"Lei non sai chi sono io!" equivale a una minaccia
di GRAZIA LONGO *
Dall’ironica ilarità che scatena sul grande schermo, per bocca di Totò e Alberto Sordi, alla condanna in tribunale. «Lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!» è un’esclamazione ritenuta minacciosa e quindi punibile dalla legge.
Lo ha stabilito la Cassazione che ha annullato l’assoluzione di un distinto sessantenne di Salerno, Antonio G., che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia C., con la quale c’erano già state liti e incomprensioni. La suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale».
Antonio G. era stato graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva stabilito «l’inidoneità offensiva» della locuzione oggi incriminata, dopo il ricorso del Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno. Il sessantenne s’indigna, protesta, ribadisce di non aver mai voluto intimidire la signora e si definisce un «perseguitato giudiziario». Ma la Cassazione non gli crede e scrive chiaro e tondo che «è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».
E di certo non è piacevole stare di fronte a qualcuno che per indurti a fare qualcosa, o ancor più a non farla, ti rifila un sonoro «Lei non sa chi sono io!». Tra i casi più recenti, per evitare una multa dei vigili, l’hanno pronunciata la showgirl Aida Yespica, i parlamentari Gabriella Carlucci e Vittorio Sgarbi. Persino l’attuale presidente del Senato Renato Schifani, nel 2002, chiese alla sua scorta di identificare una maschera del cinema Aurora di Palermo perché gli aveva restituito, in quanto scaduta, la sua tessera Agis (Associazione generale italiana spettacolo) per vedere gratis i film.
Ma anche nella finzione, la frase può suonare in modo diverso in base a chi la pronuncia e al contesto. Nel film «Totò a colori» il principe della risata suscita simpatia quando apostrofa l’onorevole Trombetta. Nel «Vigile», con Alberto Sordi che vuole multare persino il sindaco (Vittorio De Sica), questi lo riprese stizzito con la frase minacciosa ed ha la meglio. La realtà con la sentenza della Cassazione, restituisce dignità ai destinatari dell’illegale «Lei non sa chi sono io!».
* La Stampa, 8 luglio 2012.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
Donna: nomade e plurale
di Rosi Braidotti *
Ormai, il soggetto del femminismo non è la donna come altro privilegiato e speculare del maschile, ma piuttosto le donne, in quanto pluralità quantitativa e molteplicità qualitativa che hanno preso le distanze dalla femminilità classica come istituzione e come sistema di rappresentazione. Le donne non si riconoscono più nelle modalità discorsive di un soggetto che passa per universale. Esse forse non sono più neanche una “lei” - soggetto femminile - ma piuttosto una molteplicità incarnata, un insieme complesso e contraddittorio, il soggetto di una mutazione autentica.
La prima università del Perù non potrà chiamarsi «cattolica»
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 27 luglio 2012)
Era scaduto l’8 aprile scorso l’ultimatum delle autorità vaticane. Invano. La Pontificia universidad católica del Perú era rimasta ferma. Nessuna traccia della revisione dello statuto richiesta da Roma affinché programmi e insegnanti si allineassero ai vincoli imposti nel 1990 da Giovanni Paolo II alle università cattoliche. Era proseguita la litania di dispetti, comunicati, ispezioni.
Infine la Santa Sede ha deciso. Il segretario di Stato vaticano, per conto del Pontefice, ha emesso un decreto che ritira alla prima università del Perù il diritto di chiamarsi «pontificia» e «cattolica» e di rilasciare diplomi ecclesiastici. I vescovi peruviani sono solidali col Papa. Gli avvocati si danno battaglia su immobili e terreni di proprietà ecclesiastica. Opinione pubblica, corpo accademico e studenti inneggiano alla resistenza.
Ultimo episodio di una lunga storia di tensioni tra Roma e le università cattoliche sparse nel mondo, il decreto del cardinale Bertone mette in scena la collisione tra due mondi. Da un lato una Curia romana che difende le proprie prerogative, il senso dell’autorità, la visione dell’educazione cattolica come bastione dell’ortodossia e dell’ordine ecclesiale. Che si vuole interprete del diritto delle famiglie e degli studenti ad un prodotto coerente col marchio. Dall’altro una comunità universitaria forte della propria missione nel Paese, orgogliosa di una diversità da difendere contro ogni colonizzatore, sfrontatamente libera.
Lo scontro in atto coglie un aspetto cruciale della crisi vaticana degli ultimi tempi, rivelando la difficoltà della Santa Sede di governare la cattolicità mondiale e di governarla attraverso la dottrina e l’educazione. Se ciò è caratteristico del nostro tempo, è ancor più significativo che le due parti abbiano confuso la questione di fondo con il braccio di ferro per il comando, in un vortice di retorica e colpi bassi che è la cifra della cronaca di mesi di incomprensioni tra Roma e Lima. Ambizioni personali, strategie di potere, interessi economici, procedure opache hanno avvolto una nobile contrapposizione in una nebbia che ha confuso i contorni delle cose e annacquato le responsabilità.
Gli studenti che protestano a Lima hanno inquietudini, idee, urgenze. Animano ogni giorno sul sito web «La luz luce», insieme a colleghi di tutto il Sudamerica, uno straordinario dibattito sul senso di un’università cattolica oggi. Le loro domande e risposte dissipano la nebbia: illuminano il valore del conflitto culturale e religioso di cui sono protagonisti.
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 18.07.2012)
Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?
Le istituzioni e le persone
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 17.07.2012)
Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi.
Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.
Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.
Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea.
Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino.
Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti.
Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.
Deciderà, com’è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione. Perché delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione.
Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell’istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.
La verità e le regole
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.07.2012)
IL CONFLITTO fra i poteri dello Stato sollevato dalla Presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo, e portato davanti alla Corte costituzionale, ha indubbiamente gravissime implicazioni e altissime potenzialità di crisi istituzionale. Che vanno chiarite al più presto e, se possibile, raffreddate.
Osservato che non erano né irrilevanti né infondate le perplessità sollevate a suo tempo da Eugenio Scalfari sulla vicenda delle intercettazioni indirette al capo dello Stato, e che non del tutto chiare erano state le risposte dei magistrati di Palermo, si devono primariamente operare distinzioni.
La prima delle quali è tra la persona di Napolitano e la materia processuale nel cui ambito le intercettazioni sono avvenute - che è la complessa indagine sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. La verità pubblica e ufficiale su quella trattativa - se c’è stata, per ordine di chi, in quali termini - deve essere accertata attraverso la via giudiziaria: è, questo, un dovere istituzionale della magistratura, dalla quale l’opinione pubblica democratica si attende comportamenti ineccepibili e radicali, che facciano luce piena su un passaggio oscuro, e cruciale, della storia della repubblica. La verità è interesse di tutti gli onesti; anzi, è loro diritto.
Ma nessuno può pensare che quella verità stia nelle risposte di Napolitano a Mancino, che gli telefonava. Nel merito, le parole di Napolitano non possono dire nulla di rilevante su quella vicenda. E chi chiede che vengano stralciate e distrutte non sta coprendo reati, o ombre, o opacità. Sta invece chiedendo che vengano rispettate le prerogative del capo dello Stato, che in circostanze come queste non può essere intercettato neppure occasionalmente e incidentalmente. Come appunto sostiene Napolitano, preoccupato non per sé ma per la carica istituzionale che ricopre, che vuole consegnare al successore priva di ogni lesione nei poteri e nei diritti costituzionalmente sanciti.
Poiché la questione sotto il profilo giuridico è se la magistratura sia stata corretta o abbia ecceduto nei suoi poteri, se quelle intercettazioni occasionali debbano essere distrutte subito o solo dopo una valutazione del gip, se siano irrilevanti soltanto per le risposte di Napolitano o nella loro interezza (cioè anche nelle parti di Mancino), e poiché si tratta di una questione difficile, è giusto lasciare alla Corte costituzionale il compito di decidere.
Ma - seconda distinzione - la sostanza politica della vicenda non è qui. È, invece, nei sospetti che si vogliono avanzare sul Presidente, per indebolirne l’immagine e il ruolo politico; per travolgere, con un allarmismo qualunquistico, quel che resta della legittimità repubblicana, e per confezionare un’immagine di Paese allo sbando. Sarebbe, questa, l’ultima autolesionistica risposta delle élite ciniche e riluttanti (il cinismo ha infatti molte facce, anche quella dell’oltranzistico giustizialismo) al dovere del momento: che è di salvare l’Italia nella dignità, non di farla affondare in una universale vergogna.
Una terza distinzione è poi quella fra illecito e inopportuno. Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti.
Per ultima, la distinzione fra le prerogative del capo dello Stato e il normale diritto-dovere di cronaca. Inviolabili tanto le une quanto l’altro; e neppure confliggenti. Infatti, una democrazia costituzionale vive di regole, se queste sono sostanza etica e non superficiali formalismi giuridici: la violazione di uno status - quello del presidente della Repubblica -, quando è solennemente sancito dalla Carta, non è un atto di libertà, ma uno sgarro istituzionale e un gesto oggettivamente sfascista; allo stesso modo, utilizzare pretestuosamente la vicenda delle intercettazioni del Quirinale come metro per valutare altre intercettazioni, e per varare una legislazione proibizionistica - o comunque lesiva della libertà d’informazione e del diritto dei cittadini di essere informati - è un proposito liberticida che, mettendo il bavaglio ai mezzi di comunicazione, nasconderebbe agli italiani notizie sostanziali e determinanti sulla loro condizione civile e politica, sullo stato della loro democrazia. Entrambi i diritti - quello del capo dello Stato e quello degli italiani - vanno conservati intatti, per conservare insieme a essi la sostanza della democrazia, cioè i diritti di tutti.
Mai come in questo caso la distinzione - cioè, secondo l’etimologia, la critica - è esercizio virtuoso, di giudizio, di prudenza e di verità. Come è invece esercizio vizioso quello di tutti coloro che fanno di ogni erba un fascio e, sotto il pretesto dell’interesse alla verità, la seppelliscono così in una notte in cui tutte le vacche sono nere.