Studiare? Non basta il dovere
si deve accendere una stella
di GIUSEPPE SAVAGNONE (Avvenire, 12.03.3008)
Il dato ha impressionato tutti: alla fine del primo quadrimestre, sette studenti su dieci hanno almeno una insufficienza in una materia. Almeno, perché se si guarda il numero complessivo delle insufficienze, la media è di quattro per ogni studente.
Numeri che fanno rabbrividire e che danno il quadro di una scuola in seria difficoltà. In realtà, non si tratta di una situazione peggiore che negli anni passati: la differenza è che, mentre prima si faceva meno attenzione a queste carenze e neppure ci si curava di monitorarle, ora che devono assolutamente essere recuperate per passare all’anno successivo si guarda ad esse con assai maggiore preoccupazione. Anche perché, in linea di principio, le scuole dovrebbero essere in grado di avviare corsi di recupero per aiutare i ragazzi che hanno problemi e, con le cifre sopra indicate, è chiaro che la spesa da sostenere per finanziarli appare di gran lunga superiore alle risorse messe a disposizione dal ministero.
Forse proprio questa impotenza a fronteggiare gli effetti dovrebbe incoraggiare una più attenta riflessione sulle cause. Prevenire, da sempre, è una stratega migliore del semplice curare. Senza minimamente svalutare gli sforzi fatti dal ministro Fioroni per superare, con un maggiore rigore, il paradosso di una scuola che fino a ieri non si curava di far colmare i debiti formativi, bisogna anche chiedersi come evitare che questi debiti vengano contratti. In altri termini, individuare le ragioni che portano tanti ragazzi a studiare poco e male.
Qualcuno dirà che la poca voglia di lavorare, a scuola, non è una novità. Certamente, bisogna considerare, come causa concomitante, un margine di ’fisiologica’ pigrizia dello studente di tutti i tempi, a cui anche quelli di oggi non sfuggono. Ma è una risposta inadeguata. Più vicina alla realtà è la considerazione che la nostra scuola non riesce, troppo spesso, a intercettare i reali interessi dei ragazzi. Meglio: non riesce a suscitare in essi degli interessi di cui, potenzialmente, sarebbero capaci.
Non si può studiare solo per senso del dovere. Deve accendersi una stella che affascini e attragga lo studente, rendendogli accettabili gli inevitabili sacrifici che un lavoro serio e assiduo comporta. Questa stella non può brillare se si resta solo ai libri. Il libro deve essere considerato, a scuola, per quello che è: non un oggetto di studio in se stesso, ma una finestra sulla realtà. Le finestre ci sono per non essere guardate. Sono dei buchi in un muro, attraverso cui si deve poter vedere il mondo. Chi fermasse lo sguardo sul vano aperto, sui vetri, sugli infissi, senza percepire che ci sono fuori alberi, nuvole, montagne, finirebbe per annoiarsi.
È quello che capita ai ragazzi con i libri. Non spingono, spesso, la loro mente e il loro cuore oltre le pagine e i paragrafi da imparare. Non si rendono conto che quelle pagine parlano della vita e mirano a rendere più ampio e più profondo il loro rapporto con essa. Perciò i nostri studenti si annoiano. Perciò studiano svogliatamente. Perciò - e di questo si parla poco, ma è la cosa più grave - questo studio non li educa a crescere come persone e non costituisce poi, al di fuori degli impegni scolastici, una risorsa per affrontare bene i loro problemi esistenziali.
In questa triste oscillazione tra una cultura senza vita e una vita senza cultura sta probabilmente la radice anche degli insuccessi scolastici. Ma a questo non possono far fronte i ministri. E neppure si può pretendere che gli alunni risolvano da sé il problema. È decisivo il compito degli insegnanti.
La vera partita si gioca in classe, nel modo in cui il docente imposta la lezione, nel modo in cui stabilisce un dialogo con gli studenti e riesce a coinvolgerli, facendo risaltare ai loro occhi il rapporto tra la propria disciplina e la vita reale. Se non succede questo, resta solo, poi, il triste compito di avviare dei corsi di recupero che sono certo meglio di niente, ma in cui difficilmente si accenderà la stella che durante l’anno nessuno era stato capace di far scoprire.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AL DI LA’ DELLA TRINITA’"EDIPICA" - E DELLA TERRA E DEL SANGUE!!!
I soggetti sono due, e tutto e’ da ripensare...
L’ANTROPOLOGIA E’ ANTROPOLOGIA...
RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE ...
UOMINI E DONNE... SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI
LA CAPORETTO DELLA SCUOLA
Italia, il Paese degli asini
Alle superiori 7 studenti su 10 hanno insufficienze
di RAFFAELLO MASCI (La Stampa, 11/3/2008)
ROMA. Siamo alla Caporetto della scuola italiana. Due milioni di studenti delle superiori, passati al vaglio degli scrutini di febbraio, hanno totalizzato 8 milioni di debiti formativi. Detta in maniera più rozza ma più comprensibile: se l’anno scolastico si chiudesse ora, sette studenti su dieci verrebbero rimandati in quattro materie. Le bestie nere sono la matematica e le lingue straniere.
La situazione è preoccupante, ma si sa che il ministro della pubblica Istruzione Beppe Fioroni ha preferito guardare la realtà in faccia piuttosto che fare finta di niente (come si è fatto per decenni) e tirare a campare. E la realtà - già brutalmente fotografata dall’indagine Pisa-Ocse del 2004 e poi del 2007 - dice che gli studenti italiani hanno lacune pesantissime e protratte nel tempo, in matematica, italiano e scienze. Il ministro ha voluto indagare in questo grande mare del degrado scolastico e ha scoperto che il 42% degli studenti veniva promosso all’anno successivo portandosi dietro almeno un debito formativo da dover - del tutto teoricamente - recuperare. Nella realtà, però - è sempre il ministero a dirlo - venivano recuperati solo un quarto dei debiti. Gli altri passavano in cavalleria: negli ultimi vent’anni sono stati diplomati 8 milioni di studenti sulla cui preparazione è lecito nutrire qualche dubbio.
Dall’ottobre scorso però, quest’andazzo è cambiato, o almeno ha assunto un altro tipo di marcia. Con un decreto (numero 80 del 3 ottobre 2007) il ministro ha stabilito che i debiti formativi devono essere sanati prima degli scrutini di giugno o, al più, nel corso dell’estate successiva, entro il 31 agosto. Di conseguenza le scuole devono fare un primo bilancio delle lacune accumulate già in occasione dello scrutinio del primo quadrimestre (febbraio di ogni anno) e attivare, di conseguenza, corsi di recupero a seconda delle esigenze.
A febbraio scorso, dunque, le scuole superiori hanno fatto il primo «tagliando» ai loro allievi e l’ufficio studi del ministero ha chiesto i dati a campione al 70% di queste scuole (pari a circa 2 milioni di allievi complessivamente), traendone il quadro impietoso di cui si diceva. Due milioni di studenti (il 70% dei 2 milioni e 700 mila studenti delle superiori) hanno accumulato 8 milioni di debiti, in media 4 l’uno. Ma se questa è la media, vuol dire che qualcuno ha una sola lacuna e qualche altro ne ha sette. La situazione è particolarmente grave negli istituti professionali, in cui l’80% degli allievi risulta gravemente insufficiente. E’ come se in una classe di 24 alunni solo 7 potessero essere promossi a pieno titolo (e appena 5 negli istituti professionali).
Inutile ribadire che la materia in cui i ragazzi italiani vanno peggio è la matematica, che da sola raccoglie il 62,4% delle insufficienze, seguita a breve distanza dalle lingue straniere (62,2%). Nelle altre discipline scientifiche (biologia, chimica, fisica eccetera) siamo comunque su una media del 42,9%. Ed è appena il caso di ricordare che il 47,4% (quasi la metà) dei ragazzi italiani tra i 15 e i 19 anni non conosce l’italiano: non lo sa scrivere e non lo capisce se lo legge. Un dramma.
Che la diagnosi fosse all’incirca questa si sapeva ed era prevedibile. Il problema ora sarà quello di sanare queste carenze entro agosto prossimo e, per le quinte classi (dove i debiti pregressi riguardano il 65% dei maturandi) entro giugno, cioè prima degli esami di Stato (pena la non ammissione). «I dati del primo quadrimestre - ha commentato il ministro Fioroni - dimostrano quale lavoro straordinario la scuola debba mettere in atto perché entro giugno si recuperino il più possibile queste insufficienze. Sono numeri che, oltre a far chiarezza, illustrano anche lo sforzo che alunni e docenti saranno chiamati a fare nei prossimi mesi in quanto, a fine anno, di solito le insufficienze si dimezzano. E’ del tutto evidente comunque che ci troviamo di fronte ad un problema serio ed è questo il motivo per il quale è stata data priorità assoluta, anche in termini di risorse economiche, alle azioni per supportare l’impegno delle scuole».
Asini a scuola (e a casa)
di ANDREA BAJANI (La Stampa, 12/3/2008)
La scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie del discredito di istituzioni e famiglia. Gli studenti italiani, riportano le pagelle vergate alla fine del quadrimestre, sono per la maggior parte somari, con debiti formativi trascinati come palle al piede, lacune che sembrano mari, e un generale disinteresse nei confronti di chi sta dietro la cattedra.
Le cronache, le indagini degli psicologi, le tabelle, e i grafici a torta dipingono una gioventù patologica allo sbando, picchiatori voyeuristi nei gabinetti scolastici, compulsivi smanettatori persi nei meandri di Internet o nell’isteria da pollice opponibile della messaggistica cellulare. E appunto somari a scuola, voti bassi e facce da chissenefrega.
E la scuola va giù, si grida al palazzo che crolla, il fumo che viene su quando l’edificio si schianta al suolo, e intorno è tutto un unanime urlare allo scandalo. Come fosse per caso che è saltato in aria, o come fossero gli stessi ragazzi, o soltanto loro, ad avere innescato l’ordigno, ad averlo messo a ticchettare sotto la scuola. Che è un modo tutto sommato rassicurante per assistere al crollo, e magari farci anche qualche foto ricordo, un buon modo per dire: «Ai nostri tempi era diverso».
E invece la scuola è venuta giù erosa giorno per giorno da un’idea di istruzione messa all’asta del migliore offerente, percepita come un servizio da negoziare nel rapporto con studenti che da studenti son diventati clienti.
Perché la scuola italiana è franata con i presidi che imbavagliano gli insegnanti nell’esercitare il loro rigore per paura che i clienti se ne vadano alla concorrenza, magari parlando con i giornali, gettando una cattiva luce sull’istituto. La scuola italiana è franata sotto le pressioni dei genitori che arrivano a scuola contestando in cagnesco i voti troppo bassi dei figli, il carico eccessivo di compiti a casa, persino le correzioni delle versioni latine. La scuola italiana è franata con gli sms e le telefonate delle mamme e dei padri italiani in orario scolastico per raccomandare ai figli di andare a mangiare dalla nonna, piuttosto che di comprare il pane prima di tornare a casa.
Mi chiedo, senza che questo deresponsabilizzi in alcun modo i ragazzi, come è possibile che gli studenti riconoscano un qualche ruolo a un’istituzione che da tutti è vissuta quale un qualsiasi servizio superfluo, alla stregua di una compagnia telefonica, una catena di negozi di abbigliamento, una discoteca, o un cinema multisala? Perché la scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie di chi ha smesso di crederci, prendendo a picconate sistematiche, con la logica finanziaria dei debiti e dei crediti, delle transazioni formative, delle negoziazioni pedagogiche, la crescita culturale di un Paese che rischia di rimanere bloccato. Perché a vedere quelle pagelle, quel disinteresse, quel disincanto, non si riesce a pensare all’Italia futura, di cui ci si riempie la bocca quando si parla dei giovani. In quelle insufficienze, e in quelle facce si vede tutto il disincanto e il menefreghismo degli adulti.
Se premiamo chi non suda sui libri
di GIAN LUIGI BECCARIA (La Stampa, 13/3/2008)
Siamo in testa in Europa per asinità scolastica. Lo apprendiamo dal giornale di martedì. Colpa dei ragazzi? Direi di no, direi che siamo noi adulti i colpevoli. Siamo noi che spingiamo il corso delle cose in direzioni disastrose. Quali sono, di fatto, i messaggi forti che oggi mandiamo, ed ai quali in particolare i più giovani sono sensibili: che non conta tanto applicarsi a studiare seriamente, ma che a contare davvero è in primis il successo, e l’immagine. Or non è molto che la Iulm ha laureato Vasco Rossi, e Urbino ha conferito una laurea honoris causa a Valentino Rossi, simpatico ragazzo di certo, grande vivace ricco furbo (anche nelle evasioni?) coraggioso motociclista... ma non vedo come i suddetti abbiano sudato sui libri, di che tempra di studiosi siano fatti.
Non credo che debba essere questa la strada da imboccare per un futuro sopportabile, anche per la scuola. Se convinco le nuove generazioni che il nostro futuro non dovrà poggiare più su valori fondanti e su una cultura decentemente profonda, sul libro, sullo studio, sull’applicazione seria, allora teniamoci i nostri asini.
Tra l’altro, aggiungo, una delle idee vincenti è al momento quella che la società va concepita, amministrata e guidata come si guida un’azienda, e che quel che conta sono i risultati pratici, oggettivi. La nostra è l’azienda Italia, che «marcia», va cioè nel verso giusto, quando aumenta il numero di telefonini (siamo come blateratori via etere i primi in Europa), quando sempre più gente fa vacanze alle Maldive, quanto più si costruiscono ponti autostrade e cavalcavia. Più consumiamo, più facciamo, e più «siamo», «saremo». Basti vedere i programmi presentati dalle varie coalizioni per le elezioni di aprile: la scuola, l’Università, non vi compaiono.
Chi fa il mio mestiere, che ha a che fare con l’insegnamento, misura con disappunto che nella scuola e per la scuola è calato l’entusiasmo, da parte dei discenti e dei docenti. Per carità, esistono luminose e incoraggianti eccezioni, insegnanti straordinari, e bravissimi studenti, e i bravi sono certamente più bravi di noi quando avevamo la loro età. Ma la maggioranza! Guardo agli adolescenti, alle torme che percorrono i grandi territori urbani come aree destinate piuttosto al vagabondare che al vivere. Orde di illetterati, scriveva Daniel Pennac in Come un romanzo, sostano ignare ai piedi di grandi biblioteche pubbliche, e tristemente tra loro non comunicano se non smanettando coi telefonini, ascoltando nelle cuffiette i loro cantanti. Colpa loro o colpa nostra?