L’ombra lunga del grande timoniere
Rivolte di massa, scioperi operai, critica al governo e denuncia della corruzione. La Cina della «via al capitalismo» riscopre i conflitti sociali. Gli ultimi numeri della rivista «Monthly Review»
di Edoarda Masi (il manifesto, 22.09.2006)
«Compagni, parliamo dei rapporti di produzione!». Con questa frase si conclude un celebre intervento di Bertolt Brecht al congresso degli scrittori antifascisti del 1935 a Parigi, che inaugurò pubblicamente la politica dei fronti popolari, o fronti uniti. Un analogo atteggiamento critico (se pure non di rigetto) nei confronti di quella politica manifestò allora in Cina Lu Xun. Era il tempo duro della «Lunga marcia», e Mao Zedong non era in condizione di intervenire nel dibattito; tuttavia adottò una politica nella sostanza più vicina alle posizioni di Lu Xun e Brecht che a quella ufficiale dei partiti comunisti di allora. In seguito enunciò questo suo orientamento con le parole «non dimenticare mai la lotta di classe» e vi si attenne con coerenza. Credo sia il motivo di fondo per il quale Mao, e quanti non ne rinnegano la memoria, vengono oggi esposti al pubblico disprezzo e all’odio popolare da chi, ben lontano dal dimenticare la lotta fra le classi, si colloca però dall’altro lato del fronte. È opportuno per costoro che nei lavoratori (di ogni tipo e settore e di ogni continente e paese) il concetto stesso della lotta di classe sia cancellato. Non lo comprendono quanti, accecati da pregiudizi dottrinari, dimenticano di riferirsi a quella contraddizione primaria e fanno fede a testi politicamente contrassegnati dall’anticomunismo (o peggio, da risentimenti personali come quello della ex guardia rossa Chang Jung, recensito negativamente dagli studiosi di tutto il mondo) anziché valersi della ricca messe di documentazione e di critica oggi disponibile sulla storia della Cina prima e dopo la morte di Mao Zedong, a cominciare dai materiali sulla rivoluzione culturale pubblicati dall’Università cinese di Hong Kong, dalle opere di William Hinton e dai testi e filmati di Carma Hinton, dalle indagini di tanti studiosi cinesi e non, e anche da quanto ci giunge attraverso le voci della letteratura.
Un’inchiesta preziosa
La Monthly Review negli ultimi tre numeri (vol. 58/2,3,4) sul tema della lotta fra le classi - in Cina, negli Usa, nel mondo - ha messo un accento particolare. Sul numero 58/2, è comparso uno studio sulla Cina prima e dopo gli anni ’80, Conditions of the Working Classes in China firmato da Robert Weil - autore di Red Cat, White Cat - leggibile nel web (www.monthlyreview.org)[*].
L’articolo si basa su una serie di incontri dell’autore e suoi collaboratori con operai, contadini, organizzatori e attivisti di sinistra nell’estate 2004 principalmente a Pechino e dintorni, Zhengzhou e Kaifeng nel Henan (provincia centrale), e nel Jilin (Nord-est). Scopo dell’inchiesta: rilevare gli effetti delle trasformazioni radicali occorse nei tre decenni seguiti alla morte di Mao.
Con il ritorno alla «via capitalistica», le classi lavoratrici si trovano in condizioni sempre più precarie; un’estrema polarizzazione si impone in una delle società già fra le più egualitarie; una corruzione rampante associa le autorità del partito e dello stato ai manager e ai nuovi imprenditori privati. Le classi lavoratrici subiscono uno sfruttamento per oltre mezzo secolo sconosciuto. Fra gli operai intervistati molti appartengono ai milioni di licenziati dalle imprese già di stato, con la perdita di qualsiasi forma di sicurezza sociale di cui già godevano (abitazione, istruzione, salute, pensione). I contadini, con lo scioglimento delle comuni e l’introduzione del sistema di responsabilità familiare (contratto fra singole famiglie e villaggio per l’assegnazione della terra in piccolissime unità: forma di transizione alla proprietà privata della terra, con esclusione però di alcuni vantaggi che la piena proprietà comporterebbe), sono esposti alla vendita, senza compenso adeguato, delle terre loro assegnate (e sulle quali hanno fatto degli investimenti) da parte dei burocrati locali associati a imprese di costruzione di vario tipo. Si è verificato così l’esodo di massa dalle campagne dei contadini impossibilitati a sopravvivere per l’esiguità della terra loro assegnata o da questa del tutto espulsi, e alla ricerca di un lavoro nelle città, soprattutto nel settore edilizio, pagati con salari di fame spesso in nero (giacché il loro trasferimento di residenza è illegale), e sottoposti a trattamenti semi-schiavistici.
Tra rivolta e incidenti di massa
La realtà cinesa non è però segnata da rassegnazione o da una passività operaia. Conflitti e rivolte sono infatti in aumento. Riconosciuti dall’autorità, nel 2004, 74.000 «incidenti di massa, dimostrazioni e rivolte» hanno coinvolto fino a decine di migliaia di persone - tanto da allarmare il governo centrale, in cerca di misure per attenuare la crescente instabilità sociale. Anche le nuove classi medie urbane, che più hanno beneficiato del nuovo regime per quel che concerne un più largo accesso ai beni di consumo e alimentari, si trovano spesso in difficoltà a causa della crescente gerarchizzazione fra le classi e gli alti costi di alcuni beni e servizi - in particolare le spese per l’istruzione (ormai a costi proibitivi la secondaria, gratuita durante il governo di Mao). Siamo all’inizio di un periodo di grave instabilità sociale. Robert Weil riferisce di molti episodi di resistenza operaia alla privatizzazione delle imprese di stato, ai licenziamenti in massa, alla distruzione delle loro stesse condizioni di esistenza: occupazioni di fabbriche, sottrazione delle macchine destinate alla distruzione, solidarietà fra lavoratori delle diverse imprese; attività di volontari per favorire il collegamento e l’organizzazione dei lavoratori, nonostante la dura repressione poliziesca e giudiziaria, e il frequente disinteresse delle autorità locali di fronte ai soprusi. Anche i contadini subiscono da parte delle autorità locali corrotte e della polizia soprusi, che restano però, al confronto, relativamente invisibili, tranne nei casi in cui la scala della rivolta e della repressione sia troppo larga, come quando nel corso di una protesta per la requisizione di terre nel dicembre 2005 a Dongzhou nel Guangdong furono uccise venti persone.
Il carattere peculiare che si rileva nella resistenza dei lavoratori cinesi, sottoposti a una pressione, per quanto estrema, analoga a quella di tanti altri loro compagni nel mondo intero, è il grado molto alto di coscienza di quanto accade. Giacché, osserva Weil, fra i contadini, i migranti, e i lavoratori urbani sono presenti uomini e donne politicizzati, che si sono formati su testi di Marx e Mao e che sono molto avvertiti della differenza tra il capitalismo attuale e il recente passato della Cina, segnato dal tentativo di costruire il socialismo. Questa coscienza oggi non discende più principalmente dai settori intellettuali ma sale dalle stesse classi lavoratrici. Specialmente in alcune zone, come quella intorno a Zhengzhou, ci si vale di una eredità di lotte che risale agli anni Venti, arricchita dallo scontro fra le «due linee» negli anni ’60 e ’70. Nel periodo del «socialismo», e specialmente della rivoluzione culturale, gli operai stavano acquistando un graduale controllo nella gestione della fabbrica, e considerano la fabbrica stessa come un bene che appartiene a loro, come proprietà collettiva che oggi viene illecitamente sottratta. Un operaio di Zhengzhou spiega all’intervistatore che il presente sistema di «capitale burocratico» è fondamentalmente un problema politico, non economico: «in superficie sembra economico, ma in realtà si tratta di una lotta fra socialismo e capitalismo».
Weil, mentre rileva i segni della formazione di una possibile nuova sinistra che porti a collegare i lavoratori, osserva pure che si tratta di una fase embrionale, che vi sono forti differenze fra lavoratori anziani e giovani, e che se il movimento non si svilupperà rapidamente, i lavoratori più giovani, che non hanno memoria del passato, cadranno nella lotta economica per «condizioni migliori» - influenzati anche dallo slogan di Deng Xiaoping: «arricchirsi è glorioso». Un’altra, più grave difficoltà, è la tensione fra operai, contadini, migranti. «Sembrerebbe che il convergere delle condizioni dei lavoratori urbani,dei migranti e dei contadini - e anche di molti appartenenti alla nuova classe media - possa costituire la base per una larga unità di lotta contro quelli che li sfruttano. Ma - scrive Weil - come dovunque nel mondo in condizioni simili, è più facile concepire in teoria che attuare in pratica l’unità delle classi lavoratrici». Difficoltà dovute, continua ancora Weil - non solo ai pregiudizi (per esempio, dei lavoratori urbani nei confronti di contadini e migranti, e viceversa), ma anche a forme effettive di competizione fra la massa di migranti lavoratori di second’ordine e i lavoratori urbani da vecchia data, cui si aggiungono politiche del divide et impera. Infatti, non sono mancati episodi in cui, a reprimere gli operai in lotta, la polizia ha impiegato centinaia di contadini, muniti di elmetto e manganello. Per non parlare degli immigrati a basso salario che vengono assunti al posto di operai licenziati dalla imprese statali: tutto ciò non può non provocare risentimento.
In nome di Mao
Le minoranze che mirano a ravvivare la lotta per il socialismo, e l’unità fra i lavoratori divisi, operano in molti campi: la loro caratteristica è di non essere più, come si è detto, minoranze specificamente intellettuali: al contrario, spesso sono gli studenti che volontariamente ripetono una «discesa al popolo» (oggi osteggiata dalle autorità) per superare i limiti ancora presenti nella loro rivolta nell’89, quando a Tian’anmen non seppero comprendere l’importanza della solidarietà popolare, pur così viva anche allora. La gerarchizzazione della società si accompagna a una estesa proletarizzazione. Dibattiti si svolgono nelle sfere accademiche, e anche in settori del partito, perfino sulla rivoluzione culturale - argomento tabù (al punto di rovinare la carriera di un accademico che osasse trattarne esplicitamente). Il governo del partito-stato ha un troppo preciso orientamento politico per mutare rotta, ma non può non tenere conto della presenza, nel paese, di contraddizioni gravissime, e del fatto che vengono largamente interpretate fruendo del pensiero di Mao, che si sarebbe voluto imbalsamare. Il governo infine ha abolito l’intollerabile tassa sulla terra; e nel marzo 2006 è stato costretto ad accantonare un proprio disegno di legge mirante a restaurare in pieno i diritti della proprietà privata. La legge verrà forse approvata in seguito, ma è evidente il peso che l’opposizione di fatto già ora esercita, e potrà esercitare se riuscirà a svilupparsi.
Un episodio di «lotta culturale»: in un parco di Zhengzhou le sere di festa centinaia di persone, accompagnate da musicisti, si riuniscono per cantare i i vecchi canti rivoluzionari. «Il significato politico di questi canti è mostrare la nostra opposizione al partito comunista - a quello che è diventato - e usare Mao per contestarlo e elevare la coscienza».
Conditions of the Working Classes in China by Robert Weil
Rivoluzione culturale, un’utopia attuale
2016. Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62
di Edoarda Masi (il manifesto, 19.05.2016) *
Sono passati (cinquant’anni, ndr) anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti (...)
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri - la stragrande maggioranza - non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. (...)
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». (...)
Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti , ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.
*
(Articolo pubblicato sul manifesto il 25 maggio 2005)
Attualità del maggio cinese
Maggio 1966. Fu l’alternativa non capitalista all’arretratezza e ai modelli dell’Urss
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 19.05.2016)
Ma c’era un’altra possibilità per la Cina di non seguire la «linea capitalistica» per uscire dall’arretratezza e dalla subalternità nella quale era relegata nell’epoca della spartizione del mondo tra Usa e Urss?
Cinquanta anni fa questa possibilità alternativa fu rappresentata, dal 1966 al 1968, dalla Grande Rivoluzione culturale proletaria. Una linea politica che voleva per la Cina uno sviluppo «moderno» ma fondato sull’egualitarismo e sul controllo dal basso dell’economia, rifiutando inoltre l’applicazione alla Cina delle ricette fallimentari dei paesi di socialismo reale - come lo sfruttamento intensivo delle campagne per edificare una grande industria pesante che Stalin aveva voluto nelI’Urss.
La linea della Rivoluzione culturale attraversò e spaccò le fila del Pcc e del governo, e venne lanciata dal basso, dall’Università di Pechino, dai movimenti più intransigenti di studenti e quadri operai e contadini, ma anche dall’alto, dallo stesso Mao Zedong. Che la rilanciò dall’interno e contro il Partito comunista cinese. Portando così, per la prima volta nella sfera della politica monopolizzata dal Partito, la realtà dei nuovi movimenti.
Il 25 maggio 1966 sette giovani docenti e studenti dell’Università Beida affissero il primo manifesto a caratteri cubitali (dazebao). Al di là del contenuto del dazebao, la protesta era diretta, cioè non autorizzata da strutture di partito, e per questo rappresentava una ribellione aperta al Partito. Mao la legittimò, dichiarando che essa rappresentava «il manifesto della Comune di Parigi degli anni Sessanta del ventesimo secolo», e invitando tutti a fare altrettanto. E il 5 agosto affisse alla porta del comitato centrale il suo dazebao personale: «Bombardate il quartier generale».
Fu l’inizio di un vasto rivoluzionamento che dalla Cina arrivò a parlare direttamente all’Occidente. Sì, dall’arretrata Cina, a così forte composizione contadina, arrivò il messaggio «ribellarsi è giusto» e gli stessi temi - la riscoperta dell’autonomia e dell’alterità totale del proletariato, l’egualitarismo, la fine delle gerarchie, la fine della divisione sociale del lavoro, il tentativo di riequilibrare la rottura storica tra città e campagna, il valore di potere degli organismi di movimento, unica fonte di legittimità dei partiti del movimento operaio - che emergevano nelle mature società avanzate dell’Occidente e che esplosero in grandi movimenti di massa nel 1968 e nel 1969.
La natura e il fallimento di quel movimento sono ancora silenziati se non contraffatti da molti sinologi occidentali e anche da una parte dell’intellettualità cinese - dove resta difficile parlare di due cose: della Tian An Men 1989 e della Rivoluzione culturale 1966. La responsabilità della sconfitta di una linea politica ed economica egualitaria, l’unica possibile per la crescita reale di un paese fortemente arretrato che, 50 anni fa come oggi, vale un terzo dell’umanità. Rappresentando a quel punto un modello di sviluppo alternativo non solo per la Cina. Che ora, grazie alla sconfitta della Rivoluzione culturale e all’applicazione della «ricetta capitalistica» di Deng, ha invece inverato la globalizzazione diventando di fatto l’unico capitalismo esistente al mondo, ormai alle prese con la crisi profonda del capitalismo internazionale finanziarizzato - Pechino detiene fra l’altro il pacchetto dell’intero debito estero Usa.
Dunque, «tornare» a interrogarsi sulla Rivoluzione culturale non solo è necessario. Ci riguarda e la stessa Cina è tornata sui temi di fondo di quel movimento, certo più o meno consapevolmente nel tentativo di risolvere la vastità delle protesta sociale contro le diseguaglianze, questione esplosa con il caso Bo Xilai anche nel Pcc. Di fatto, solo il movimento della Tian An Men nel 1989, per un momento e tra mille ambiguità, ha portato in primo piano la possibilità di organizzare luoghi della politica e del potere, diffusi e molteplici, fuori dello stato. Lo stesso tema che la Rivoluzione culturale con il suo «assalto al cielo» aveva lasciato irrisolto.
Il tentativo della Cina degli Anni Sessanta di costruire un modello di transizione socialista diverso da quello dell’Unione sovietica, non fu atto di fideismo e fedeltà ideologica. Fu un «atto di verità», scrisse Franco Fortini, la proposta «di un rischio che si gioca di giorno in giorno, di singolo in singolo, che conta sulle proprie forze di ogni singolo... fino a far coincidere la libertà con il rischio etico».
Più diritti e salari, in Cina ondata di scioperi.
Ieri il turno di Denso (Toyota)
Le prime proteste scoppiate a metà maggio tra i lavoratori della Honda e tollerate dal regime di Pechino che in questo modo alimenta la domnda interna. Lunghini: «Ma in Cina vige già la dittatura del mercato».
di Giuseppe Vespo (l’Unità, 23.6.10)
Continua l’ondata di scioperi nelle fabbriche straniere in Cina. Ieri è toccato agli operai della Denso Corporation del gruppo Toyota bloccare lo stabilimento di componenti per auto nel sud del Paese per chiedere maggiori diritti e aumenti salariali.
MOBILITAZIONI
Partite a metà maggio nelle fabbriche della Honda, in poche settimane le rivendicazioni dei lavoratori cinesi si stanno estendendo in molte zone industrializzate della Cina. In alcuni casi con successo. Alla Honda gli operai hanno ottenuto aumenti salariali tra il 15 ed il 24 per cento. Mentre nelle due filiali Toyota di Tianjin, città portuale del nord, i lavoratori sono tornati sulle linee di montaggio dopo aver scioperato nel fine settimana. L’azienda ha affermato che si sta ancora «discutendo» e non è chiaro se sia stato già raggiunto un accordo sugli aumenti di stipendio. Ma ormai indientro non si torna. Nei giorni scorsi scene simili si sono viste anche nelle fabbriche che producono componenti per Iphone e Ipod.
Oggi in Cina chi lavora nell’industria manifatturiera guadagna tra i 900 ed i 1500 yuan, ovvero tra 107 e 180 euro al mese. Troppo poco per un operaio che comincia a guardare ai colleghi dei Paesi industrializzati, meglio pagati e meno produttivi. Da qui le proteste, seguite in negli ultimi mesi anche dalla stampa di regime. Mentre lo stesso governo pare che abbia assunto un atteggiamento più tollerante rispetto a quelche tempo fa.
«È un fenomeno molto interessante», sostiene Giorgio Lunghini, economista e professore di Economia Politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. «È la testimonianza di come la Cina, che per anni si è retta sui salari bassi per sostenere la sua macchina industriale, stia invertendo la rotta». Sono due le cause di questo processo, secondo l’economista. «Da una parte il rischio che le tensioni sociali si allarghino tanto da diventare incontrollabili. Dall’altra l’idea che i salari più alti possano rilanciare il consumo interno, che potrebbe così sostituirsi alle esportazioni. Come è avvenuto negli Usa ai tempi di Ford». Insomma, anche la Cina ha scoperto le potenzialità del suo mercato.
E mentre lì si sciopera per conquistare dei diritti da noi ci si mobilita per tutelarli. «Non credo però che sia possibile accostare la vicenda di Pomigliano alle crescenti rivendicazioni degli operai cinesi», chiude Lunghini. «A Pomigliano è in atto un ricatto che azzera le conquiste sindacali di decenni e lo Statuto dei lavoratori. Un fatto nuovo e grave. In Cina vige già la dittatura del mercato».