Ovverossia
Il Corpo del Signore!
di don Aldo Antonelli *
Non ho parole e questa festa mi mette a disagio.
Rientro in casa mentre per la città sfila la processione e in qualche cittadina circostante si ammirano le “infiorate” di tradizione.
Il disagio mi viene dal vuoto scandaloso che abbiamo scavato attorno all’eucaristia e che si cerca di riempire con cerimonie altisonanti.
C’è ormai un vuoto “interno”, potremmo dire, all’Eucaristia e un vuoto “esterno” ad essa.
All’interno della partecipazione eucaristica non si può non notare il contrasto tra le sfarzose feste delle cosiddette Prime Comunioni, delle Celebrazioni Matrimoniali e delle Processioni “Eucaristiche” da una parte e il deserto di partecipazione delle domeniche normali e delle ferialità quotidiane dall’altra.
Bambini e bambine imbalsamati a festa per una comunione cui in avvenire non adiranno più.
Ancora più scandaloso il vuoto che separa l’Eucaristia dalla vita reale, sociale e politica dei cristiani stessi. Il segno della comunione dentro le chiese, il Pane, diventa il segno della scomunica e della lotta fuori delle chiese. Al gesto della comunione e della condivisione nel rito corrisponde, nella società, la corsa alla conquista e all’accaparramento nell’economia.
Persino a livello teologico l’eucaristia, separata dalla vita, è diventata un totem: il pane azzimo è diventato un sacramento sterile.
Il pane da mangiare è diventato pane da adorare.
Il pane da distribuire è diventato pane da custodire.
Il tabernacolo stesso è stato degradato a forziere.
Nonostante i tentativi del Concilio, ci ritroviamo in un cammino invertito di ritualizzazione del sacramento, invece che della sua attualizzazione.
Quel “prendete e mangiate” detto da Gesù prima della sua passione, invece che un invito a farsi mangiare dalla fame, dai diritti e dalle necessità dei poveri, lo abbiamo tradotto nel più facile e comodo uso di mangiar ostie.
Comodo e funzionale soprattutto oggi, quando non solo non si lotta più per un “mondo migliore”, ma non si grida più nemmeno che “un altro mondo è possibile” e ci si rinchiude nella difesa dei piccoli, personali e privati privilegi.
E nel chiedermi se, allo stato delle cose, un futuro diverso sia veramente possibile mi consola e mi da speranza quanto scrivono gli amici della Comunità del Bairro dal Brasile:
«“Ciò che è impossibile agli uomini, è invece possibile a Dio”. Persino rovesciare questo clima di odio e intolleranza che, giorno dopo giorno, sembra montare sempre più lì da voi. E non solo lì da voi. Persino all’altro capo del mondo, in Sudafrica. Poveri contro più poveri ancora. E capiremo quanto sia diabolica questa cultura dell’identità che ci separa e ci mette gli uni contro gli altri e chiederemo perdono e misericordia e abbracceremo il diverso che Dio ci ha destinato e a cui ci ha destinati. E formeremo un corpo solo: l’unico corpo di Cristo. Che nessuno potrà mai più separare. Anche se tutte le leggi ci saranno contro».
E mi infonde coraggio e mi dà nuovo ardire ciò che scrive don Paolo Farinella da Genova:
«Nel giorno in cui viviamo Dio in quanto corpo/carne, non possiamo non pensare ed essere uniti e solidali con tutti i corpi/carne dilaniati, squartati, violati, violentati e stuprati nel mondo. Oggi il nostro cuore è accanto ai bambini e alle bambine vittime della pedofilia, di cui si rendono colpevoli anche coloro che dovrebbero maestri e custodi dei corpi indifesi.
Oggi vogliamo essere accanto e solidali con le donne violate e vilipese nel loro corpo e quindi nella loro «carne», cioè nella loro fragilità e vogliamo chiedere di essere noi stessi un argine alle violenze immonde e per questo chiediamo di diventare «ostie» di frumento fragile e fragrante, simbolo di fedeltà alla Vita. Celebrare il «corpo del Signore» significa anche prendere coscienza che questo «corpo» di Dio patisce la fame a causa della miseria causata da sistemi d’ingiustizia e di potere che si autodefiniscono cristiani.
La fame di tanta parte dell’umanità, dopo duemila anni dall’incarnazione di Cristo nella nostra umanità, è la bestemmia più grave che grida al cospetto di Dio. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è ancora l’urlo dei «corpi di Cristo» abbandonati alla morte per fame e miseria: fame di dignità e di decoro, fame di giustizia e decenza, fame di diritti e di ospitalità, fame di vita e di amore.
Nel ricevere «il corpo e il sangue di Cristo» nella comunione, prendiamo consapevolezza e coscienza di essere responsabili di quella di affamati nel corpo da non avere nemmeno la forza di accorgersi di avere un’anima».
E che il Domani e il Domani altro siano veramente “Altro”.
* Aldo [don Antonelli]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
LA "COMPAGNIA DELLA CHARITA’ dei cortigiani"! Sul tema, cfr. Adriano Prosperi, "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", Einaudi, Torino, 1996, tutto il "Capitolo primo. La fede italiana", pp. 16-34.
Corpus Domini. Il Papa: l’Eucaristia è il "farmaco" e la forza per amare chi sbaglia
All’Angelus in Piazza San Pietro, Francesco ricorda la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e sottolinea che l’Eucaristia guarisce perché la misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 7 giugno 2021) *
L’Eucaristia è il "farmaco" efficace contro le nostre chiusure. Fragilità e forza, amore e tradimento, peccato e misericordia. Papa Francesco, nella catechesi all’Angelus in Piazza San Pietro - come riporta Vatican News -, si sofferma su questi aspetti parlando della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, e del racconto dell’Ultima Cena di Gesù con l’istituzione dell’Eucaristia, “il sacramento più grande”, il Pane di vita.
Richiamando le parole di don Primo Mazzolari, Papa Francesco, già al mattino nella sua omelia per la solennità del Corpus Domini, aveva prefigurato l’immagine di una Chiesa che è “una sala grande”, dalle "porte aperte", “dove tutti possono entrare”. Non "un circolo piccolo e chiuso", ma "una Comunità con le braccia spalancate, accogliente verso tutti”.
Una comunità dove si guarda all’Eucarestia con "stupore e adorazione": se manca quello, avverte il Papa, "non c’è strada che ci porti al Signore. Neppure ci sarà il Sinodo". L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi. “La Chiesa dev’essere una sala grande”, ha affermato a più riprese Francesco nella Messa per il Corpus Domini celebrata anche quest’anno all’Altare della Cattedra di San Pietro e non - a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia - nel tradizionale scenario del sagrato di San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore, oppure in luoghi di periferia come avvenuto nel 2018, con la celebrazione a Ostia, e nel 2019, nel quartiere romano di Casal Bertone. Contingentato anche il numero dei fedeli presenti in Basilica. A loro, e alle centinaia di persone collegate alla celebrazione via streaming, il Pontefice pone una domanda: “Quando si avvicina qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso, la Chiesa è una sala grande per accoglierlo e condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo?”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino, non dimentichiamolo!”, afferma Francesco. “La Chiesa dei perfetti e dei puri è una stanza in cui non c’è posto per nessuno; la Chiesa dalle porte aperte, che festeggia attorno a Cristo, è invece una sala grande dove tutti possono entrare”.
L’umanità assetata
Quella della sala grande è una delle tre immagini proposte dal Vangelo della Solennità, che il Pontefice usa come spunti di riflessione per la sua omelia. L’altra immagine è l’uomo che porta una brocca d’acqua. “Seguitelo”, dice Gesù ai due discepoli inviati in città, perché dove li avrebbe condotti quell’uomo, là si sarebbe celebrata la Cena della Pasqua. Un uomo “anonimo” diventa dunque “guida per i discepoli”, mentre la brocca d’acqua è “segno di riconoscimento” che, dice il Papa, fa pensare all’“umanità assetata”, sempre alla ricerca di una sorgente d’acqua che la disseti e la rigeneri”.
Non possiamo farcela da soli
Bisogna riconoscerla, però, questa “sete di Dio” per celebrare l’Eucaristia. Bisogna essere, cioè, “consapevoli che non possiamo farcela da soli ma abbiamo bisogno di un Cibo e di una Bevanda di vita eterna che ci sostengono nel cammino”. “Il dramma di oggi - osserva il Pontefice - è che spesso la sete si è estinta. Si sono spente le domande su Dio, si è affievolito il desiderio di Lui, si fanno sempre più rari i cercatori di Dio. Dio non attira più perché non avvertiamo più la nostra sete profonda”. La sete di Dio, rimarca il Papa, “ci porta all’altare”; se manca “le nostre celebrazioni diventano aride”.
Una Chiesa con la brocca in mano
“Diventiamo una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, è dunque l’esortazione conclusiva del Papa per questa festa del Corpus Domini. “Spalanchiamo il cuore nell’amore, per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore. Spezziamo la nostra vita nella compassione e nella solidarietà, perché il mondo veda attraverso di noi la grandezza dell’amore di Dio”.
IL TESTO DELL’OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI
L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi
L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità.
Una logica nuova che Francesco ritrova in quel “gesto umile di dono, di condivisione” che porta Gesù a non dare pane in abbondanza per sfamare le folle ma ad offrire se stesso. “In questo modo Gesù - afferma il Papa - ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore e condivisione”.
Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunirci tutti noi in unità.
Il Pane dei peccatori
Un amore che si rafforza se è donato a chi ha sbagliato. Nel tradimento del discepolo, “il dolore più grande per chi ama”, in quell’ “abisso più profondo” Gesù non punisce ma dona misericordia.
Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori e sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, ma il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non avete paura! Prendete e mangiate”.
In quel Pane c’è un “senso nuovo alle nostre fragilità”, Gesù ci dice che siamo preziosi, “ci ripete - afferma il Papa - che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie”.
E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male - da questo da soli non possiamo guarire -; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi - da quella da soli non possiamo guarire -; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace; anche da questa, noi soli non possiamo guarire. È Lui che di guarisce con la sua presenza, con il suo pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure.
Infine Francesco ricorda che nei quattro versetti della Liturgia delle ore c’è "il riassunto di tutta la vita di Gesù". "E ci dicono così che Gesù nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita. Poi, nella cena si è dato come cibo. Poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto prezzo: ha pagato per noi. E adesso, regnando nei Cieli è il nostro premio, che noi andiamo a cercare quello che ci aspetta".
Al termine dell’Angelus, il Pontefice ha ricordato l’iniziativa dell’Azione Cattolica che si terrà martedì: "Dopodomani, martedì 8 giugno, alle ore 13.00, l’Azione Cattolica Internazionale invita a dedicare un minuto per la pace, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa. Preghiamo in particolare per la Terra Santa e per il Myanmar".
Poi ha rivolto il suo saluto ai "ragazzi del Progetto Contatto di Torino e il Gruppo Devoti della Madonna dei Miracoli di Corbetta, le famiglie di Cerignola e l’Associazione Nazionale Ambulanti, con numerosi lavoratori delle fiere e artisti di strada", ringraziandoli per i doni ricevuti. Infine un pensiero e un incoraggiamento ai salentini del sud della Puglia che in Piazza San Pietro hanno ballato "la pizzica".
IL TESTO DELL’ANGELUS DEL PAPA
Il video dell’Angelus
* Fonte: Avvenire, lunedì 7 giugno 2021 (ripresa parziale).
CORONAVIRUS E VACCINO.
IL PAPA:"[...] Ripeto che sarebbe triste se nel fornire il vaccino si desse la priorità ai più ricchi, o se questo vaccino diventasse proprietà di questa o quella Nazione, e non fosse per tutti (Emanuela Campanile, Francesco: non discriminare sui farmaci, l’accesso alle cure sia per tutti, pf. Pandemia e povertà farmaceutica, VaticanNews, 19.09.2020)
FILOLOGIA E MESSAGGIO EV-ANGELICO. LA BUONA (EU-) CARESTIA ...
EU-CHARISTIA (EUCARISTIA) ancora UGUALE A EU-CARESTIA?! Boh e bah?!
Per riflettere meglio sul tema, forse, può essere utile questa frase del prete di Genova, Paolo Farinella: "La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»".
Con l’/h/, si respira e si vive bene; senza l’/h/, si respira male e addirittura, senza cibo (nei tempi di una "buona" e "lunga" carestia!), il rischio di spirare e di emettere lo spirito è altissimo! O no?!
Federico La Sala
Chi è effettivamente l’ospite
Chi è effettivamente l’ospite
Come si legge in tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo, ospite ha un duplice significato: è sia chi dà ospitalità (un ospite premuroso) sia, più comunemente, chi la riceve (un ospite gradito). Con il primo significato si ritrova soprattutto in contesti formali e letterari (nel GDLI si riscontrano esempi a partire dalla prima metà del XIV secolo fino ad autori quali Foscolo, Manzoni, Pascoli ecc.).
La parola ospite deriva dal latino hospes, -ĭtis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita e quindi albergatore’ e di ‘colui che è ospitato e quindi forestiero’, significato - comune alla parola greca xénos - che si è tramandato in quasi tutte le lingue romanze (antico francese (h)oste; francese moderno hôte; occitano e catalano oste; spagnolo huésped; portoghese hóspede). Ed è dunque proprio alla storia della lingua latina che dovremo guardare per rispondere alla curiosità che questa parola suscita.
L’etimologia del termine latino hospes risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Ad esempio, il Devoto-Oli 2012 e il Sabatini-Coletti 2008 fanno risalire la voce a un più antico *hostipotis, composto da hŏstis ‘straniero’ e pŏtis ‘signore, padrone’, cioè ‘signore dello straniero’, ma non dicono niente di più. Il Vocabolario Treccani scrive sinteticamente che il termine ha “tutti e due i significati fondamentali, in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità”, in accordo con il Dir Dizionario italiano ragionato (D’Anna, 1988).
Tra gli etimologici, il DELI riconosce il doppio significato del termine, ma aggiunge “senza etimologia evidente”. L’etimologico di Nocentini approfondisce invece la questione e rimanda all’indoeuropeo *ghos(ti)-potis ‘signore dello straniero’ cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da *ghostis ‘straniero’ e *potis ‘signore’. A favore di tale ipotesi cita i corrispettivi gospodĭ ‘padrone, signore’ in antico slavo e gospodín ‘signore’ in russo.
Hospesin origine è dunque il “padrone di casa” che dà ospitalità al forestiero; i rapporti che si istauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti - legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità - che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. Riconoscendo questa “squisita umanità degli antichi”, anche Leopardi nello Zibaldone scriveva: “di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ecc. quei diritti d’ospizio ecc. affinità d’ospizio ecc. Ben diversi in ciò dai moderni” (5 luglio 1827).
Vale la pena soffermarsi un po’ di più sulla parola hostis che, insieme a potis ‘signore’, è all’origine di hospes. Emile Benveniste introduce così la questione:
Benveniste ricorda, infatti, che hostis è usato nella Legge delle XII tavole con il valore arcaico di ‘straniero’, ma riporta anche un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano). A conferma di ciò Festo ricorda anche che il verbo hostire aveva lo stesso significato di aequare (con valore simile si trovano hostire in Plauto, hostus in Varrone e il nome della dea Hostilina in sant’Agostino). Il legame di hostis con i concetti di uguaglianza e di reciprocità è confermato anche da una parola più conosciuta, hostia, che nel rituale romano indica propriamente ‘la vittima che serve a compensare l’ira degli dei’ (l’offerta è considerata quindi di un valore tale da bilanciare l’offesa), in contrapposizione con il termine meno specifico victima che indica un semplice ‘animale offerto in sacrificio’ (cioè senza nessun intento riparatorio).
Si ricava dunque che il significato originario di hostis non era quello di ‘straniero’ in generale, né tanto meno di ‘nemico’, ma quello di ‘straniero a cui si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani’, a differenza del peregrinus che indica invece ‘colui che abita al di fuori del territorio’.
Il legame di uguaglianza e reciprocità che si stabilisce tra un hostis e un cittadino di Roma conduce alla nozione di ospitalità.
In un dato momento dunque hostis ha indicato ‘colui che è in relazione di compenso’ e di scambio nei confronti del civis e quindi, in ultima analisi, l’ospite. Di questo erano ben consapevoli gli scrittori classici, come scrive Cicerone nel De officiis: “hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus” [infatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (‘forestiero’)].
Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli.
In conseguenza del vuoto semantico lasciato da hostis si è dovuto pertanto ricorrere a un nuovo termine per indicare la nozione di ospitalità e si è creato, come già detto, partendo dalla stessa parola hostis, il termine hospes. Hospes dunque eredita e conserva in sé il valore intrinseco di reciprocità e di mutuo scambio: è forse anche per questo che la stessa parola nelle lingue derivate dal latino ha facilmente continuato a indicare sia chi ospita sia chi è ospitato.
Un’ultima osservazione. Un lettore, un po’ infastidito dalla polisemia di ospite e preoccupato che nella lingua comune non ci sia una parola per indicare ‘colui che ospita’, propone di usare due termini diversi come nella lingua inglese, che ha host per ‘ospitante’ e guest per ‘ospitato’ (da notare che entrambi i termini derivano dalla stessa radice indoeuropea *ghostis, anche se host passa attraverso il francese antico (h)oste). Ci suggerisce, come sostantivo per indicare chi ospita, il termine ospitante (o addirittura trimalcione). Ma in realtà, come spesso accade nei fatti di lingua, sarà probabilmente l’uso alla fine a trovare da solo la soluzione. E a ben guardare, quando è necessario distinguere tra i due significati di ospite, l’italiano ha già preso delle decisioni e mette a disposizione un ventaglio di scelte. Se per ospite ormai si intende comunemente ‘colui che è ospitato’, per indicare ‘colui che ospita’ invece, in relazione al contesto e al grado di formalità, si può oggi già scegliere tra: il forse troppo letterario ospitatore (cfr. GDLI), il padrone di casa o semplicemente l’amico che mi ospita. Infine, il termine ospitante con il valore di ‘chi dà ospitalità’ esiste già in italiano, ad esempio nelle espressioni squadra ospitante e famiglia ospitante, e può darsi che prima o poi riuscirà a imporsi pienamente sul termine ospite con lo stesso valore.
Per approfondimenti:
E. Benveniste, Il vocabolario della istituzioni indoeuropee. Economia, parentela, società, I, edizione italiana a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-75
Dictionnaire Étymologique de la langue latine, a cura di A. Ernout e A. Meillet, Parigi, Librairie C. Klincksieck, 1967, s.v. hospes
E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Padova, Tipografia del Seminario, 1771, s.v. hospes
Thesaurus linguae Latinae, Leipzig, Teubner, 1900 e sgg.,.s.v. hospes
F. Venier, La corrente di Humboldt. Una lettura di La lingua franca di Hugo Schuchardt; Roma, Carocci, 2012
*
A cura di Angela Frati e Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca (13 luglio 2012).
QUALE CRISTIANESIMO, QUELLO DELLA "CHARITAS" EVANGELICA O DELLA "CARITAS" COSTANTINIANA?! *
Senza dono società fragile. Giornata (e realtà e dati) su cui riflettere
di Leonardo Becchetti (Avvenire, venerdì 4 ottobre 2019)
Il dono non svolge affatto un ruolo marginale nel sistema sociale ed economico contemporaneo, e la ricerca sociale ci conferma che è e resta l’architrave della qualità delle relazioni all’interno di organizzazioni sociali e produttive ed è una componente fondamentale della soddisfazione di vita.
Ieri, alla vigilia della Giornata nazionale del dono, sono state presentate stime aggiornate che parlano di una crescita delle somme donate e delle donazioni di carattere informale in Italia assieme, però, a una marcata difficoltà delle donazioni orientate alla cooperazione allo sviluppo: le organizzazioni operanti in questo settore che dichiarano di aver aumentato i fondi raccolti rispetto all’anno precedente sono scese dal 43 al 23%.
Un dato, quest’ultimo, che misura gli effetti della ben nota campagna politico-mediatica, costruita soprattutto sui social, che negli ultimi tempi ha stravolto e trasformato quasi nel loro opposto i significati delle parole e degli atti di bontà, accoglienza e solidarietà. Una campagna organizzata con metodi manipolativi degli stessi social media e dalla quale il mondo del Terzo settore è stato colto di sorpresa, tardando a reagire con una risposta collettiva. Ma questo vuol semplicemente dire che la sfida è più che mai aperta.
C’è poco da cantar vittoria, infatti, anche da parte di chi ha armato quell’aspra campagna. Perché svilire e sottovalutare il valore del dono può produrre effetti devastanti in una società, finisce per snaturarne l’identità e per infragilirla.
George Akerlof ha vinto il Nobel per l’Economia spiegandoci come i meccanismi di scambio di doni (gift exchange) all’interno di organizzazioni produttive cementino la squadra e rinforzino le motivazioni intrinseche dei dipendenti.
Il Rapporto 2019 sul Dono in Italia segnala, non per nulla, la forte crescita del volontariato aziendale come strumento di rafforzamento della squadra di lavoro, delle motivazioni intrinseche dei dipendenti e del senso della loro presenza all’interno dell’azienda.
E i risultati del Rapporto mondiale sulla Felicità identificano nella "gratuità" una delle sei variabili chiave che spiegano il 75% delle differenze di soddisfazione di vita tra Paesi. Il Rapporto italiano sul dono conferma questa realtà, sottolineando come chi dona è più soddisfatto della propria vita, ha una visione più positiva del futuro e crede maggiormente nell’efficacia trasformativa di gesti anche piccoli.
Ma ci può essere innovazione nel dono in grado di renderlo più efficace? L’analisi delle buone pratiche presenti nel nostro Paese (indagate lungo il percorso delle Settimane Sociali dei cattolici) nonché il lavoro di laboratorio con gli imprenditori che si propongono di coniugare creazione di valore economico con responsabilità sociale ed ambientale suggeriscono una risposta assolutamente positiva a questa domanda.
Come ricordano gli antichi, il dono è tuttavia ambivalente e non privo di insidie. Escludendo quei meccanismi pseudo-mafiosi dove esso obbliga a una contropartita, l’insidia principale nella società odierna è quella del dono che umilia perché trasforma il ricevente in mero terminale passivo del nostro obolo. Un padre conciliare come Jean Danielou amava dire paradossalmente «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio» avendo bene a mente che, se siamo felici nel dare, chi è nel bisogno può acquisire dignità ed essere felice solo se messo anche lui in condizioni di dare.
Per questo esperienze innovative come quelle degli Empori Solidali non si limitano a raccogliere dalla grande distribuzione prodotti ancora commestibili eppure non più vendibili per ridistribuirli a famiglie bisognose, ma trasformano piuttosto queste famiglie e i loro componenti in membri di un’associazione.
Dove si coltiva l’orgoglio di poter contribuire all’opera sociale con il proprio lavoro e si costruiscono rapporti di reciprocità e solidarietà tra gli stessi associati. Le nuove piattaforme digitali consentono di raccogliere tanto da pochi, rendendo potenzialmente molto più efficaci le tradizionali collette (crowdfunding), stimolando la capacità di comunicare e raccontare la propria storia che si trova a competere con tante altre storie alternative. Nascono così i ’ broker’ dello spreco (AvanziPopolo è un bell’esempio a Bari) che mettono in contatto eventi e luoghi potenziali dello spreco (ricevimenti, banchetti, ristoratori) con tutte le organizzazioni del territorio che esprimono bisogni, consentendo agli eventi sostenibili di esibire il proprio marchio di qualità etica.
Ed è in arrivo l’app che metterà assieme consumo nella grande distribuzione e 5 per mille, dando l’opportunità a chi va nei punti vendita convenzionati di scegliere a quale organizzazione destinare una donazione che il supermercato associa alla sua spesa. Chi dona pensa in genere che il suo piccolo gesto abbia una efficacia trasformativa, ma il senso del dono per la persona ’cercatrice di senso’ è più profondo. Ed è colto molto bene da una frase di Vaclav Havel: «La speranza non è ottimismo. Non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno». Il dono, di sicuro, lo ha.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA PRASSI DELLA CARITÀ E LO SPIRITO CRITICO. G.B. VICO AL DI LÀ DELLA BORIA DI L.A. MURATORI E DEI DOTTISSIMI DI OGGI.
Scheda editoriale (Carocci editore)
Anselm Schubert
Pasto divino
Storia culinaria dell’eucaristia
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo [...]. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue». Con queste parole Gesù istituisce la comunione. Oggi, però, sappiamo che l’eucaristia cristiana nasce dagli antichi simposi. Si è discusso a lungo su cosa si mangiasse e si bevesse nella Chiesa delle origini: formaggio, pesce o verdure? Latte, succhi o miele? Oppure soltanto pane? Lievitato o azzimo? Vino rosso o bianco? Solo per l’officiante o anche per i fedeli? In epoca moderna i dubbi non hanno fatto che aumentare: non sarebbe più igienico usare un calice personale? Il vino può essere anche analcolico e la farina senza glutine? E cosa si deve usare nei paesi in cui non si trovano né grano né vino? Vanno bene anche Coca-Cola, noci di cocco e succhi di frutta? Anselm Schubert racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi concentrandosi perla prima volta sugli alimenti utilizzati. Ne risulta una brillante ricostruzione che fa vedere con altri occhi il Cristianesimo e il suo rito più solenne.
Saggi
Una storia dell’eucaristia
di Maurizio Gentilini (Almanacco della Scienza, 08. 05.2019)
Le dispute attorno alla forma e ai contenuti della formula liturgica di consacrazione dell’eucaristia, che si richiama ai gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena tramandati dal racconto evangelico, hanno attraversato la storia delle chiese cristiane fin dai primi secoli. Poiché “tradurre è sempre tradire”, anche in anni recenti i confronti più accesi tra liturgisti e biblisti, tra teologi e filologi, insistono sul senso da attribuire al passo - dedotto dalla Vulgata - “Pro vobis et pro multis effundetur”, confrontato con l’“uper pollon” del più antico testo greco dei Vangeli. Il sangue di Cristo, “versato per voi e per tutti” nel canone liturgico italiano, è stato versato solo “per molti” (secondo il testo latino) o “per la moltitudine” (secondo il senso dell’espressione greca)?
Al di là delle dispute teologiche, che storia hanno avuto il pane e il vino per diventare forma simbolica e ufficialmente riconosciuta dalla tradizione canonica e rappresentare il corpo e il sangue di Cristo? Lo storico della Chiesa Anselm Schubert, docente all’Università di Erlangen-Norimberga, nel suo libro ’Pasto divino’ racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi, concentrandosi per la prima volta sugli alimenti utilizzati. Una ricostruzione laica, approfondita e brillante, che presenta da un punto di vista inedito il rito più solenne del cattolicesimo e di altre confessioni cristiane.
L’autore passa in rassegna gli usi liturgici di molte comunità dei primissimi secoli (anche quelle bollate di eresia) e i riferimenti nei testi canonici e apocrifi, evidenziando come quella eucaristica fosse una cena nel senso letterale della parola, cioè un ritrovo di persone che mangiavano assieme, consumando le specie consacrate al termine del pasto, dopo altre portate. Dal II al IV secolo, dalla Grecia, alla Turchia all’Africa settentrionale, si può rilevare la consuetudine di consacrare di pane e olio, ma anche formaggio, sale, pesce e verdure. Nel 397 il Concilio di Cartagine vietò espressamente ai sacerdoti di consacrare latte e miele finché, di lì a poco, si sarebbe trovata unità nella Chiesa sull’uso del pane e del vino. Nei secoli e millenni successivi la cultura eucaristica e la disciplina liturgica si sarebbero andate consolidando, attraverso però controversie teologiche, scismi e divisioni confessionali. La modernità, la colonizzazione, la presenza missionaria in tutto il mondo e le necessità di inculturazione della fede fecero infatti incontrare gli usi liturgici con le materie prime e i cibi locali, spesso molto diversi dal frumento e dall’uva.
’Pasto divino’, attraverso la storia degli ingredienti della comunione, permette un viaggio nella storia della cultura e dell’alimentazione dell’ecumene (o globale, come diremmo oggi), che sembra sempre più orientata a convergere verso il punto di partenza.
Maurizio Gentilini
titolo: Pasto divino
categoria: Saggi
autore/i: Schubert Anselm
editore: Carocci
pagine: 228
prezzo: € 22.00
DIO E’ AMORE ("Charitas") *
La storia. Corpus Domini: cosa significa, cosa si celebra
di Riccardo Maccioni *
Originariamente in calendario il giovedì che segue la prima domenica dopo Pentecoste, lo si celebra prevalentemente la domenica successiva. Il 3 giugno il Papa a Ostia.
Una festa di popolo
Il Corpus Domini (Corpo del Signore), è sicuramente una delle solennità più sentite a livello popolare. Vuoi per il suo significato, che richiama la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, vuoi per lo stile della celebrazione. Pressoché in tutte le diocesi infatti, si accompagna a processioni, rappresentazione visiva di Gesù che percorre le strade dell’uomo.
Le origini nel Medio Evo, in Belgio
La storia delle origini ci portano nel XIII secolo, in Belgio, per la precisione a Liegi. Qui il vescovo assecondò la richiesta di una religiosa che voleva celebrare il Sacramento del corpo e sangue di Cristo al di fuori della Settimana Santa. Più precisamente le radici della festa vanno ricercate nella Gallia belgica e nelle rivelazioni della beata Giuliana di Retìne. Quest’ultima, priora nel Monastero di Monte Cornelio presso Liegi, nel 1208 ebbe una visione mistica in cui una candida luna si presentava in ombra da un lato. Un’immagine che rappresentava la Chiesa del suo tempo, che ancora mancava di una solennità in onore del Santissimo Sacramento. Fu così che il direttore spirituale della beata, il canonico Giovanni di Lausanne, supportato dal giudizio positivo di numerosi teologi presentò al vescovo la richiesta di introdurre una festa diocesi in onore del Corpus Domini. Il via libera arrivò nel 1246 con la data della festa fissata per il giovedì dopo l’ottava della Trinità.
Papa Urbano IV e il miracolo eucaristico di Bolsena
L’estensione della solennità a tutta la Chiesa però va fatta risalire a papa Urbano IV, con la bolla Transiturus dell’11 agosto 1264. È dell’anno precedente invece il miracolo eucaristico di Bolsena, nel Viterbese. Qui un sacerdote boemo, in pellegrinaggio verso Roma, mentre celebrava Messa, allo spezzare l’Ostia consacrata, fu attraversato dal dubbio della presenza reale di Cristo. In risposta alle sue perplessità, dall’Ostia uscirono allora alcune gocce di sangue che macchiarono il bianco corporale di lino (conservato nel Duomo di Orvieto) e alcune pietre dell’altare ancora oggi custodite nella basilica di Santa Cristina. Nell’estendere la solennità a tutta la Chiesa cattolica, Urbano IV scelse come collocazione il giovedì successivo alla prima domenica dopo Pentecoste (60 giorni dopo Pasqua).
L’inno scritto da san Tommaso d’Aquino
Papa Urbano IV incaricò il teologo domenicano Tommaso d’Aquino di comporre l’officio della solennità e della Messa del Corpus et Sanguis Domini. In quel tempo, era il 1264, san Tommaso risiedeva, come il Pontefice, sull’etrusca città rupestre di Orvieto nel convento di San Domenico (che, tra l’altro, fu il primo ad essere dedicato al santo iberico). Il Doctor Angelicus insegnava teologia nello studium (l’università dell’epoca) orvietano e ancora oggi presso San Domenico si conserva ancora la cattedra dell’Aquinate e il Crocifisso ligneo che gli parlò. Tradizione vuole infatti che proprio per la profondità e completezza teologica dell’officio composto per il Corpus Domini, Gesù - attraverso quel Crocifisso - abbia detto al suo prediletto teologo: "Bene scripsisti de me, Thoma". L’inno principale del Corpus Domini, cantato nella processione e nei Vespri, è il "Pange lingua" scritto e pensato da Tommaso d’Aquino.
La scelta di papa Francesco: domenica 3 giugno a Ostia
In numerosi Paesi, tra cui dal 1977 l’Italia, la celebrazione è stata tuttavia spostata alla domenica successiva. In molte Chiese locali però, tra cui obbligatoriamente a Milano, anche alla luce della recente riforma del calendario ambrosiano, la data è rimasta invariata così che la celebrazione e la processione eucaristica, rimane al giovedì. Così anche a Roma fino all’anno scorso quando il Papa ha deciso di spostare alla domenica la processione del Corpus Domini. In particolare quest’anno Francesco celebrerà il Corpus Domini a Ostia. Il 3 giugno infatti alle 18 il Pontefice presiederà l’Eucaristia nella piazza antistante la parrocchia di Santa Monica dalla quale partirà la processione che giungerà nel piazzale vicino alla chiesa di Nostra Signora di Bonaria dove il Pontefice impartirà la benedizione ai fedeli. Si interrompe così una tradizione che da oltre quarant’anni prevedeva il rito a San Giovanni in Laterano. Al tempo stesso Bergoglio, ripercorrendo i passi di Paolo VI che proprio a Ostia nel 1968 guidò la processione del Corpus Domini, sottolinea la centralità delle periferie, fisiche e esistenziali, nel suo pontificato
* Avvenire, mercoledì 30 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!!
Federico La Sala
MATEMATICA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA: GALILEI, ROCCAMORA, E NEWTON... *
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LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!!
IN VINO VERITAS. Una nota
di Federico La Sala
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" , è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito,
"ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA",
e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino.
Qui il discorso è, o, se si vuole, diventa filosofico, antropologico, e teologico! La questione (e la parola) rimanda alla EUCHARISTIA e alle sue CIFRE - all’opera di GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA (CFR.: Delle cifre dell’Eucharistia) - vale a dire al lavoro di DECIFRAZIONE (dei "due libri": Bibbia e Natura, come da lezione di GALILEO GALILEI) portato avanti dal teologo, filosofo e matematico, GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA.
SENZA FARSI PRENDERE DALLA FRETTA (vedi: "Intriga non poco Assist[ens?] et Galil[ei?] discipul[us] ma il tempo incalza"), Il lavoro sulla "Filosofia dei nobili" del 1668, Il trattato sulla cometa del 1970, e il trattato sulle "cifre dell’Eucharistia" (1668-1684) vanno riletti di nuovo e insieme, e, sicuramente, in un orizzonte di cultura che sappia riunire la SAPIENZA dell’Università (Roma) e la "SCHOLA SARMENTI" del ROCCAMORA!!!
UNA BUONA E BELLA OCCASIONE DA NON SCIUPARE, PER BRINDARE AL BRILLANTE LAVORO DEL PROF. POLITO, ALLA FONDAZIONE TERRA DI OTRANTO, E ALLA "SCHOLA SARMENTI" E AL ROCCAMORA..
P. S.
SUL TEMA, da ricordare e non sottovalutare, che tra il 1660 e il 168o ISAAC NEWTON si occupa di interpretazione profezie e particolarmente dell’ "Apocalisse" (cfr. Isaac Newton, "Trattato sull’Apocalisse", a c. di M. Mamiani, TORINO 1994).
Dalla Controriforma ai Lumi. Ideologia e didattica nella "Sapienza" romana del Seicento
di Giovanni Rita *
[...] Dopo una pausa di altri due anni in cui restò ancora senza maestri, la disciplina vide per la prima volta una continuità con Benedetto Castelli, un monaco benedettino già alunno e amico di Galilei, chiamato dal papa come precettore del nipote Taddeo Barberini 129. Castelli poté svolgere a Roma anche un’attività di consulente in opere idrauliche, fino a che l’esito del processo a Galileo non gli consigliò di ritirarsi in Toscana. Ma intanto il maestro aveva potuto formare numerosi allievi, ricordati ancora oggi in vari campi, ove essi finalmente ebbero modo di applicare i nuovi metodi130. Tra di loro, il lucchese Santini fu suo successore sulla cattedra romana: benché, a giudicare dai ruoli, svolgesse ancora gli Elementi euclidei e la Sfera di Sacrobosco, Santini dedicò un corso a quella che sembra una nuova impostazione disciplinare, la «geometria speculativa et practica»; oppure una «theorica planetarum» che figurava indipendentemente dalla tradizionale «astronomia Ptolemaei» 131. A sua volta l’eclettico monaco Gian Domenico Roccamora, pur subendo ancora a volte il fascino del barocco 132, proseguì nelle innovazioni del predecessore, aggiungendo ulteriori argomenti quali «de arcibus muniendis», «de optica», «de fortificationibus»133. [...].
Nota 132:
"Roccamora (mathematica 1664-1684: I maestri, p. 923) fu autore del Delle cifre dell’Eucharistia. Cioè a dire di quel Libro, che fù discifrato dall’Agnello à i venti quattro Vecchioni dell’Apocalisse, I-IV, Roma, Dragondelli, 1668-1684, grottesca opera di pseudo-esegesi biblica su cui, con ampie citazioni, v. Giovanni Rita, Il Barocco in Sapienza. Università e cultura a Roma nel secolo XVII, in Luoghi della cultura nella Roma di Borromini, Roma, Retablo, 2004, p. 56-58. Da quanto risulta inoltre da ASR, Università 87, f. 6-9 (del 1681) Roccamora aveva progettato una «sfera bizzarrissima» che avrebbe segnato l’ora nelle varie parti della terra oltre alle fasi lunari, eventuali eclissi e perfino riprodotto con giochi d’acqua l’esistenza di fiumi e oceani".
* Cfr. : Annali di Storia delle Università italiane - Volume 9 (2005) - ripresa parziale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Federico La Sala
Il Corpus Domini
di Don Tonino Bello *
Non riesco a liberarmi dal fascino di una splendida riflessione di Garaudy a proposito dell’Eucaristia: «Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane». Sicché oggi, festa del Corpo e del Sangue del Signore, mi dibatto in una incertezza paralizzante.
Parlerò dell’Eucaristia come vertice dell’amore di Dio che si è fatto nostro cibo? Dirò della presenza di Cristo che ci ha amati a tal punto da mettere la sua tenda in mezzo a noi? Spiegherò alla gente che partecipare al pane consacrato significa anticipare la gioia del banchetto eterno del cielo? Mi sforzerò di far comprendere che l’Eucaristia è il memoriale (che parola difficile, ma pure importante!) della morte e della risurrezione del Signore? Illustrerò il rapporto di reciproca causalità tra Chiesa ed Eucaristia, spiegando con dotte parole che se è vero che la Chiesa costruisce l’Eucaristia è anche vero che l’Eucaristia costruisce la Chiesa?
Non c’è che dire: sarebbero suggestioni bellissime, e istruttive anche, e capaci forse di accrescere le nostre tenerezze per il Santissimo Sacramento, verso il quale la disaffezione di tanti cristiani si manifesta oggi in modo preoccupante. Ma ecco che mi sovrasta un’altra ondata di interrogativi.
Perché non dire chiaro e tondo che non ci può essere festa del «Corpus Domini» finché un uomo dorme nel porto sotto il «tabernacolo» di una barca rovesciata, o un altro passa la notte con i figli in un vagone ferroviario? Perché aver paura di violentare il perbenismo borghese di tanti cristiani, magari disposti a gettare fiori sulla processione eucaristica dalle loro case sfitte, ma non pronti a capire il dramma degli sfrattati? Perché preoccuparsi di banalizzare il mistero eucaristico se si dice che non può onorare il Sacramento chi presta il denaro a tassi da strozzino; chi esige quattro milioni a fondo perduto prima di affittare una casa a un povero Cristo; chi insidia con i ricatti subdoli l’onestà di una famiglia?
Perché non gridare ai quattro venti che la nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo porre al «corpo e al sangue» dei giovani drogati che, qui da noi, non trovano un luogo di accoglienza e di riscatto? Perché misurare le parole quando bisogna dire senza mezzi termini che i frutti dell’Eucaristia si commisurano anche sul ritmo della condivisione che, con i gesti e con la lotta, esprimeremo agli operai delle ferriere di Giovinazzo, ai marittimi drammaticamente in crisi di Molfetta, ai tanti disoccupati di Ruvo e di Terlizzi?
Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre quattro città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucaristia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine. Per questo le nostre eucaristie sono eccentriche. Miei cari fratelli, perdonatemi se il discorso ha preso questa piega. Ma credo che la festa del Corpo e Sangue di Cristo esiga la nostra conversione. Non l’altisonanza delle nostre parole. Né il fasto vuoto delle nostre liturgie.
(fonte: Tonino Bello - Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo - Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1988)
* SITO: QUELLI DELLA VIA
Preti o ladri travestiti da samaritani? *
Caro Pietro,
scrivo a te, vescovo di questa diocesi di Avezzano, ma è come se gridassi al mondo intero per denunciare pubblicamente lo scandalo.
Non posso continuare a tacere o a glissare o a far finta che!
Il silenzio si configurerebbe come complicità, se non addirittura come correità.
Edotto dai miei maestri di sempre, don Tonino Bello, secondo il quale “delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini, ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio”, don Mazzolari che amava ripetere che “certi silenzi sono omicidi” e M. L. King il quale confessava: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti», ho deciso di denunciare a Lei e alla pubblica opinione l’impudenza vergognosa di sacerdoti che oltre a farsi pagare puntualmente ogni servizio (messe, matrimoni, funerali, battesimi e benedizioni varie), pretendono, da quelle comunità che dovrebbero “servire”, ulteriori corrispettivi per benzina, luce, gas e cellulare!
Noi già portiamo sulle nostre coscienze il peso di un mensile che viene dallo Stato, attraverso l’8 per mille, e che ci degrada a “stipendiati”. Oltre ciò, la stragrande maggioranza dei preti si fa pagare, profumatamente, sotto il falso nome dell’offerta, ogni prestazione; sarebbe come se un funzionario dello stato, nello svolgere le sue funzioni, prendesse soldi anche dai singoli utenti! Il che ci rende ladri!
Ultimamente, si sta diffondendo il malcostume di parroci che pretendono il “rimborso spese”!
Autodegradandosi ancor di più da ladri a tangentisti e pizzettari.
Oggi, con Papa Francesco, un rinnovato Spirito aleggia sul mare tempestoso della storia come aleggiava agli inizi sul caos primordiale; ma questo Spirito Innovatore sembra trovare tra il clero ottusità refrattarie ad ogni impulso di dignità. Sordi e muti, voraci e venali, impietriti dal potere, dall’abitudine e dal danaro, stanno facendo della chiesa una multinazionale dell’abuso e della corruzione.
A voi vescovi spetta il compito di fare pulizia di questa gente, onde evitare che la Chiesa diventi una spelonca di ladri. Meglio una chiesa vuota di preti che una chiesa infestata da ladri travestiti da samaritani.
Sento già la critiche cui andrò incontro con questa mia pubblica denuncia. Soprattutto mi si rimprovererà di non seguire il consiglio evangelico della correzione fraterna, rivolta in privato e al singolo. Ma qui non siamo di fronte ad un’offesa personale che possa essere risolta in una “trattazione” privata. Qui siamo davanti ad un comportamento pubblico e di “ruolo”, che va pubblicamente denunciato!
Risolvere privatamente problemi pubblici è da mafiosi, non da cristiani!
Don Milani, altro maestro del mio sentire, in una lettera del 5 Luglio 1964 a mons. Capovilla scriveva: «Ho sempre pensato che lo stare in silenzio sia un’elevata funzione ecclesiastica. Mi domando solo se sia giusto seguitare a santificarsi nel silenzio quando sul piano terreno questo non fa che aumentare il già tanto profondo sdegno dei poveri verso la gerarchia ecclesiastica. Fino all’anno scorso pensavo che fosse santità. Da qualche tempo in qua temo che sia correità».
Che Dio ti dia luce e coraggio per il necessario tuo intervento.
Aldo Antonelli (prete)
Post Scriptum
Copia di questa lettera la invio, tramite Raccomandata, anche a Papa Francesco, nella speranza che la legga e la prenda in seria considerazione.
*
Aldo Antonelli (9-gen-2016)
Il potere di-vino che lega Gesù ai riti dionisiaci
Tra ebbrezza e pathos tutto il fascino mistico della bevanda più antica
di Marino Niola (la Repubblica, 11.07.2015)
«CHI beve vino è civile, chi non ne beve è barbaro».Lo dicevano i Greci facendo del succo della vite il simbolo alimentare dell’identità ellenica, concepita come la forma più compiuta di umanità. La bevanda che spumeggia nelle coppe è un dono di Dioniso, per i romani Bacco, il dio straniero per antonomasia, che irrompe nella scena mitologica mascherato, circondato da un corteggio di baccanti e di satiri, alla guida del suo carro coperto di foglie e di pampini, tirato da tigri e pantere profumate per portare agli uomini il suo dono prezioso. Ma anche pericoloso. Perché il nume dell’ebbrezza e della forza vitale introduce nella società un caos positivo, un disordine creativo che è necessario accettare, ma che è altrettanto necessario saper controllare.
Non a caso la tragedia, che nasce ad Atene proprio dai rituali dionisiaci, mostra spesso le conseguenze di un rapporto incontrollato con il fermento che il dio introduce nei diversi luoghi dove si ferma per insegnare l’arte della spremitura e della fermentazione della vite. Il teatro, infatti, rivela la tensione tra le due metà dell’essere. Fa affiorare la verità nascosta dietro la maschera. Mette in scena il conflitto tra la mania profetica, ispirata dal dio divinatore e la ragione quotidiana. Il pathos che si mescola al logos. Come il vino all’acqua.
Dioniso insomma rappresenta il bios allo stato nascente ed effervescente. Succo della vite e succo della vita. Ecco perché l’intensità del rapporto con il dio dei pampini deve essere accuratamente calibrata. Proprio come fanno i Greci, quando diluiscono la bevanda alcolica per controllarne il potere inebriante. In questo senso si può dire che se la civiltà misura il vino, il vino misura la civiltà. Solo i bruti bevono il nettare della vite senza diluirlo. Come fa Polifemo, il bestione-cafone che per il Greci è il campione dell’inumanità. E finisce bellamente uccellato da Ulisse, che gli offre vino purissimo, prodotto dal figlio del sacerdote di Apollo.
Le istruzioni per l’uso consigliano di mescolare una dose di questo fuoco liquido con venti d’acqua. E invece il babbione con un occhio solo se lo tracanna superconcentrato. E passa improvvisamente dal vedere la metà al vedere doppio. Per poi finire accecato, dalla sua ingordigia ferina, prima ancora che dal palo ardente che Ulisse gli conficca nella pupilla. Il carattere smodato e intemperante degli appetiti di Polifemo fa pendant con la sua mancanza di ospitalità, collocando il feroce monocolo sul versante opposto di quello dionisiaco, fondato invece sull’accoglienza dello straniero, ma anche sulla convivenza con la parte straniera di sé.
Il vino è uno specchio per vedere attraverso l’uomo, dice Alceo, il celebre poeta, che non si sa se fosse più sommo o più sommelier. Visto che a lui si deve la consacrazione del proverbiale binomio vino e verità, «oinos kai alathea», passato alla storia come «in vino veritas».
Non a caso la funzione culturale del vino ha nella mitologia mediterranea il suo paradigma filosofico nel simposio. Parola che deriva dal greco symposion: da syn, insieme e pino, bere. Nel corso del convivio, il rapporto tra vino e socialità si rivela in tutta la sua profondità. Il rito, reso celebre dall’omonimo dialogo di Platone, inizia quando il simposiarca, che guida il consesso e modera la discussione, stabilisce le parti di vino e di acqua da mescolare, oltre al numero di coppe che ogni commensale dovrà bere. Obbligatoriamente. Se non vuole trasgredire le leggi della comunità.
E che il succo della vite sia un simbolo di comunione lo prova la sopravvivenza di alcuni usi e costumi connessi al bere nella civiltà moderna. Come il tradizionale scambio di vino nelle osterie europee, che trasformava degli sconosciuti in commensali. O i brindisi che scandiscono matrimoni, lauree e tutte le occasioni importanti. Insomma accettare il vino significa aprire all’altro. Rimandare al mittente il dono può essere una dichiarazione di guerra. Come quella di Alfio, protagonista della Cavalleria rusticana di Mascagni, che rifiuta pubblicamente di brindare con Compare Turiddu. «Grazie ma il vostro vino io non l’accetto, diverrebbe veleno entro il mio petto». A quel punto la tragedia è inevitabile. E a scorrere sarà sangue vero, non quello metaforico di Dioniso. Che Euripide definisce letteralmente un dio da bere, «versato in libagione». Una vittima sacrificale cui «gli uomini sono debitori di ogni bene».
E improvvisamente in queste parole lampeggia quel filo che unisce Dioniso a Cristo. Le due divinità liquide. I due stranieri che portano il fermento nella collettività e la rigenerano.
In realtà il fattore maggiormente decisivo di questa longevità simbolica del vino è proprio la sua adozione da parte del cristianesimo che lo traduce nella sua teologia e nella sua liturgia facendone, insieme al pane, la sostanza sacra del sacramento eucaristico. Così i due emblemi alimentari del Mediterraneo antico, si transustanziano nel corpo e nel sangue di Cristo. E più la Chiesa rende centrale il ruolo della bevanda nell’eucaristia, più l’Islam prende progressivamente le distanze dal sangue di Bacco. Anche se in realtà nelle prime sure del Corano, quelle della Mecca, il vero musulmano non deve essere astemio. È con le successive sure di Medina, quando la religione del Profeta si trasforma in politica, che il vino diventa tabù.
A riprova del fatto che la dieta mediterranea è inseparabile dalle vicende dei tre grandi monoteismi. Insomma, il vino spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni. Parola di Paolo Conte.
La prima puntata della serie “Mangiare i simboli” è uscita l’ 8 luglio
LA TEOLOGIA-POLITICA DELLA CARITA’ POMPOSA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E LA SEMANTICA DELLA "EUCHARISTIA-CHARITAS" CRISTIANA!!! Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
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PROCESSIONE? NO, GRAZIE!
di don Aldo Antonelli *
Alla fine della messa di ieri sera ho congedato i miei parrocchiani con queste parole (in riferimento a quanto detto nell’Omelia sull’Eucarestia): “Andate in pace ed arricchite il mondo spezzandovi per esso e dando voi stessi da mangiare, invece di impoverirlo con le rapine”.
Questa notte, poi, pensando alla giornata di oggi, Corpus Domini, mi sono venute delle domande impertinenti (o pertinenti?).
Se i preti credessero veramente alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, lo prenderebbero e lo porterebbero in giro per le strade come fosse una reliquia?
E non sono una bestemmia queste processioni con tanto di infiorate, baldacchini, riverenze e genuflessioni nelle nostre città dove i veri, poveri cristi in carne ed ossa sono costretti a dormire sotto i ponti, nei corridoi delle stazioni, negli angoli bui delle strade, come fossero sacchi d’immondizia?
Il grande teologo Jean Cardonnel soleva gridare: "Non abbiamo il diritto di celebrare la condivisione del pane in un mondo che l’accumula"!
E mi fa specie questo scialo di messe che invece di provocare e di scuotere e di mettere in crisi, accarezzano narcisismo, coltivano campanilismi, consacrano razzismi.
E non dite che sono impietoso, sono semplicemente sincero.
Ricordo che anche i Vescovi Italiani, nel documento “Evangelizzazione e testimonianza della carità” scrivevano testualmente: “Il culto si riveste di ipocrisia e contraddice nei fatti a quella comunione che l’ Eucarestia significa e realizza”.
Non sono il solo.
Dom Helder Camara diceva: “E’ facile adorare il Cristo presente nell’ostia della messa. Ma a che serve se non si riconosce la presenza di Cristo nei fratelli abbandonati e vittime della povertà ingiusta della nostra società?".
Ed anche don Tonino Bello scriveva: “Le nostre Messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell’idolatria. Dovrebbero metterci in crisi ogni volta. Per cui per evitare le crisi bisognerebbe ridurle il più possibile...Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell’Eucarestia un momento di dilettazioni piacevoli, morose, di compiacimenti estenuanti che hanno snervato proprio la forza d’urto dell’Eucarestia e ci hanno impedito di udire il grido dei poveri Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto".
Chiudo con la denuncia del grande liturgista Pelagio Visentin: «Purtroppo intorno alla presenza reale eucaristica abbiamo costruito cattedrali di teologia, di arte e di sfarzo liturgico-rituale, mentre intorno al fratello bisognoso, sacramento di un altro incontro con Cristo, ci siamo accontentati di qualche pia esortazione dal tono moralistico rivolta alla buona volontà dei fedeli. La scissione Eucarestia-Carità a livello teologico e nella prassi liturgica è una delle più grandi disavventure capitate alla Chiesa» ( AA.VV: Diaconia della carità nella pastorale, ed Gregoriana,1986, pg.284).
Aldo
* Testo inviato via mail. Evidenziazioni mie (fls)
«No alla comunione ai divorziati». Cinque cardinali contro le aperture
Presa di distanza da Kasper, incaricato dal Papa di fare la relazione al Concistoro Müller (ex Sant’Uffizio): «Misericordia non è dispensa dai comandamenti»
di M. Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 17 settembre 2014)
«Non possumus», la celebre risposta di papa Clemente VII a Enrico VIII, all’origine dello scisma della Chiesa anglicana, quando il Pontefice non assecondò la richiesta di scioglimento di un singolo matrimonio, sia pure reale e nonostante le conseguenze, riecheggia più volte in un volume molto atteso in vista del prossimo Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Già il titolo dice tutto: Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica. Il libro (esce quasi in contemporanea in Italia, il 1° ottobre, editore Cantagalli, e negli Stati Uniti) riunisce assieme gli scritti di cinque cardinali e di altri quattro studiosi, in risposta a quanto sostenuto nella relazione tenuta da un altro cardinale, Walter Kasper, su incarico di papa Francesco davanti al Concistoro straordinario del 20 e 21 febbraio. Allora, Kasper aveva lanciato un appello affinché la Chiesa armonizzasse «fedeltà e misericordia di Dio nella sua azione pastorale riguardo ai divorziati risposati con rito civile». Un punto focale del Concistoro, voluto da Bergoglio proprio in vista del Sinodo che si sta per aprire ad ottobre sulle «sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione».
Lo scopo del libro è rispondere all’invito di Kasper ad un’ulteriore discussione, ma costituisce una netta chiusura alle sue tesi. Il curatore del testo, Robert Dodaro, preside dell’Istituto patristico Augustinianum di Roma, alla fine della sua introduzione espone le conclusioni unitarie del gruppo: «Gli autori di questo volume sono uniti nel sostenere fermamente che il Nuovo Testamento ci mostra Cristo che proibisce senza ambiguità divorzio e successive nuove nozze sulla base del piano originale di Dio sul matrimonio disposto da Dio in Gen. 1,27 e 2,24».
Poi la contestazione del punto centrale: «La soluzione “misericordiosa” al divorzio sostenuta dal cardinale Kasper non è sconosciuta nella Chiesa antica, ma di fatto nessuno degli autori giunti a noi e che noi consideriamo autorevoli la difende. Anzi, quando la accennano, è piuttosto per condannarla come contraria alla Scrittura. Non c’è niente di sorprendente in questa situazione: gli abusi ci possono essere occasionalmente, ma la loro mera esistenza non garantisce che non siano abusi, tanto meno che siano modelli da seguire».
E infine: «La pratica ortodossa orientale attuale della oikonomia nei casi di divorzio e seconde nozze ha origine per lo più nel secondo millennio, e sorge in risposta alla pressione politica degli imperatori bizantini sulla Chiesa». L’ oikonomia è il modo in cui la Chiesa ortodossa gestisce la situazione dei fedeli divorziati ammettendoli alle seconde nozze religiose dopo un periodo di penitenza (in generale, il termine indica una deviazione discrezionale dalla lettera della legge, per adempiere allo spirito della legge e alla carità).
Come si vede, invece, la chiusura è senza appello. Tanto più forte se si considera che tra gli autori c’è il «Guardiano» dell’ortodossia cattolica, Gerhard Ludwig Müller, cioè il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nominato da Papa Benedetto XVI, nel 2012, e fatto cardinale nel Concistoro di febbraio. Gli altri sono cardinali Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura apostolica; Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di scienze storiche; Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna e uno dei teologi più vicini a san Giovanni Paolo II sui temi della famiglia e Velasio De Paolis, presidente emerito della prefettura degli affari economici.
Oltre al riferimento al «non possumus», c’è un’altra immagine che ritorna nel volume, quella della donna adultera cui Cristo disse, «va e non peccare più» (Gv 8,11). La misericordia di Dio - scrivono gli autori - non ci dispensa dal seguire i suoi comandamenti. Quindi, il matrimonio civile che segue al divorzio implica una forma di adulterio, e rende moralmente impossibile ricevere l’eucarestia (1 Cor. 11,28), a meno che la coppia non pratichi la continenza sessuale. Queste non sono regole inventate dalla Chiesa - affermano -, esse costituiscono la legge divina e la Chiesa non può cambiarle.
Omelia del Corpus Domini
Il Papa: «Affamati di amore e di eternità» *
«Il Signore, tuo Dio, ... ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi» (Dt 8,2).
Queste parole di Mosè fanno riferimento alla storia d’Israele, che Dio ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e per quarant’anni ha guidato nel deserto verso la terra promessa. Una volta stabilito nella terra, il popolo eletto raggiunge una certa autonomia, un certo benessere, e corre il rischio di dimenticare le tristi vicende del passato, superate grazie all’intervento di Dio e alla sua infinita bontà. Allora le Scritture esortano a ricordare, a fare memoria di tutto il cammino fatto nel deserto, nel tempo della carestia e dello sconforto. L’invito di Mosè è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che «non vive soltanto di pane, ma ... di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame, una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario. E’ fame di vita, fame di amore, fame di eternità. E il segno della manna - come tutta l’esperienza dell’esodo - conteneva in sé anche questa dimensione: era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda che c’è nell’uomo. Gesù ci dona questo cibo, anzi, è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo (cfr Gv 6,51). Il suo Corpo è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino. Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è Amore.
Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo.
Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più. Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio. Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo. Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva.
Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io? Dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi? Alla tavola del Signore? O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù? Qual è la mia memoria? Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù? Con quale memoria io sazio la mia anima? Il Padre ci dice: «Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi». Recuperiamo la memoria e impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato.
Tra poco, nella processione, noi seguiremo Gesù realmente presente nell’Eucaristia. L’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso. A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa “memoriale” del tuo gesto di amore redentivo. Amen.
* Avvenire, 19 giugno 2014
«Il calice fu versato per molti»
Cambia la formula dell’Eucarestia
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)
La lettera di cinque pagine è rivolta alla conferenza episcopale tedesca ma riguarda ogni vescovo, a cominciare dagli italiani che ne discuteranno nell’assemblea di maggio. Benedetto XVI spiega le ragioni per cui si dovrà cambiare la formula dell’Eucarestia nella messa.
Nell’ultima cena Gesù spezza il pane («questo è il mio corpo») e poi prende il calice del vino, e qui durante la messa il sacerdote ripete parole che i fedeli sanno a memoria: «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Solo che nei Vangeli non si legge «per tutti». E il pontefice vuole che si torni alle parole di Gesù: «Versato per molti».
Lo stesso Papa ricorda i riferimenti testuali. Nel vangelo più antico, Marco (14,24) si legge upèr pollôn, in quello di Matteo (26,28) c’è scritto un analogo perì pollôn, insomma il «per molti» è la traduzione letterale dal testo originale greco. Assente in Giovanni, in Luca (22,19) c’è «per voi» (upèr umôn). L’indicazione era già contenuta in un documento della Santa Sede firmato nel 2006 dal cardinale Francis Arinze. Ma ha incontrato resistenze, dalla Germania agli Usa all’Italia.
L’espressione «per tutti» venne introdotta dopo il Concilio con la riforma di Paolo VI, nel ’69, il messale latino aveva «pro multis». Il timore di tanti vescovi è che si interpretasse la modifica come l’esclusione di alcuni dalla salvezza, una reazione preconciliare. Così il Papa ha scritto ai vescovi tedeschi, chiarendo che le cose non stanno affatto così: l’«universalità» della salvezza non si discute, anche San Paolo scrive che Gesù «è morto per tutti». Il senso non cambia: negli anni Sessanta, ricorda, gli esegeti giustificavano il passaggio a «per tutti» citando Isaia 53 («il giusto mio servo giustificherà molti») e dicendo che «molti» è «un’espressione ebraica per dire la totalità». Solo che Gesù usa «molti». Bisogna guardarsi da traduzioni «interpretative» che hanno portato a «banalizzazioni» e «autentiche perdite», scrive: «Mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano».
Questione di «fedeltà» alla «parola di Gesù» e alla Scrittura. Il Papa invita tuttavia a preparare preti e fedeli: «Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». La sua stessa lettera, come una catechesi, dà voce ai dubbi («Cristo non è morto per tutti?», «Si tratta di una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio?») per fugarli.
In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei concluderà la discussione sul nuovo messale. I timori non mancano, ma un grande teologo come il vescovo Bruno Forte spiega: «Il problema non è teologico, ma pastorale. Il Papa mette in luce che la redenzione oggettiva, per tutti, passa attraverso l’adesione libera di ciascuno. Dire "per molti" non esclude ma anzi esalta la dignità e l’assenso umano. Tuttavia la gente è abituata a "per tutti": per questo, dice il Papa, il cambiamento va fatto dopo una lunga catechesi che ne faccia capire il valore».
I dubbi sull’originale ebraico
di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)
Le parole dell’Ultima Cena, allorché Gesù invitò a bere il suo sangue, ricordano che veniva versato «per molti» o «per tutti»? Il Vangelo di Giovanni non le cita, ma i sinottici - Matteo, Marco e Luca - le riferiscono con varianti.
Il testo, anche se Gesù parlava con i discepoli in aramaico, ci è giunto in greco e si è diffuso in Occidente nella versione di Gerolamo, la Vulgata latina. Se «per molti» fa discutere e taluni preferiscono «per tutti» (lo suggerì la riforma di Paolo VI del 1969), va detto che il Vangelo di Matteo (26,28) riporta perì pollòn (diventò pro multis); Marco (14,24), invece, sceglie uper pollòn che Gerolamo rende di nuovo con pro multis.
Le due espressioni greche possono avere in italiano - lo suggerì Luciano Canfora anni fa, durante i dibattiti sul caso - significati quali «per molte ragioni» (Matteo) o «in difesa di molti» (Marco). Luca (22,17) si esprime con uper umòn, che nella Vulgata diventa pro vobis e non contrasta con l’italiano «per voi».
Le parole della tradizione liturgica, comunque, riprendono il greco perì pollòn e il latino pro multis, che sono un calco del semitico la-rabbîm: il quale significa «per le moltitudini» o anche «per tutti». Tradurre con «molti» ci sembra improprio rispetto all’originale ebraico.
«Eucaristia cuore pulsante della nostra vita»
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle!
Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane naturalmente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti - come spesso avviene - per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani - ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid.
E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).
Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato.
La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.
Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.
GRAZIA ("CHARIS") E AMORE EVANGELICO ("CHARITAS"). I Padri delle origini chiamavano l’Eucharistia, il "sacramento della misericordia divina", al pari del sacramento stesso della riconciliazione.
"La parola «Eucharistia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»" (Paolo Farinella, prete).
Parroco sotto accusa Ferrara, il Vaticano contro la decisione del sacerdote
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 12 aprile 2012)
Un parroco emiliano rifiuta la comunione a un bimbo disabile ed esplode una polemica così infuocata da rimbalzare subito a Strasburgo e in Vaticano. Il sacramento negato a Pasqua trasforma l’episodio in una controversia internazionale e la protesta in due esposti. Il primo alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa».
Il secondo alla Santa Sede. Tutto inizia giovedì santo a Comacchio, nel Ferrarese, alla cerimonia propedeutica alle prime comunioni. Don Piergiorgio Zaghi ritiene che il bambino, affetto da un grave ritardo mentale, non sia in grado di «comprendere il mistero dell’Eucarestia». Sconcerto, clamore, raffica di reazioni.
Il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio dei diritti sui minori e consulente della Commissione parlamentare dell’Infanzia, denuncia «un oscurantismo culturale da medioevo». Negando al piccolo la comunione, «il sacerdote ha leso la sua dignità di persona». I parrocchiani si dividono fra chi condivide la scelta e chi dissente richiamando l’appello papale ad assicurare il sacramento, per quanto possibile, anche ai disabili mentali. Al sacerdote scrive una lettera un compagno di classe del bambino: «Se fosse con noi sarebbe una grande gioia per lui e noi avremmo il vero valore della Comunione».
I genitori prendono male il no del parroco e affidano alle carte bollate l’amara sorpresa. Nella Curia romana il cardinale canonista Velasio De Paolis solidarizza con loro e stigmatizza l’eucarestia rifiutata a un bimbo ritenuto incapace di comprendere il sacramento. Lo stretto collaboratore di Benedetto XVI ricorda come nelle comunità orientali i bambini ricevano l’eucarestia subito dopo il battesimo, quindi «se il disabile non profana l’ostia, se la accoglie serenamente, nella Chiesa è prassi che gli venga amministrata». E, aggiunge, «io non l’avrei negata», soprattutto per «la forza del sacramento che raggiunge anche chi è malato o in punto di morte». Spera ancora che don Zaghi «ci ripensi», Claudia, la madre del bambino «discriminato senza ragione in quanto è andato regolarmente al catechismo». E aggiunge: «Ci andava volentieri, certo il grado di attenzione non era come quello degli altri bambini, perché mio figlio ha anche un ritardo mentale». E riguardo al fatto che non possa capire il «mistero del sacramento dell’Eucarestia», alla mamma «sembra che anche un bimbo di 10 anni “normale”, anche se non mi piace la parola, non possa comprenderlo fino in fondo».
I legali della famiglia si appellano al fatto che «l’ordinamento giuridico canonico non fa alcun riferimento né all’età né alla capacità di intendere e volere del soggetto che si appresta a ricevere il Sacramento dell’Eucarestia». E sottolineano che «il minore in questione pur se affetto da grave disabilità motoria non è comunque giuridicamente totalmente incapace di comprendere il significato dell’istituto sacramentale».
Interviene la comunità Papa Giovanni XXIII: «Da noi molti cerebrolesi ricevono regolarmente la comunione». Per l’associazione di don Oreste Benzi, «la comunione negata al bambino disabile deve interpellare tutta la comunità cristiana». Nella comunità, anche i ragazzi gravemente disabili ricevono la comunione. «Sono degli angeli crocifissi, come diceva don Benzi, e dobbiamo ripartire dagli ultimi accogliendoli realmente nelle nostre comunità, avvicinando le famiglie che hanno al loro interno i disabili e sostenerle».
La cerimonia della prima comunione si terrà in maggio e coinvolgerà una ventina di ragazzi in totale. C’è abbastanza tempo per la retromarcia in cui la famiglia confida. «Spero che il bambino possa fare la comunione con tutti i suoi compagni, che hanno dimostrato di tenerci: anche loro hanno insistito perché facesse la comunione con loro, sono stati tutti molto solidali con noi», conclude mamma Claudia. Per ora la diocesi ha avallato il no del parroco. Da lì potrebbe partire il ripensamento. Per carità e buon senso.
Il Papa santo Pio X aveva fissato un’età-limite per la prima comunione: può ricevere l’Eucarestia chi è in grado di distinguere il pane di Dio da quello materiale. E quindi è meglio attendere i 9-10 anni per amministrare il sacramento, anche se la Chiesa cattolica non ha mai condannato la prassi consolidata nelle comunità orientali di concedere la comunione subito dopo il battesimo, quindi a bimbi appena nati.
Benedetto XVI nell’esortazione apostolica del 2007 «Sacramentum Caritatis» cancella ogni dubbio. «Venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna», chiarisce Joseph Ratzinger, Pontefice teologo e pastore. E il «quanto possibile» si riferisce ad una possibilità fisica, non mentale (per esempio se i disabili riescano a deglutire e ingerire l’ostia o meno).
FERRARA
Comunione negata? Non è vero, accolto quel bimbo disabile *
Una carezza del sacerdote nel giorno della Prima Comunione doveva essere il gesto dell’accoglienza e dell’attenzione speciale di un’intera comunità a un bambino di dieci anni con gravi disabilità psichiche. Invece su molti canali mediatici è diventato l’emblema dell’esclusione della «vita debole» dal banchetto eucaristico. Una barriera che sarebbe stata alzata dal parroco di Porto Garibaldi, nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, durante la Messa del Giovedì Santo quando venti ragazzi si sono accostati per la prima volta al sacramento. «Siamo amareggiati, non ce lo aspettavamo», racconta la mamma alle agenzie di stampa.
La Curia, invece, non parla di sorprese: il percorso era stato concordato con la famiglia che aveva avuto anche un lungo incontro con un sacerdote nel palazzo vescovile. E l’arcidiocesi tiene a sottolineare che non c’è stato alcun rifiuto dell’Eucaristia, che nessuna discriminazione è stata compiuta dal parroco e che il cammino di preparazione continuerà in modo che il ragazzo possa accedere al Sacramento nei tempi opportuni.
E i tempi contano per capire ciò che è accaduto. Spiega la Curia che a fine febbraio i genitori del disabile - una coppia di conviventi - si presentano dal parroco di Porto Garibaldi (che non è quello del paese dove vivono) per chiedere che il figlio possa ricevere la Comunione. Come faranno i compagni di classe, riferiscono. Il sacerdote prende a cuore fin da subito la situazione. Coinvolge i catechisti, sente le insegnanti di sostegno del bambino, acquista dvd e sussidi per una preparazione a misura di portatore di handicap.La Curia segue con attenzione il caso, mentre si constata che il ragazzo interagisce quando viene sollecitato dalle carezze. La «teologia dell’affetto» viene adottata dalla parrocchia che mette a punto una proposta con un approccio molto graduale e senza scadenze prefissate. Ai genitori viene chiesto di portare il figlio negli ambienti parrocchiali: cosa che avviene, seppur con l’intermezzo di un ricovero ospedaliero. L’intento è farlo sentire parte della comunità.
All’inizio di aprile avviene l’incontro in Curia. Durante il colloquio il sacerdote offre al ragazzo un’ostia non consacrata che lui respinge bruscamente. Ecco allora il suggerimento ai genitori: alla Messa della Prima Comunione il bambino sarà nelle panche insieme con i coetanei; però non riceverà il Santissimo Sacramento ma una carezza del parroco e la benedizione. Secondo l’arcidiocesi, è la via per mostrare che la disabilità interpella la Chiesa, che ciascun portatore di handicap è «persona prediletta» e partecipa come tutti i credenti alla celebrazione, che la parrocchia lo sostiene nella promozione integrale. In attesa che il percorso possa proseguire e compiersi.
Il Giovedì Santo il bambino è in mezzo ai compagni. Vicino ha la madre. E la carezza con la benedizione c’è. A distanza di qualche giorno, quanto accaduto in quella chiesa sui lidi ferraresi si trasforma in un caso mediatico con tanto di presunto esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa» (poi rivelatosi una patacca) mentre la madre nega di aver dato mandato a un legale. L’arcidiocesi intanto continua a tendere la mano: nel rispetto della natura del Sacramento, il bambino sarà accompagnato per condividere il «tesoro offerto da Dio» sulla mensa eucaristica.
Giacomo Gambassi
* Avvenire, 12 aprile 2012
CARO MICHAELANGELUS 1
o meglio
CARO ALDO CANNAVO’
LEGGI BENE E COMPRENDERAI ANCHE BENE:
"LA VOCE DI FIORE" NON BUTTA A MARE (!) IL BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA E PUZZOLENTE,
NE’ CONFONDE IL DIAVOLO CON L’ACQUA VIVA DEL MESSAGGIO EVANGELICO!
Per orientarsi nell’infinito, bisogna prima distinguere e poi eventualmente unire. Nessuno mette in discussione l’aiuto infinito di tanti operatori che in spirito di carità ("Deus charitas est": 1 Gv.: 4.8) portano sollievo alla sofferenza altrettanta infinita fi milioni di persone, ma qui è in discussione il totale abisso di cecità in cui naviga tutta la gerarchia con Papa Ratzinger ("Deus caritas est", 2006) in testa e l’inversione totale di marcia del cammino iniziato da Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, e Giovanni Paolo II.
Caro Michaelangelo 1, caro Aldo Cannavò,
tenuto presente che oggi è giovedì santo e tenendo presente l’indicazione evangelica "Ut unum sint" (rilanciata da Giovanni Paolo II, nella sua enciclica sull’impegno ecumenico, nel 1995),
non mi resta che ringraziarlo per la sua attenzione e per il suo intervento e augurargli una bella e
Buona-Pasqua!
Per la Redazione
Michaelangelus 2
o meglio
Federico La Sala
P. S. - A proposito di Michael-arca-angelo, che certamente era un Testimone di Giustizia (e non di menzogne!),
un dono e una sollecitazione alla lettura del seguente link, sul tema:
MICHELANGELO E IL SOGNO DEI CARMELITANI SCALZI (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce): A CONTURSI TERME, IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE - RECUPERATO CON I LAVORI DI RESTAURO, DOPO IL TERREMOTO DEL 1980 ...
MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
insieme a questo altro:
«il continuo aumento dei prezzi richiede risposte che i singoli stati non possono dare»
«Il cibo non sia materia di speculazione»
Il Papa alla Fao: «Milioni di bambini sono condannati a morte precoce, l’alimentazione è diritto alla vita» *
MILANO - Bisogna fare di più per sconfiggere la fame. Non «possiamo tacere il fatto che anche il cibo è diventato oggetto di speculazione». Lo denuncia il Papa nel discorso ai partecipanti alla XXXVII Conferenza della Fao, ricordando che «l’alimentazione» «tocca il fondamentale diritto alla vita». «Garantirla», ha detto, richiede «agire direttamente e senza indugio su quei fattori» che gravano su «lavorazione» e «meccanismi di distribuzione» e sul «mercato internazionale».
BAMBINI - «Milioni di bambini» non hanno cibo, «sono condannati a morte precoce, a un ritardo nel loro sviluppo fisico e psichico o costretti a forme di sfruttamento pur di ricevere un minimo di nutrimento» ha detto ancora il Papa.
STATI - «Il quadro internazionale e le ricorrenti apprensioni determinate da instabilità e dall’aumento dei prezzi domandano risposte concrete e necessariamente unitarie per conseguire risultati che singolarmente gli Stati non possono garantire» sottolinea ancora Benedetto XVI. «Questo significa - spiega il Papa - fare della solidarietà un criterio essenziale per ogni azione politica e strategia, così da rendere l’attività internazionale e le sue regole altrettanti strumenti di effettivo servizio all’intera famiglia umana ed in particolare agli ultimi». «Le istituzioni internazionali - ha ammonito Benedetto XVI analizzando le cause della povertà di milioni di persone - sono chiamate ad operare coerentemente al loro mandato per sostenere i valori propri della dignità umana eliminando atteggiamenti di chiusura e senza lasciare spazio a istanze particolari fatte passare come interessi generali». La «crisi che investe ormai tutti gli aspetti della realtà economica e sociale», ha ricordato papa Ratzinger, richiede «ogni sforzo per concorrere ad eliminare la povertà, primo passo per liberare dalla fame milioni di uomini, donne e bambini che mancano del pane quotidiano». Ma se non si guarda alle «cause», ha riflettuto il Papa, non si va lontano. Se non si incide contro gli «atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libero dalla fame», non ci si accorge neppure del fatto che «il cibo è diventato oggetto di speculazioni, o è legato agli andamenti di un mercato finanziario che, privo di regole certe e povero di principi morali, appare ancorato al solo obiettivo del profitto».
Redazione online
Premessa sul tema. Note:
Il Vangelo che abbiamo ricevuto
Uno spazio libero di comunione, confronto e ricerca sinodale
«Ma voi non così» (Luca 22, 25)
4° incontro nazionale
ROMA - 17-18 Settembre 2011 - Domus Pacis - Via di Torre Rossa, 94
lettera invito
Alle amiche e agli amici interessati a continuare l’esperienza di comunione e dialogo de “Il vangelo che abbiamo ricevuto” *
Può forse sembrare “stravagante”, vagante fuori, fuori dalla realtà, che dei credenti, pur sentendosi inestricabilmente compagni di viaggio delle donne e degli uomini del nostro tempo, pur avendo amici tra non credenti o diversamente credenti - e dunque partecipi con loro delle fatiche e delle gioie, dei drammi e delle attese che segnano questa nostra stagione - diano come tema al loro convenire quello dell’eucaristia.
Qualcuno dall’esterno potrebbe giudicarlo un tema privato, che soffre una sorta di soffocamento nei confini della chiesa, un restringersi dentro celebrazioni di una liturgia che vede oggi un convenire di pochi. Non c’è altro, altro di più urgente, all’interno della chiesa e della società, su cui confrontarci? Non sono altri i nodi da esplorare, civili, politici, ecclesiali? Non corriamo forse il pericolo di essere fuori dalla storia?
La domanda ci inquieta. Se non altro perché svela drammaticamente, impietosamente, quale immagine di rito, al pronunciarsi della parola “eucaristia”, oggi si accenda in non poche donne e uomini del nostro tempo. Ci chiediamo che cosa ci ha portato a questa deriva che sembra suggerire l’immagine della privatezza, dell’esclusività, della non contiguità, della ininfluenza del rito sulla vita.
La Cena del Signore: un’immagine tradita
Un’immagine tradita. Chi varca - ce lo chiediamo - la porta di una delle nostre tante chiese intravede con sorpresa in quella celebrazione un vangelo, una buona notizia? Un evento che fa sperare? Per il tempo dentro le chiese e per il tempo fuori le chiese? Intravede, come da una piccola fessura, un umile anticipo del convenire universale, cui diamo il nome di “Regno di Dio”, nel quale siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe, donne e uomini venuti dall’Oriente e dall’Occidente? O intravede un pallido convenire che non esce dalla consueta “normalità” di ogni rito?
Nei giorni del nostro convenire a Roma ci chiederemo se la Cena del Signore segna ancora una differenza, quella che le aveva impressa il Signore, quella che si affaccia dal titolo del nostro convenire: “Ma voi non così”. Quasi un dirottamento di modi di pensare, di modi di vedere, di modi di agire, di modi di stare al mondo.
E’ ancora percepito nelle celebrazioni il dirottamento? Non fa parte l’eucaristia del “vangelo che abbiamo ricevuto”? Il vangelo non è solo parola che accende e riscalda i cuori. Gesù ci ha lasciato come vangelo, notizia buona, anche i suoi gesti. Anzi i gesti, forse ancor prima delle parole, raccontavano che il regno di Dio era accaduto, che era già in mezzo a noi. I suoi banchetti erano vangelo. In modo specialissimo vangelo fu la sua ultima cena. Quella notte nella sala al piano superiore sembrò deporre in quel pane che spezzava e in quel calice del vino che faceva passare tra i discepoli tutto quello che lui era, tutto quello che aveva sognato, tutto quello che aveva insegnato: ultimo gesto, riassunto di tutta una vita, testamento per i nostri giorni, per tutti i giorni.
Riconoscere il segno
Si tratta dunque di acconsentire al segno che arde come brace nel desiderio di Gesù di volerci a cena, di darci il suo pane e il calice del vino. Riconoscere il segno. Anni fa in un convegno a Roma Annalena Tonelli, la volontaria laica, impegnata in Somalia, assassinata il 5 ottobre 2003, mentre rientrava in casa, dopo la giornata trascorsa in ospedale, raccontando la sua vita disse: «la vita miha insegnato che la mia fede senza l’Amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti, ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie né pellegrinaggi, che quell’Eucaristia, che scandalizza gli atei e le altre fedi, racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, ma mangi la tua condanna”».
Ebbene non finisce di sorprenderci il fatto che già quella cena, al piano superiore, nella sala addobbata, l’ultima cena di Gesù, abbia vissuto una sconsacrazione. Cena sconsacrata dai pensieri e dai discorsi dei discepoli. Pensieri e discorsi in controtendenza spudorata e sconcertante al gesto che alludeva al pane, l’umile pane delle nostre case, un pane che non accetta esposizioni in vetrina: la sua esposizione, quella vera è sulla tavola. Per tutti. L’unica esposizione che sopporta il pane. L’unica che ha sopportato Gesù. Qualcuno voleva dargliene un’altra, ma allora lui si eclissava. Lui è altro. E ci chiede di essere altro: “Ma voi non così”.
La regola del pane
Ai discepoli quella sera ricordò la regola del pane, che è alternativa radicale ai criteri mondani. Se il rito non racconta più il segno, se il rito viene defraudato, i credenti giocoforza ritornano alle loro case, alla loro vita, alla storia con la volontà di dominio, di potenza, di prestigio. Come se a loro la storia di quel pane, la storia di Gesù di Nazaret non avesse parlato: un rito orfano, cieco di quella storia, da cui si esce per ritornare alle case, alla città, alle opere e ai giorni, senza dirottamenti, bensì con i vecchi criteri di sempre, quelli obsoleti, quelli di una pallida “normalità” mondana. La normalità mondana dei discepoli che fanno discorsi su chi è più grande fra loro.
Succedeva allora, succede anche oggi, in noi e nella chiesa, quando la celebrazione rimane confinata a livelli di superficie e non diventa seme che, accolto nella maturità delle coscienze, genera la passione di relazioni vere, nuove e intense. E quando succede questo, è l’eclisse dell’eucaristia, l’eclissi di Dio, di Gesù. Assisti allora a una chiesa che cerca posti sulle piazze, che mangia con quelli che contano, che contratta appoggi mondani, interessata più al suo bene che non al bene di tutti, il bene soprattutto di coloro che non hanno nessuno che li difenda. Quando questo succede è doveroso concludere che il rito è vuoto, cieco, anche se solenne, anche se colmo di profumo di incensi e di colore di vesti. Anzi la solennità in tal caso suona esposizione di sé, quell’esposizione da cui il vero pane e Gesù si sono sempre ritratti.
Il gesto del servo: un sogno?
La relazione con cui si aprirà il nostro convenire a Roma ci ricorda in modo suggestivo come la Didascalia degli apostoli (III secolo) prescrivesse al cap. 12 che, ad accogliere nell’assemblea i poveri, uomini o donne che fossero, doveva essere il vescovo stesso e non i diaconi e che doveva essere ancora il vescovo a procurare loro un posto e che, se questo non si fosse trovato, doveva cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi. ”È questo un sogno?”- si chiede la relazione - “O sono piuttosto un tradimento dell’eucaristia quelle celebrazioni che ripropongono, nella disposizione dei partecipanti e nello stile della partecipazione, le gerarchie mondane, ma anche soltanto l’educato stare ognuno per conto suo?”.
Non è forse vero che riconsacriamo il pane del Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto, l’ultimo che il Signore ci ha lasciato, come comando, in quella cena, il gesto del servo che si china a lavare i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi ai piedi impolverati di fatiche delle donne e degli uomini con cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze e di rialzarli a dignità?
Un pane per vite libere
Suggestivo, nella relazione, l’accenno al concilio di Nicea che vietava in un suo canone che almeno la domenica ci si inginocchiasse (canone 20). Sembra a noi di riudire l’eco ripetuta del vangelo là dove Gesù comandava di “alzarsi”. In piedi, quasi a dire che l’Eucaristia è fonte di donne e uomini alzati e non abbassati, fonte di vite libere, è un pane che ci dà la forza di sfuggire al rimpianto dei cibi sì prelibati, ma in terra di schiavitù. Già Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani: «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non vi togliete la testa». Eucaristie in nutrimento di uomini e donne in ascolto di un magistero che è dentro ciascuno di noi: «Lo Spirito che il Padre vi manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Restituire all’eucaristia il fascino di notizia buona per il nostro tempo Oggi che la stragrande maggioranza dei nostri compagni di viaggio più non frequenta le nostre celebrazioni, non dobbiamo sentire ancora più urgente il compito di restituire ad esse il fascino che loro appartiene di notizia buona, per il nostro tempo e anche per chi di loro prima o poi si affacciasse?
E non dovremmo altresì sentirci educati dai “segni dei tempi” a sospettare che qualche scintilla dell’eucaristia possa abitare in liturgie che chiameremmo laiche?
In un colloquio con Gabriella Caramore, Emilio Tadini, scrittore e pittore, proprio lui non credente, parlando di Van Gogh, anni fa disse: «Viene in mente quel suo quadro che si chiama “I mangiatori di patate”, dove dei poveri contadini sono radunati intorno al tavolo per una cena, che consiste appunto solo in un piatto di patate. Ma in questo straordinario quadro si manifesta una specie di «eucaristia laica», come se stessero officiando il rito della consacrazione di questo povero cibo. La luce della lampada a petrolio che sta sopra il tavolo sembra una luce straordinaria mistica».
Angelina Alberigo - Maria Cristina Bartolomei - Simona Borello - Gianfranco Bottoni Mario Cantilena - Angelo Casati - Francesco Castelli - Ursicin Derungs - Luciano Guerzoni Giovanni Nicolini - Licinia Magrini - Giancarlo Martini - Enrico Peyretti - Ugo Gianni Rosenberg - Giuseppe Ruggieri - Silvia Scatena - Fabrizio Valletti
PIANETA TERRA, CRISTIANESIMO, E DEMOCRAZIA "REALE": DIO E’ AMORE ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8). Per una Chiesa al di là della trinità "edipica" - di Mammona e di Mammasantissima ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!!
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 19 giugno 2011)
Ci sono incontri nella vita che ti segnano e tornano alla memoria come sorgive che ti ispirano e ti tormentano pure per avere una risposta rassicurante, esplicativa. Per me un incontro di questo tipo è avvenuto già più di vent’anni fa (non ricordo più in quale anno preciso) in quel di Vicenza ad una tre giorni di studio con i Beati costruttori di pace. C’era Enrique Dussel, uno dei pionieri della teologia della liberazione, che a tavola mi confidò che stava pensando ad un saggio in cui proporre come modello dell’economia l’Eucaristia. Io gli presentai le mie perplessità, legate al pericolo che si confonda il sacro con il profano. E lui mi obiettò che nell’Eucaristia si tratta pur sempre di mangiare e soprattutto di mangiare insieme e quindi di un convivio.
Non so se Dussel abbia poi scritto quel saggio che aveva in mente, ma vi lascio immaginare la lieta sorpresa quando la settimana scorsa ho letto che in Francia è apparso il "Manifesto del convivialismo". E’ una teoria economica sostenuta dal sociologo Allain Caillé assieme a Serge Latouche, quello che da anni denuncia una globalizzazione per la quale tutto è merce.
Il convivialismo fa parte di un movimento più vasto che intende lanciare l’antiutilitarismo nelle scienze sociali. Si chiama MAUSS e sta per "Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali". Il nome è stato scelto anche in omaggio a Marcel Mauss, autore di uno studio che si chiama "Saggio sul dono", in cui dimostra che all’origine del legame sociale non è l’utile egoistico, bensì il dono come gesto primario che fa uscire l’individuo da se stesso e lo proietta verso gli altri. Uscendo dal vago e dal generico, si riscopre che ciò che “muove il sole e le altre stelle" e crea socialità è l’amore. "Palpito dell’universo" è stato poeticamente definito l’amore, ma più concretamente e se volete prosaicamente l’amore è la molla che unisce le persone, specie in quella che è stata definita "cellula della società", cioè la famiglia.
Che cosa c’entra l’economia? C’entra eccome! Forse che quella famigliare non è economia? Certo, non si propone il profitto bensì il servizio alle persone che la compongono. A tutte e in special modo alle più deboli come sono i bambini.
I teorici del convivialismo denunciano un peccato originale nella nostra società e nella nostra democrazia: quello di vedere solo la funzione di salvaguardia degli interessi individuali. Caratteristica che segna perfino la Dichiarazione universale dei diritti umani. L’ha rilevato anni fa perfino un congresso internazionale di giuristi, celebrato a Vienna.
Nel documento finale afferma che nella Dichiarazione universale manca "il diritto dell’altro". Un deficit che caratterizza soprattutto l’economia quando dogmaticamente si definisce per il profitto. E’ quindi significativo che sia emerso anche nel recente Festival dell’economia di Trento questo limite, rilevato dal grande sociologo Zigmunt Bauman, quando, come ha documentato Vita Trentina, vi ha opposto l’amore, per il quale "non ci sono limiti".
Certo, la condivisione dei beni comporta anche rinunce e sacrifici. Ma oggi appaiono anche oggettivamente necessari se, come ha detto lo stesso Bauman, per garantire un livello di consumi eguali a quello occidentale ci vorrebbero ben tre mondi. E l’amore si ripropone con il suo "mezzo" essenziale: il dono.
Siamo ad una svolta. La stessa globalizzazione esige che si cambi registro e dall’utilitarismo si passi al convivialismo. A proposito, non c’è forse anche il movimento dei Focolari, fondato dalla nostra Chiara Lubich, che da decenni porta avanti l’ideale di un’economia diversa? Si chiama "Economia di Comunione". E qui mi ricompare davanti Enrique Dussel. Lui parlava di Eucaristia come modello economico, ma l’Eucaristia non si chiama forse anche "Comunione"?
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 08.12.2010)
Appena preso possesso del nuovo incarico come presidente del pontificio consiglio per la giustizia e la pace, il cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson ha espresso chiaramente il suo pensiero su l’utilizzazione degli ogm.
Per Turkson, «proporre come soluzione ai problemi della fame nel mondo e delle carestie tecniche che non tengono conto della biodiversità delle coltivazioni africane o prevedono l’uso di organismi geneticamente modificati non può che suscitare sospetti sulle reali intenzioni. Un contadino africano che utilizza semi di mais conservati dal raccolto dell’anno precedente, forse avrà una resa leggermente più modesta di quella ottenuta con gli ogm. Sicuramente, però, non dovrà sborsare alcuna somma di denaro per l’acquisto dei semi. E soprattutto la sua attività non dipenderà da fattori esterni condizionanti, come la capacità e la volontà produttiva di aziende multinazionali».
In quanti, ricordano che in Costa d’Avorio la pax democratica regnava sovrana fino a quando l’Unione Europea (che ammette il formaggio senza latte e il vino senza uva) ha iniziato una incomprensibile battaglia contro il cioccolato di puro cacao, facendo dimezzare il reddito dei Paesi produttori come Costa d’Avorio, Camerun e Senegal?
Le parole di Turkson risalgono al 24 febbraio del 2010, l’Unione Europea aveva appena sdoganato gli organismi geneticamente modificati nel nostro Continente e il porporato africano sulla prima pagina dell’Osservatore Romano replicò rivolgendosi a coloro che usano la pretesa scarsità delle risorse agricole per sostenere la causa degli Ogm per tutti e senza limiti.
Il fatto va ricordato perché proprio nel suo dicastero, fino a qualche mese prima della sua nomina, durante la precedente gestione, più di qualcuno pensava di aver visto nascere un forte feeling tra ambienti vaticani e multinazionali del bio-tech. Una entente cordiale manifestatasi con alcuni convegni sponsorizzati dalle organizzazioni pro-ogm prima nei due atenei romani dei Legionari di Cristo (l’Università Europea e l’Ateneo Regina Apostolorum) e poi, nel maggio del 2009, nella sede della Pontificia Accademia delle Scienze in Vaticano.
Lo statement conclusivo del convegno di due anni fa, pubblicato in questi giorni e garantito solo dalla competenza scientifica dei firmatari (tra i quali solo 7 accademici pontifici su 80), in effetti esprimeva un sereno ottimismo sull’ingegneria genetica perché gli ogm, se usati nel modo opportuno, aiuterebbero piuttosto che ostacolarla - la biodiversità. Una tesi, abbastanza neutrale che però, ripetuta a Cuba dall’arcivescovo Marcelo Sanchez Sorondo, che per conto della Santa Sede ha seguito la settimana scorsa nell’isola caraibica i lavori del XII Incontro internazionale degli economisti sulla globalizzazione e i problemi dello sviluppo, è suonata come il certificato di battesimo per il bio-tech in salsa cattolica.
Grazie al cielo qualcuno in Vaticano si è ricordato che il Papa aveva spiegato qualche mese prima, alla Fao, che quando si dice ogm e biotech bisogna pensare all’impatto socio-politico che le scelte Occidentali in campo agroalimentare (Turkson ricorda che il nostro è un sistema socio-economico che «giustifica comportamenti irresponsabili come la distruzione di risorse alimentari per mantenere alti i prezzi di mercato») hanno sulle fragili strutture dei Paesi che, in teoria grazie agli ogm, si vorrebbe aiutare. E ha precisato che quelle che qualche cappellano delle multinazionali diffonde sono solo opinioni personali. Tanto, aggiungiamo noi, non c’è bisogno di aspettare i file di Wikileaks per immaginare da chi vengono retribuite le loro prediche. E che queste siano opinabili, risulta anche dal rapporto presentato lunedì scorso a Londra dall’IFAD (fondo internazionale per lo sviluppo dell’agricoltura), un’agenzia Onu con sede a Roma che ribadisce pazientemente alcune verità.
È l’agricoltura il “motore” dello sviluppo conosciuto nell’ultimo decennio da Paesi come il Brasile, la Cina, l’India, il Vietnam, il Paraguay. E gli esperti considerano del tutto acquisito il dato che indica come, il miglior strumento per far uscire i Paesi poveri dalle loro angustie quotidiane, sia sempre e soprattutto l’agricoltura. Questa, nel prossimo decennio, e fino al 2025, conoscerà uno sviluppo finora mai raggiunto nella storia dei popoli. Il fatto, poi, che sette su dieci tra gli affamati del mondo vivano in contesti rurali, non dipende dalle sementi ma, dai mercati e dalla politica internazionaledei prezzi.
Dove la politica ha aiutato (sottolinea il rapporto) «un nuovo approccio all’agricoltura su piccola scala... negli ultimi dieci anni almeno 350 milioni di abitanti delle zone rurali del mondo sono riusciti a uscire dal vincolo della povertà». Non è esattamente ciò che i terzomondisti di professione affiliati alle multinazionali ci raccontano, ma la realtà è questa.
Cari politici, ricordate il bene comune
di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto (Il Sole 24 Ore, 28.11.2010)
È possibile parlare ancora oggi del "bene comune" come principio ispirativo fondamentale dell’agire politico? Se si guarda agli scenari e ai protagonisti della politica italiana di questi ultimi tempi, si sarebbe tentati di dire di no. La gente comune sente distante il dibattito politico, non concentrato sui problemi reali delle famiglie: lavoro, salute, casa, giovani, scuola, sanità, anziani. Intere aree del paese aspettano dal potere centrale un’attenzione che non c’è, non solo le aree tradizionalmente segnate da problemi irrisolti, come il Mezzogiorno, ma anche quelle provate da recenti traumi, come le alluvioni in Veneto, restate ai margini dell’agenda politica.
Società liquida
C’è chi - per sostenere l’inattualità del tema "bene comune" - invoca la "società liquida" postmoderna, dove tutti hanno il proprio modo di comprendere il bene, spesso in antitesi ad altre visioni: è questo che renderebbe impossibile individuare mete condivise, per cui ci si dovrebbe accontentare di regole minime per garantire la reciproca tolleranza, rinunciando a ogni interesse per il "bene comune". C’è chi, constatando la sproporzione fra le energie spese a proporre e sostenere leggi che riguardano pochi e quelle destinate ai problemi che riguardano tutti, conclude che siamo ormai nel tempo in cui la legge del più forte ha soppiantato la forza della legge, lasciando libero campo al potente di turno perché tuteli e promuova i propri interessi, anche a scapito di quelli dei più.
La coincidenza di questa stagione politica con il 150° anniversario dell’Unità d’Italia non sembra avere gran che risvegliato la passione per il "bene comune", nonostante i pur alti e ripetuti richiami del massimo garante dell’unità nazionale, il presidente della Repubblica. Alcuni comportamenti privati di uomini politici, poi, segnati da un’impressionante decadenza etica, confermano la lontananza vistosa fra agire politico e tensione morale.
Il "bene comune" appare disatteso, irrilevante: ne deriva una diffusa sensazione di disgusto verso gli scenari della politica, che in alcuni diventa tentazione di disimpegno e di qualunquismo, in altri perfino di rivolta. Una considerazione fatta molti anni fa da Corrado Alvaro può essere utile per reagire a un simile quadro: «La tentazione più sottile che possa impadronirsi di una società è quella di pensare che vivere rettamente sia inutile».
Lo stimolo della Chiesa
Per ritrovare il senso e la passione del "vivere rettamente" mi sembra necessario tornare alla forza ispiratrice e critica del "bene comune": è questo lo stimolo che la Chiesa ha il dovere di offrire. Il Concilio Vaticano II aveva definito il "bene comune" come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività che ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (Gaudium et spes, n. 26). Il servizio del "bene comune" implica, dunque, la responsabilità e l’impegno per la realizzazione piena di tutti e di ciascuno come condizione fondamentale dell’agire politico. Questo è possibile solo se il "bene comune" non è la semplice risultante della spartizione dei beni disponibili, ma una meta che trascende ciascuno con la sua esigenza morale e proprio così ci accomuna.
Avere a cuore la promozione e la tutela della vita di tutti; servire la crescita di tutto l’uomo in ogni uomo, mettendo al centro la dignità di ogni persona umana, quale che sia la sua condizione, la sua storia, la sua provenienza e la sua cultura; obbedire alla verità, sempre: questo è impegnarsi per il "bene comune". Sarebbe però sbagliata l’idea che il “bene comune" sia definito nelle sue torme concrete una volta per tutte, senza discernere il senso che esso assume nella complessità delle situazioni storiche: «La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare» (Benedetto XVI, Deus Caritas est, n.28). L’impegno per il “bene comune è allora piuttosto uno stile di vita, un agire caratterizzato da alcune scelte di fondo, da richiedere a chi sia impegnato o voglia impegnarsi in politica, augurandoci che la riforma dell’attuale sistema elettorale torni a dare ai cittadini la facoltà di scegliere le persone di cui fidarsi. Riassumerei queste scelte in cinque indicazioni, che mi sembrano indispensabili per chi voglia servire il "bene comune".
In primo luogo, l’impegno per l’etica pubblica e la morale sociale deve essere indissociabile dall’impegno etico sul piano personale: va rifiutata la logica della maschera, che coniughi "vizi privati e pubbliche virtù". Questo comporta il riconoscimento del primato della coscienza nell’agire politico e il diritto di ciascun rappresentante del popolo all’obiezione di coscienza su questioni eticamente rilevanti, ma vuol dire anche che la credibilità del politico andrà misurata sulla sobrietà del suo stile di vita, sulla generosità e costanza nell’impegno, sulla fedeltà effettiva ai valori proclamati (ad esempio a proposito dell’istituto familiare).
In secondo luogo, nel rapporto con i cittadini il politico dovrà seguire la massima formulata così da don Lorenzo Milani e dai ragazzi della sua scuola di Barbiana: «Appartenere alla massa e possedere la parola». Il politico dovrà essere vicino alla gente, ascoltarne i problemi, farsi voce delle istanze di giustizia di chi non ha voce e sostenerle. I politici non siano al servizio del padrone di turno, ma del popolo. Nell’impegno in vista del "bene comune" i poveri, i senza parola, i socialmente deboli siano considerati come riferimenti cui è dovuto ascolto e rispetto: lo "stato sociale", l’istruzione e la tutela della salute per tutti, non sono una conquista opinabile, ma valori irrinunciabili, da tutelare e migliorare liberandoli da sprechi e assistenzialismi che non servono ai poveri.
In terzo luogo, la dialettica politica andrà sempre subordinata alla ricerca delle convergenze possibili per lavorare insieme al servizio del "bene comune": corresponsabilità, dialogo e partecipazione vanno anteposti a contrapposizioni preconcette o a logiche ispirate a interessi personali o di gruppo. Il "bene comune" va sempre preferito al proprio guadagno o a quello della propria parte politica.
Gradualità delle mete
In quarto luogo, nel servizio al "bene comune" occorrerà saper accettare la gradualità necessaria al conseguimento delle mete: la logica populista del "tutto e subito" ha spesso motivato promesse non mantenute, quando non la violenza e l’insuccesso di cause anche giuste. Occorre puntare al fine con perseveranza e rigore, senza cedere a compromessi morali e ritardi ingiustificati e senza mai ricorrere a mezzi iniqui.
Ogni scelta fatta in vista del "bene comune" non va misurata sulla sola efficacia immediata, ma soprattutto sulla sua valenza e il ruolo educativo al servizio di tutti. Così, in particolare, l’impegno per i valori fondamentali della tutela della vita umana in tutte le sue fasi, della promozione della famiglia, della giustizia per tutti, del rifiuto della guerra e della violenza in ogni forma e dell’impegno per la pace.
Infine, chi intenda operare per il "bene comune" deve considerare come scopo del suo servizio il bene di tutti, anche degli avversari politici, che perciò non vanno mai considerati come nemici o concorrenti da eliminare, ma come garanzia di confronto critico in vista del discernimento delle vie migliori per giungere alla realizzazione della dignità personale di ciascuno.
Questo insieme di regole minime si riassume in un appello ai protagonisti della politica, particolarmente urgente in questa fase di crisi: occorre un sussulto morale, che dia a tutti, specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza!
La scelta è fra una deriva egoistica e lesionista e, appunto, il "bene comune", il bene che - superando ciascun appetito individuale - libera e unisce tutti. La posta in gioco non è il guadagno di alcuni, ma il futuro che costruiremo insieme. Ci saranno politici pronti a rispondere oggi all’appello per un simile ritorno al primato del "bene comune"?
EVANGELO E AMORE DELLA PAROLA. LA CARESTIA, L’EU-CHARIS-TIA, E LA MEMORIA EVANGELICA! "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4., 1-16).
BENEDETTO XVI, FORSE, COMINCIA A RICORDARE. "Lo stile di Dio è diverso: lo sperimentiamo nella Santa Eucaristia" ("Wir erleben es in der heiligen Eucharistie").
(...) in realtà continuiamo a vivere alla maniera dei pagani; come invitiamo, per reciprocità, soltanto chi ricambierà l’invito; come doniamo solo a chi ci restituirà. Ma lo stile di Dio è diverso (...)
a cura di Federico La Sala
Benedetto XVI all’inizio della messa celebrata con i suoi ex allievi *
Lo stile di Dio significa accogliere chi non ha nulla da dare
I cristiani non possono continuare a comportarsi come i pagani; devono imparare lo stile di Dio: donare a chi non ha nulla da restituire. Lo ha ricordato Benedetto XVI domenica mattina, 29 agosto, introducendo la messa celebrata nella cappella del Centro Mariapoli, a Castel Gandolfo, alla quale hanno partecipato i suoi ex allievi riuniti nel cosiddetto Ratzinger Schülerkreis. Queste le parole del Papa.
Liebe Freunde, am Ende des heutigen Evangeliums weist uns der Herr darauf hin, wie sehr wir immer noch nach der Weise der Heiden leben; nur in der Gegenseitigkeit die einladen, die uns wieder einladen, denen geben, von denen wir wieder empfangen. Die Weise Gottes ist anders: Wir erleben es in der heiligen Eucharistie, er lädt uns zu Tisch, die wir vor ihm lahm, blind und taub sind; er lädt uns, die wir ihm nichts zu geben haben. Wir wollen uns bei diesem Geschehen vor allem von der Dankbarkeit berühren lassen, daß es Gott gibt, daß Gott so ist, wie er ist, daß er so ist, wie Jesus Christus ist, daß er uns, obwohl wir nichts zu geben haben und voller Schuld sind, an seinen Tisch lädt und mit uns zu Tische sein will. Aber wir wollen doch auch uns davon berühren lassen, Schuld zu empfinden, daß wir so wenig aus dem Heidnischen heraustreten, so wenig wirklich das Neue, die Weise Gottes leben. Und deswegen beginnen wir die heilige Messe mit der Bitte um Vergebung, um eine Vergebung die uns ändert, die uns wirklich Gott ähnlich, Gott ebenbildlich werden läßt.
Pubblichiamo qui di seguito una traduzione in italiano.
Cari amici, alla fine del Vangelo di oggi, il Signore ci fa notare come in realtà continuiamo a vivere alla maniera dei pagani; come invitiamo, per reciprocità, soltanto chi ricambierà l’invito; come doniamo solo a chi ci restituirà. Ma lo stile di Dio è diverso: lo sperimentiamo nella Santa Eucaristia. Egli invita alla sua mensa noi, che davanti a lui siamo zoppi, ciechi e sordi; egli invita noi, che non abbiamo nulla da dargli. Durante questo evento dell’Eucaristia, lasciamoci toccare soprattutto dalla gratitudine per il fatto che Dio esiste, che Egli è così com’è, che Egli è così com’è Gesù Cristo, che Egli - nonostante non abbiamo nulla da dargli e siamo pieni di colpe - ci invita alla sua mensa e vuole stare a tavola con noi. Ma vogliamo anche essere toccati dal sentire la colpa di staccarci così poco dallo stile pagano, di vivere così poco la novità, lo stile di Dio. E per questo iniziamo la Santa Messa chiedendo perdono: un perdono che ci cambi, che ci faccia diventare veramente simili a Dio, a sua immagine e somiglianza.
* ©L’Osservatore Romano - 1 settembre 2010
ASSASSINI
di don Aldo Antonelli
Siamo sotto una grandinata di bombardamenti senza sosta e senza misura e senza ritegno. Dalle prediche blasfeme di don Berlusconi alle false esecrazioni morali del Papa, passando per i comizi fascisti dell’onorevole Bagnasco.
A ruoli invertiti il puttaniere pluridivorziato fa omelie sull’amore e il papa che da cardinale per 24 anni, dal 1981 al 2005, ha visto passare sotto le sue mani tutti i casi gravi di devianza sessuale commessi da sacerdoti senza che movesse un dito. E’ sua la lettera solenne del maggio 2001 (Epistula de delictis gravioribus) che poneva sotto segreto pontificio tali delitti.
Il Falso per antonomasia e il falsificatore di professione fonda il Movimento dei Missionari della Verità e il cardinale chiude gli occhi e allunga la mano per benedire. Anzi allunga tutte e due le mani: una per prendere e l’altra per benedire.
Da ladri professionisti ben si intendono: ambedue ladri di cosciena e di buona fede. Ladri di libertà e di dignità.
C’è un tribunale internazionale cui deferirli?
L’uno con il suo sorriso a gremagliera e l’altro con il pastorale a mò di scimitarra!
Il primo che rifonda il Fascismo del nuovo millennio e il secondo che riscrive il Sillabo in lingua moderna.
Ambedue ladri e ambedue assassini: uccisori di democrazia e affossatori del Concilio.
Disobbedir loro è ormai un dovere morale, urgente e improcrastinabile.
Aldo Antonelli parroco
Un malessere antico e lo smarrimento del mondo cattolico
di Alberto Melloni (Corriere della Sera,10 febbraio 2010)
C’è un senso molto profondo di sofferto smarrimento che percorre oggi le comunità cattoliche e che merita di essere ascoltato con attenzione. Infatti dall’agguato teso all’ex direttore di Avvenire a fine estate, è stato tutto uno stillicidio di voci, moralismi, pettegolezzi, malignità, nessuno dei quali è nato per partenogenesi.
L’uscita di scena di Dino Boffo è stata accompagnata da solidarietà di rito e da rivincite maramalde che non sono rimaste senza replica. Subito è incominciato l’indovinaindovinello di Vittorio Feltri, nel quale sono entrati tutti coloro che hanno cercato di vincere non si sa quale premio rispondendo al quesito: «Chi ha passato le informazioni usate da Il Giornale? ». E in questa caccia al tesoro ecco nuove raffiche di colpi bassi, ostentazioni, dinieghi, veti, pallottole vaganti. Insomma un reality al veleno, una mala educación che disgusta i capannelli delle mamme fuori dal catechismo e annoia le anime sante.
Le ricostruzioni che si sono cimentate con i retroscena di questo disastro sono state spesso manovre in conto terzi o rifrittura di invenzioni sussurrate a mezza bocca. E hanno solo aumentato uno sconcerto nel quale tutte le voci della Chiesa hanno perso il ritmo comunicativo, finendo vittime del loro silenzio o delle loro parole.
Una condizione particolarmente sconcertante per il cattolicesimo italiano nella sua interezza. Questa comunità che aveva dato alla Chiesa tanto è oggi in uno stato di confusione. Forse perfino pronta a credere che la sua autorevolezza coincida col destino del regolamento sugli arredi scolastici e certo rassegnata quando si sente dire che l’esclusione dei candidati italiani negli ultimi due conclavi appare un segno della Provvidenza, piuttosto che la cifra di una mutata esperienza di cattolicità. Ma anche, più in generale, la Roma che è centro del cattolicesimo appare frastornata: gli episodi sono meno gravi, ma ugualmente sorprendenti.
La causa di beatificazione di Wojtyla è stata aperta in modo straordinario e chiusa in tempi record: ma non farà piacere ai testimoni- i quali, è bene ricordarlo, in un processo canonico hanno il diritto/dovere di dire ogni cosa, anche la più negativa o indimostrata per fornire alla causa ogni elemento di giudizio - vedere pubblicate le loro parole dal postulatore che del riserbo doveva essere il custode.
La questione della chiesa cinese è complessa e di difficile decifrazione: ma è sorprendente - ne parla Gianni Valente nell’ultimo numero di 30giorni - che qualche pezzo di mondo ecclesiastico con addentellati in curia e nel web chiami «traditore» un vescovo cinese con alle spalle dieci anni di galera e riconosciuto dal Papa, solo perché il suo modo di leggere la recente lettera del Papa a quella Chiesa non coincide con le proprie idee.
La girandola delle voci sulle importantissime nomine attese in curia non è certo inusuale e va presa con le molle: ma il fatto che si possa trattare il trasferimento da diocesi lontane come fosse una promozione, dà il senso di uno sfaldamento della comunicazione. Che non è un fatto tecnico, ma di pienezza del cuore.
Sia chiaro: il problema non è lo scandalo o la divisione in astratto di cui tanto si parla. Nessuno più della Chiesa romana ha una visione realistica della propria «corporeità»: la fragile moralità degli uomini, il dissidio politico, la lotta fra gruppi di potere che s’acuisce spietata con l’avanzare negli anni dei papi - per lei tutto è déjà vu. Non uno spiritualista inesperto, ma Domenico Tardini, faro dei diplomatici vaticani del secolo XX, commentava nel suo diario i complimenti che gli vennero fatti nel 1939, nel decennale della conciliazione, in una curia che si attrezzava a un difficile conclave, con la sua usuale crudezza: scriveva che «a chi la guarda da fuori la Santa Sede sembra un albero frondoso, ma chi la conosce sa che le sue radici sono piene di vermi».
Non uno qualsiasi, ma Indro Montanelli pubblicò sul Corriere del 1962 tre articoli per accusare papa Giovanni, ormai tumorato, di essere stato nella sua gioventù un simpatizzante modernista, sfuggito per un pelo alle condanne che avrebbero fatto di lui uno scomunicatello qualsiasi: fece queste uscite sulla base di soffiate venute niente meno che dal capo del Sant’Ufficio e solo la lunga vita che gli fu data permise al patriarca del giornalismo italiano di fare ammenda di quell’ingenuo avvitarsi nelle spire del pre-conclave.
Ciò che rese quelle vicende sopportabili non fu il fatto che avessero un peso «minore» (anzi), ma che si inserissero in quel dinamismo di Chiesa che rende il vangelo eloquente dentro il tempo e dentro la storia. Certo: la comunicazione di questa società fatalmente amplifica i rumori, specie quelli sordidi; la spavalderia del mai sopito semipelagianesimo italico ha peggiorato le cose; un pizzico di irresponsabilità generalizzata ha condito il tutto.
Ma il fondo di sconcerto viene dalla mancanza di un confronto sul vangelo: anzi, di un confronto su Dio, diceva don Pino Ruggieri in una appassionata relazione tenuta sabato a Firenze al gruppo «Il vangelo che abbiamo ricevuto».
La Chiesa italiana ha attraversato una lunga stagione nella quale tali dialettiche sul vangelo sono state compresse nella ricerca di un unanimismo politicamente utile. Nella Chiesa universale ha prevalso l’idea che l’identità di vedute con le posizioni morali del magistero fosse l’unico crisma di ortodossia. Mentre la santa emulazione sui grandi nodi della disciplina cristiana - la disciplina spirituale, la disciplina orante, la disciplina del dialogo e della mitezza - è rimasta in sordina come fosse un pezzo di antiquariato conciliare buono per i ricordi.
Si riduce il lavoro delle suore Crocifisse dell’Eucarestia, tra le principali produttrici del corpo di Cristo
Ostie in crollo
Cala il mercato delle ostie. Complice la fuga dei fedeli dalle chiese, la vendita delle particole ha subito una battuta d’arresto in tutto il Paese.
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa/Oltretevere, 5/11/2009)
Crolla il mercato delle ostie. Complice la fuga dei fedeli dalle chiese, la vendita delle particole ha subito una battuta d’arresto in tutto il Paese. Dati alla mano, Raniero Mancinelli, sarto capitolino dei papi che rifornisce del pane di Dio la stragrande maggioranza delle parrocchie, non solo romane, regista un «calo delle vendite pari al 15%. Sono finiti i tempi in cui le particole andavano via come il pane - afferma -. Se, infatti, per il Giubileo e negli anni a seguire mi rifornivo ogni settimana, ora gli acquisti sono limitati nel tempo». Spesso nel negozio di Borgo Pio resta pure il deposito.Si riduce, dunque, il lavoro delle suore Crocifisse dell’Eucarestia, tra le principali produttrici del corpo di Cristo.
«Il crollo del mercato delle ostie - spiega le cause Mancinelli -non è dovuto all’aumento dei prezzi. Una fornitura di mille particole fatte con un semplice impasto di farina, infatti, ha un costo di 7 euro. Il fatto è che c’è un fuggi fuggi generale dei fedeli. Basta entrare in chiesa la domenica per rendersene conto». Un calo del mercato delle ostie che si registra più al nord e al centro Italia, stando anche alla testimonianza di padre Giuseppe Lombardo, sacerdote della parrocchia di San Pietro al Carmine a Siracusa. «Per quel che mi riguarda, i miei fedeli sono rimasti abbastanza stabili sia nella frequenza della Santa Messa che nei sacramenti ma la mia, riconosco, è una parrocchia atipica. In effetti - afferma il prete siciliano - è soprattutto nelle grandi città che si registra l’allontanamento dei fedeli dalla messa».
Per non parlare delle confessioni. «Sempre meno gente - dice il sacerdote - è disposta a raccontare i propri peccati al prete. Insomma, ci si allontana dal sacramento e anche questo contribuisce al crollo del mercato della particola». Lontani i tempi in cui, nel bel mezzo della comunione, poteva capitare che il prete si ritrovasse senza ostie consacrate. Capitò nel 1993, durante la messa che precedette i lavori della Dc. Al rito parteciparono così tanti esponenti della Balena bianca al punto che il corpo di Cristo non bastò per tutti.
FAME E AFFARI. Riflessioni
di don ALDO ANTONELLI
Sul giornale La Repubblica leggo la vignetta di Ellekappa:
Lei: “I grandi del mondo discutono di fame”.
Lui: “Come azionisti di un immenso Business”!
E’ penosa questa sfilata di big che succhiano sangue e fanno i donatori: vampiri tesserati dell’Avis! Predatori che si auto riciclano come benefattori!
La situazione è drammatica
La situazione è drammatica. Ogni cinque secondi muore un bambino di meno di 10 anni per fame, e la situazione si sta aggravando. Circa 850 milioni di esseri umani non hanno nulla da mangiare. Il Pam [Programma alimentare mondiale] delle Nazioni unite stima che, a partire dalla crisi attuale, ci saranno altre 100 milioni di persone ridotte alla fame. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’agricoltura e l’alimentazione [la Fao], è esplosa una crisi alimentare in 37 paesi. Nel 2008 le nazioni più povere pagheranno il 65 per cento in più per le loro importazioni di cereali; in alcune nazioni africane l’incremento sarà del 74 per cento. Jean Ziegler, relatore speciale dell’Onu per il Diritto al cibo, sostiene: «Questo è un assassinio di massa silenzioso».
La scalata inflazionaria
Ad aggravare il quadro della situazione c’è da rilevare una scalata inflazionaria che tocca molti prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. In Messico il litro di olio è salito da 6,73 pesos nel gennaio del 2006 a 36,50 nell’aprile del 2008, mentre il pane in cassetta è passato da 13,21 pesos nel gennaio del 2006 a 24 nell’aprile di quest’anno. In quasi tutto il mondo sono aumentati i latticini, le carni, le uova, i vegetali e la frutta. Amara ironia, nel corso del 2007 la produzione mondiale di granaglie è aumentata del 4 per cento sul 2006. La raccolta è stata di 2 miliardi e 300 milioni di tonnellate, un volume tre volte maggiore di quello del 1961. Eppure, in questo stesso periodo la popolazione umana è raddoppiata. Il problema della fame non è quindi la scarsezza di cibo ma il fatto che milioni di esseri umani non possono comprarlo. Al contrario di quel che dicono le leggi del mercato, secondo cui se la produzione aumenta i prezzi diminuiscono, il costo degli alimenti è salito.
Il grande affare
Parte del problema risiede nella crescente concentrazione monopolistica dell’industria agro-alimentare mondiale. La fame di molti è l’abbondanza per pochi. In momenti di avversità come la crisi attuale, un piccolo numero di imprese hanno visto crescere i suoi profitti in modo esorbitante. E’ il caso delle compagnie che fabbricano fertilizzanti. Nel 2007 Potato Corp ha incrementato i suoi guadagni del 72 per cento in confronto al 2006. Yara ha avuto un aumento dell’utile del 44 per cento. I profitti di Sinochem sono cresciuti del 95 per cento e quelli di Mosaic del 141. Vale anche per i grandi commercializzatori di grani. Nei primi tre mesi del 2008 Cargill ha ottenuto guadagni dell’86 per cento maggiori che durante lo stesso periodo dell’anno precedente.
Nel 2007 Adm ha avuto profitti superiori del 67 per cento in più sul 2006, Conagra del 30 per cento, Bunge del 49 e Noble Group del 92. La stessa fortuna conoscono le multinazionali trasformatrici di alimenti come Nestlé e Unilever, e le imprese che si dedicano alla produzione di sementi e di agro-chimica, come Dupont, Monsanto e Sygenta.
Perché?
Perché allora, se il volume del raccolto di granaglie nel 2007 ha raggiunto un record mondiale, i prezzi degli alimenti aumentano a questa maniera? Sostanzialmente, per il combinarsi di cinque fattori, nel quadro della crisi generale di un modello di produzione agricolo e dell’allevamento. Questi fattori sono:
1. L’utilizzazione di grani basici per produrre agrocombustibili;
2. L’aumento del prezzo degli investimenti;
3. Gli effetti del riscaldamento globale sull’agricoltura;
4. I cambiamenti nel modello del consumo alimentare;
5. La speculazione in borsa.
Tutto questo fa parte della crisi del modello agricolo industriale su grande scala, che è altamente dipendente dal petrolio, basato sulla logica dei vantaggi comparativi e del libero commercio: il modello oggi dominante.
In parallelo con l’aumento del prezzo del petrolio, nel mondo si è intensificata la produzione di agro combustibili...
La crescita della domanda mondiale di agrocombustibili ha ridotto la produzione di granaglie, riconvertito le coltivazioni di ampie superfici agricole e fatto esplodere i prezzi. La popolazione mondiale consuma direttamente meno della metà delle granaglie che si raccolgono. Il resto serve a nutrire il bestiame e i veicoli a motore.
Il Petrolio
L’incremento del prezzo del petrolio ha fatto salire i costi della produzione agricola. Il modello prevalente è drogato di petrolio. Non si può seminare senza combustibili fossili. I fertilizzanti e parte della chimica agricola utilizzati nei raccolti sono fatti con il petrolio. Le macchine e i veicoli per seminare, raccogliere, lavorare e trasportare hanno bisogno di combustibili e di oli derivati dal petrolio. Parte dell’energia elettrica richiesta per estrarre l’acqua e irrigare i seminati si produce con i derivati del petrolio. I teli di plastica che coprono le serre e le pompe per irrigare i campi sono fabbricati con materie prime provenienti dal petrolio. I materiali per inscatolare e trasportare fino ai mercati richiedono derivati del petrolio. E tutti questi prodotti costano di più, adesso...; anche il 70% in più nel confronto del 2003!
Il mercato agricolo si è finanziarizzato. Il cibo fa parte del casinò della speculazione finanziaria. Messi di fronte alla crisi dei mutui, alla debolezza del dollaro e alla recessione negli Stati uniti, i fondi di investimento si sono gettati sul lucroso affare della fame. Il cibo si è trasformato - molto più di quanto già non fosse - in un bene speculativo. Nel 2007 questi fondi hanno investito 175 miliardi di dollari nel mercato dei “futures” (contratti che obbligano a comprare o vendere una merce a un prezzo o in una data predeterminati).
Il cibo è uno strumento di pressione imperiale. John Block, ministro dell’agricoltura tra il 1981 e il 1985, ha affermato: «Lo sforzo di alcuni paesi in via di sviluppo di essere autosufficienti nella produzione alimentare deve diventare un ricordo di epoche passate. Questi paesi potrebbero risparmiare denaro importando alimenti dagli Stati uniti»....
Queste riflessioni le prendo da un ottimo articolo pubblicato su “Carta” n. 20 del 30 Maggio....
Aldo [don Antonelli]
COSI’ L’OCCIDENTE PRODUCE LA FAME NEL MONDO
di LUCIANO GALLINO ("la Repubblica" del 10 maggio 2008)
Tempo fa l’allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la meta’ del mondo guarda in tv l’altra meta’ che muore di fame, la civilta’ e’ giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata e’ cosi’ diventata ancor piu’ realistica. Con una precisazione: la nostra meta’ del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.
Sebbene varie cause contingenti - i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano piu’ carne, i milioni di ettari destinati non all’alimentazione bensi’ agli agrocarburanti, ecc. - l’abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non e’ affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare - mercati - consumo. Si puo’ anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.
L’intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni ’80, e’ consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversita’, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto piu’ elevato di persone. Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttivita’ delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche.
Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra. Dall’India all’America Latina, dall’Africa all’Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttivita’ per ettaro e’ aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l’unica non americana del gruppo. Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta. Oppure si uccidono perche’ non riescono piu’ a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti - alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine - dalle corporation dell’agro-business. Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.
E’ noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera - diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. - servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l’imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l’Organizzazione mondiale per il commercio.
Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l’Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell’Africa, dei prodotti locali. Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.
Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle universita’ e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son piu’ bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converra’ ad ambedue acquistare dall’altro Paese il prodotto che quello fa meglio. Ma l’onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un’unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunita’ locale.
Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto e’ seguito per vie naturali. Le grandi societa’ dell’agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall’idea d’un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantita’ delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.
Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perche’ anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, e’ aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non e’ infatti dovuta alla scarsita’ di cibo; esso non e’ mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. E’ un problema di accesso al cibo, in altre parole di poverta’, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.
Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent’anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l’hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.
Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare. Puo’ spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all’ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell’immondizia. Oppure puo’ decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell’agrindustria, come consigliano sul web dozzine di societa’ di consulenza finanziaria. Un investimento promettente, assicurano, perche’ i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine puo’ scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.
Capitalismo
di Giovanni Sarubbi *
Non guardo la tv. Troppa pubblicità. Qualsiasi trasmissione, anche la più interessante, si perde in un mare di idiozie che stravolgono tutto, lasciandoti solo insoddisfazione e pessimismo sulla vita e sul proprio futuro.
Ma ieri sera, su segnalazione di una lettrice del nostro sito, ho visto, da internet, la trasmissione Report di Rai tre di domenica 25 maggio scorso. (Clicca qui per vedere la trasmissione). La consigliamo a tutti i nostri lettori. E’ senza pubblicità. Si parla di Congo, di tutto ciò che in quel paese africano viene fatto per succhiarne le risorse minerarie ed energetiche, della guerra fra il capitalismo occidentale, USA ed Inghilterra, ed il capitalismo di stato della Cina. Il tutto ai danni del popolo congolese, costretto a “vivere” come peggio non si potrebbe. La parola “vivere” in quelle condizioni diventa ovviamente un eufemismo, perché quella non è vita.
In Congo viene prodotto un materiale che è fondamentale per tutto ciò che nella nostra società occidentale è di uso comune: dalla lavatrice, al PC, alle radio, a tutto ciò che contiene componenti elettroniche che oggi sono dappertutto. Si tratta del tantalio, estratto dalle miniere situate a 80 chilometri da un posto chiamato Walikale in Congo. Ottanta chilometri che ventimila congolesi fanno a piedi ogni giorno con una carico di 50kg di minerale sulla testa e che gli viene pagato 25 dollari. Ed uno di questi “minatori” intervistato dice che si tratta di una grossa cifra. Non sa che il suo carico verrà venduto a 25 dollari per chilo e che a lui quindi vanno solo le briciole. E deve camminare due giorni interi. E le miniere dove viene estratto il materiale sono una bolgia infernale dove la vita non vale nulla, dove si muore per un nonnulla, dove non esiste alcuna sicurezza e si può essere risucchiati nelle viscere della terra in ogni momento.
Ogni apparato elettronico che noi allegramente compriamo e altrettanto allegramente buttiamo quando non ci piace più, è pieno del sangue dei congolesi che per il tantalio o coltan come viene chiamato li, muoiono anche per la guerra che attorno ad esso esiste. E muoiono a milioni per i profitti di poche, pochissime società americane o inglesi e ora anche cinesi. Ed il commercio di questo materiale viene fatto in modo illegale. Ed un sindacalista intervistato dice: “ Noi Congolesi vogliamo che arrivino i Cinesi. Perché? Perché sono meno esigenti degli Americani. Là dove un cinese guadagnerà dieci volte l’americano vorrà guadagnarci 100 volte di più”. Costretti a scegliere per impiccarsi fra corda di seta e corda di canapa.
E poi c’è lo sfruttamento del petrolio, del legname e dell’immensa risorsa idrica che è il fiume Congo con cui viene prodotta una quantità enorme di energia elettrica di cui nessun congolese ha mai usufruito. E si preparano a costruire una nuova mega diga più grande della più grande mai costruita e che porterà l’energia in Europa, anche nella nostra Italia. E in Congo non resterà nulla.
Questo è il capitalismo. Questo è l’attuale fase di sviluppo di questo sistema sociale che oggi come un secolo fa ai tempi della prima guerra mondiale, basa la sua esistenza sulla ingordigia, sulla rapina delle risorse naturali dei popoli africani, asiatici o sudamericani. Un sistema sociale dove l’unica morale esistente è il “mors tua vita mea” (la tua morte è la mia vita), la rapina a mano armata, l’appropriazione indebita aggravata, il furto e la morte di milioni e milioni di persone considerate esseri inferiori, al di sotto persino degli schiavi. E milioni sono bambini, che lavorano nelle miniere e che gozzoviglierebbero volentieri con tutto il cibo che noi buttiamo allegramente fra la spazzatura.
Ed il tutto, questa la denuncia forse più forte della trasmissione Report, con la complicità dell’ONU che spende decine e decine di milioni di dollari per mantenere in Congo, ma in tutta l’Africa, decine di migliaia di funzionari che vivono come nababbi. Coinvolte anche decine e decine di ONG. E l’ONU viene usato come paravento per la guerra. E dove c’è guerra ci sono i mercanti di armi.
Il capitalismo, oggi come un secolo fa, riproduce se stesso con la guerra, con la violenza elevata a sistema, proseguendo la tradizione di tutti i sistemi sociali imperiali che lo hanno preceduto. E straccia senza pensarci su due volte i trattati, le leggi internazionali, gli statuti dell’ONU o di qualsiasi organismo preposto al bene comune. Come un cancro che distrugge qualsiasi organo fino alla morte. Il capitalismo è uguale alla morte.
Di questa situazione siamo tutti responsabili. Dell’omicidio di milioni di bambini ogni anno, della fame e della miseria di un paio di miliardi di esseri umani, della distruzione di immense risorse naturali, della perpetuazione di un sistema sociale disumano e mortifero.
Eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo si può. Fermare l’ingordigia è possibile. Dipende da ognuno. Basta rispondere NO ad una semplice domanda: vuoi tu essere responsabile della morte per fame, malattie, guerra, incidenti sul lavoro di milioni e milioni di esseri umani soprattutto bambini? Vuoi tu essere responsabile della distruzione dell’ambiente?
E dopo aver detto questo no bisogna poi trasformarlo in azioni concrete, in comportamenti politici e sociali precisi, in una scelta di campo inequivocabile, dalla parte degli ultimi, degli impoveriti, degli schiavi.
L’ultimo saggio del sociologo svizzero sui rapporti tra i paesi ricchi e il resto del mondo
Ziegler: "Ecco come nasce l’odio per l’occidente"
"Spero che le cose possano cambiare e migliorare: c’è più coscienza da parte di tutti"
di Giampaolo Cadalanu (la Repubblica, 01.02.2010)
Per capire l’odio non servono il linguaggio castigato, la prudenza, gli occhiali rosa. Danno un’idea del mondo che è una bugia, comoda solo a nascondere i privilegi. Jean Ziegler non ha bisogno di essere diplomatico. Non lo è stato in passato, come sociologo appassionato di Africa, come parlamentare critico verso la sua Svizzera, come docente e saggista. Non lo è stato fino al 2008, da relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo. Adesso è consigliere del Comitato Onu per i diritti umani e a 75 anni ha meno voglia che mai di moderare il suo sdegno. È un manifesto dell’indignazione il suo ultimo libro, "L’odio per l’Occidente", che in questi giorni va in libreria per l’editore Tropea. Toni forti in tempi di passioni avvizzite: «Bisogna tornare a Jean-Paul Sartre, quando diceva che per amare l’uomo bisogna odiare ciò che lo opprime. E non "chi", ma "ciò" che lo opprime». La ricetta di Ziegler è quella di voler capire a tutti i costi, per gridare la nudità non più dell’imperatore, ma dell’impero stesso.
Professor Ziegler, dove nasce l’odio per l’Occidente?
«Ci sono due tipi di odio, che vanno distinti. Il primo è l’odio patologico, quello di Al Qaeda, che porta al terrorismo. Si tratta, appunto, di una forma patologica da condannare senza scuse. E di quest’odio nel libro non mi occupo. C’è però un altro tipo di odio, che io chiamo ragionato, basato sulla rinascita di un’identità collettiva e sulla resistenza all’ordine capitalistico».
L’odio patologico si esprime con atti di terrorismo, con l’aggressione all’Occidente. Che cosa produce invece questo odio ragionato?
«Produce nazioni capaci di negoziare con l’Occidente. Da qui nasce per esempio l’elezione di un indio come Evo Morales alla presidenza della Bolivia. Quello che era il secondo paese più povero dell’America latina ora sta rinascendo, dopo che nei primi mesi di carica Morales aveva espropriato oltre duecento proprietà».
Ma quali sono le radici di questo sentimento?
«Tre sono le ragioni fondamentali. La prima è molto misteriosa: il recupero della memoria ferita, che affiora e diventa coscienza politica. È successo per esempio al primo vertice di Durban sul razzismo: all’improvviso i paesi del Sud e l’Africa hanno chiesto scuse e riparazioni. Prenda la vicenda di Haiti: quando gli schiavi si ribellarono, la Francia mandò l’esercito, che fu battuto. Allora Napoleone ordinò il blocco navale dell’isola e costrinse il paese a pagare 150 milioni di franchi d’oro, una somma enorme, agli ex proprietari degli schiavi. E Haiti pagò fino al 1883, fino all’ultimo centesimo. Nel settembre del 2001, a Durban, l’allora presidente di Haiti Aristide chiese la restituzione di quel denaro, che Parigi rifiutò. E poco tempo dopo Aristide fu rovesciato da un colpo di Stato con l’aiuto dei servizi segreti francesi».
Insomma, il passato diventa coscienza politica.
«Ha ragione Régis Debray a dire che oggi più che mai la memoria è rivoluzionaria».
Come reagisce l’Occidente a questa nuova coscienza?
«In maniera cieca e arrogante. Prendiamo Nicolas Sarkozy, che nel 2007 è andato a Dakar a dire che il colonialismo aveva parecchio di buono, ma l’Africa non ne ha approfittato. Ad Algeri ha causato una crisi dicendo "no" a Bouteflika che voleva le scuse per Setif, il massacro di manifestanti pacifici compiuto nel maggio 1945 dalla legione straniera».
La seconda ragione?
«È la doppiezza dell’Occidente in tema di diritti umani. Guardiamo al massacro iniziato il 28 dicembre 2008 da Israele a Gaza, con oltre 1200 persone uccise. Il 12 gennaio il consiglio dell’Onu per i diritti umani ha chiesto di fermare la strage e allo stesso tempo ha condannato il lancio di razzi da parte di Hamas. Ma gli occidentali non hanno voluto firmare. I diplomatici europei hanno esibito un’ipocrisia totale: due mesi dopo hanno chiesto una sessione speciale del consiglio per il Darfur, dove ci sono 2,2 milioni di sfollati. Gli africani si sono rifiutati».
Che effetto ha questo sugli organismi internazionali?
«Questa doppiezza paralizza l’Onu, allo stesso modo della memoria ferita. È una tragedia per la comunità internazionale».
Infine, qual è la terza ragione?
«È la dittatura mondiale del capitale finanziario, con cinquecento grandi società che controllano il 52 per cento del Prodotto interno lordo del pianeta. Nessuno mai - re, imperatori o papa - aveva accumulato un potere come quello dell’oligarchia bianca che fa profitti immensi, mentre ogni cinque secondi un bambino sotto i dieci anni muore di denutrizione nei paesi poveri. Secondo i dati Fao, muoiono 47 mila persone al giorno, e in totale gli affamati sono più di un miliardo. Eppure la stessa agenzia dell’Onu stima che l’agricoltura mondiale possa sfamare dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione globale».
Quindi la fame non è un problema di scarsità di risorse?
«No, assolutamente. Non c’è nessuna fatalità: ogni bambino che muore per fame è un bambino assassinato. Ucciso dall’assurdità dell’ordine mondiale cannibalistico di oggi».
Intendeva dire: capitalistico?
«No, cannibalistico. In fondo è la stessa cosa».
Lei non ha speranze per un mondo più giusto?
«La speranza c’è, perché mentre in Occidente cresce la coscienza della società civile, le nazioni del Sud stanno riscoprendo la loro identità, anche nei paesi islamici ci sono spinte per l’autocoscienza. I vecchi trucchi del colonialismo non funzionano più: i paesi poveri vogliono riparazioni. È la seconda indipendenza, la prima era superficiale».