Rapporti di valore. Un Giuda qualunque
di Alberto Burgio (il manifesto, 7 giugno 2011)
«Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: "Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?". Questo egli disse non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro».
Evidenze fallaci
Così, lapidariamente, Giovanni disegna la figura forse più tragica - dopo quella del Cristo - dell’intera narrazione evangelica. Giuda il traditore, il sicario. Giuda l’amministratore infedele, l’ipocrita. Giuda l’ebreo. Non c’è dubbio, Giovanni, tra gli evangelisti il più avverso al mondo ebraico, ha fatto scuola nella cristianità. L’apostolo che avrebbe venduto Gesù per trenta sicli d’argento (un decimo appena del ricavato probabile di un’ampolla di unguento) è ancora oggi nel discorso comune emblema di abiezione, paradigma di un’umanità depravata, precipitata nell’abisso della colpa e del peccato.
Ma Giuda, in verità, chi fu? «In verità», non sul piano della biografia e del fatto storico (dove l’incertezza avvolge già quell’appellativo - Iscariota - che Isidoro di Siviglia riferirà congetturalmente al nome del villaggio o della tribù di Issachar, a sua volta fatidicamente traducibile con «prezzo»). Chi fu quanto a valore simbolico, quanto al ruolo che la sua figura ha svolto nell’immaginario della cristianità e nel costituirsi del suo canone morale? Un’icona della colpa, questo è evidente. Ma se ci si chiede di quale colpa fondamentale si tratti, l’evidenza intuitiva si rivela inopinatamente fallace.
Il tradimento, l’inganno, il deicidio, al quale la «maledetta razza» rimarrà per sempre inchiodata: eppure, prima che sul registro morale, il discorso su Giuda viene stratificandosi - nella patristica e nella testualità carolingia, nella precettistica degli ordini mendicanti, nella teologia e nella produzione iconografica quattro e cinquecentesca - sul terreno cognitivo. Giuda è innanzi tutto una potente icona dell’estraneità.
Devianze inaudite
Il traditore è tale perché non comprende (quindi infrange) i codici di comportamento della comunità e, alla radice, i suoi valori e le sue basilari verità. L’inaudita devianza del tradimento matura su questo terreno. È figlia di una sorta di analfabetismo, in prima battuta economico. Trenta denari, il prezzo di un misero podere, per il figlio di Dio. Certo, infedeltà: ma innanzi tutto irrazionalità, insensatezza, insipienza. Addirittura bestialità.
Di questo passo, il discorso su Giuda rivela mondi insospettati. Se Giuda è prima di tutto colui che fraintende e agisce sulla base di un capitale errore di valutazione (mercator pessimus), la sua figura non evoca soltanto la colpa dell’infedeltà (assenza di fede e tradimento della fiducia), ma stende un’ombra sinistra sull’intera umanità dei mediocri e degli ignoranti, sulle «genti meccaniche» - poveri e ignoranti, servi e subalterni - che non comprendono le norme della convivenza (complicate regole economiche, ancora una volta; ma, più in generale, regole sociali e politiche). E che per ciò stesso vivono esposte al rischio dell’errore e del peccato.
Giuda, uno di noi uomini «senza qualità». Giuda che ci guarda dalle tele del Perugino e di Rubens ad ammonirci che della sua colpa ciascuno è virtualmente partecipe. Giuda, specchio ammonitore, inteso a rammentarci mende e fragilità della nostra condizione di mercenarii costretti a vendere tempo e braccia in cambio della sopravvivenza. Quella che Giovanni l’evangelista pone è solo la prima pietra di un edificio destinato a diventare una delle narrazioni fondative della civitas christiana.
La fabbrica della «modernità»
È questa la storia che Giacomo Todeschini oggi racconta in un libro (Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna, il Mulino 2011, pp. 311, euro 24) davvero fuori dal comune. Todeschini è uno storico del Medioevo. Ma uno storico sui generis, che ha, si può dire, aperto un campo di ricerca violando sistematicamente (tornano alla mente le lezioni di Polanyi e Foucault) i veti e le interdizioni per mezzo dei quali i saperi disciplinari definiscono e riproducono se stessi. Storia medievale, ma in primo luogo storia del discorso economico rintracciato e ricostruito attraverso le maglie della tradizione teologica.
Economia e teologia, ma entrambe indagate come luoghi di determinazione dei codici sociali e politici, dunque come sedi primarie di produzione normativa (etica e giuridica). E il Medioevo, a sua volta, ripercorso come fabbrica della «modernità». Fatto rivivere in forza di una stupefacente padronanza delle fonti.
Restituito a una insospettata freschezza e attualità. Posto, finalmente, al cospetto dell’età moderna non già per disperdere specificità e distanze, ma per cogliere l’impasto tra persistenza e cesure e, di qui, interrogare schemi, vulgate e periodizzazioni recepite.
Una fisicità bestiale
Torniamo a Giuda l’ebreo. Perché egli, avarus e ladro, critica la Maddalena per quello che considera
scandalosamente - uno sperpero di prezioso unguento? Perché, spiega Todeschini, non decifra il
senso del gesto (in virtù del quale la peccatrice si trasfigura e santifica). Fraintende. E fraintende
perché rimasto in interiore homine impigliato nel credo originario (onde intavolerà coi sacerdoti del
Tempio l’abietta trattativa).
Questa pervicace infidelitas è la primaria fonte dell’avarizia e dell’estraneità. Quindi dell’incapacità di comprendere, insieme con il Valore del Cristo e del Verbo, il codice dei valori (e, perché no, dei prezzi) che regolano la convivenza nella comunità dei redenti. Non si tratta tuttavia di un caso, né, quindi, di un errore emendabile. Giuda non può né potrebbe comprendere, giusta la sua natura difettiva. Giuda è gretto, è rozzo, è prigioniero di una carnalità quasi-animale (ancora un tratto «sordidamente giudaico», oltre che - anzi: quindi femminile).
Dalla spiritualità cristiana lo separa un abisso: «non corde, sed corpore sequebatur», sancisce Agostino, tra i massimi suoi esegeti e codificatori. È questa sua greve e bestiale fisicità a incatenarlo al culto esecrabile del denaro (della ricchezza spicciola), quindi alla pratica del ladrocinio, del traffico minuto, alla ricerca ignobile del profitto immediato.
Giuda mette in scena una umanità deteriore e ripugnante, segnata irrimediabilmente dal limite, quindi irrimediabilmente esclusa dalla piena cittadinanza dei salvati. L’incomprensione del Valore è la cifra di una inemendabile inferiorità. Così l’«economia» dichiara tutta la sua ricchezza di significati e funzioni. Gli scambi, i mercati, i rapporti di valore, le regole della buona amministrazione e, naturalmente, le gerarchie inscritte nei poteri e nei saperi, cos’altro sono se non - già al tempo di Agostino e Ambrogio - l’anatomia della relazione sociale e della sintassi politica? Da tutto questo Giuda è escluso. O meglio: dell’esclusione da questa complessa codificazione (e, a maggior ragione, dalle ristrette élite ecclesiali e laiche che ne assicurano l’elaborazione) Giuda è testimone e paradigma.
Il capostipite dei deicidi
Ora, il punto - la domanda-chiave - è a chi questa rappresentazione si attagli: chi siano in definitiva gli analfabeti economici, i primitivi, gli estranei naturali, inammissibili nella comunità o al più tollerabili in quanto intrusi da guardare a vista e isolare, da controllare e all’occorrenza punire. Gli ebrei, si dirà. E in parte è vero. Il furto di cui Giuda si macchia è, in radice, il furto della verità di cui gli ebrei sono autori in quanto corruttori della «verità delle Scritture».
Giuda è, si potrebbe dire, il capostipite della stirpe deicida. Ma, ridotto in questi termini (come spesso accade), il discorso rimarrebbe monco e in definitiva muto. Todeschini lo dice apertamente. Si tratta di liberarlo dal «ghetto storiografico della cosiddetta "storia dell’antisemitismo"», ghetto nel quale dilagano semplificazioni e fraintendimenti, come del resto - aggiungiamo - avviene per lo più nella «cosiddetta» storia del razzismo. Giuda è ebreo, pervicacemente ebreo. L’esserlo rende ragione dei suoi comportamenti devianti e dei suoi limiti. Ma il fuoco e la materia prima della storia sono i suoi comportamenti e la primordiale durezza di cuore e d’intelletto che li determina. Giuda è un simbolo, ma un simbolo - questo è il punto - sono anche gli ebrei che egli rappresenta e dei quali incarna vizi e peccati (debiti) non estinguibili.
Colpa d’autore
Si pensi all’usura, colpa giudaica per antonomasia. Se praticato dagli ebrei, il prestito a interesse è usura («naturalmente» non lo è se il prestatore è invece abilitato dalla Chiesa o dallo Stato, e se il profitto va a beneficio delle istituzioni). Ma, una volta chiarito che l’usura è colpa (lucrum turpe), tale rimane ogni qual volta sia all’opera un prestatore illegittimo. Che proprio per questo diviene ebreo. I giuristi parlerebbero di «colpa d’autore», perché non è il comportamento a decidere, ma il soggetto.
Usurarius manifestus, quindi eretico e «infame», è chiunque presti denaro al di fuori del circuito legittimato dall’autorità. Nella sua condotta abietta la Chiesa addita la scandalosa reiterazione del tradimento del Cristo. Si tratti di ebrei o di cristiani devianti, disobbedienti, falsi. I «nostri ebrei» li definisce sul finire del XII secolo Pietro Cantore, rinomato ecclesiastico parigino. Ignorando, si potrebbe dire, di compiere in tal modo il gesto basilare - costituente - di ogni argomentazione razzista.
L’usuraio è tale perché ebreo o è ebreo perché usuraio? È difficile - anzi impossibile - rispondere in astratto. È soprattutto insensato chiederselo al di fuori di un contesto concreto, pena l’impossibilità di comprendere - per fare un solo esempio (un altro potrebbe essere lo «schmutzig jüdisch» di marxiana memoria, oggetto anche ai nostri giorni, anche a sinistra, di fraintendimenti grotteschi) - il senso che giudeo assume sin dal tardo Duecento (Cino da Pistoia), quale sinonimo di persona gretta, priva di intelligenza spirituale, quindi vocata al computo di piccoli profitti quotidiani.
L’invenzione delle razze
Di qui il passo che Todeschini magistralmente compie nel ricostruire la «dilatazione semantica» che il termine e la figura di Giuda conoscono tra il IV e il XV secolo, sino ad avvolgere nella livida luce della colpa, come si diceva, l’intera piccola umanità della gente qualunque - salariati e contadini poveri, donne sole o vedove, mendicanti, servi e piccoli artigiani - costretta a vendersi per sopravvivere e per ciò stesso sospetta e inaffidabile, anzi già colpevole, proprio perché incatenata alla turpe ricerca di un guadagno immediato. Inopinate connessioni. Che se da un lato offrono una chiave di lettura originale della «leggenda nera» di Giuda (dove teologia ed economia si saldano nella codificazione di regole sociali e rapporti gerarchici), dall’altra schiudono un vasto territorio alla riflessione sugli intrecci che legano il discorso religioso e la stessa «invenzione delle razze» alle logiche della subordinazione e del conflitto di classe. In questa complessa struttura discorsiva Todeschini guida il lettore con sorprendente leggerezza.
Anni fa, recensendo su «Alias» I mercanti e il tempio, scrivemmo che, a dispetto della complessità della materia, lo si leggeva «d’un fiato e come un romanzo». Eravamo rimasti effettivamente colpiti dalla scorrevolezza del dettato e dalla coerenza, dalla compattezza dello svolgimento. La sorpresa si è ripetuta ora con questo straordinario Giuda. Libro denso, complicato, ma incredibilmente fluido. Chiusa l’ultima pagina, permane un sentimento di riconoscenza per quanto si è appreso, e di attesa per un prossimo dono.
La ricostruzione della «leggenda nera» di Giuda è solo il tassello più recente di una vasta ricerca che Giacomo Todeschini conduce, sin dagli anni Ottanta, sui linguaggi teologici medievali e protomoderni e sulle loro implicazioni sociali, politiche e antropologiche.
L’hanno preceduta «La ricchezza degli ebrei» (Cisam 1989), «Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico» (Nis 1994) e, presso il Mulino, «I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza» (2002), «Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato» (2004), «Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna (2007)».
Un ideale complemento dei lavori di Todeschini costituiscono taluni recenti contributi storiografici di Paolo Prodi sugli aspetti etico-religiosi ed economici della codificazione giuridica nella transizione alla modernità: da «Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto» (il Mulino 2000) alla raccolta di saggi curata da Prodi «La fiducia secondo i linguaggi del potere» (ivi 2008) a «Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente» (ivi 2009).
Tra gli studi più recenti sulla figura di Giuda ricordiamo, di Massimo Centini, «Indagine su Giuda. Vita e morte dell’uomo che cambiò il corso della storia» (Castelvecchi 2008) e ancora, «Giuda. Dal Vangelo all’Olocausto» di Pierre-Emmanuel Dauzat (Arkeios 2008) e «Giuda. Il tradimento fedele» di Gustavo Zagrebelsky, uscito per Morcelliana nel 2007 e da poco riproposto da Einaudi (pp. VIII-94, euro 12).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Contro le pretese e le tracotanze teocratiche dei Bonifacio VIII e dei Giovanni XXII di ieri e di oggi.
Dante (e Bacone), alle origini del moderno!!! Pace, giustizia e libertà nell’aiuola dei mortali
Federico La Sala
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».