FRANCESCA VISCONE
CANTI DI ’NDRANGHETA
L’uscita di alcuni cd di canti della mafia calabrese, passata inosservata in Italia, ha suscitato grande curiosità all’estero, con successo di vendite e commenti su tutti i grandi quotidiani. Presentati come canti di rivolta di una regione da sempre oppressa esaltano un mondo brutale e violento, in cui i veri uomini sono solo quelli capaci di uccidere. Un fenomeno nato nelle periferie cittadine. Intervista a Francesca Viscone.
Francesca Viscone, giornalista e insegnante, ha pubblicato, tra l’altro, Le porte del silenzio, La Mongolfiera, 2000, e La globalizzazione delle cattive idee, Rubbettino, 2005 (con presentazione di Vito Teti e postfazione di Renate Siebert).
La pubblicazione all’estero di alcuni cd di canti di ‘ndrangheta ha avuto un’eco inattesa. Il primo cd ha venduto più di 150 mila copie nel mondo. Puoi raccontare?
Il primo cd di canti di ’ndrangheta, intitolato Il canto di malavita, è uscito nel 2000 in Germania, Svizzera e Austria. A questo cd hanno fatto seguito Omertà, onuri e sangu, nel 2002, e Le canzoni dell’onorata società, nel 2005.
Probabilmente noi in Calabria non ci saremmo mai resi conto della pubblicazione di questi cd all’estero se le grandi testate straniere - dal Times al New York Times, da Der Spiegel a Le Monde - non avessero dato grande risalto a tale avvenimento. Anche le televisioni straniere, ad esempio in Germania e in Olanda, hanno dato ampio spazio all’uscita dei cd. In un certo senso, quindi, lo abbiamo scoperto prima tramite la stampa straniera e poi attraverso alcuni giornali italiani che hanno ripreso le notizie pubblicate all’estero. In realtà, però, non si può parlare di una vera e propria scoperta perché eravamo al corrente dell’esistenza e della commercializzazione di queste cassette da almeno venti anni, se non da trenta.
Il punto è che in Calabria nessuno aveva mai dato grande importanza al fenomeno, nonostante fosse stato studiato e analizzato: i canti erano stati oggetto di una tesi di laurea di un etno-musicologo, Ettore Castagna, ed erano stati documentati in alcuni servizi della Rai regionale dall’antropologo Vito Teti. Ad ogni modo, queste testimonianze non avevano avuto una grande eco e, soprattutto, non avevano determinato un aumento delle vendite delle cassette. Ciò si deve al fatto che in Calabria, e penso anche nel resto d’Italia, i canti rappresentano un genere di musica marginale che non gode di una buona reputazione, non soltanto per i valori che veicola e per i messaggi che trasmette, ma anche perché si tratta effettivamente di pessima musica, realizzata con mezzi tecnici artigianali (quindi pessimo sonoro, pessima registrazione).
Per questa ragione era assolutamente impensabile che si potesse determinare un aumento delle vendite, cosa che invece è avvenuta, ad esempio, in Germania. Qui il fenomeno ha avuto un successo enorme e inaspettato. A differenza dell’Italia, ci sono stati concerti pubblici e tournee organizzate con la vendita di migliaia e migliaia di copie. Di conseguenza il cd è uscito anche in altri paesi europei -come l’Olanda, il Belgio e l’Inghilterra- e negli Stati Uniti, tanto che dal primo cd si è passati al secondo e poi al terzo, anche se il successo non ha più raggiunto i livelli de Il canto di malavita.
Quali sono, secondo la tua valutazione, le ragioni che possono aver determinato un tale successo?
A mio avviso questo successo non è stato determinato tanto dal fenomeno musicale in sé -almeno questa è la mia chiave di lettura- quanto dal caso che i giornalisti stranieri hanno creato attorno al fenomeno stesso. Le ragioni che possono spiegare un successo di tale portata si comprendono in gran parte leggendo gli articoli pubblicati dalla stampa internazionale.
I giornalisti stranieri hanno presentato l’uscita dei cd come se, in qualche modo, fossero stati loro ad aver scoperto per primi un fenomeno musicale che veniva mantenuto nascosto perché i canti rappresentavano una sorta di inno ad una specie di setta segreta di mafiosi, o di criminali. Hanno dichiarato che le cassette venivano vendute in maniera clandestina, quando tutte quante hanno il bollino della Siae, i cantanti sono registrati... La verità è che non si tratta di un fenomeno di musica underground, come emerge dalla loro analisi. Nei fatti, però, hanno presentato questo fenomeno come se fosse l’ultima musica popolare europea sconosciuta, quindi come se avessero portato alla luce un fenomeno musicale e popolare che rischiava di morire prima che qualcuno si potesse accorgere della sua esistenza. E poi hanno giocato moltissimo sul proibito: hanno scritto che in Italia la musica della ’ndrangheta è vietata, che chi canta queste canzoni rischia di essere denunciato, di finire in galera.
Qualcuno ha scritto addirittura che esiste un articolo della Costituzione italiana, l’articolo 21, che proibisce questi canti perché andrebbero contro il buoncostume. Ora, non è che i canti non vadano contro il buoncostume, è che effettivamente i cantanti potrebbero essere accusati di apologia di reato, che non è reato solamente in Italia, ma in tutti i paesi, Germania compresa.
Ciononostante, tutto questo è stato presentato come una limitazione della libertà di espressione, vale a dire come una forma di censura. Ma una censura di questo tipo non c’è mai stata dal momento che nessuno ha mai preso in considerazione le cassette da bancarella, nessuno ha mai attribuito loro un valore sociale, di massa, nessuno ha mai creduto che potessero rappresentare un pericolo. Tra le altre cose, più di un giornalista di testate straniere ha definito i canti come la musica dei ribelli, presentando quindi la mafia calabrese come un fenomeno di ribellione sociale. L’origine della mafia, secondo questa interpretazione, andrebbe ricercata quindi nel diritto all’autodeterminazione del popolo calabrese che nel corso della storia si è opposto alle varie occupazioni straniere (dai normanni ai greci, dai turchi ai piemontesi...), quindi come un fenomeno che dal Medio Evo prosegue fino ai giorni nostri.
Risulta evidente che una chiave di lettura di questo tipo ha necessariamente delle implicazioni sull’immaginario comune della Calabria, e non solo. In questo senso qual è l’immagine che ne deriva?
L’immagine della Calabria e dei calabresi che ne viene fuori è terribile: tutti mafiosi, tutti conniventi, tutti complici, un popolo chiuso e molto diffidente nei confronti degli stranieri... L’Aspromonte è stato dipinto come una terra di delinquenti, di latitanti, e alcuni giornalisti hanno persino invitato i propri lettori a non andarci. Altri si sono spinti sino al punto da realizzare interviste a latitanti, a boss, a persone che dichiaravano di aver ucciso e di aver fatto carriera nell’onorata società grazie al consistente numero di omicidi che erano riusciti a realizzare.
Io credo che l’immagine stereotipata del calabrese rozzo, crudele e brutale abbia avuto un grande successo anche perché, tutto sommato, conferma dei pregiudizi che esistono anche in Italia e che hanno un chiaro valore difensivo: in altre parole il fatto di identificare qualcuno come rozzo, violento o selvaggio significa automaticamente differenziarsi da lui, mettendo al sicuro la propria cultura, la propria società, la propria individualità da possibili contaminazioni con tutto ciò che si riversa addosso all’altro.
Allo stesso tempo non si può attribuire tutta la responsabilità di ciò che è successo all’estero ai giornalisti. Voglio dire, erano stranieri, erano ignoranti, si sono fidati dei propri informatori, ma l’immagine che è stata diffusa all’estero rispecchia quella che anche molti calabresi hanno della Calabria, e non mi riferisco solamente a quelli che sono andati via da questa regione, ma anche a persone che continuano a viverci e che la percepiscono in questo modo. Chiaramente non si tratta di un’immagine generale, però a mio avviso la prima responsabilità è nostra, di noi calabresi. I cantanti non hanno avuto alcun problema a dichiarare davanti alle telecamere delle televisioni straniere che la mafia è bella, riferendosi con ciò non alla criminalità organizzata di oggi, ma ad una vecchia mafia che probabilmente non è mai esistita in questi termini. Questo è un fenomeno che racconta molto bene l’immaginario collettivo mafioso e la mentalità mafiosa. Pochi mesi fa, tra l’altro, il produttore dei cd, Francesco Sbano, ha presentato un documentario dedicato agli uomini d’onore, in cui alcuni di questi raccontavano la loro storia con un certo romanticismo, mentre altri, studiosi o storici locali, giustificavano l’esistenza della mafia colpevolizzando esclusivamente lo Stato post-unitario e quello contemporaneo. Secondo questo documentario, insomma, i mafiosi sarebbero le vere vittime della storia.
Da questo punto di vista i canti sostengono un’immagine idealizzata di una cosiddetta vecchia mafia. Quali sono, secondo te, i messaggi che traspaiono dall’analisi dei testi?
I canti di ‘ndrangheta sono una sorta di vademecum, una specie di elenco di comandamenti, una guida, potremmo quasi dire, su come si entra e come ci si comporta nella ‘ndrangheta: quali sono i valori dell’uomo d’onore, cosa sono l’onore e l’omertà, perché è necessaria la vendetta... In questo senso i proverbi, i modi di dire e le canzoni, appunto, fanno parte di una sorta di corpus giuridico che indica cosa fare e cosa non fare. Si tratta di un corpus giuridico parallelo a quello dello Stato, caratterizzato da una forte rigidità. Questa rigidità, che emerge in modo molto chiaro nei canti, nega ogni possibilità ad un ritorno sui propri passi; è un nuovo “battesimo”: essere battezzati una seconda volta, cioè affiliarsi ufficialmente all’organizzazione, comporta una sorta di nuova nascita e significa entrare in un mondo parallelo, un mondo separato; in sintesi significa diventare uomo.
Questi canti hanno quindi una grande importanza dal punto di vista dell’ideologia della criminalità organizzata perché, ad esempio, giustificano l’omicidio per mafia. Da questo punto di vista, quindi, esiste un problema reale, perché si tratta di canti per i quali si potrebbe anche essere accusati di apologia di reato. Se vogliamo analizzare in profondità questi canti, però, occorre sottolineare che esiste una notevole differenza tra la criminalità organizzata di oggi, inserita in un contesto globalizzato, e la criminalità che viene celebrata nelle canzoni. Quella delle canzoni fa sempre riferimento a una cosiddetta vecchia mafia, rurale e arcaica, che nella realtà o non esiste o, se esiste, convive in ogni caso con la criminalità più evoluta. I canti esprimono e rappresentano in maniera molto fedele questa mentalità mafiosa e, in qualche modo, anche l’immaginario collettivo che le persone hanno della mafia, indipendentemente dalla loro prossimità al mondo mafioso. Nei canti, ad esempio, emerge il senso di appartenenza all’organizzazione, che viene intesa come una società segreta completamente separata dal resto della società. Questo comporta che solamente coloro che ne fanno parte possono essere considerati uomini e ciò non significa solamente che sono uomini d’onore, ma che sono uomini con il valore di uomini e con il valore di persone. Quindi chi non fa parte dell’organizzazione -e questo emerge in maniera molto chiara nelle canzoni- non è persona, cioè non ha il valore umano, e proprio per tale ragione può essere ucciso. Conta soltanto la vita degli affiliati: loro vengono esaltati nei canti come fossero eroi popolari e su di loro si scrivono ancora oggi degli inni, come quelli dedicati a Bellocco che sono stati scoperti dopo il suo arresto nella zona di Rosarno. La vita degli altri non vale niente e, di conseguenza, nei loro confronti i canti sono ricchissimi di minacce e di insulti. In sintesi quello che emerge è un mondo alla rovescia in cui gli onesti sono coloro che rispettano le regole dell’organizzazione -quindi l’omertà, il rispetto, l’onore e la capacità di farsi vendetta- e la criminalità vera e propria è quella di chi vive nel nostro mondo di persone normali che riconoscono l’autorità dello Stato e che, in questa ottica, vengono considerate incapaci di farsi giustizia da sé.
Da questo punto di vista i giornalisti stranieri si sono prestati in maniera eccezionale a questo gioco avvalorando l’auto-rappresentazione della ’ndrangheta, il modo, cioè, in cui gli uomini dell’organizzazione si presentano alla gente. Questa auto-rappresentazione, però, non è solamente un mezzo per auto-giustificare la propria esistenza, ma è anche un mezzo per ottenere consenso. Lo scopo dei canti è anche, come qualcuno ha scritto, quello di trascorrere allegramente qualche serata, ma è soprattutto quello di veicolare l’immagine idealizzata che la ’ndrangheta ha di se stessa. Tutto questo avviene in maniera abbastanza pericolosa perché con la ripetizione della musica e delle parole si stabiliscono dei meccanismi, degli automatismi tali per cui ci si riscopre a canticchiare e a ripetere queste canzoni. A mio avviso questo può significare tante cose: da un lato, c’è indubbiamente un senso dell’ironia, del ridicolo -anche perché le parole sono davvero incredibili- ma, dall’altro, non si può sapere come questi messaggi vengano recepiti da certi strati della popolazione e, soprattutto, non si può sapere se il fatto che queste cassette abbiano un mercato -ed evidentemente ce l’hanno anche in Calabria- sottintenda una certa condivisione dei valori. Io credo che il fatto che la società consideri come normale un fenomeno del genere, che lo avverta come qualcosa che non deve essere combattuto, può significare due cose: o che è una società con degli anticorpi molto forti, o che è una società collusa. Personalmente non mi pare che la società calabrese abbia degli anticorpi molto forti o sia una società capace di difendere le proprie istanze di civiltà e di democrazia.
Se valutiamo queste cassette da un punto di vista puramente commerciale, verrebbe da chiedersi quale sia il target di pubblico a cui si rivolgono e, allo stesso tempo, che interesse abbiano le persone che le producono, anche perché stiamo parlando di un fenomeno, quello mafioso, che si basa proprio su una rigida segretezza.
A questa domanda è difficile dare una risposta, però questo discorso della segretezza, e della non segretezza, è molto interessante. Il fatto che l’organizzazione sia segreta risulta molto utile per diverse ragioni: innanzitutto per rafforzare il senso di appartenenza, quindi per creare coesione nel gruppo; in secondo luogo per creare una separazione netta tra chi è dentro e chi è fuori, quindi tra chi è uomo e chi non lo è; in terzo luogo per aumentare il prestigio degli affiliati e quello dell’organizzazione stessa, perché in fondo si tratta di una segretezza relativa nel senso che in realtà tutti sanno. Nello stesso tempo il fatto che tutti sappiano e nessuno parli, o che tutti sappiano ma nessuno lo sappia ufficialmente, aumenta il fascino dell’organizzazione, anche perché, evidentemente, non tutti possono farne parte. Occorrono dei riti, dei battesimi, si viene scelti da piccoli e seguiti.
E’ difficile dire perché queste canzoni vengano prodotte e che tipo di interessi abbia chi le canta. Indubbiamente c’è un mercato fiorente e quindi interessi commerciali da non sottovalutare. A volte si tratta di cantanti indifferenti al messaggio sociale, di persone che cantano queste canzoni così come ne cantano tante altre. Non credo, cioè, che ci sia sempre una condivisione dei valori e dei messaggi né da parte di chi canta queste canzoni, né da parte di chi le ascolta, ma non posso nemmeno escluderlo. Dalle interviste che i cantanti dei tre cd hanno rilasciato, emerge chiaramente il loro amore nei confronti del mito della vecchia mafia: una società arcaica, legata ad ambienti rurali, che nell’immaginario collettivo si ergeva a difensore delle donne e dei bambini. Peccato però che questa vecchia mafia non sia mai esistita: la mafia è sempre stata un’associazione criminale ed è storicamente insostenibile la tesi secondo cui l’efferatezza della criminalità organizzata si sia affermata a partire dagli anni Settanta.
Per quanto riguarda il tipo di pubblico, invece, io dividerei innanzitutto l’Italia dall’estero. La presentazione che è stata data di questa musica all’estero -quindi come la musica di un popolo che si ribella per motivi nobili, che non accetta di sottomettersi alla dominazione dei piemontesi, che non vuole essere influenzato dall’esterno, che lotta contro uno Stato ingiusto che non dà ma prende- ha attirato l’attenzione di un pubblico “alternativ”, come viene chiamato in Germania, cioè un pubblico di cultura genericamente e superficialmente di sinistra, composto da appassionati di musica etnica che hanno creduto probabilmente che queste canzoni fossero qualcosa di simile a quelle dei ribelli dell’America Latina. Sicuramente, quindi, si tratta di un pubblico abbastanza curioso rispetto a culture diverse dalla propria, e soprattutto attratto dal gusto del proibito. Io ho visto diversi documentari realizzati dalle televisioni straniere e ho notato che la prima cosa che dicevano era che questa musica era proibita, era vietata, quindi che in un certo senso era la musica della trasgressione.
In Calabria il discorso è certamente diverso. Ci sono tante persone, e tra queste ci sono anch’io, che ogni tanto comprano le cassette per curiosità. So che ci sono carabinieri e dirigenti di Questura che ne fanno collezione, che le ascoltano e ridono, anche perché i canti utilizzano un linguaggio e una terminologia così arcaici, ma anche così brutali, che nella vita quotidiana nessuno oserebbe mai utilizzare. E’ un linguaggio che facilmente ti dà il senso del paradosso, del ridicolo; purtroppo, a mio avviso, non lo si prende molto sul serio, nel senso che si fa l’errore di non considerarlo espressione di mentalità. E poi, come dicevo prima, c’è anche un pubblico che, evidentemente, ascolta questa musica condividendone i messaggi ed i valori.
Qual è il rapporto tra i canti di ‘ndrangheta e la tradizione popolare calabrese? I confini tra l’una e l’altra sfera sembrano abbastanza sfumati...
Il discorso sul rapporto tra la musica della mafia e la tradizione popolare non è semplice, e non è neppure molto scontato. Io credo che i giornalisti stranieri e i produttori dei cd abbiano utilizzato questa eguaglianza, o presunta eguaglianza, tra musica popolare e musica mafiosa proprio per nobilitare quest’ultima. Quando si parla di cultura popolare si parla di una cultura millenaria, e soprattutto di una cultura estremamente condivisa. La musica della mafia non può essere più vecchia della mafia stessa, per cui parliamo di un fenomeno presente da un secolo e mezzo, due secoli al massimo. Se si parla di mercato musicale, le prime cassette risalgono agli anni Settanta, mentre se consideriamo le cosiddette canzoni di carcerato, andiamo ancora più indietro nel tempo, alla fine dell’Ottocento, o all’inizio del Novecento. A ogni modo i canti di carcerato erano una cosa completamente diversa dalla musica della mafia, anche se c’è qualcuno che sostiene invece che i canti di mafia sarebbero una ulteriore evoluzione dei canti di carcerato.
In realtà la differenza è sostanziale, ad esempio nei toni: i vecchi canti di carcerato sono malinconici, non c’è crudeltà, non c’è desiderio di vendetta, ma piuttosto il ricordo malinconico dei propri cari, della madre o della donna amata. Non ci sono quelle minacce terribili e cruente che troviamo invece nei canti di ‘ndrangheta, dove, a proposito degli infami, cioè di coloro che tradiscono, si dice che verrà loro spaccato il cuore, mangiato il fegato, oppure che finiranno murati nel cemento. I canti di ‘ndrangheta non possono essere considerati cultura popolare anche perché non sono condivisi a livello regionale, ma nascono in una zona estremamente limitata della Calabria che non è, come qualcuno potrebbe pensare, l’Aspromonte, ma la periferia urbana di Reggio Calabria e Cosenza. Sono, cioè, un fenomeno urbano, e di conseguenza moderno. Non hanno niente a che vedere con le campagne o con le montagne dell’Aspromonte, e neppure con i canti sui briganti. Io credo che ci sia una ragione che favorisce questa ambiguità, questo accostamento tra canti di ‘ndrangheta e cultura popolare, ed è il fatto che i canti di ‘ndrangheta si innestano su musiche popolari, ad esempio la tarantella, che, ad ogni modo, vengono utilizzate semplicemente come basi musicali. E poi ci sono differenze sostanziali: ad esempio il fatto che la musica popolare calabrese utilizza la chitarra battente, mentre i musicisti dei canti di ‘ndrangheta suonano la chitarra francese, quella con le corde in nylon. La differenza si percepisce anche a partire dalla voce: molto spesso i cantanti di musica popolare avevano una voce poco curata, a volte erano stonati, ma proprio perché a loro non interessava avere un canto puro, pulito nel modo in cui lo intende la musica colta; nei cd di canti di ‘ndrangheta, invece, tutto è estremamente nitido, la voce è impostata... Questo chiaramente non parla a favore dell’appartenenza di questa musica alla cultura popolare.
Rimanendo nell’ottica di questa relazione con la tradizione popolare, è interessante analizzare l’immagine che i produttori dei cd hanno scelto di mettere sulla copertina de Il canto di malavita: si tratta della statua di una Madonna portata in processione e seguita dalla gente e da due carabinieri. Chiaramente parliamo di un’immagine estremamente ambigua, soprattutto agli occhi di un pubblico straniero. Sinceramente credo che nessuno si sia chiesto perché ci fosse la fotografia di una statua della Madonna sulla copertina di un cd di canti di ‘ndrangheta. Un giornalista ha addirittura scambiato quella foto che ritraeva una processione per la foto di un funerale... Dico questo perché penso che nel centro e nel nord Europa sia assolutamente incomprensibile il legame tra la pietà popolare, la fede popolare, e la ‘ndrangheta. Si tratta di un legame che nella realtà non esiste, ma non è che questo rappresenti una forzatura in sé.
Il fatto centrale è che la signoria territoriale che le mafie esercitano nelle zone in cui sono presenti è tale per cui stabilisce un controllo su qualsiasi ambito: non ci sono settori della vita pubblica, o della vita della comunità, che possano sfuggire a questo controllo. Per tale ragione in alcune zone è diventato un elemento di prestigio il fatto che il mafioso del paese porti a spalla le statue dei santi durante le processioni.
Ora, questo accostamento tra religione e ‘ndrangheta, assieme alla presenza dei carabinieri, lascia degli ampi spazi di interpretazione, quasi come se manifestasse un consenso generale alla presenza della mafia sul territorio. Questa analisi, però, implicava la conoscenza del fenomeno e, soprattutto, la capacità di decodificare la simbologia e il linguaggio. Una delle peculiarità delle canzoni, infatti, è che utilizzano un linguaggio molto forte, non soltanto perché ricco di minacce, ma anche perché la simbologia presente in esso fa riferimento a una realtà arcaica che non può essere compresa immediatamente. Quindi l’accostamento tra musica mafiosa e cultura popolare che hanno fatto i cronisti stranieri dimostra certamente una evidente ignoranza. D’altra parte, è innegabile che sia in atto un vero e proprio tentativo di appropriazione della cultura popolare da parte di quella mafiosa, e questo lo vediamo, appunto, nelle processioni.
Io ho deciso di concludere il mio saggio con un reportage da Polsi, un santuario che si trova nel cuore dell’Aspromonte, in una zona in cui ci sono diversi paesini noti per la presenza del fenomeno mafioso. Polsi è il luogo della pietà popolare più rappresentativo della cultura calabrese, un luogo in cui il 2 settembre di ogni anno convergono migliaia di persone, tra cui molti calabresi emigrati che ritornano appositamente per la festa, e dove si celebra questo rito di adorazione di una statua della Madonna ricavata da una pietra pesantissima. Si tratta di un luogo dove si esprime una cultura religiosa millenaria, in cui ci sono tracce del culto delle pietre, del culto del sole, quindi di culti praticati da uomini che appartenevano ad una realtà arcaica.
Ora, nessuno può sostenere che questo luogo, dove andavano a pregare anche i mafiosi, dove si cantavano tante canzoni popolari, ma anche i canti di mafia, sia un luogo di mafia e basta, o sia un luogo in cui si esprime una religiosità intesa come espressione di una mentalità mafiosa. Ci sono tracce di una cultura antichissima su cui si sono sovrapposte tracce di una cultura moderna, quella mafiosa, che è arrivata successivamente.
Io credo che sia molto importante che si ponga l’accento sul fatto che i canti di natura mafiosa non siano eterni, non durino da un millennio, ma da un secolo e mezzo o due, perché dire questo, dire cioè che la cultura e la mentalità mafiosa hanno avuto un inizio, significa anche dire che avranno una fine.
* UNA CITTÀ, n. 143 / novembre 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Rai1 dal 20 Dicembre rivela gli intrecci tra la musica ed il crimine!
di Giancarlo Passarella *
Si intitola La Musicarmata la prima puntata di Segreti Pop, in onda Sabato 20 Dicembre su Rai1 alle 23.05. Poi si affronta l’argomento scottante del rapporto con la censura, dell’ingerenza dei servizi segreti e delle morti dubbie.
Nel nostro montaggio Bernardo Provenzano nelle foto segnaletiche di qualche decennio fa e la coppia Mina / Lucio Battisti al mitico programma StudioUno.
Sabato 15 Febbraio 2014 sono davanti al televisore: voglio vedermi Sanremo, zuffe e canzoni, anche perchè la settimana dopo inizia proprio il Festival di Sanremo e le voci si rincorrono... Sono le 14,30 quando il programma inizia e compare il volto dell’avvocato Italo Mastrolia, grande appassionato di musica, sia in ambito lavorativo, sia in quello personale. Lunedì 17 Febbraio gli indici d’ascolto (e l oshare) sono confortanti, così come il contenuto del programma, mai scontato e/o banale. Questo l’ipso facto: proprio a causa di quello specifico risultato, vengono così annunciate tre nuove puntate sullo stesso canovaccio....
Si chiamerà La Musicarmata la prima puntata di Segreti Pop, in onda sabato 20 dicembre su Rai1 alle 23.05, e tratterà di storie di cantanti e malavitosi che si intrecciano, a dimostrazione di quanto la musica e i suoi interpreti abbiano sempre esercitato un formidabile fascino sui criminali e di come l’industria delle armi abbia sorprendentemente spesso viaggiato in parallelo con quella discografica.
Come le musicassette di Mina, ritrovate nel covo del capo mafioso Bernardo Provenzano, i dischi di Lucio Battisti nei nascondigli delle Brigate Rosse e i boss di Cosa Nostra, impegnati nel duplice tentativo di condizionare il Festival di Sanremo e di imporre sul mercato statunitense le voci di artisti italiani.... Da Mina (bersaglio prediletto delle cosche italo-americane) a Maria Scicolone, da Dori Ghezzi a Franco Califano, da Tony Renis a Fausto Leali, da Massimo Ranieri a Pupo. Si raccoglieranno le testimonianze di cantanti, musicisti, addetti ai lavori di epoche diverse. Un programma di Michele Bovi con la prerogativa singolare che a condurlo non saranno professionisti dello spettacolo bensì differenti addetti ai lavori: avvocati, criminologi e tecnici di Intelligence. SEGRETI POP è programmato in un ciclo di 3 puntate - sempre il sabato in seconda serata - per 20 e 27 dicembre e 3 gennaio...
Era indubbio che dietro questa intuizione ci fosse Michele Bovi, da sempre attento sia alla purezza della missione del servizio pubblico, ma anche in gioventù sassofonista ed attento Indiana Jones delle storie italiane che ruotano attorno al mondo della canzonetta: ci si deve attendere allora qualche rivelazione in più sulla fine di Luigi Tenco? O forse si apriranno tutti gli archivi e sarà rivelato come la censura in Rai non solo fece mettere le calze alle scandalose Gemelle Kessler, ma anche bloccò un brano celebre come Dio è morto (firmato da Guccini, ma interpretato inizialmente dai Nomadi... brano passato prima a Radio Vaticano e solo dopo mesi sui canali Rai)? Gianni Morandi nel 1966 pubblicò su 45 giri una versione tradotta in italiano di Solitary man di Neil Diamond (intitolata Se perdo anche te, con il testo di Franco Migliacci e le musiche arrangiate da Ennio Morricone) ed era il lato B di C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, inno pacifista in un momento in cui le manifestazioni pubbliche portavano in piazza un variegato movimento: perchè non raccontare quali tipi di censura (o pressione) ha ricevuto dalla Rai di quei tempi?
I casi di censura ovviamente piano piano si sono diradati con gli anni, ma rimane aperto il capitolo dell’intelligence (italiana e non) e di come le varie sigle dei servizi segreti abbiamo curato artisti come Fabrizio De André piuttosto che lo stesso Elvis Presley, costringendolo (come recita una suffragata leggenda metropolitana) a non presentarsi ad un invito con un noto boss della mafia, invito giunto dopo la sua unica apparizione alla Casa Bianca, ospite di Richard Nixon. Quel suo diniego, fece scattare l’ira del malavitoso e (un pò come è successo per Enzo Tortora) fu costruito quello che in gergo si chiama il pacco, pieno di finte prove e pentiti manovrati: nel caso del presentatore italiano, questo porta al suo spegnersi lentamente, mentre per Elvis arrivò la decisione di sparire e di morire realmente dopo qualche anno, rispetto al celebrato 1977...
Chi si ricorda poi della fine di Rossano Attolico, cantante che nel 1971 presenta ad Un disco per l’estate il brano Ho perso il conto, composto da Roberto Vecchioni e Andrea Lo Vecchio (quest’ultimo ora tra l’altro apprezzato autore televisivo)? A New York il 3 dicembre 1976 viene ritrovato impiccato in una camera d’albergo, a soli 30 anni. La stampa parlò di suicidio, mentre alcune altre voci propendono per un omicidio, ma le circostanze non sono mai state ufficialmente chiarite: quella vicenda ricorda quella di Roberto Calvi, che il 18 giugno 1982 venne trovato impiccato da un impiegato postale, sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi a Londra ...
Come potete immaginarvi, l’elenco dei dubbi che abbiamo sulle pagine grige e nere della canzone sono molte, partendo dal rapporto del mondo neomelodico napoletano con la criminalità locale per arrivare a Franco Simone, censurato dai servizi segreti dei generali che avevano conquistato il potere in Argentina: in mezzo c’è tanto da raccontare e questo lo può fare solo la Rai ed il suo impegno come servizio pubblico, senza mai scivolare nel gossip o nello scandalo becero ed a tutti i costi! Queste derive lasciamole a chi fa televisione, senza il nostro contributo economico come canone annuale.
* MusicalNews, 07/12/2014 (ripresa parziale, senza immagini).
ALLARME MAFIE
Gli affari tedeschi dei boss
Quasi mille gli affiliati in esilio: è la Germania la nuova patria della ’ndrangheta calabrese
di FRANCESCO LA LICATA (La Stampa, 15/8/2009)
ROMA ’Ndrangheta regina delle mafie, più della celebratissima Cosa nostra. Sembra proprio la «Santa» calabrese l’organizzazione criminale più ricca e potente del momento. Traffica in droga, armi e rifiuti tossici e riesce, con relativa facilità, a riciclare e investire gli ingenti ricavati delle numerose attività illecite. Il territorio scelto per riprodurre il «brodo di coltura» calabrese è la Germania, dove le «famiglie» (le cosiddette ’ndrine) si sono insediate sin dagli Anni Ottanta, riproponendo l’identico modello sperimentato nelle varie zone della Calabria.
Accantonato il business dei sequestri di persona - ritenuto «dispendioso» per gli affiliati esposti a troppi pericoli e poco remunerativo rispetto al rischio della gestione di un ostaggio - i boss calabresi si sono buttati su attività redditizie che consentono, proprio per la facilità di acquisizione del denaro liquido, l’ingresso nelle attività lecite. E così, secondo il Procuratore di Stoccarda, Helmut Krombecher, soltanto i mafiosi residenti in Svevia «hanno lavato e investito oltre 900 milioni di euro in immobili e in aziende».
L’allarme proviene da un’analisi (400 pagine) del Bundeskriminalamt, la polizia federale anticrimine, che ha anche rispolverato un vecchio rapporto del servizio segreto tedesco sui rapporti fra mafia calabrese e mafia siciliana. E’ implicito che l’iniziativa delle autorità della Germania abbia subito un forte impulso in seguito alla strage di Duisburg (una faida con sei morti) di due anni fa. Da allora ha avuto inizio una stretta collaborazione con la polizia italiana e con la Procura nazionale antimafia. Un primo risultato è questo dossier, ripreso adesso dai giornali tedeschi e da «Calabriaora» ma risalente all’inizio di quest’anno.
Scrivono i poliziotti dell’Ufficio federale che nel territorio tedesco operano 229 clan ’ndranghetisti e che gli affiliati sono 967, tutti regolarmente «attenzionati» e schedati. Così si è scoperto che 206 di questi, un terzo della forza totale, sono originari di San Luca. Si tratta di una vera e propria rete di supporto finalizzata alla protezione di latitanti e fuggiaschi: cioè gente che vuole sfuggire alla legge, ma anche uomini in fuga dai loro nemici. Da San Luca, centro della «Casa Madre», fino a disperdersi lungo il Nordreno, Assia, Vestfalia, Baviera e Baden Württemberg. Ogni tanto si verificano punti di crisi: quando i motivi delle faide ancestrali si ripropongono anche in territorio straniero.
L’attività principale delle ’ndrine emigrate sembra il traffico della cocaina, anche per i buoni rapporti che i boss calabresi sono riusciti ad instaurare con i cartelli colombiani. In evidenza anche il racket, praticato tranquillamente nelle grandi città tedesche ed imposto ai «paisà» che sbarcano in Germania senza nessuna rete di protezione. La «Santa» risolve i problemi e chiede in cambio pizzo, fedeltà e obbedienza. L’ultima frontiera dei traffici, ben collegata con complici italiani, è l’attività di trasporto e smaltimento dei rifiuti tossici: un’attività che fa capolino di tanto in tanto ma che non ha mai ricevuto l’attenzione che meriterebbe. L’enorme ricavato di tanta illegalità viene riciclato e reinvestito. Alberghi, turismo, piccole e medie aziende e soprattutto pizzerie e ristoranti come quello (Da Bruno) dov’è avvenuta la strage di Duisburg.
Persino i seriosi investigatori teutonici, nel descrivere il reinvestimento dei capitali sporchi nelle pizzerie, si sono abbandonati all’immaginifico ed hanno titolato: «Ecco la guida Michelin del crimine organizzato in Germania». Centinaia di locali, pub e discoteche. La statistica conclude che «61 ristoranti sono di proprietà del clan Pelle-Romeo e nove delle “famiglie” Nirta-Strangio».
Tanta modernità non impedisce la riproposizione dei riti antichi. Il «Tribunale» che ha sede nella Sibaritide calabrese si è riunito anche a Norimberga ed ha sentenziato pene di morte. Così ha raccontato ai federali il pentito Giorgio Basile, una volta killer di fiducia del boss Santo Carelli. Per sentenza di quella «Corte» sono stati uccisi in Germania Vincenzo Campana, detto «Qua qua», Arcangelo Conocchia e Giovanni Viteritti, «’u pacciu». L’aspetto che preoccupa di più le autorità tedesche riguarda, però, il tentativo di infiltrazione nell’economia legale e nella Borsa. Non pochi segnali inquietanti vengono da Francoforte, dove si teme l’ingresso di denaro dubbio persino nel «gigante energetico» della Gazprom, quotato in Borsa.
Una seconda parte del rapporto dei federali riprende un vecchio rapporto del servizio segreto che avanza una «pista tedesca» per le stragi di Cosa nostra, in Italia, del ’92 e ’93. Secondo il dossier la mafia siciliana avrebbe ottenuto dai calabresi ingenti quantità di esplosivo pagato con cocaina. Il dossier contiene anche le rivelazioni di alcuni pentiti calabresi che, dopo la strage di Falcone del maggio ’92, avrebbero dato l’allarme per una «seconda strage più grave dell’altra». Le indagini allora non andarono da nessuna parte e oggi non sembrano poter offrire nuovi appigli ai magistrati che portano avanti le inchieste siciliane.
Dal libro "Parole d’onore" di Attilio Bolzoni è nata una piéce in lingua inglese
Ora il debutto a Londra e la vetrina del Fringe Festival ad Edimburgo
I boss mafiosi raccontano se stessi
"Curiosità, quasi sbirritudine"
Il linguaggio e codice "morale" di Cosa Nostra nei discorsi di chi vi fa parte
Lo spettacolo in novembre arriva anche in Italia: si comincia all’Ambra Jovinelli di Roma
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
LA MAFIA dall’interno. Raccontata da loro, gli uomini di Cosa Nostra. Con il linguaggio, le regole, il codice "etico" che accomuna boss e soldati semplici. Come quando Totò Riina dice questa frase, rimasta celebre: "La curiosità è l’anticamera della sbirritudine". O come il comandamento in base al quale non ci si può affiliare se si ha "uno zio finanziere, un cugino poliziotto, una madre separata o una sorella malandata". O come nel dialogo (vero) tra i due fratelli Marchese: uno è innamorato di una ragazza i cui genitori divorziano, l’altro gli ricorda non è possibile, sarebbe immorale, ma propone la soluzione: dato che invece le nozze con un’orfana sono ammesse, lui potrebbe ammazzare padre e madre...
A svelare un campionario così unico di antropologia mafiosa è stato l’inviato di Repubblica Attilio Bolzoni, nel suo libro Parole d’onore (Rizzoli). La novità è che adesso quest’opera ha lasciato la pagina scritta ed è emigrata in palcoscenico. Diventando carne, volto, voce, spettacolo per un pubblico. Uno show chiamato Words of honour, scritto dallo stesso Bolzoni, che debutta adesso nella capitale mondiale del teatro, Londra, e in quella che è forse la più importante manifestazione del settore, il Festival di Edimburgo. Ma che in autunno sbarcherà anche in Italia.
Dunque una dimensione internazionale, per una piéce centrata sulla mafia: parola il cui valore evocativo non è mai venuto meno, presso il pubblico mondiale. Al centro dell’operazione c’è un attore siciliano che vive in Inghilterra: si chiama Marco Gambino, l’abbiamo già visto in alcune fiction mafiologiche (tra cui Il Capo dei capi) e ha la faccia e il carisma giusti per interpretare i quattro monologhi, con quattro diversi tipi di uomo d’onore, che costituiscono l’ossatura dello spettacolo. C’è il nostalgico, alla Tommaso Buscetta, del genere "quant’era bella la Cosa Nostra del passato". C’è il "serpente" sanguinario e carico d’odio: Totò Riina. C’è il "pappagallo" alla Gaspare Mutolo, attentissimo a difendere il codice morale e familiare dell’organizzazione. E infine c’è il vecchio molto religioso, alla Michele Greco.
In tutto, cinquanta minuti di parole e di maschere mafiose doc, recitate in lingua inglese (con qualche incursione nel siciliano) con la regia di un’altra italiana trapiantata Oltremanica, l’attrice napoletana Manuela Ruggiero. Lo show è in cartellone al Jermyn Theatre di Londra, a un passo da Piccadilly, nel cuore del West End: dopo un’anteprima di inizio agosto, è in cartellone dal 7 settembre al 3 ottobre. Prima, però, c’è la vetrina prestigiosa del Fringe Festival di Edimburgo: la prima il 6 agosto, e poi è in calendario fino al 31 dello stesso mese.
In Italia, invece, lo spettacolo - con lo stesso cast, ma recitato nella nostra lingua - è in programma dal 3 al 29 novembre all’Ambra Jovinelli di Roma. Poi ci sarà un mini-tour nel basso Lazio, in cui verranno coinvolti anche gli studenti e gli anziani; e infine in tour nel resto d’Italia. A febbraio-marzo 2010, lo sbarco oltreoceano: probabilmente, in Argentina e negli Stati Uniti.
Ma quanto è stato difficile trasporre Parole d’onore, scritto da un giornalista espertissimo della materia, in spettacolo teatrale, capace di catturare l’attenzione di un pubblico internazionale? "Un volume del genere - spiega oggi Bolzoni - non è difficile da trasformare in show teatrale: è infatti un racconto fatto di tanti racconti, testimonianze, episodi, che ho raccolto nei miei taccuini di cronista in trent’anni di lavoro. Con questo materiale così vivo, la trasposizione non è stata complicata. Anche perché a incarnare Words of honour è una faccia bella, espressiva e ambigua come quella di Gambino. La sfida, adesso, è vedere se il pubblico anglosassone saprà apprezzare un prodotto nato qui in Italia".
Ultima annotazione: all’inizio dello show, vediamo rotolare verso il palcoscenico un’arancia. A evocazione del fatto che i mafiosi, nella cerimonia di iniziazione, si pungevano il dito con le spine di arancio amaro. Ma non si tratta di agrumi qualsiasi: quelli utilizzati in teatro, infatti, sono offerti dall’associazione "Addio pizzo" di Palermo. E portano tutti l’etichetta "Pizzo Free".
* la Repubblica, 3 agosto 2009
Ansa» 2008-05-09 18:03
’NDRANGHETA: IL RUOLO DELLE DONNE
(di Ezio De Domenico)
REGGIO CALABRIA - Un ruolo fondamentale sotto l’aspetto logistico ed organizzativo: sono le donne le protagoniste delle vicende di ’ndrangheta. I loro consigli agli uomini delle cosche, mariti, fidanzati o fratelli, vengono sempre tenuti in grande considerazione. In piu’ garantiscono la copertura ai latitanti, assicurando loro assistenza.
La funzione delle donne nella moderna organizzazione di ’ndrangheta emerge anche dall’operazione ’Zaleuco’, condotta dai carabinieri del Gruppo di Locri, che ha portato all’arresto di nove affiliati alle cosche Pelle-Vottari e Nirta-Strangio contrapposte da anni nella faida di San Luca. Una lunga scia di sangue che ha avuto il suo culmine il giorno di Ferragosto dello scorso anno con la strage di Duisburg, in Germania, con l’uccisione di sei affiliati alla cosca Pelle-Vottari davanti al ristorante ’da Bruno’.
Le donne, dunque, sempre più protagoniste e sempre più importanti. Nell’operazione coordinata dalla Dda di Reggio Calabria ne sono state arrestate tre, Maria Pelle ed Antonella Vottari, rispettivamente moglie e sorella del boss Francesco Vottari, già arrestato nell’ottobre scorso. Sarebbe stato grazie a loro che Francesco Vottari è riuscito a sfuggire a lungo alla cattura. La terza donna arrestata è Giulia Liana Benas, bloccata dai carabinieri al casello autostradale di Udine Sud. A lei la Dda contestato il ruolo di favoreggiatrice.
Ma il ruolo delle donne è importante anche per consentire le comunicazioni con i latitanti. Sono loro, infatti, ad incontrarli per fornire loro ciò di cui hanno bisogno ed a fare recapitare i loro messaggi ai capi delle cosche. Delle donne i capi delle cosche possono fidarsi perché il loro senso dell’onore e dell’appartenenza al gruppo criminale è più forte di quello degli uomini.
Oltre alle tre donne, sono stati arrestati Francesco Barbaro, già detenuto e capo dell’omonima cosca; Gianfranco Cocilovo, imprenditore di Bologna; Giovanni Marrapodi, odontotecnico, di San Luca; Domenico Mammoliti, di Benestare; Giuseppe Pelle, di San Luca, sorvegliato speciale con obbligo di dimora, ed Antonio Romano, anch’egli di San Luca.
Con l’operazione Zaleuco la Dda di Reggio ritiene di avere messo un punto fermo nelle indagini sulla faida di San Luca, chiudendo il cerchio che si era aperto con il fermo, il 30 agosto dello scorso anno, di 29 persone. Significativo, ha rilevato il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, è anche il fatto che è stata contestata agli arrestati l’aggravante dei reati di mafia commessi all’estero, a dimostrazione del carattere transnazionale dell’attività delle cosche di San Luca.
All’attenzione del gentilissimo Emiliano Morrone.
Sono Francesco Sbano, produttore della trilogia delle canzoni della ’ndrangheta a cui si riferisce proprio il testo "Mammasantissima" calabrese, la Calabria sotto pressione dall’interno ...e dall’estero!!!". Sarebbe possibile rivolgere anche a me delle domande inerenti l’operazione della pubblicazione dei canti della ’ndrangheta all’estero?
Potrei essere utile nel chiarire i veri fini del progetto "La Musica della Mafia". Per esempio: come mai la band di Mimmo Siclari e cantori di malavita" ha suonato lo scorso anno all’interno di un programma dedicato all’Italia in uno dei maggiori oggetti dell’UNESCO il ZOLLVEREIN di Essen in Germania? La serata é iniziata nel pomeriggio con le composizioni di Scarlatti, eseguite da grandi esecutori tedeschi, cinesi, americani. A chiudere la serata é stato prorio il gruppo di Mimmo Siclari. Le sue canzoni sono state a lungo festeggiate da un pubblico avvezzo alla musica classica. Un’altra cosa: come mai il primo volume della trilogia é stato pubblicato in Italia dalla Amiata Media di Firenze, che per problemi tecnici non é riuscita a distribuire bene il prodotto, cosa non semplice ai giorni d’oggi per una piccola casa discografica? Oppure: come mai il progetto in questione é stato anche oggetto di studio a Copenhagen nel 2002, nella cornice del Congresso Mondiale per la Difesa dei Diritti Umani, sezione "music and censorship"? Il congresso di Copenhagen, alla fine, ha fatto le lodi agli iniziatori del progetto.
Mi chiedo come mai la Visconi nasconda tutto questo. Eppure, per evitare equivoci, il primo volume é stato presentato proprio da uno dei maggiori musicologi d’Europa: Goffredo Plastino, professore all’universitá di Newcastle in Inghilterra, anche lui calabrese.
Cordiali saluti,
Francesco Sbano