenta denari. Condannandolo alla croce. Una provocazione? Proprio di quei giovani, e spesso cinici, adolescenti che bazzicano la Rete? Oppure il grande e profondo sentimento del perdono che ritorna a pervadere il popolo cattolico?
Starà a Famiglia Cristiana interpretare e decodificare il voto. E spiegarci come e perché Giuda primeggia e Maria Maddalena si piazza terza dietro all’Arcangelo Gabriele. Perché il Buon Ladrone si piazza sesto, scavalcando anche San Giuseppe, mentre i Re Magi, usciti dai nostri presepi, scivolano al 16° posto. Ma la vera domanda che aleggia nel cielo è: concluso questo sondaggio con la vittoria di Giuda. Si potrà affrontare la sfida tra l’Iscariota e Gesù (per ora prudentemente escluso insieme a Maria dalla competizione)? Insomma, sarà Facebook ad ospitare la “rivincita”?
Preti pedofili
Crimini sessuali e Vaticano (documentario italiano)
Video che smaschera le gerarchie ecclesiastiche per avere coperto i preti pedofili ... *
Un video della BBC (con sottotitoli in italiano) che ognuno dovrebbe vedere per capire come le gerarchie ecclestiastiche della chiesa cattolica romana coprono i preti pedofili.
Testimonianze dirette di pesone violentate da preti. Le prove che Ratzinger, quando era cardinale, sapeva dei crimini commessi da molti preti sui bambini in America ma comandò che i fatti fossero tenuti segreti. Un video veramente scioccante, che deve essere fatto conoscere anche ai Cattolici Romani.
http://video.google.it/videoplay?docid=3237027119714361315
*IL DIALOGO, Lunedì, 14 maggio 2007
OPINIONI
Preti pedofili? La Chiesa sia credibile
Una macchia che coinvolge il 3% del clero: la stessa percentuale dei ministri di culto di altre confessioni che finiscono in tribunale ma sono ignorati dai giornali
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 1/6/2007)
E’ la Chiesa Cattolica la "grande prostituta" del mondo»? Il pregiudizio urlato dal leader degli unionisti calvinisti dell’Ulster davanti a Giovanni Paolo II, nell’emiciclo di Strasburgo l’11 ottobre 1988, fa parte dei vari linciaggi subiti attraverso i secoli dalla gerarchia e dal clero cattolici. Un pregiudizio antico quanto il cristianesimo, particolarmente coltivato e diversamente declinato in ambiente anglosassone da quando la riforma protestante prima e l’illuminismo poi gli hanno anche attribuito un valore confessionale e nazionalistico con un mix gradito alla politica.
Un pregiudizio tira l’altro e, man mano che la marea immonda dei preti cattolici accusati di pedofilia montava, sui media anglosassoni negli ultimi due decenni si è letto spesso: «è la Chiesa il vero pedofilo». Una macchia, attribuita alla persistenza della legge sul celibato per i sacerdoti cattolici di rito latino, ed estesa, proprio per questo, a decine di migliaia di chierici. In realtà, fonti non confessionali stabiliscono allo 0,3 per cento del clero la percentuale di infamia che si riferisce alla Chiesa Cattolica. Una percentuale del tutto simile a quella che colpisce i ministri di culto di altre confessioni religiose i quali forse perché non cattolici e perché operanti in terre anglosassoni, finiscono in tribunale ma vengono ignorati dai giornali.
L’infamia di una parte
Una percentuale notevolmente inferiore alle condanne per pedofilia inflitte agli educatori e agli insegnanti delle scuole pubbliche statunitensi e irlandesi, i due Paesi dove la pruderie di Sex crimes and the Vatican - il video che ha tanto eccitato Santoro e i suoi - ha pescato, casualmente, nel torbido. È stato il Wall Street Journal, in un editoriale di qualche anno fa, a elencare, per stigmatizzare e rigettare, la spendibilità politica a stelle e strisce della «grande prostituta». Sull’Unità del 29 maggio una intervistatrice chiedeva a uno scrittore anticattolico irlandese: «Di cattolicissimi restiamo solo noi italiani: ci faccia sognare, ci dica, come è avvenuto nel suo paese il crollo del cattolicesimo?». Il giornale per il quale scrive la giornalista con i sogni, in teoria, si rivolge a un elettorato che in un recente sondaggio si è dichiarato «credente» al 70% e «praticante» per quasi il 30%.
Se qualcuno spera di tradurre politicamente l’infamia di una parte del corpo clericale della Chiesa, moderando così la spinta verso il centro intravista nelle ultime (e nelle future) tornate elettorali, vuol dire che, almeno politicamente, non abbiamo più argomenti.
Il «mistero dell’iniquità»
E che, nello specifico del problema pedofilia, ancora non vogliamo dire realisticamente nulla; visto che, secondo i dati dell’Onu, è un problema che colpisce circa 150 milioni tra bambini e bambine. Le vere inchieste, quelle per cui vale la pena mettere in campo la libertà di stampa, dovrebbero riguardare fenomeni come il turismo sessuale, la pedopornografia, lo sfruttamento sessuale di minori...
Proprio per questo motivo, è particolarmente importante che la Chiesa ci dica con tutta sincerità come mai è successo che, anche al suo interno, quel «mistero di iniquità» che Giovanni Paolo II aveva riconosciuto nel mondo ha così pervicacemente colpito. Dovrà dirci ancora, con parole credibili, come farà a ricostruire quella fiducia tradita che tanti papà e mamme avevano riposto nella loro Chiesa. Perché, al di là di ogni fatto confessionale, l’immonda macchia della pedofilia ha gettato sulla testimonianza della Chiesa quel «tradimento» definito e stigmatizzato con dolore da Giovanni Paolo II, il Giovedì Santo del 2002, il giorno del sacerdozio ma anche il giorno di Giuda, in una memorabile omelia. Un tradimento, del tutto simile a quello di Giuda, dell’umano che è in tutti noi.
IL VANGELO CHE SCAGIONA GIUDA di Alberto Flores D’Arcais (La Repubblica, venerdì 7 aprile 2006)
"Qui si narra della rivelazione che Gesù fece parlando con Giuda Iscariota..."
Così inizia la prima pagina di un fragile manoscritto in papiro che rilegge in modo radicalmente diverso la vicenda del "traditore" più odiato della storia e lo trasforma nel più fedele discepolo di Cristo; un documento straordinario che oltre a fornire inedite informazioni su Giuda Iscariota lo riabilita presentandolo come colui che consegna Gesù alle autorità su rischiesta dello stesso Cristo: il Vangelo di Giuda.
Al termine di un lunghissimo lavoro (cinque anni) una equipe di esperti linguisti, papirologi e studiosi di storia della religione, una vera e propria squadra di «detective biblici» è riuscita a decifrare il testo e a verificare l’autenticità e il significato religioso.
Il risultato, uno dei più eccezionali documenti dell’archeologia giudaico-cristiana, è stato svelato ieri a Washington nella sede della National Geographic Society.
In Italia sarà pubblicato in esclusiva dal "National Geographic Italia" di maggio (in edicola dal 21 aprile) e con la rivista si potrà anche acquistare il libro «Il Vangelo perduto di Giuda Iscariota».
Scritto su papiro e legato da un laccio di pelle il codice è stato redatto in copto - la lingua in uso allora in Egitto - intorno al 300 dopo Cristo; ritrovato negli anni Settanta (del ’900) nel deserto presso El Minya, in Egitto finì nelle mani di mercanti di antichità, lasciò l’Egitto per giungere prima in Europa e poi negli Stati Uniti dove rimase in una cassetta di sicurezza a Long Island, New York, per 16 anni prima di venire acquistato dall’antiquaria di Zurigo Frieda Nussberger-Tchacos nel 2000.
Un testo destinato a fare discutere storici, religiosi e filosofi, un testo che fa giustizia anche dell’odioso e brutale antisemitismo che per secoli si è nutrito della vicenda-leggenda di «Giuda il Traditore».
Già nel titolo («Il racconto segreto della rivelazione fatta da Gesù a Giuda Iscariota nel corso di una settimana, tre giorni prima la celebrazione della Pasqua») riecheggiano temi cari alla tradizione gnostica e che ebbero una grande diffusione agli albori del cristianesimo; vicende che contraddicono la storia più tradizionale, quella che ci verrà tramandata dai Vangeli ufficiali (di Luca, Giacomo, Matteo e Giovanni) e che verrà codificata dai dogmi della Chiesa cattolica nei secoli successivi.
Nel documento - in cui non si fa alcun cenno alla crocifissione nè alla resurrezione - fin dalla prima scena Gesù ride dei suoi discepoli che pregano il loro Dio, il «dio minore» del Vecchio Testamento che ha creato il mondo. Li esorta a guardarlo e a comprendere cosa egli sia davvero, ma questi non lo fanno e non capiscono.
Il passaggio fondamentale arriva quando Gesù dice a Giuda: «...tu supererai tutti loro. Perchè tu farai sì che venga sacrificato l’uomo entro cui io sono». Aiutando Gesù a liberarsi del suo corpo terreno, Giuda lo aiuterà a liberare la sua entità spirituale, la sua essenza divina.
Uno status, quello di Giuda, che viene più volte descritto come speciale: «Allontanati dagli altri, a te rivelerò i misteri del Regno. Un Regno che raggiungerai, ma con molta sofferenza. Ti ho detto tutto. Apri gli occhi, guarda la nube e la luce che da essa emana e le stelle che la circondano. La stella che indica la via è la tua stella». E Giuda «aprì gli occhi, vide la nube luminosa e vi entrò».
Giuda Iscariota non solo non è "il Traditore" ma è - stando al codice copto - il mezzo attraverso cui Gesù di Nazareth raggiunge il suo scopo, dunque il discepolo decisivo, il più importante.
Nel testo si prevede l’ira degli altri discepoli contro il traditore (Giuda ha una visione, «vidi me stesso mentre i 12 discepoli mi prendevano a sassate e mi perseguitavano») ma anche il fatto che sarà comunque superiore a loro: «Sarai maledetto per generazioni, ma regnerai su di loro», gli dice Gesù.
Al papiro manca la parte finale e il testo si interrompe all’improvviso: «Essi (coloro che erano venuti ad arrestarlo) avvicinaro Giuda e gli dissero, "Cosa fai qui? Sei un discepolo di Gesù?". Giuda diede loro la risposta che volevano, ricevette da loro del danaro e glielo consegnò».
Le 66 pagine del manoscritto non contengono solo il Vangelo di Giuda ma anche un testo intitolato "Giacomo" (noto anche come la Prima Apocalisse di Giacomo), una lettera di Pietro a Filippo e un frammento di un quarto testo che gli studiosi hanno deciso di chiamare provvisoriamente Allogeni (Book of Allogenes).
Alberto Flores D’Arcais
E ti pareva che ti dimenticassi del Vangelo di Giuda !!
Mi sembra comunque che ti sia sfuggito quello di Tommaso, molto utile per le tue tesi, caro Federico (77. Gesù disse, "Io sono la luce che è su tutte le cose. Io sono tutto: da me tutto proviene, e in me tutto si compie. Tagliate un ciocco di legno; io sono lì. Sollevate la pietra, e mi troverete." ).
Sempre con immensa simpatia e stima. Biasi
L’ALBERO GENEALOGICO DEI VANGELI
NESSUN ALTRO TESTO NELLA STORIA DELL’UMANITÀ, COME QUEI QUATTRO LIBRETTI CHE TOTALIZZANO 64.327 PAROLE GRECHE, HA SOLLECITATO UNA SIMILE ATTENZIONE. UN’OPERA LA CUI GENESI SI PUÒ PARAGONARE A QUELLA DI UN FIUME CHE NASCE DA UNA SORGENTE, SI DIRAMA IN FORMA ANCORA ESITANTE, RAGGIUNGE UN PERCORSO PIÙ PLACIDO E SOLENNE, ALIMENTATO DALLE ACQUE DEGLI AFFLUENTI E APPRODA AL SUO DELTA FINALE, IN QUATTRO STESURE DIFFERENTI. CHE RIFLETTONO PERÒ IL VOLTO UNICO DEL DIO FATTOSI UOMO
«Ciò che deve rimanere ben fisso nello studio dei Vangeli è un equilibrio molto delicato ma decisivo. Esso è stato formulato nel linguaggio teologico col termine Incarnazione sulla scia di quella celebre affermazione del prologo del Vangelo di Giovanni: "la Parola divenne carne". La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e rivelatrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù»
Alle origini dei Vangeli
Il loro genere letterario è, in un certo senso, unico, il genere detto appunto "vangelo", come lo era quello della stessa predicazione che li precedeva. Essi partono dalla storia di Gesù di Nazaret ma non è alla sua ricostruzione rigorosa che dedicano tutti i loro sforzi. Quei dati vengono, infatti, interpretati e compresi nel loro significato più profondo e trascendente
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 25.02.2007)
IL FIUME E IL DELTA. È un’immagine che spesso si usa quando si inizia una ricerca storico-letteraria (e nel nostro caso anche teologica) in un terreno già esplorato e perciò segnato da orme e da piste: si è soliti parlare di una foresta bibliografica. Ebbene, questo simbolo è del tutto pertinente quando ci si mette a scrivere qualcosa sui Vangeli perché alle spalle dello studioso o del semplice appassionato si distende un’immensa selva di libri, di analisi, di approfondimenti, di documenti. Nessun altro testo nella storia dell’umanità, come i quattro libretti dei Vangeli che totalizzano solo 64.327 parole greche, ha sollecitato una simile attenzione dagli esiti molto variegati.
Quello che noi proporremo ora sarà, perciò, solo una pallida sintesi e uno schema scheletrico che deve rimandare a studi ben più ponderosi e compiuti. Per delineare il nostro itinerario ricorreremo a un’altra immagine, quella di un fiume che nasce da una sorgente, si dirama in forma ancora esitante, raggiunge un percorso più placido e solenne, alimentato dalle acque degli affluenti e approda al suo delta conclusivo. Ora, "in principio" è necessario porre la figura di Gesù la cui carta d’identità minima potrebbe essere così definita:
Nome: Gesù, in ebraico Jeshû’, abbreviazione di Jehoshû’a ("Il Signore salva").
Paternità legale: Giuseppe, in ebraico Josef. Secondo lo stile semitico il cognome sarebbe ben-Josef ("figlio di Giuseppe"; vedi Luca 4, 22).
Maternità: Maria, in ebraico Myriam (forse "la elevata, esaltata").
Luogo di nascita: Betlemme di Giudea
Data di nascita: "ai tempi del re Erode" (Matteo 2,1), durante "il primo censimento" di Quirinio, governatore della Siria (Luca 2, 1-2). Siamo forse attorno al 6 a.C.
Residenza: Nazaret in Galilea; poi senza fissa dimora.
Stato civile: celibe.
Professione: carpentiere; poi rabbì ambulante.
Alle origini, dunque, c’è questa figura storica, la sua predicazione e attività pubblica per le strade, i villaggi e le città prima della Gal ilea, la regione settentrionale, e poi della meridionale Giudea, e infine la sua morte a Gerusalemme. Un evento "misterioso" (a livello storico e teologico, ma ovviamente con sensi diversi), la sua risurrezione, dà al fiume il primo impulso che impedisce alle acque di ristagnare o di essere assorbite dal terreno. Esse, infatti, scorrono e quel fluire un po’ variegato tra colline e valli è l’annunzio che i discepoli di Cristo faranno negli anni successivi alla sua morte. È quel kèrygma o "annunzio" essenziale della vita, delle opere, del messaggio, della morte e della risurrezione di Gesù che viene destinato a ebrei e pagani ma che è anche sviluppato in vere e proprie lezioni di catechesi per coloro che hanno già fatto una prima scelta per Cristo. Non si tratta di pura e semplice memoria di atti e di detti: quei ricordi sono, infatti, illuminati dall’esperienza dell’evento della pasqua di Cristo vissuta dalla comunità dei discepoli, un’esperienza che li ha trasformati in veri e propri "apostoli" e testimoni.
Il fiume comincia ad irrobustirsi; fuor di metafora, nascono probabilmente i primi testi scritti, sono quasi dei "protovangeli". Su di essi possiamo solo formare ipotesi, vagliando i Vangeli terminali a noi giunti e certe macchie omogenee di colore che essi rivelano. Certamente nacque subito un antico racconto della passione-morte-risurrezione di Gesù; si formarono narrazioni sull’infanzia di Gesù, trasfigurate alla luce della fine tragica e gloriosa di quella vita.
Secondo molti studiosi sorsero anche alcune collezioni di "detti" - o, come si dice in greco, di lóghia - pronunziati da Cristo. Tra di esse è da menzionare quella che gli esegeti denominano convenzionalmente "fonte Q" (dal tedesco Quelle, cioè "fonte") e che fu anticipata già agli inizi dell’Ottocento dagli studi sui Vangeli del filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher. Questa raccolta di parole di Gesù è da molti considerata come una delle fonti ben identificabili nei primi tre Vangeli. Non manc arono forse anche libretti che elencavano una serie di atti miracolosi di Gesù. E qualche studioso afferma ancora, sulla scia di una convinzione diffusa in passato, l’esistenza anche di una prima edizione del vangelo di Matteo in aramaico, la lingua popolare della Palestina di allora.
Ma ormai stiamo per giungere al delta del fiume: è una foce a quattro bracci. Le acque precedenti vi si convogliano su percorsi differenti, mentre altre onde confluiscono da diversi corsi d’acqua. Siamo giunti ai Vangeli. Tre di essi si organizzano secondo una planimetria piuttosto omogenea, sono i cosiddetti "Vangeli sinottici". Il termine deriva dal greco e suppone che con uno sguardo (opsis) d’insieme (syn-) i Vangeli di Matteo, Marco e Luca possano essere colti come un trittico parallelo le cui scene sono sostanzialmente omogenee o per lo meno rivelano coincidenze significative. Per spiegare questo fenomeno, detto "questione sinottica", si è ricorsi a decine e decine di ipotesi tra le quali particolare fortuna ebbe la cosiddetta "teoria delle due fonti". Contrariamente a quanto si riteneva nell’antichità cristiana e nei secoli successivi, il primo Vangelo fu quello di Marco (non quello di Matteo che apre ancora oggi il Nuovo Testamento nelle edizioni ufficiali): non fu, dunque, Marco a sintetizzare Matteo ma furono Matteo e Luca ad ampliare Marco, loro fonte primaria, usando un altro testo di riferimento, la "fonte Q" che abbiamo sopra descritta e che conservava soprattutto parole di Gesù, e altre fonti proprie a Matteo e Luca.
ULTIMO BRACCIO: GIOVANNI. L’ultimo braccio del delta della tradizione di Gesù Cristo è, come noto, il Vangelo di Giovanni che, messo in "sinossi" col trittico Marco-Matteo-Luca, rivela una sua originalità di fonti oltre che diverse redazioni successive. Ebbene, nella tetrade dei Vangeli confluiscono memorie storiche di Gesù e su Gesù che la testimonianza dei primi discepoli, la predicazione cristiana o kèrygma, gli eventuali primi scritti avevano elabor ato, interpretato, arricchito e ampliato. Come ha insegnato una scuola esegetica, detta in tedesco di Redaktionsgeschichte, cioè di "storia della redazione", i singoli evangelisti non ripeterono materialmente i dati ricevuti dalla prima tradizione cristiana, quasi fossero meri compilatori, ma li selezionarono, li adattarono alle comunità a cui li indirizzavano, li ordinarono comportandosi da veri "redattori", li interpretarono secondo le proprie prospettive teologiche. È per questo che il profilo di Gesù Cristo nei quattro Vangeli è sostanzialmente lo stesso ma ha lineamenti nuovi, sottolineature differenti, espressioni inedite secondo ciascun vangelo. È ciò che, ad esempio, aveva già intuito il celebre autore dei Racconti di Canterbury, Geoffrey Chaucer (1340 ca.-1400), quando nel Racconto di Melibeo a proposito della narrazione della passione di Gesù secondo i vari evangelisti, osservava: «Voi sapete che ogni evangelista non ci narra il martirio di Gesù Cristo del tutto nello stesso modo del suo compagno. Eppure tutti i loro racconti sono veri e tutti concordano nel senso che, se pur vi sono discrepanze nel modo del racconto, perché uno dice di più e l’altro di meno nelle pagine che descrivono la sua compassionevole passione, il significato generale è però indubbiamente uno solo».
GENERE UNICO. A questa osservazione del tutto pertinente dobbiamo aggiungere una nota sulla qualità specifica dei Vangeli. Da un lato, bisogna evitare la Scilli del mito o della pura e semplice teologia, quasi essi siano trattati speculativi; d’altro lato, bisogna schivare la Cariddi della storicità assoluta, quasi che essi siano da ricondurre al genere dei manuali di storiografia o delle biografie scientifiche. Il loro genere letterario è, in un certo senso, unico, il genere detto appunto "vangelo", come lo era quello della stessa predicazione che li precedeva. Essi partono dalla storia di Gesù di Nazaret ma non è alla sua ricostruzione rigorosa che dedicano tutti i loro sforzi (si notano facilmente divergenze di ambientazione, formulazione, trama, dettaglio). Quei dati vengono, infatti, interpretati e compresi nel loro significato più profondo e trascendente. E la luce che riesce a perforare la superficie dei fatti di Gesù per coglierne il valore di rivelazione e di salvezza è la pasqua di Cristo, un evento che ha lasciato dietro di sé tracce storiche ma che appartiene a un altro piano, al di là della storia. Se si tiene ben fissa questa qualità, risulta tutto sommato secondaria la questione cronologica, cioè se Marco sia da collocare attorno al 50 (come vorrebbe l’ipotesi che si affida a una fragile e ipotetica identificazione di una presenza di questo vangelo in una manciata di lettere greche di un papiro, il 7Q5, ritrovato tra i documenti della comunità giudaica di Qumran e databile attorno al 50) oppure se il 70, l’anno del crollo di Gerusalemme sotto le armate imperiali romane di Tito, sia la vera e più probabile discriminante temporale. Nella bassa o nell’alta cronologia vale sempre il fatto che i Vangeli sono preoccupati di assumere la storia per trapassarla e per offrirla elaborata non storiograficamente ma teologicamente.
Ciò non esclude, però, che intensa sia stata la ricerca per isolare nei documenti evangelici, caratterizzati da questo intimo intreccio tra storia e fede, la sostanza storica di Gesù di Nazaret, quella sorgente da cui il fiume ha iniziato il suo complesso percorso. Questa investigazione si era avviata in pieno Illuminismo razionalista e aveva registrato correzioni di tiro, lungo però una traiettoria che aveva alla fine delineato una figura bifronte: da un lato, l’uomo Gesù di Nazaret, essere storico che ha lasciato qualche labile traccia nei documenti romani e giudaici e un’impronta marcata nei Vangeli; d’altro lato, ecco Cristo, figlio di Dio, Messia e Signore, che domina nella pagine neotestamentarie. La domanda fondamentale era una sola: il Gesù storico e il Cristo della fede possono essere accordati in un unic o personaggio oppure il secondo prevarica e offusca il primo?
Una risposta che condizionò molto la successiva ricerca storica e teologica del ’900 fu pronunziata da un professore tedesco, Rudolf Bultmann, docente in un’università di provincia, Marburg, a una novantina di chilometri a nord di Francoforte. Per comprenderla è necessario partire un po’ da lontano e usare termini tedeschi che diverranno comuni nell’esegesi contemporanea. Iniziamo col nome di una "scuola" a cui partecipò anche Bultmann, quella di Formgeschichte. Per illustrarne il metodo ricorriamo a due immagini. Il geologo, quando deve catalogare la sequenza dei "pacchi" di strati di un terreno, deve procedere a un taglio stratigrafico che ne definisca nettamente la successione. Oppure il critico d’arte, quando deve studiare una tela determinando l’elaborazione progressiva del soggetto che su di essa è stato dipinto, può ricorrere anche alla radiografia: essa rivela che sotto la superficie dell’opera finale sono spesso presenti abbozzi o schizzi o varianti. Ebbene, quella "scuola" di ricerca voleva appunto andare al di là della superficie dei Vangeli, cercando di risalire lungo i vari strati, oltre la redazione finale fino alla predicazione dei primi annunziatori del messaggio cristiano e possibilmente fino alla memoria dello stesso Gesù storico.
Il desiderio era proprio quello di approdare alla sorgente, alle parole e alle opere dello stesso Gesù storico. Si cercava, quindi, di delineare la "formazione" (Form) dei Vangeli nella loro storia (Geschichte). Questa formazione si era attuata attraverso il calarsi delle parole e delle opere di Gesù in "forme" (Form) letterarie, simili a piccoli stampi fissi (pensiamo alle parabole, ai racconti di miracoli, ai lóghia, cioè a frasi lapidarie o detti di Gesù, alle polemiche o controversie di Cristo coi suoi avversari e così via). Questa operazione che selezionava e adattava le memorie di Gesù e su Gesù presenti nella cristianità delle origini avvenne, secon do questa "scuola" di studiosi tedeschi sorta ai tempi della Prima Guerra Mondiale, sulla spinta di diversi contesti - chiamati Sitz im Leben, cioè "situazione nella vita" o ambiente vitale - entro cui venivano trasmessi la memoria e il messaggio di Cristo. Per Bultmann si trattava di ambiti popolari, inclini alla creazione di miti e di leggende, pronti a esasperare gli aspetti clamorosi e religiosi, ad adattare e a deformare la vicenda di Gesù secondo le istanze concrete delle varie comunità. Sulla base di queste considerazioni è facile immaginare quale sia stato il risultato dell’investigazione della Formgeschichte e di Bultmann.
LA «NUOVA RICERCA». Una parete divisoria invalicabile separa dunque secondo Bultmann il Cristo della fede, a noi pienamente disponibile, dal Gesù storico: non sappiamo nulla del "come" egli abbia parlato, amato, vissuto; non sappiamo nulla dei contenuti della sua predicazione e della sua umanità storica; sappiamo solo che Gesù è stato un dato esistente, e questo ci dovrebbe bastare perché i Vangeli vogliono presentare solo a credenti il Cristo della fede e della gloria pasquale, il Figlio di Dio, il Salvatore. Come aveva affermato un collega di Bultmann, Martin Dibelius, «in principio c’era la predicazione», il kèrygma, l’annunzio di fede, e non il Gesù della storia. La sorgente del cristianesimo, allora, non sarebbe nell’ebreo Gesù di Nazaret ma nel Cristo predicato e creduto, nell’annunzio pasquale degli apostoli. Come è evidente, su una via antitetica rispetto a quella dell’Illuminismo razionalista, anche questi teologi protestanti che procedevano su una via di fede, approdavano però allo stesso esito: il Gesù storico ci sfugge ed è secondario; ad apparirci è, invece, il Cristo glorioso ed è solo lui che deve interessare.
Attorno agli anni ’50 del secolo scorso questo modo di affrontare il problema del rapporto tra Gesù e i Vangeli, detto dagli studiosi l’Old Quest, cioè l’antico modo di far ricerca sul Gesù storico, lasciò spazi o a una New Quest, un nuovo approccio ben più ottimistico sulla possibilità di isolare nei Vangeli componenti storiche riguardanti Gesù di Nazaret. Una delle strade privilegiate fu quella dei cosiddetti "criteri di storicità", cioè di verifica dell’autenticità storica o meno dei vari dati evangelici. Ne citiamo solo due. Il primo è chiamato convenzionalmente il "criterio di discontinuità". Sono da ritenersi storicamente autentici i dati dei Vangeli che stridono col giudaismo contemporaneo e rivelano un’originalità tale da non poter essere considerati come un semplice prodotto dell’ambito ebraico (ad esempio, la libertà di Gesù nei confronti delle leggi rituali di purità, le persone di dubbia fama che circondano Gesù, il modo autoritativo con cui sceglie i discepoli, a differenza dei maestri giudaici che erano scelti dai discepoli, e così via). Sono da ritenersi storici anche i dati che stridono con le convinzioni della Chiesa delle origini, come, ad esempio, le tentazioni che presentano un Gesù in balìa di Satana, o le debolezze e i tradimenti degli apostoli o il Gesù battezzato da Giovanni, in posizione di inferiorità, tra i peccatori. Tutti questi dati, infatti, non sarebbero mai stati "inventati" dalla comunità cristiana delle origini perché in contrasto con la loro fede e venerazione nei confronti di Cristo. Quindi dovevano appartenere alla realtà storica in quanto tale.
L’altro criterio è opposto ed è quello detto "della continuità": è da considerare come storicamente autentico un detto o un atto di Gesù qualora esso non sia anacronistico ma conforme con l’epoca o l’ambiente linguistico, geografico, politico, sociale e culturale dello stesso Gesù ma sia anche intimamente coerente col suo insegnamento e con l’immagine generale. È facile intuire che, se i Vangeli dipingessero il fondale della vita e dell’opera di Gesù coi colori e le figure del mondo greco-romano del II secolo, avremmo qualcosa di simile alle famose "Cene" di Gesù dipinte dal Veronese o di altr i artisti in cui Cristo e i suoi commensali sono inseriti in architetture rinascimentali e con particolari occidentali. Il sospetto sul valore storico degli eventi descritti sarebbe più che legittimo. Ebbene, i Vangeli riflettono invece con una buona approssimazione (non dimentichiamo che essi non sono libri storici in senso stretto) lo sfondo topografico e socio-culturale del I secolo.
EQUILIBRIO DECISIVO. L’ambiente sociale (lavoro, abitazioni, professioni, strati della società), religioso (le rivalità teologiche tra il movimento "progressista" dei Farisei e quello "conservatore" e "clericale" dei Sadducei, le tensioni messianiche, il ritualismo, la demonologia...), geografico (le tre regioni palestinesi della Galilea a nord, di Samaria al centro e della Giudea al sud, le città come Gerusalemme, Cafarnao, Nazaret e le conferme dell’archeologia), linguistico (il substrato aramaizzante di certe pagine greche dei Vangeli, i cosiddetti procedimenti mnemonici di una civiltà orale) è ben rappresentato dai Vangeli, senza anacronismi eccessivi e sospetti. Osservava uno studioso canadese, René Latourelle: «Non si saprebbe inventare coi vari pezzi presenti nei Vangeli un insieme di dati così complessi coordinandoli nei particolari in un tessuto a maglie molto fitte. La ragione d’essere di questa fedeltà è nella realtà stessa che la produce». Le parabole di Gesù sono l’emblema più significativo di questa coerenza non artificiosa. Una coerenza con l’orizzonte del I secolo dimostrata da quella che viene ora denominata come Third Quest, la "terza ricerca" sul Gesù storico, quella attenta a collocare Gesù nel contesto storico ebraico di quel periodo.
Fermiamoci qui perché fin troppo lungo è stato il nostro itinerario, pur nella semplificazione adottata. Ciò che deve rimanere ben fisso nello studio dei Vangeli è un equilibrio molto delicato ma decisivo. Esso è stato formulato nel linguaggio teologico col termine incarnazione sulla scia di quella celebre affermazione del pro logo del vangelo di Giovanni:ho lógos sarx eghéneto, «la Parola divenne carne». La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e rivelatrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù di Nazaret, la divinità s’irradia nella storia. Per usare un’immagine del filosofo Soeren Kierkegaard, le due sfere dell’umano e del divino in Gesù Cristo entrano in collisione ma non per un’esplosione di rigetto bensì per un abbraccio. Ed è proprio questa unità che dev’essere correttamente custodita.
Figlio di Simone, detto Iscariota - forse «di Kariot», villaggio palestinese meridionale, o deformazione da «sicarius», nome dei ribelli al potere romano, o «ish-karja», «uomo della falsità», per soprannome posteriore, o forse anche «tintore» - era entrato in scena nei Vangeli già a Cafarnao, dopo il discorso di Gesù sul «pane di vita», quando il Signore aveva esclamato: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». E Giovanni annotava: «Parlava di Giuda» Il contenuto dell’apocrifo intitolato al discepolo dei 30 denari, già noto per la testimonianza di Ireneo, non ha alcun valore per la ricostruzione storica delle ultime ore di Gesù e non inficia i dati evangelici, al contrario di quanto sostenuto da chiacchiere giornalistiche. L’opera nasce dalle elucubrazioni di un ambito piuttosto creativo del cristianesimo gnostico egizio, sofisticato quanto eterodosso
Giuda quante speculazioni sul Traditore
Si avvicina di più alla realtà «Il Maestro» di Max Brod (1952) che, al di là del suo Giuda nichilista, centra tutto sulla forza salvifica della donazione di sé compiuta da Cristo. L’apostolo rimane responsabile del suo atto: la libertà umana non è cancellata e non cade la responsabilità personale della spia. Ma questo atto è inserito da Dio in un progetto più ampio paradossalmente positivo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 18.03.2007)
Come accade in medicina, potremmo parlare anche per il mondo editoriale dell’esistenza, in questi mesi, di una sindrome che attanaglia le redazioni, gli uffici stampa o quelli delle pubbliche relazioni: è la «sindrome Dan Brown» che spinge a consacrare ogni sforzo perché si ripeta quello stesso miracolo mediatico, che tra l’altro vede la religione (con buona pace di coloro che la ritengono il reperto inerte di un paleolitico culturale) come il lievito e la spezia fondamentale del successo. Dopo la Maddalena browniana, ora è la volta di Giuda Iscariota, il discepolo traditore. Si è cominciato con l’ormai popolare (anche se ignoto ai più nel testo originario) Vangelo apocrifo di Giuda e si continua ora, da un lato, con saggi che ripropongono quel testo antico in modo corretto come quelli di Enrico Giannetto (Medusa) o di Erich Noffke (Claudiana) o di Tom Wright (Queriniana) e d’altro lato, con parti di fantasia miscelati a materiali storico-critici, rispolverando anche romanzi ormai dimenticati ma dal titolo inequivocabile come il Vangelo secondo Giuda del polacco Henryk Panas (1912-1985), storia di un ricco e colto affarista che segue Gesù inizialmente perché innamorato della Maddalena (ci risiamo...) e che poi vive una storia più grande di lui, quella appunto del tradimento, che affiderà a un vangelo apocrifo (lo hanno appena riproposto le edizioni e/o).
Ma l’attenzione maggiore, nella linea del sogno di un nuovo Codice, è ora protesa sul Vangelo secondo Giuda di Beniamino Iscariota (Mondadori), opera di fiction elaborata da un curioso personaggio inglese, Jeffrey Archer, un lord finito in galera per falsa testimonianza e diventato poi autore di alcuni best-seller, con ammiccamenti teologici. Ho avuto occasione anch’io un paio d’anni fa di sentirlo, inviato a me dal cardinal Martini a cui egli si era rivolto proprio per la consulenza esegetica a questo romanzo. Io allora lo dirottai su qualche neotestamentarista delle università pontificie romane e fu così che egli incrociò il noto esegeta salesiano Francis Moloney che ora può godere di luce riflessa per questa sua assistenza, per altro accompagnata da quella di altri teologi anglicani. La presentazione dell’opera prevista martedì 20 marzo a Roma presso la Sala della stampa estera non deve far pensare che siamo in presenza di un saggio che proponga una nuova interpretazione della figura di Giuda. Non è certo nuova l’idea che quel discepolo abbia tradito non per denaro bensì per una delusione politica nei confronti di Gesù poco incline a cavalcare le istanze antiromane dell’Israele oppresso di allora. Un po’ meno scontata ma altrettanto esplorata è l’ipotesi che Giuda non si sia ucciso e che il racconto di quella fine tragica sia stata modellata su altri morti drammatiche come l’impiccagione di Achitofel, il consigliere traditore del re Davide (2 Samuele 17, 23). Sta di fatto, però, che ci troviamo di fronte a una sorta di romanzo storico che - attraverso la consulenza di Moloney - riesce solo ad assicurare affidabilità alle coordinate storico-culturali d’insieme e al relativo fondale. Noi ora ci accontentiamo di proporre ai nostri lettori due note di indole più generale riguardanti la figura dell’apostolo traditore.
La prima ovviamente vuole fare il punto sul vangelo apocrifo di Giuda, di cui si è tanto parlato (e favoleggiato) nei mesi scorsi. Si tratta di un codice papiraceo scritto in copto, la lingua tardo-egiziana, databile al IV secolo, traduzione di un testo greco che è da collocare nel II secolo perché, attorno al 180, il vescovo di Lione, sant’Ireneo, nella sua opera Contro le eresie dimostra di conoscerne e criticarne il contenuto. Scoperto in Egitto attorno agli anni ’70 del secolo scorso, il manoscritto apparve sul mercato antiquario statunitense negli anni ’80 e, dopo 17 anni di oscuramento, venne acquistato da un antiquario, Fieda Nussberger-Tchacos, che riuscì a piazzarlo, ad alto costo, alla svizzera Maecenas Foundation for Ancient Art. Quest’ultima, anch e per rifarsi dell’esborso, si accordò con l’americana National Geographic Society per un restauro, un’edizione critica, una traduzione inglese e un’ampia divulgazione della scoperta con uno straordinario battage pubblicitario, promettendo tra l’altro la restituzione del codice all’Egitto per collocarlo nel Museo Copto del Cairo.
Il contenuto di questo apocrifo - che, come si è detto, era già noto anche attraverso la testimonianza di Ireneo - non ha nessun valore per la ricostruzione storica delle ultime ore di Gesù e quindi non inficia minimamente i dati evangelici, al contrario di quanto sostenuto da molte chiacchiere giornalistiche. L’opera, infatti, nasce dalle speculazioni successive di un ambito piuttosto creativo del cristianesimo gnostico egiziano, un cristianesimo sofisticato, intellettualistico ed eterodosso. Lo stesso Gesù del Vangelo di Giuda è un essere celeste che oscilla tra incarnazioni diverse (ai discepoli si presenta come un bambino) e tra epoche differenti. Anche l’interpretazione della figura di Giuda, a prima vista suggestiva, è in realtà inficiata dalle tesi generali dell’eresia gnostica.
Egli sarebbe l’unico dei discepoli a scoprire la vera identità segreta di Gesù; e il suo tradimento è considerato come un evento provvidenziale ma non nel senso che intenderà la tradizione neotestamentaria e cristiana, e cioè con l’esito della morte e risurrezione di Cristo, sorgente di redenzione. La prospettiva del testo apocrifo è radicalmente diversa: Giuda contribuisce a mandare a morte non il vero Gesù ma solo l’uomo di cui l’essere spirituale Cristo era rivestito, il suo involucro materiale ed esteriore. Gesù, infatti, ha solo apparentemente assunto un corpo carnale per ingannare i «prìncipi di questo mondo» (gli «arconti») che presiedono alla storia e nascondersi tra gli uomini per riuscire a salvare, tra di loro, la sola stirpe eletta imprigionata nell’umanità peccatrice così da riportarla a quel cielo da cui era caduta. Il tradimento di Giuda fa , dunque, parte di quel progetto segreto e quello che è stato crocifisso ed è morto è stato solo un corpo umano insignificante. Tra parentesi ricordiamo che la tesi coranica secondo la quale sulla croce muore un sosia e non Gesù stesso nasce proprio dall’influsso di tesi gnostiche conosciute da Maometto forse attraverso i membri delle carovane cristiane egiziane che percorrevano l’Arabia. È facile, quindi, comprendere che il Vangelo di Giuda è solo l’espressione posteriore di teorie cristiane libere e fin stravaganti.
La seconda considerazione che vogliamo proporre punta, invece, sulla figura evangelica canonica di Giuda e sull’eco letteraria che, come si è visto, lambisce anche i nostri giorni. Giuda, figlio di Simone, detto Iscariota (forse «di Kariot», villaggio palestinese meridionale, o deformazione da sicarius, nome dei ribelli al potere romano, o ish-karja, «uomo della falsità», per un soprannome posteriore, o forse anche «tintore»), era entrato in scena nei vangeli già a Cafarnao, dopo il discorso di Gesù sul «pane di vita», quando Cristo aveva esclamato: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». E Giovanni annotava: «Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui, infatti, stava per tradirlo, lui, uno dei dodici!» (6,70). Era riapparso nella cena di Betania, nell’ultima settimana della vita di Gesù, quando aveva protestato per lo spreco del profumo di nardo versato sui piedi di Cristo da Maria, sorella di Lazzaro, meritandosi dall’evangelista anche il titolo di «ladro» (12,6). Matteo (26,14-16) aveva evocato questo aspetto quando lo raffigurava mentre pattuiva la somma di trenta monete d’argento per consegnare Cristo ai sommi sacerdoti, una notizia che - almeno nella cifra - è però modellata su un passo del profeta Zaccaria ove di scena è un pastore («essi pesarono trenta sicli d’argento come mia paga» 11,12).
Giuda era seduto a mensa con Gesù nell’ultima cena, quando «il diavolo gli aveva già messo in cuore di tradir e» il suo maestro che in quel momento gli offriva il «boccone dell’ospite», un segno di amicizia: «dopo quel boccone Satana entrò in Giuda», annota ancora Giovanni (13,2.27). E Matteo mette sulle labbra di Gesù l’annunzio del tradimento, sempre in quella sera, nel Cenacolo, e Giuda ipocritamente reagisce: «Rabbì, sono forse io? Gli rispose Gesù: Tu l’hai detto!» (26,20-25). Quelle parole, dette quasi in un soffio, fanno calare il sipario sulla vicenda di Giuda come discepolo di Gesù. Egli riapparirà al Getsemani per quel bacio dato a Cristo come un probabile segno di identificazione offerto nell’oscurità a chi doveva arrestare il Nazareno e divenuto l’immagine del tradimento (si pensi alla scena dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova). «Giuda con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?» (Luca 22,48): queste parole amareggiate di Gesù sono sostituite in Matteo da un secco ef’ho parei, «per questo sei qui!», ma accompagnato da un triste etaire, «amico, compagno» (26,50). Sarà solo Matteo, però, a registrare la tragedia di quest’uomo, che poco dopo corre dai suoi mandanti a restituire il prezzo di un tradimento, divenuto già insopportabile (27,3-10).
La fine drammatica ormai incombe. Matteo l’affida a una sola riga: «Giuda, scagliate nel tempio le monete d’argento, si allontanò e andò a impiccarsi» (27,5). Luca, nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, ci offrirà una versione più clamorosa di quella fine, rimandando forse a un passo della Bibbia (Sapienza 4,19) ove si dipinge a tinte forti il destino dei malvagi: «Giuda, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere» (1,18). Una morte atroce, comunque essa sia accaduta, funge da sigillo a una vita forse segnata dall’illusione e dalla delusione, causate da una falsa immagine di Gesù, sognato come un messia politico e scoperto come un maestro dall’orizzonte troppo alto e remoto. Giuda rimarrà come un simbolo universale di tradimento, anche se sant a Caterina da Genova (XV secolo) affermava di aver ascoltato in visione un Cristo sorridente dirle: «Se tu sapessi quel che io ho fatto per Giuda...!» e don Primo Mazzolari in una sua famosa predica parlava di Giuda come del «prediletto di Gesù e nostro fratello».
Esiste, come si diceva, tutta una letteratura attorno a Giuda, talora pronta a ripercorrerne la vicenda sconcertante (pensiamo al frammento epico L’eterno ebreo di Goethe o alla Fine di Satana di Hugo o al Giuda di Lanza del Vasto, al Sale della terra di Carlo Monterosso, all’Opera del tradimento di Mario Brelich, ai Trenta denari di Ferruccio Ulivi, al Vangelo di Giuda di Roberto Pazzi e così via) ma spesso anche incline a cercarne una difesa o una giustificazione. Persino il cattolicissimo Claudel nella sua Morte di Giuda (1933) riabiliterà una certa paradossale buona fede del traditore; Roger Caillois nel suo Ponzio Pilato (1961) ne farà un santo, votato all’attuazione di un progetto superiore. «La verità è - dichiara Giuda nel Quinto evangelio di Mario Pomilio (1975) - che io non fui il traditore: fui piuttosto la vittima di un curioso piano di salvezza, esteso a tutti gli uomini, che per esplicarsi perfettamente doveva escludere me».
È la tesi radicale anche dell’Ultima tentazione di Gesù del greco Nikos Kazantzakis (1955) che presenta Giuda come il più pio degli apostoli che sceglie il tradimento per rendere possibile la morte sacrificale ed espiatrice di Gesù. Analogo è, per certi versi, quel «vangelo secondo Giuda» che è La gloria, romanzo di Giuseppe Berto (1978). Ma forse si avvicina di più alla realtà il Maestro di Max Brod (1952) che, al di là del suo Giuda nichilista, centra tutto sulla forza salvifica dell’amore e della donazione di sé compiuta da Cristo. Giuda, dunque, rimane responsabile del suo atto: la libertà umana non è cancellata e, quindi, non cade la responsabilità personale del traditore. Ma questo atto è inserito da Dio in un progetto più ampio paradossalmente positivo: i nfatti, è proprio attraverso l’oscurità del tradimento e poi dell’odio, della violenza e della morte che si celebra la fecondità della redenzione e dell’amore di Gesù che si dona per la salvezza dell’umanità.
Vangelo di Giuda, smascherati gli errori di traduzione
di ARISTIDE MALNATI (Avvenire, 08.12.2007)
Non cessa la discussione scientifica sul Vangelo gnostico di Giuda, pubblicato nell’aprile del 2006 per la National Geographic Society, e subito oggetto privilegiato della fantareligione, perennemente protesa - sulla scorta del successo di Dan Brown - a confezionare pastoni storicamente traballanti, per non dire ridicoli, e a presentarli con i crismi dell’autorevolezza, magari appigliandosi a elementi accessori serviti da oscuri pseudostudiosi in cerca di notorietà. In questo clima da New Age da supermer- cato una simile sorte non poteva risparmiare Il Vangelo di Giuda, opera gnostica fortemente inficiata nelle proprie strutture esegetiche e nella propria creatività narrativa da teorie di filosofia neoellenistica, in cerca di un punto di incontro con una religione oramai ecumenica e dotata di un Canone già ben definito (siamo nel III secolo).
Finalmente, a più di un anno della pubblicazione di uno scritto tanto discusso, sul New York Times uno studio rigoroso di April DeConick, docente di Studi biblici alla Rice University - studio intitolato Il tredicesimo Apostolo: ciò che realmente dice il Vangelo di Giuda - smonta in modo convincente le tesi fondanti dell’editio princeps, troppo affrettatamente impugnate contro l’autorevolezza dei Vangeli canonici e in polemica con la Chiesa ufficiale; tesi subito sposate da chi invece ritiene il cristianesimo primitivo una nebulosa magmatica e indifferenziata di esegeti e padri della Chiesa per lo più in contrasto tra loro.
DeConick fa rilevare un’impressionante serie di svarioni nella traduzione e nell’interpretazione del testo in lingua copta, commessi (quanto scientemente?) nel corso di un lavoro «troppo veloce per ben ponderare le insidie di un’opera così complessa ». Si fa rilevare come, a fronte dell’interpretazione da parte del National Geographic di Giuda come eroe, una lettura più attenta evidenzi che non solo l’Iscariota non è ritenuto un eroe, ma che è un daimon: «E la traduzione di daimon, secondo il pensiero della setta gnostica dei Cainiti, non può che essere demone e non spirito, solitamente espresso anche in copto con il termine greco pneuma », osserva DeConick. Inoltre il testo dice espressamente che «Giuda è separato dalla Santa Generazione» e non, come traducono gli esperti del National Geographic, «preservato per essa».
Poi, da Gesù Giuda riceve sì i Misteri del Cielo, ma non perché è per lui possibile entrarci, semplicemente perché il Messia vuole che l’apostolo-traditore sia informato e che, se decide di tradirlo, lo faccia scientemente: «In realtà questa affermazione sostiene in modo evidente il libero arbitrio, concetto-cardine del pensiero cristiano ortodosso», fa notare DeConick. E ancora: il National Geographic ha omesso una negazione, contenuta in una frase sull’ascensione di Giuda, che capovolge il senso originario: l’ascensione di Giuda alla Santa Generazione sarebbe stata maledetta. La casa editrice ha ammesso l’errore ma in ritardo e non con un’evidenza tale da far cambiare nell’opinione pubblica un concetto ormai radicato.