L’Età di mezzo come repressiva e chiusa al genio femminile? La società feudale come riflesso di un patriarcalismo ottuso? La Chiesa nemica numero uno del «sesso debole» e artefice della sua subordinazione? Tutti luoghi comuni sul ruolo di madri, spose e religiose nell’epoca in cui il cattolicesimo permeava ogni aspetto della vita pubblica e privata. Jacques Le Goff, il massimo medievista vivente, ribalta da un punto di vista meramente storico falsificazioni e distorsioni di prospettiva.
«Oggi si tende a sminuire il ruolo della donna, sia nel cristianesimo sia nella storia dell’Occidente. Eppure mi colpiscono i progressi che la donna ha fatto nella società cristiana del Medioevo. Pensiamo a figure come quella di Ildegarda di Bingen, badessa renana del XII secolo, coraggiosa studiosa razionale che con la sua autorità e con il prestigio esercitò un notevole potere all’epoca. Poi, a partire dal XIII secolo, con la comparsa del misticismo le donne si imposero nuovamente nell’universo della santità»
Medioevo, quando il cristianesimo liberò le donne
Facciamo attenzione alle illusioni, diffidiamo dell’idea che il progresso sia irreversibile, costante, in movimento lineare dai tempi passati all’epoca contemporanea. Oggi il numero di donne che ha accesso al potere è molto ridotto. In Occidente non vi sono più donne Primo ministro di quante fossero nel Medioevo regine o reggenti
Maria, Maria Maddalena, Marta... I Vangeli sono abitati da figure femminili che circondano Cristo e lo ispirano. Il cristianesimo medievale, lungi dal rinchiudere la donna in un ruolo secondario, l’ha autenticamente posta a fianco dell’uomo. La donna, nel Medioevo, è in gran parte identificabile, nella visione della Chiesa, con due figure antitetiche, quella di Eva, la peccatrice e la tentatrice, e quella di Maria, la madre di Cristo. Certo, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle donne nel Medioevo non può risolversi in questa antitesi, ma bisogna riconoscere che essa è centrale.
Vorrei tuttavia ricordare che il culto mariano, fondamentale nella religione e nella società medievali (è difficile isolare, nel Medioevo, la religione da tutto il resto, poiché essa è pervasiva) ha inizio, in Occidente, solo nell’XI secolo, a differenza di quanto accade nel mondo bizantino. È soprattutto a partire dal XII secolo che la figura di Maria si impone, mentre la figura di Eva, quasi sempre complemento della coppia che forma con Adamo, si era già imposta da molto tempo.
Vorrei anche sfumare l’idea che abbiamo di una opposizione netta tra la figura di Eva e quella di Maria: dopo il Medioevo molto spesso si è irrigidita ed esasperata questa antinomia, facendo in particolare di Eva la peccatrice e la tentatrice. Tuttavia, molto precocemente, Eva è stata utilizzata come immagine simbolica della Chiesa: essa non poteva quindi essere considerata in modo totalmente negativo dagli uomini di quel tempo.
Nel Medioevo la Chiesa è una persona, se ne parla come se fosse tale. È molto interessante a questo proposito notare che, simbolizzata da Eva, essa partecipa per questo al peccato originale. La cristianità è diretta da un’istituzione non esente da errori e da peccato, fallibile; concetto, questo, che per noi contemporanei è scontato.
Si relativizza così l’atteggiamento di Giovanni Paolo II, che alcuni trovano particolarmente sconvolgente, rivoluzionario, e che invece non fa altro che riallacciarsi all’antichissima tradizione del cristianesimo. Per capire il contenuto di questa allegoria, è necessario non dimenticarsi che il cristianesimo medievale ha costantemente cercato nella Bibbia riferimenti e spiegazioni alle realtà del suo tempo.
In Eva, quindi, è stata trovata una sorta di figura primitiva, primigenia, della donna. La società medievale, che non possiede il senso della storia, ha naturalmente rappresentato la Chiesa in questa prospettiva eterna, astorica. Eva è la prima creatura femminile di Dio e, di conseguenza, è essa stessa un’istituzione divina: credo che sia questo fatto che ha indotto gli esegeti a elevarla a simbolo della Chiesa.
Veniamo ora all’idea del suo secondo posto, essendo il primo naturalmente riservato all’uomo. In altri termini, come definisce la tradizione cristiana il posto della donna sul piano divino? Eva è una creazione diretta e volontaria di Dio, ma in effetti è apparsa tardi, dopo tutto il resto della Creazione. Vi sono state anche interpretazioni, del tutto ortodosse, del testo della Genesi che hanno ritenuto Eva il risultato di una sorta di pentimento di Dio: Egli avrebbe inizialmente pensato di creare un uomo, se non asessuato, almeno dotato di entrambi gli attributi sessuali, androgino. E poi, dopo aver valutato negativamente questa soluzione, avrebbe preferito creare una donna a fianco dell’uomo, Adamo. Da tutto questo deriva la convinzione che la distinzione dei sessi sia stata un’idea secondaria nella mente del Creatore e non un’idea primigenia.
Perché gli esegeti hanno ritenuto fosse così? Innanzi tutto perché Eva è stata creata dopo tutto il resto del mondo, e poi perché, come gli animali, essa non ha ricevuto il nome direttamente da Dio, ma da Adamo: Dio l’ha creata senza attribuirle un nome, e una creazione senza nome è una creazione imperfetta. Per finire, Dio, al momento di darle la vita, annuncia che lo fa per non lasciare solo Adamo; da ciò si può inferire non solo una secondarietà, ma persino una sorta di assoggettamento funzionale della donna nei confronti dell’uomo, poiché la sua ragione di essere sta nel tenergli compagnia. Eva è in effetti stata creata da una costola di Adamo, da cui dipende quindi anche nella sua esistenza carnale. Essa è un pezzo di Adamo, ma non possiamo accontentarci di questa definizione. Sono fioriti innumerevoli riflessioni e commenti sul passo della Genesi che narra la creazione di Eva. Uno dei più interessanti, a mio avviso, è quello di Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo.
Egli afferma, a grandi linee, che Dio ha creato Eva da una costola di Adamo e non l’ha creata dalla testa o dai piedi; se l’avesse creata dalla testa, ciò avrebbe voluto dire che Egli vedeva in lei una creatura superiore ad Adamo, al contrario, se l’avesse creata dai piedi, l’avrebbe considerata inferiore: la costola si trova a metà del corpo, e la scelta quindi stabilisce l’uguaglianza, nella volontà di Dio, di Adamo e di Eva. Io ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti.
PER LE NOZZE CI VUOLE IL SUO SÌ.
Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la Chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì.
LA NOVITÀ CRISTIANA.
Si potrà controbattere che questi sono princìpi, ma la realtà è ben diversa... Effettivamente, ci sono stati pochi matrimoni in cui il consenso della donna è stato decisivo; il matrimonio ha continuato ad essere un elemento fondamentale nelle strategie familiari, o di lignaggio, nel caso di matrimoni nobili, oppure dinastiche nel caso di matrimoni reali. Georges Duby ha descritto efficacemente il ruolo di paraninfo del re d’Inghilterra, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo; egli intervenne in particolare nei confronti di Guglielmo il Maresciallo, suo vassallo, uomo di guerra e consigliere, ricompensato dal re con un brillante matrimonio. Ma anche negli ambienti contadini è il parentado, più precisamente i genitori, che impongono il matrimonio; e lo impongono soprattutto alla donna.
Ciò nonostante, e vorrei insistere poiché non credo affatto che la teoria sia irrilevante, teoricamente il matrimonio si fonda sulla volontà reciproca dell’uomo e della donna. E la Chiesa, per giustificare questa disposizione, ricorda in prima istanza il matrimonio di Adamo ed Eva e poi, soprattutto, quello di Maria e Giuseppe.
Nell’ebraismo, la donna è quasi del tutto subordinata al marito; la questione è un po’ più complessa, e in un certo modo prefigura il cristianesimo, nel paganesimo romano, poiché, da un lato la donna romana è una persona con minori diritti, non può cioè compiere un certo numero di atti giuridici senza il consenso del marito, dall’altro, i romani sviluppano una concezione egualitaria di questa unione, che si traduce con la celebre formula «Ubi Gaius tu Gaia», «Laddove sono Gaio, tu sei Gaia». Insomma, credo vi sia stata un’autentica promozione della donna, messa in luce, almeno a livello dottrinale, dal cristianesimo e ritengo che ciò sia stato avvertito come tale, al di là di tutte le consuetudini familiari e sociali che tendevano a mantenerla in una condizione di inferiorità.
I testi che si citano sempre condannano l’atto sessuale o ritengono la donna responsabile della tentazione: si tratta di una certa forma di divulgazione della dottrina. Ma di cosa è rappresentativa, esattamente? Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l’uomo è stato severamente condannato dalla Chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell’XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l’interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero...
IL CULTO DELLA MADDALENA.
Il fondamento del pensiero e della pratica cristiani, nel Medioevo, sono le Sacre Scritture. Abbiamo rapidamente commentato la creazione di Eva nella Genesi. Vi sono, ben inteso, numerose figure di donne nell’Antico Testamento, perverse come Dalila, virtuose come Rachele, eroiche come Ester... e sempre secondarie rispetto agli uomini. Poi, giunge la rivoluzione del Nuovo Testamento. Gesù è accompagnato fino alla fine da sua madre. Dispensa il proprio insegnamento a Marta e a Maria. Resuscita Lazzaro, per rispondere al desiderio delle sorelle. Una delle più belle figure femminili dei Vangeli è, evidentemente, Maria Maddalena, creatura complessa, una sorta di smentita apportata all’immagine negativa di Eva, votata al peccato: Maria Maddalena ha peccato, ma non è nella sua natura, è capace di ripensare se stessa e di pentirsi, e Gesù afferma che essa è migliore, nella sua debolezza e nella sua redenzione, di coloro che non hanno mai peccato. Il culto di Maria Maddalena esploderà alla fine del Medioevo: ne ha parlato in modo dettagliato e apprezzabile Georges Duby.
Ai piedi della croce vi sono Giovanni, il discepolo preferito, Maria e Maria Maddalena a partecipare all’agonia di Gesù. Sono essi che seppelliscono il Dio sofferente; e tre giorni dopo, sono delle donne che scoprono che la tomba è vuota e diffondono la notizia della resurrezione... Non si può certo dire che i Vangeli siano una questione fra uomini! Tale concezione radicalmente nuova dei rapporti tra uomo e donna avrà ripercussioni sulla struttura stessa della Chiesa, sulla sua gerarchia. So bene che non vi sono donne sacerdote, ancora meno papa, ma, a partire dal Medioevo, esse possono trovare collocazione nel clero regolare, realizzarsi, essere riconosciute al pari degli uomini ed esercitare potere: all’epoca, contava qualcosa essere badesse!
È una donna, Maria, a chiedere a Gesù di compiere il primo miracolo, ed Egli obbedisce, trasformando l’acqua in vino, alle nozze di Cana. Questo è un episodio proprio difficile da interpretare! Ciò che possiamo notare, è che la scena ha luogo prima dell’inizio della predicazione pubblica di Gesù, e che Maria lo incita a fare qualcosa per la prima volta. È come se lei lo rivelasse a se stesso; anche la sua filiazione divina gli è stata rivelata, Egli non ne era a conoscenza prima: e chi meglio di una madre può rivelare il segreto delle origini?
Maria, nel Medioevo, era, credo, profondamente venerata, malgrado il monoteismo ortodosso, come una sorta di quarta componente divina, la quarta persona della Trinità. Ho esitato a lungo prima di esprimere questa intuizione, ma mi pare corrisponda alla verità della fede medievale. Ma è così; pensiamo a tutti i dibattiti intorno all’Immacolata Concezione, dogma vigorosamente combattuto anche da personaggi come san Bernardo e san Tommaso d’Aquino, ufficialmente riconosciuto solo nel 1854: ritengo che la violenza di questo rifiuto, da parte di alcuni santi e alcuni eminenti teologi, avesse origine, certo, da una sorta di impossibilità a giustificarlo teologicamente, ma anche dal fatto che vedessero in questa «eresia» il fondamento o la conseguenza di una devozione quasi pagana a Maria, una sorta di ritorno al culto pagano delle dee madri. Sono persuaso che nel Medioevo si sia effettivamente assistito a una divinizzazione di Maria. Sicuramente tale fenomeno si potrebbe interpretare come una forma di politeismo, ma, per quel che mi riguarda, voglio leggervi la valorizzazione della donna nella religione e trovo che sia un fatto estremamente positivo. Una delle mie convinzioni più salde, confortata dai progressi degli studi storici è che il Medioevo, era di tenebre e di violenza, sia stato anche e soprattutto un momento decisivo per la modernizzazione dell’Occidente.
Si pensi ad esempio all’evoluzione dell’interesse estetico, nell’Antichità volto soprattutto alla celebrazione di un ideale maschile e che nel Medioevo evolve verso la celebrazione del corpo - e soprattutto del viso - della donna. Non credo ci si debba vedere una «strumentalizzazione», come si dice oggi, della donna, donna-oggetto, semplice oggetto del desiderio. No, credo che vi sia stata una vera e propria promozione della donna, attraverso, in particolare, le rappresentazioni del corpo di Eva, occasione insperata per gli artisti che finalmente potevano rappresentare la donna nuda, e il volto di Maria.
Nella dottrina della Chiesa vi è senz’altro un certo grado di paura della donna, che è stata, come ha detto Jean Delumeau, una delle grandi paure dell’Occidente, e la Chiesa non l’ha ancora del tutto superata. Ma è una questione che dipende dalla Chiesa o dagli uomini? È così facile liberarsene? Questo aspetto è veramente cambiato?
Veniamo alle sante: un’altra occasione, se così si può dire, di promozione della donna nell’universo cristiano. Vi sono state molte donne martiri; esse hanno forzato molto presto le porte della santità. Vi sono molte sante alle quali i fedeli si rivolgono con devozione. Ma sono necessari alcuni riferimenti cronologici. Durante i primi secoli del Medioevo, il modello maschile della santità è la figura del vescovo: i santi sono nella maggior parte dei casi dei vescovi - trasposizione nella gerarchia celeste della gerarchia terrestre. Si impone, in seguito, lentamente, la santità delle badesse, ricordiamo ad esempio Ildegarda di Bingen, badessa renana del XII secolo, grande mistica, ma anche coraggiosa studiosa razionale, la cui autorità e il cui prestigio esercitarono un notevole potere all’epoca.
Infine, a partire dal XIII secolo, con la comparsa del misticismo, in modo eclatante, le donne si impongono di nuovo nell’universo della santità. Una scrittura, quella delle sante mistiche, che con tutta evidenza privilegia l’interiorità, l’esperienza di sé. Penso che abbia potuto modificare la sensibilità occidentale, e penso anche che sia una sfera da cui gli uomini sono stati esclusi. Il misticismo femminile è infatti una tendenza molto occidentale, al contrario di ciò che avviene invece in Oriente, dove il personaggio chiave dell’effusione mistica è lo sciamano, che è anche stregone. La Chiesa accoglie il misticismo e respinge la stregoneria, separa questi due universi, li definisce come antagonisti, anche se entrambi sono abitati essenzialmente da donne.
DONNE AL POTERE.
Le donne hanno avuto senza alcun dubbio un ruolo politico molto importante durante il Medioevo, ma vorrei tornare sul fatto che non mi piace utilizzare il termine «politico», come non mi piace utilizzare il termine «religione», riferendomi a questo periodo; sono parole che non esistono nel Medioevo, che non corrispondono ad alcuna categoria intellettuale. Allora, se vuole, si può parlare del ruolo delle donne nel governo - neanche questo termine esiste all’epoca, ma è meno arbitrario utilizzarlo.
Perché in Francia, in virtù della legge salica, le donne sono state escluse dalla successione diretta e dal trono? Vi è stato un abbozzo di teorizzazione all’inizio del XIV secolo, dopo la morte dell’ultimo figlio di Filippo il Bello, per escludere il re d’Inghilterra dalla successione al trono. Poi, alla fine del regno di Carlo V, nel XV secolo, si «inventa» la legge salica, applicata nel regno di Francia. Ma quest’idea non riusciva a imporsi nel sistema feudale, che non vedeva sistematicamente escluse le donne. Bianca di Castiglia, nel XIII secolo, ha tenuto senza impedimenti le redini del regno. In Francia il potere reale è stato precocemente e rigidamente affidato solamente a uomini, più per ragioni pratiche che teoriche: il capo del regno deve infatti essere forte, innanzi tutto fisicamente, poiché deve essere un guerriero.
MA PER LA DONNA IL VERO SECOLO BUIO È L’800.
In linea generale, penso che sia necessario ponderare sia la visione negativa, sia la visione dorata della condizione femminile nel Medioevo. Oggi si tende a sminuire il ruolo della donna, sia nel cristianesimo sia nella storia dell’Occidente. Mi colpiscono i progressi che la donna ha fatto nella società cristiana del Medioevo, anche se ciò non deve indurci a ritenere che vivesse in una situazione di uguaglianza con l’uomo; bisogna considerare però che si partiva da molto lontano... e vedremo anche che in seguito sarà peggio: sono profondamente convinto che non vi sia stata peggiore condizione femminile di quella della donna in Europa nel XIX secolo. La cosa peggiore per la donna è stata la diffusione e il trionfo dei valori borghesi. E praticamente la borghesia non esisteva prima del XIX secolo. Nel Medioevo vi sono nobili e contadini e certo non sono essi a mostrarsi più duri con le donne.
Facciamo dunque attenzione alle illusioni, diffidiamo dell’idea che il progresso sia irreversibile, costante, in movimento lineare dai tempi passati all’epoca contemporanea. Oggi il numero di donne che ha accesso alle più alte sfere del potere è molto ridotto. In Occidente non vi sono più donne Primo ministro di quante fossero nel Medioevo regine o reggenti.
le regine
Teodolinda
(?-628) Regina dei longobardi. Cattolica - mentre la gran parte dei longobardi era ariana - cercò un avvicinamento con la Chiesa di papa Gregorio Magno, con il quale intratteneva uno scambio epistolare. Furono restituiti così beni alla Chiesa, reinsediati vescovi e avviati sforzi per comporre lo scisma tricapitolino che divideva il papa di Roma dal patriarca di Aquileia. Il suo aperto incoraggiamento dato alla riforma monastica di san Colombano approdò, nel 612, alla fondazione del monastero di Bobbio. Fu sepolta nel Duomo di Monza, da lei voluto. Fu in seguito canonizzata.
Matilde di Canossa
(1046-1115) Marchesa di Toscana, signora di immensi domini in Toscana, Emilia e Lombardia, sposò prima Goffredo di Lorena, e poi Guelfo di Baviera. Motivi religiosi e politici la indussero a schierarsi costantemente al fianco del papato nella lotta per le investiture. Sconfitta negli anni seguenti dalle armate imperiali, si sottomise formalmente a Enrico V, mantenendosi poi neutrale nelle lotte tra papato e impero, che in seguito a lungo si contesero la sua eredità.
Eleonora di Aquitania
(1122-1204) Figlia di Guglielmo IX, ultimo duca d’Aquitania, sposò Luigi VII di Francia. Annullato il matrimonio, Eleonora sposò Enrico Platageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia, divenuto nel 1154 re Enrico II d’Inghilterra. Allontanata anche da quest’ultimo, tenne corte a Poitiers, circondandosi di poeti e artisti. Reggente d’Inghilterra durante la crociata del figlio Riccardo Cuor di Leone (1189-1194) si ritirò, infine, nell’abbazia di Fontevrault.
Ildegarda di Bingen
(1098-1179) Di nobili origini, Ildegarda fu messa a otto anni sotto la guida della badessa Jutta di Spanheim. Le successe nel 1136 alla guida del monastero benedettino di Disinbodenberg, in Germania. Ne fondò altri, tra cui Bingen, in cui si trasferì e dove morì nel 1179. Ebbe molte visioni, delle quali scrisse a Bernardo di Chiaravalle, che ne apprezzò il genio femminile. La lode del creato la portò a scrivere anche trattati di botanica. Ma il suo talento enciclopedico si espresse in particolare nel canto. Fu forse la prima donna musicista della storia cristiana.
Angela da Foligno
(1248-1309) Una delle prime mistiche italiane, Angela nacque nella cittadina umbra di Foligno. In gioventù indulse alle vanità femminili, vivendo poi in una tranquilla agiatezza. Dopo essersi recata ad Assisi ed aver avuto esperienze mistiche avviò un’intensa attività apostolica. Una volta morti marito e figli diede tutti i suoi averi ai poveri ed entrò nel Terz’Ordine Francescano.
Giuliana di Norwich
(1342-1416) È considerata una delle più grandi mistiche inglesi. All’età di trent’anni, soffrendo per una grave malattia e credendosi prossima alla morte, Giuliana ebbe una serie di intense visioni. Queste sarebbero state vent’anni dopo la fonte della sua opera principale, chiamata Sedici Rivelazioni dell’Amore Divino. Probabilmente il primo libro scritto da una donna in lingua Inglese.
Chiara d’Assisi
(1193-1253) Aveva appena dodici anni Chiara quando Francesco d’Assisi compì nella pubblica piazza il gesto di spogliarsi di tutti i vestiti per restituirli al padre. Conquistata dal suo esempio, la giovane, della nobile famiglia degli Offreducci, sette anni dopo lo raggiunse alla Porziuncola. Fondò l’Ordine delle «povere recluse di San Damiano» di cui fu nominata badessa e di cui Francesco dettò una prima Regola. Per aver contemplato, nella notte di Natale, sulle pareti della sua cella, il presepe e le funzioni solenni che si svolgevano a Santa Maria degli Angeli, è stata scelta da Pio XII quale protettrice della televisione. Erede dello spirito francescano, si preoccupò di diffonderlo, distinguendosi per un culto speciale del SS. Sacramento, che salvò anche il convento di Chiara dai saraceni.
Caterina da Siena
(1347-1380) Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua "cella" di terziaria domenicana, e poi cenacolo di artisti, dotti e religiosi. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia.
* Avvenire, 21.01.2007
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL RISPETTO DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA MAESTRA PER UN’ALTRA POLITICA.
DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA - di Susanna Cernotti e Eleonora Cirant
FLS
di Francesca Rigotti (DOPPIOZERO, 16 Dicembre 2016)
Dopo che Giuseppe l’ebreo fu tirato su dal pozzo e venduto dai suoi fratelli ai mercanti di schiavi Medianiti, e prima che venisse acquistato dall’eunuco Potifar per conto del faraone d’Egitto, molti, al mercato degli schiavi, si erano offerti di comprarlo. Tra loro una vecchia filatrice che mostrando alcuni gomitoli di lana colorata da lei stessa filata disse al sensale: «Ci sono anch’io, vendi a me quel giovanotto, lo desidero pazzamente, ecco qui il mio pegno». Il sensale rise: «Anima semplice, guarda che per questo gioiello di schiavo mi hanno offerto tesori; con il tuo filo non puoi comprarlo». «Lo so che in questo mercato io non lo compro» gli rispose la donna. «Mi sono messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato». Con questo magnifico apologo, tratto da una breve storia scritta fra i secc. XII e XIII dal mistico persiano Farid al-din ’Attar, inizia il primo capitolo/non capitolo del saggio/non saggio di Luisa Muraro dal titolo Al mercato della felicità (nuova edizione presso Orthotes di un libro uscito per i tipi di Mondadori nel 2009).
La storia dell’anziana donna che vorrebbe comprare il bel giovanotto da lei pazzamente desiderato mi è proprio piaciuta, sia per il rovesciamento dei ruoli di gender, sia per il messaggio finale: anche la vecchia ci ha provato, provarci è importante. Se non vai al mercato non avrai nulla. E fin qui tutti d’accordo. Ma anche se vai al mercato coi tuoi gomitoli di lana colorata, si potrebbe obiettare, non otterrai un bel niente e tanto meno Giuseppe in persona. E allora? Che cosa cambia? Cambia il desiderio, cambia l’intensità del desiderio, cambiano gli effetti del desiderio sulla realtà - afferma Muraro - perché il reale non è indifferente al desiderio. Vuol dire allora, continuiamo a domandarci, che se desideri molto, avrai? Avrai che cosa, la merce che desideri? O l’apologo sta soltanto a significare che la realizzazione (=il divenire reale) del desiderio avverrà soltanto se desideri non beni materiali, per i quali i gomitoli di certo non bastano, ma un altro tipo di oggetti: l’arte, la libertà, il rispetto, la cura?
Mi par di capire che Muraro intenda l’uno e l’altro. Da una parte ella esalta quella capacità che oggi molti glorificano con estrema facilità e faciloneria, ovvero la resilienza. Resilienza, termine preso in prestito dall’ingegneria e trasferito dal linguaggio della tecnologia dei materiali a quelli dell’ecologia, del linguaggio informatico e della psicologia; qui esso indica, nell’illustrazione offerta da Marco Belpoliti, «la capacità di un organismo di autoripararsi dopo un danno: un sistema operativo capace di adattarsi e resistere all’usura. La capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre». Dunque, in altre parole, l’abilità di far tesoro degli handicap e delle carenze per diventare campioni di qualcosa, dal giornalismo allo sport.
È una sorta di resilienza la dote della vecchia filatrice, il cui oggetto del desiderio, il bel Giuseppe, è posto talmente in alto da essere irraggiungibile? È un altro modo per esprimere la morale cattolica nel punto in cui essa esorta a fare di necessità virtù commisurando i desideri alle possibilità, e diventare una buona monaca, nelle parole di Alessandro Manzoni, anche se ti hanno monacato a forza contro la tua volontà?
I due messaggi di Muraro vengono rafforzati nel pensiero esposto nel secondo non capitolo del non saggio, Dei difetti fai profitti (se premetto le negazioni è perché il volume di Muraro non è una monografia tematica quanto una serie di considerazioni sparse ispirate a lavori precedenti e disposte lungo un percorso personale che l’autrice espone alla condivisione). Un «pensiero per tutti», lo chiama, che per tutti e tutte non è in quanto si ancora a due pilastri non da tutti/e condivisibili: la prospettiva fideistica cattolica con inclinazione alla mistica, primo, e, secondo, la posizione - all’interno del femminismo - definita di tipo «differenzialista».
Io per esempio non condivido né il primo né il secondo pilastro; per quanto riguarda il secondo, faccio parte di quelle donne legate alla «landa d’insensatezza» - così Muraro la definisce - del femminismo dell’eguaglianza e dell’emancipazione che esige parità dei sessi e non sopporta la logica religiosa (non necessariamente cristiana, in questo tutte le religioni monoteiste sono sorelle) della differenza/complementarietà dei sessi, che mi sembra una sorta di apartheid sessuale: diversi ma uguali, o uguali ma diversi, come preferite, voi di qua noi di là e tutti felici e contenti. Io donna con le mie caratteristiche (innate? naturali? genetiche?) che risiedono nell’attenzione, nella cura, nella passività, nella devozione o nell’accompagnamento (sic) e di là gli uomini col coraggio, la decisionalità, l’audacia, l’attività, la creatività. O anche tutti insieme, non importa, purché sia ribadita la differenza.
Per quanto riguarda il primo pilastro mi associo alla posizione di Virginia Wolf: noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà, sicuramente e decisamente non esiste alcun Dio; cui aggiungo, di mio, noi siamo la misericordia che mette un po’ di riparo al male; di Dio, se Dio ci fosse.
Ecco che allora il pensiero della differenza, già saldato con la dottrina della chiesa, si connette in Muraro col pensiero della resilienza o del far profitti da difetti, usando a proprio vantaggio il fatto di essere donne, minus habentes, dotate, lo dice Sant’Agostino, di parvus intellectus. Bello. Suona bene. (Hillary Clinton ci ha provato e le è andata male. Clinton ha perso perché ha affermato di essere donna ma essere una donna, e una donna di una certa età, non coincide con l’ideale vittorioso di forza, dinamicità e potenza che gli USA pretendono di incarnare). Il femminismo di Muraro con la sua logica del mercato della felicità esorta dunque a lottare contro il male di essere nate donne per vivere il femminile liberamente e incondizionatamente. Il suo è il femminismo filato col filo della resilienza e del far profitto del difetto, e tessuto al telaio della fede e della mistica. Che piace e ha successo. Non è il mio e di chi mi accompagna nella «landa d’insensatezza», ma pazienza.
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Luisa Muraro, Al mercato della felicità, revisione a cura di Clara Jourdan, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 178 (prima edizione: 2009 Arnoldo Mondadori Editore, Milano).
SCHEDA EDITORIALE.
In questo libro Luisa Muraro, tra le più importanti filosofe italiane, lancia una sfida: che cosa sarebbe la nostra vita senza grandi desideri? Si può desiderare ciò che sembra impossibile da ottenere? Nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che cresce e si espande ma non si cura di far crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco, traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo a patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande.
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
Sul doppio cognome Pera sbaglia
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 4/6/2007)
Non basta evidentemente essere stati la seconda carica dello Stato per non confondere i propri desideri di uomo impaurito dalla pur parziale emancipazione femminile con le norme che regolano i rapporti tra i coniugi e la famiglia. Qualcuno dovrebbe informare Marcello Pera che, contrariamente a quanto da lui sostenuto su questo giornale, in Italia le donne sposandosi non perdono il proprio cognome, ma aggiungono al proprio quello del marito. E sia professionalmente che da un punto di vista amministrativo è il loro cognome da nubili quello che conta. Perciò in famiglia ci sono già due cognomi, anche se «il cognome di famiglia» è solo quello del marito. Pera dovrebbe anche venire informato che in Italia, come in tutti i Paesi occidentali, dal punto di vista legale non esiste un privilegio della linea maschile su quella femminile. E a livello sociale e culturale si trovano sia situazioni in cui prevalgono i rapporti con «quelli di lei» sia altre in cui invece prevalgono i rapporti con «quelli di lui», a prescindere dal cognome.
Lo stesso uso del cognome e la sua trasmissione da una generazione all’altra si è stabilizzato in età moderna per motivi prevalentemente amministrativi e ha conosciuto vicende diverse nei vari Paesi. In alcuni, ad esempio in Spagna, la trasmissione del doppio cognome - materno e paterno - è antichissima e rimane tuttora. Nel passato era un uso rinvenibile anche in alcune zone della Sardegna. In entrambi i casi, certamente non per qualche intervento diabolico dei laicisti, che ormai sembrano aver sostituito i comunisti nel ruolo di mangiabambini nell’immaginario teodem e teocon. E senza che ciò provocasse particolari indebolimenti all’istituto familiare e alle singole famiglie. Gli unici che sperimentano dei problemi, là dove è in uso il doppio cognome, sono gli studiosi, in particolare gli storici, perché è più difficile rintracciare le persone appartenenti a una stessa discendenza da una generazione all’altra. Ma è un problema che si pone sempre anche nel caso del cognome unico, nella misura in cui si perde il filo della continuità con la discendenza per via materna.
La cosa buffa è che Pera, per sostenere l’impossibilità etica (addirittura!) di attribuzione di un doppio cognome, abusa di riferimenti alla natura e di metafore naturalistiche. Ma se dovessimo tenerci alla natura, allora non ci sarebbe partita: solo la continuità con la madre è autoevidente («mater semper certa est, pater incertus») e il ruolo della madre nella riproduzione è di gran lunga maggiore di quello del padre. È così vero che gli storici hanno osservato che il matrimonio è stata l’istituzione per eccellenza della paternità, nel senso che tramite esso l’uomo si appropria (si appropriava) dei figli che la donna mette al mondo, dato che non ha (non aveva) altro modo per avere accesso alla generazione, in senso sociale e non solo biologico. Ma anche questo è cambiato, anche nel nostro Paese, prima che per lo sviluppo tecnologico (esame del Dna) per le modifiche di legge, che hanno consentito anche a chi è sposato di riconoscere un figlio avuto con un’altra persona. Inoltre, il fenomeno del divorzio e dei nuovi matrimoni cui apre ha dato luogo già ora a famiglie in cui i diversi componenti hanno cognomi diversi. Anzi, se i figli avessero anche il cognome della madre avrebbero qualche problema di identificazione di sé e di collocazione nello spazio sociale in meno, perché avrebbero sempre anche il cognome del genitore con cui vivono, padre o madre che sia.
La trasmissione del solo cognome paterno è un residuo simbolico di quell’atto di appropriazione unilaterale che cancella la dualità - non solo biologica, ma sociale - della generazione e delle lunghe catene generazionali. Trasmettere anche il cognome materno è anch’esso un atto simbolico, di segno opposto: mantiene aperta e rende esplicita la dualità come garanzia della continuità nel tempo e come radice che si rinnova ogni generazione. Si può non essere d’accordo, o non ritenerla una priorità; ma, per favore, evitiamo di evocare i soliti foschi scenari di attacco alla famiglia.
Cantalamessa: la nostra civiltà ha bisogno di amore
Sulle donne prime testimoni del Risorto e sul loro insegnamento, ieri pomeriggio in San Pietro la riflessione del predicatore
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 07.04.2007)
Accompagnarono Gesù lungo la Via Crucis. Rimasero con lui sotto la croce e al momento della deposizione. Furono le prime testimoni della Risurrezione e anche alle donne e agli uomini di oggi hanno molto da insegnare. «Avevano seguito le ragioni del cuore e queste non le avevano ingannate», sintetizza padre Raniero Cantalamessa, in riferimento alle pie donne di cui parlano i Vangeli. «In ciò - aggiunge il predicatore della Casa Pontificia - la loro presenza accanto al Crocifisso e al Risorto contiene un insegnamento vitale per noi oggi. La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore perché l’uomo possa sopravvivere in essa, senza disumanizzarsi del tutto. Dobbiamo dare più spazio alle "ragioni del cuore", se vogliamo evitare che, mentre si surriscalda fisicamente, il nostro pianeta ripiombi spiritualmente in un’era glaciale».
Il frate cappuccino pronuncia la sua omelia nella Basilica Vaticana, durante il rito della Passione del Venerdì Santo e si sofferma in particolare su questo gruppo di discepole del Signore - le uniche a non averlo mai abbandonato anche quando tutti gli uomini erano scomparsi. Le loro eredi, dice, «sono le tante donne, religiose e laiche, che stanno oggi a fianco dei poveri, dei malati di Aids, dei carcerati, dei reietti d’ogni specie della società».
Ma l’esegesi del testo biblico offre a padre Cantalamessa l’occasione per attualizzare la pagina evangelica, anche con riferimenti a opere letterarie e persino con la citazione di Centochiodi, l’ultima pellicola di Ermanno Olmi. «Tutti i libri del mondo non valgono una carezza», dice a un certo punto il protagonista del film. E il predicatore della Casa Pontificia (sempre attento alla cultura contemporanea - in un’altra omelia del venerdì santo aveva citato anche una nota canzone di John Lennon, Imagine) la prende a prestito per ribadire che oggi «al potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive dell’uomo, non va di pari passo, purtroppo, il potenziamento della sua capacità d’amore». La conoscenza, infatti, «si traduce automaticamente in potere, l’amore in servizio». Così padre Raniero si chiede come mai ci sforziamo di misurare il quoziente d’intelligenza - «una delle moderne idolatrie è appunto l’idolatria dell’"Iq" - e nessuno «si preoccupa di tener conto anche del "quoziente di cuore". Eppure solo l’amore redime e salva mentre la scienza e la sete di conoscenza, da sole, possono portare alla dannazione».
Di qui la sua proposta. «Dopo tante ere che hanno preso il nome dall’uomo - homo erectus, homo faber, fino all’homo sapiens-sapiens, cioè sapientissimo, di oggi -, c’è da augurarsi che si apra finalmente, per l’umanità, un’era della donna: un’era del cuore, della compassione, e questa terra cessi finalmente di essere "l’aiola che ci fa tanti feroci" (Dante)».
Da ogni parte emerge, dunque «l’esigenza di fare più spazio alla donna». «Noi non crediamo che "l’eterno femminino ci salverà" (citazione dal Faust di Goethe, ma è evidente anche l’implicito riferimento a Dan Brown, ndr). L’esperienza quotidiana dimostra che la donna può "sollevarci in alto", ma può anche farci precipitare in basso. Anch’essa ha bisogno di essere salvata da Cristo. Ma è certo che, una volta redenta da lui e "liberata", sul piano umano, da antiche soggezioni, essa può contribuire a salvare la nostra società da alcuni mali inveterati che la minacciano: violenza, volontà di potenza, aridità spirituale, disprezzo della vita».
Bisogna solo evitare «di ripetere l’antico errore gnostico secondo cui la donna, per salvarsi, deve cessare di essere donna e trasformarsi in uomo. Per affermare la loro dignità, le donne hanno creduto necessario a volte assumere atteggiamenti maschili, oppure minimizzare la differenza dei sessi, riducendola a un prodotto della cultura». Per non incorrere in questo rischio padre Cantalamessa invita a imitare le pie donne. Anche e soprattutto nella loro capacità di andare ad annunciare che il Signore è risorto
L’Avvenire può dire quel che vuole ma la classe sacerdotale che gestisce più di 1 miliardo di cattolici è fatta da 405.000 maschi. La donna ha un ruolo ancillare, priva di personalità e di potere decisionale.
Il medioevo è stata la fucina della misogenia cattolica. Basti pensare a Tommaso d’Aquino, il più grande filosofo cattolico, che disse della donna: "La donna è un errore della natura ... con la sua eccessiva secrezione di liquidi e la sua bassa temperatura essa è fisicamente e spiritualmente inferiore ... è una specie di uomo mutilato, fallito e mal riuscito ... la piena realizzazione della specie umana è costituita solo dall’uomo." E ancora: "Un feto maschile diviene un essere umano dopo 40 giorni, uno femminile dopo 80 giorni. Le femmine nascono a causa di un seme guasto o di venti umidi"
Caro Ulisse, non soccombere al canto delle Sirene . Studia seriamente San Tommaso, così scoprirai d’aver scritto un sacco di sciocchezze !!
Cordiali saluti.