La stampa ha salutato come apertura "femminista" una omelia ufficiale in San Pietro, venerdì sera, che torna a "santificare" l’idea di sempre.
Una donna "madre coraggio", che si sappia donare, che non metta in dubbio il patriarcato, che viva in funzione dell’uomo
Il cavallo di Troia del Vaticano:
l’elogio della donna "cuore e pietà"
di Lea Melandri (Liberazione, 08.04.2007)
Riguardo all’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro dal predicatore papale Raniero Cantalamessa nella ricorrenza del Venerdi santo, e coralmente salutata dalla stampa come "elogio della Donna", apertura "femminista" della Chiesa, è proprio il caso di dire: "timeo Danaos et dona ferentes" (temo i greci e i doni che portano, frase pronunciata da Lacoonte contro il famoso cavallo di troia). "Timeo danaos et dona", dicevo, soprattutto se i doni, imbellettati di attributi apparentemente lusinghieri, portano, neanche tanto nascosti, i segni del millenario destino che la Chiesa, e prima ancora la comunità storica degli uomini, hanno inflitto al sesso femminile. L’ "era della donna" fatta di "cuore e compassione" non è certo la scoperta e il risarcimento tardivo di un dominio patriarcale che oggi riemerge più violento che mai, preoccupato che la donna non voglia più rimanere "se stessa", cioè quella che esso ha voluto che fosse. Collocato in quell’ ‘altrove’, che è la casa, la famiglia, la continuazione della specie, incluso nella sfera pubblica proprio attraverso un’arbitraria esclusione, il ruolo femminile è stato da sempre parte essenziale della "città degli uomini", suo complemento materiale e psicologico indispensabile, prolungamento di una infantile dipendenza materno-filiale rimasta a lungo rimossa dietro l’apparente libertà del protagonismo storico maschile.
"Umiliate" le donne lo sono effettivamente da sempre, e non solo per la violenza, lo sfruttamento, l’emarginazione, le pratiche tribali consumate sui loro corpi, elencate dal biblista Ravasi, ma proprio per il "dono di sé" che è stato loro imposto in quanto confinate nella funzione di ‘madri di", ‘mogli di’, quel sacrificio di vita e di libertà che oggi le gerarchie vaticane vorrebbero rinverdire, senza pudore e senza rispetto per la laicità dello Stato, a coronamento di una delle riprese più aggressive di controllo sulle libertà che le donne sono andate faticosamente conquistando, come riappropriazione del proprio corpo, della propria sessualità, del legittimo desiderio di una manifestazione piena di vita.
Parlo dell’aborto, della procreazione assistita, delle unioni civili, della messa in discussione della ‘naturalità’ del ruolo materno. La doppia, ambivalente immagine celebrata dalla spettacolare Via Crucis di venerdi sera - da un lato, le giovani donne che hanno portato la Croce, dall’altro, nell’omelia in San Pietro, le "madri coraggio", salvatrici della società afflitta dai peggiori mali, la Maddalena "peccatrice redenta" e innalzata, in virtù del suo pentimento, a ‘testimone’ del Cristo risorto - non poteva rappresentare in modo più esplicito l’ipocrita ‘verità’ sulla "differenza femminile" costruita dall’uomo, e purtroppo ricalcata, sotto alcuni aspetti, da una parte del femminismo.
Non è un caso che sia uno dei più accaniti detrattori delle donne, ma anche teorico di un sessismo incomparabilmente più lucido e consapevole dell’edulcorata misoginia vaticana, a svelare l’inganno che ha tenuto insieme fino ad oggi amore e odio per quel femminile che l’uomo non ha mai smesso di considerare terra propria, possesso inalienabile, ‘risorsa’ senza limiti per il suo benessere, causa e rimedio per le sue ‘colpe’. "Nella donna l’uomo non ama che se stesso...la donna è la colpa dell’uomo, è l’oggettivazione della sessualità maschile, la sessualità incarnata...Egli deve prendere con sé la donna, anche quando voglia redimere se stesso, egli deve tentare di condurla a rinunciare alle sue intenzioni immorali verso di lui. Ciò significa che la donna come tale deve scomparire, altrimenti non vi è possibilità di fondare il regno di Dio in terra". (Questa frase che ho citato è di Otto Weininger, giovane pensatore autricao di fine ottocento, autore di vari studi e teorie sul sesso, morto suicida a 23 anni).
Purtroppo, l’attribuzione a un "ordine naturale" del potere insidioso e salvifico delle donne, legato alla loro capacità procreativa, non è solo il pesante retaggio dei fondamentalismi religiosi, ma una convinzione radicata nel senso comune di entrambi i sessi, incorporata nelle istituzioni della vita pubblica, nei suoi saperi e nei suoi linguaggi.
E’ l’atto di nascita, sovrano e guerresco, della pòlis, che, nonostante i grandi cambiamenti della storia, ancora accompagna la politica in tutte le sue forme. Per questo è così flebile, esitante, facile al compromesso la voce di quanti, in nome della laicità, gridano allarmati contro l’ingerenza della Chiesa, ma poi riportano a una ‘morale’, di stampo cattolico, vicende essenziali dell’umano, definite nel corso della storia da rapporti di potere di un sesso sull’altro, appartenenti alla stessa genealogia patriarcale e ancora largamente dominanti in tutti gli ambiti della vita privata e pubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud) *
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
Federico La Sala
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio. Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni. Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino.
Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
Il familismo italico e le sue madri-amanti
La sessualità, pur essendo uno dei principali ingredienti di cui sono fatte le relazioni private e pubbliche è solo nelle calde giornate di luglio e agosto che sembra prendersi la sua rivincita
di Lea Melandri (Liberazione, 21.07.2007, pp. 1, 6)
Ci sono temi il cui gradimento mediatico sale insieme alla temperatura, all’arrivo dell’estate, al clima vacanziero. La sessualità, pur essendo uno dei principali ingredienti di cui sono fatte le relazioni private e pubbliche, è solo nelle calde giornate di luglio e agosto che sembra prendersi la sua rivincita, guadagnando le prime pagine dei giornali, ma, soprattutto, costringendo una società che ne fa un uso smoderato e distratto a porsi qualche momentaneo interrogativo.
Dopo la battuta di Giuliano Amato sulla violenza contro le donne, a riattizzare l’interesse per una materia tanto importante quanto trascurata dal dibattito culturale e politico che si rispetta, è venuto il Financial Times con la denuncia di un’altra cattiva "abitudine" sessuale, questa volta marcatamente italica: «L’uso incongruo che viene fatto delle donne nella pubblicità», l’aspirazione diffusa delle teenager italiane a fare le veline, le vallette di quiz a premi, la persistenza di una femminilità "arcaica" -«mamme confinate in cucina a fare ravioli e figlie che cercano il successo attraverso la bellezza». Lasciando stare la nota di folclore sui ravioli, che anche le donne romagnole ormai comprano già fatti, non c’è dubbio che l’occhio straniero corre senza inciampi là dove noi esitiamo, mette, per così dire, il dito sulla piaga, segretamente compiaciuto di un confronto che gioca a suo favore. Da oggetto di violenza a oggetto di desiderio, le donne restano sempre e comunque "oggetto", rispetto a pensieri, pulsioni, valori che rimandano a un protagonista unico, il sesso maschile, ma con una differenza di non poco conto: nel proporsi come madri e seduttrici, ciò che è stato vissuto come imposizione, destino deciso da altri, viene assunto attivamente, agito come volontà propria.
Virginia Woolf, in un breve scritto del 1940 ("Pensieri di pace durante un’incursione aerea") con uno straordinario coraggio intellettuale, paragonava la smania di dominio dei soldati tedeschi e inglesi che si combattevano nel cielo di Londra, al potere che le donne trasferiscono sulla maternità e sulla bellezza: «Schiave che tentano di rendere schiavi gli altri». Nell’oscura commistione di amore e odio, assoggettamento e rivalsa, che si è andata storicamente depositando nel rapporto tra i sessi, risulta tutt’oggi molto difficile dire con chiarezza che cosa siano privilegi, responsabilità, scelte e adattamenti, felicità e sofferenza. La fissazione su un corpo femminile desiderato e temuto, isolato come un feticcio da ogni altra qualità che identifichi la donna come persona, nella sua interezza, suscita giustamente rabbia, quando la si vede agire nei rapporti tra adulti, quando, come ha scritto Mila Spicola su Repubblica del 17 luglio, lo sguardo insistente del "maschio italico" si posa su un bel fondo-schiena, una "qualità" «di cui non ho nessun merito; nonostante il mio quoziente intellettivo, la mia cultura, la mia ironia...». L’uso del proprio corpo come un’arma, un valore spendibile, può essere allora visto effettivamente come «rassegnazione a un pensiero unico sull’aspetto fisico e sul valore di mercato delle donne» (Maria Laura Rodotà, Corriere della sera , sempre il 17 luglio).
Il giudizio diventa meno semplice, o, se vogliamo, più imbarazzante, quando dobbiamo riconoscere - e nei commenti di questi giorni lo hanno fatto molte donne note per il loro impegno culturale e politico, come Chiara Saraceno e Dacia Maraini - che «anche donne capaci e intelligenti si sentono in dovere di presentarsi svestite e ammiccanti», che giornaliste e parlamentari «cercano di assomigliare a pin up». E’ la resa di un femminismo che non ha saputo dar seguito alla spinta rivoluzionaria dei suoi inizi -"modificazione di sé e del mondo"- e alla sua ostinata ricerca di autonomia, una visione del mondo capace di scalfire la divisione sessuale del lavoro e tutti i dualismi su cui si è costruita la civiltà? Oppure è l’oscura radice del dominio maschile e della differenziazione tra i sessi, che il femminismo non ha avuto il coraggio di affrontare, quell’enigma delle origini che ha a che fare con la nascita dal corpo femminile, con l’iniziale "co-identità" tra la madre e il figlio, e, soprattutto, con il prolungamento dell’infanzia che si materializza all’interno della famiglia e che ogni volta appiattisce l’amore di un uomo e di una donna su un legame di dipendenza materno-filiale?
Il corpo con cui l’uomo-figlio è stato tutt’uno, in un rapporto di fusione perfetta che riemerge idealizzato nella nostalgia di un padre, di un marito, di un amante, o, stravolto, nell’uso proprietario della donna, è quello che gli ha dato insieme al nutrimento le prime sollecitazioni sessuali. La madre e la seduttrice sono le figure salvifiche e minacciose che segnano le prime esperienze dell’infanzia e, al medesimo tempo, i ruoli che il patriarcato assegna all’altro sesso.
Infanzia e storia non sono separate, ma non sono neppure riducibili l’una all’altra, così come l’individuo non può essere visto come un puro prodotto della società. Nel modo con cui l’uomo continua a guardare la donna, privilegiando le sue ‘qualità’ corporee più che le sue doti intellettuali, considerandola un "genere" anziché una persona, si mescolano confusamente le fantasie tenere o violente del bambino che è stato e i privilegi che gli garantisce un modello maschilista di società.
E’ questo annodamento che impedisce al rapporto uomo-donna di prendere, nelle analisi e pratiche politiche, la centralità che ha nella vita quotidiana di ogni individuo, maschio e femmina?
Il corpo femminile, e i corpi in generale, non potranno mai essere soltanto una "risorsa" da sfruttare, una "merce" o un "oggetto di piacere", perché trattengono una "preistoria" fatta di accadimenti destinati a lasciare un segno duraturo, una "memoria" che continua a ripetersi, o riproporsi in cerca di nuove soluzioni. Un cambiamento significativo di modelli nelle istituzioni della vita pubblica, a partire dalla famiglia e dalla scuola, dalla centralità che vi ha ancora, nella sua ambiguità di "serva-padrona", la figura femminile, consentirebbe a quanto di "arcaico" si è depositato nelle singole vite di trovare vie d’uscita e risposte diverse.
Se questi interrogativi, che vanno a scavare in zone profonde, inesplorate dell’esperienza, sono rimasti a margine anche del movimento delle donne, forse è perché sfuggono alla logica che separa nettamente la vittima dall’aggressore, l’amore dall’odio. Il femminismo italiano, che non è affatto scomparso, pensa che l’immagine femminile diffusa dalla pubblicità e dai media sia degradante, ma non fa nulla per combatterla. Penso che non sia solo per paura di cadute moralistiche o perché non ama la censura. Il persistere del familismo, anche in presenza di una crisi incontestabile dell’istituto famigliare, dice che le donne, pur emancipate, non rinunciano facilmente a quel ruolo di madri e di ‘seduttrici’ che da loro il potere, in gran parte fantasmatico, di sentirsi necessarie, indispensabili all’altro.
I risultati di una ricerca sulla violenza sulle donne diffusi al Meeting di San Rossore
In Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 vittima una donna
"Nel mondo viene uccisa
una donna ogni 8 minuti" *
SAN ROSSORE (PISA) - Nel mondo, ogni 8 minuti, viene uccisa una donna. Il dato è emerso da un’indagine relativa all’anno al 2003 presentata da Josè Sanmartin, direttore del centro spagnolo per lo studio della violenza Santa Sofia, oggi a San Rossore il cui tradizionale meeting quest’anno è dedicato a "I bambini, le donne".
"Nel 2000 - ha dichiarato Sanmartin - gli omicidi di donne erano uno ogni dieci minuti". dallo studio è nata una vera e propria classifica. Su 40 paesi esaminati quello che vanta il poco invidiabile primato è il Guatemala, con un’incidenza di 122,80 donne assassinate per ogni milione di donne abitanti. Al secondo posto della classifica la Colombia, con 70,20 omicidi per ogni milione. Al terzo El Salvador con 66,38.
Il primato in Europa tocca al Belgio all’ottavo posto nella graduatoria mondiale con un’incidenza di 29,30 donne uccise ogni milione. L’Italia è al 34esimo posto su 40, con 6,57 assassini per milione. I paesi dove più si contano assassini di donne sono latino americani (i primi dieci posti), con una media di 41,02 vittime ogni milione, contro 12,29 dell’Europa.
In Europa i delitti nei confronti delle donne all’interno della famiglia riguardano 5,84 donne su un milione; in Italia - riferisce la ricerca spagnola - si scende a 4,24. Il numero più alto si registra in Ungheria (16,15), seguita da Lussemburgo (13,16). Le donne uccise dal partner sono in Europa 5,78 per milione; il numero più elevato si riscontra nei paesi del Nord, soprattutto a causa dell’abuso di alcol durante i fine settimana.
La Regione Toscana, a sua volta, ha diffuso alcuni dati che si basano su parametri diversi ma che raccontano comunque di un fenomeno, quella della violenza in famiglia e nello specifico sulle donne, "drammaticamente in crescita". Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna.
A livello mondiale, la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Uccide più il marito o il fidanzato o l’amante, a volte anche i figli, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
* la Repubblica, 20 luglio 2007
Maddalena e le altre
di Lidia Ravera *
Allegre compagne , in occasione della Santa Pasqua, c’è una novità positiva, finalmente, dopo gli anni difficili dell’ingerenza Vaticana negli affari del nostro corpo, dopo le carriere bloccate, la violenza in crescita, l’immagine femminile umiliata, dopo duemila anni di esplicita o sottintesa inferiorità obbligata, ecco, alfine, un’occasione di letizia per le donne: siamo state scagionate. L’ha detto il predicatore papale, Raniero Cantalamessa (nom de plume o nomen est omen?): «Si discute animatamente su chi fu a volere la morte di Gesù, se i capi ebrei, Pilato o entrambi. Una cosa è certa: furono degli uomini, non delle donne». Capito, maschi? Non siamo state noi. E certo, fossimo state noi ad avercela con Lui, avrebbe campato altri 33 anni. Contiamo poco adesso, figuriamoci allora.
Ma non è tutto qui, nel corso della scorsa Via Crucis, venerdì, ce ne siamo accaparrati un bel po’ di omaggi.
Si è detto che Maddalena, in fondo, era una brava ragazza. Che le «pie donne» non erano massaie facili alla commozione, ma «madri coraggio», capaci di inginocchiarsi davanti a un condannato e rischiarne le conseguenze. Che si sono comportate meglio degli apostoli. Si è detto che dopo tante ere dedicate all’uomo sarebbe quasi ora di dedicarne una alla donna. Carini, no? Capace che ci fanno «sante subito» e finiamo festeggiate in un diluvio di mimose. Dopo l’homo faber, l’homo erectus e l’homo sapiens, dopo l’homo homini lupus, una prima era della «mulier pacifica», materna e armoniosa, emozionalmente matura, contemplativa, sensuale e solidale, non afflitta da eccessi di competizione, orientata alla relazione fra individui, libera tollerante e creativa, sarebbe un bell’aiutino per l’umanità.
Lo so, non siamo tutte ontologicamente così superiori, ma si tratta di mettere avanti un po’ di propaganda. Il miglioramento seguirà, in fondo, abbiamo 2000 anni di tempo. Per adesso accontentiamoci di essere state corteggiate, e proprio lì, in Vaticano, dove, ultimamente ho l’impressione che si decidano le sorti di interi Paesi, politiche, etiche, sociali. Ci accontentiamo? No? Ah, ma allora è vero che, anche le donne, non sono più come quelle d’una volta. Non si dice più «grazie, padre»? No, però , magari, è possibile avanzare qualche richiesta. Per avere addirittura un’era tutta intitolata a noi magari è presto, e poi, come i premi alla carriera, sa di onorificenza tombale, cominiciamo con una supplica modesta: ci piacerebbe che il Vaticano, nella persona di Benedetto sedicesmo e dei suoi vescovi, facendo seguito alle buone intenzioni del simpatico Cantalamessa, interrompesse le ostilità contro le donne. Ci piacerebbe che non si opponesse ad una modificazione della legge sulla procreazione assistita tale da rendere più facile e non più difficile, avere un bambino, alle donne che non possono diventare madri in modo naturale (è una questione di salute, spesso, di avversa fortuna, non di cattiva volontà).
Ci piacerebbe che Benedetto sedicesimo non minacciasse, con tutto il peso del suo potere, temporale e non, la legge che consente l’interruzione di gravidanza: mica per questioni di principio, soltanto per non tornare all’era dell’aborto clandestino, con tutto il suo corteo di infezioni e mutilazioni. È un’era anche quella, tu donna abortirai nel dolore, ma con la legge 194 si era chiusa e noi siamo contente così.
Mi piacerebbe , infine, non per me, che indosso la scomoda divisa della non-credente, o almeno della dubitante, ma per le molte donne credenti che conosco e stimo, un’apertura al sacerdozio femminile. Posso confessare la mia ottusità? Non ho mai capito perché, a fronte di tante belle parole sulla Madonna e sulla Maddalena, non sia ancora caduto il Grande Tabù che impedisce a una persona di sesso femminile di officiare il Rito, di amministrare i sacramenti. Che ne dice il caro Cantalamessa? Non potrebbe cantarla anche una signora, visto che appartiene al genere delle «innocenti del sangue di Cristo»? E, già che siamo in fase di rivalutazione, posso spendere una parola anche per le femministe? Dispiace che la povera Simone de Beauvoir - defunta da vent’anni - sia ancora crocefissa al suo best seller di 60 anni fa, Il secondo sesso («Noi non crediamo che l’eterno femminino ci salverà», ha tuonato dal pulpito il predicatore maximo). Dispiace che , ancora, ci siano «le donne» e ci siano «le streghe», le prime sono madri e mogli, le seconde sono, come ai tempi dei tribunali dell’Inquisizione, le orgogliose, quelle che esercitano il sapere, quelle che si mettono sullo stesso piano degli uomini, pur restando diverse e, della propria diversità, fanno una bandiera. Per queste, temo, anche nell’era della donna, non ci sarà spazio né redenzione nè rispetto. Non ci sarà spazio né redenzione né rispetto per le donne che non si lasciano assegnare un posto preciso e lì vanno a sedersi zitte e buone.
Possiamo soltanto auguraci che, per loro, non si rivaluti, come pratica persuasiva, qualora non abiurino, il rogo.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.04.07, Modificato il: 10.04.07 alle ore 12.45
La Passione femminile sotto l’incubo della tecnica
di Ida Dominijanni (il manifesto, 07.04.2007)
Alle origini fu l’homo erectus, poi l’homo faber, poi l’homo sapiens, infine l’homo sapiens-sapiens che abita oggi il pianeta della tecnica. Il quale, armato di saperi, poteri e strategie, di intelligenza naturale e artificiale, di libri e di calcolatori, sarà pure in grado di offrirci l’illusione di una second life, ma non cessa di essere «l’aiola che ci fa tanto feroci». Di tanta ferocia, piace alla Chiesa di Benedetto XVI - gemella in questo del nichilismo novecentesco che tanto animosamente combatte - rintracciare la radice proprio nel potere della tecnica, e nella tecnica come destino, dell’Occidente declinante. Al posto di questo astro che danna, dice quest’anno il messaggio del venerdì di Passione, deve risplendere un astro che salva, e questo astro è l’amore.
Ma chi incarnerà questo amore, se l’homo erectus, faber, sapiens l’ha esiliato fin qui dalla Terra? Sarà colei che homo non è, che di quest’esilio non è responsabile, e che fin qui l’amore ha saputo custodirlo, rimetterlo al mondo, donarlo, dichiararlo. Dopo l’era faber e quella sapiens, dunque, dovrà aprirsi l’era della donna, ovvero dell’amore, del cuore e della compassione. E’ questa la speranza di salvezza dell’umanità, ed è un futuro annunciato dal racconto della Croce, perché ancora non sappiamo chi mandò a morte Gesù, se i capi ebrei o Pilato o tutt’e due, ma «una cosa è certa in ogni caso: furono degli uomini, non delle donne, e storicamente esse possono dire ’siamo innocenti del sangue di costui’».
Così il «neo-femminismo cattolico», come già lo battezzano le agenzie, fa sua e rilancia l’arma più classica del femminismo novecentesco da Virginia Woolf in poi, quella dell’estraneità femminile dai misfatti dell’umanità maschile, per benedire l’avvento salvifico dell’era della donna. I precedenti c’erano tutti, dalla Mulierim dignitatem di Giovanni Paolo II alla Lettera ai Vescovi sugli uomini e le donne del cardinal Ratzinger non ancora pontefice. Il venerdì di Passione accende i toni e riempie il discorso sulla Donna con i volti femminili della via Crucis (dando modo di rilanciare su Maria Maddalena oltre le polemiche su Dan Brown), ma la sostanza non cambia. Resta la capacità della Chiesa di individuare nella differenza femminile la protagonista di un necessario cambio di civiltà; resta la giusta presa di distanza della Chiesa da quel femminismo della parità che milita a assimilare le donne agli uomini, e a metterle sulla strada della competizione con gli uomini per il potere; e restano i limiti della Chiesa nel perimetrare il femminile perbene da quello per male, quello che salva da quello peccaminoso, quello «creato in natura» (la differenza sessuale secondo la Chiesa, appunto) da quello «prodotto dalla cultura» (la differenza sessuale secondo molta teoria femminista, in testa Simone De Beauvoir cui tocca stavolta la stessa bolla che Ratzinger aveva inviato a Judith Butler). Restano anche, della Chiesa di Giovanni Paolo II e di quella di Benedetto XVI, le contraddizioni e le interdizioni: nell’era che si apre, sarà concesso alle «pie donne» innocenti del sangue di Cristo di celebrare finalmente messa, e all’amore di esprimersi in linguaggio omosessuale?
Firenze, le vittime scrivono al Papa: "Abusi su donne e bambini per anni". Gli episodi dal 1975 in poi. Nel 2004 le prime denunce alla Curia. Trasferito il prete sotto accusa
Sesso e violenze
scandalo in parrocchia
di MARIA CRISTINA CARRATU’ *
FIRENZE - Anni di violenze, psicologiche e fisiche, di plagi e coercizioni nei confronti di bambini, ragazzi, intere famiglie, abusi e violenze sessuali su bambine e ragazzine minorenni, consumati nell’ombra di una canonica e mai venuti a conoscenza di nessuno fino ad oggi. Famiglie intere convinte di far parte di un progetto di fondazione di una "vera chiesa dello Spirito" contrapposta a quella, corrotta e incapace, "di fuori", e spinte a devolvere alla parrocchia denaro e beni, "per adempiere alla volontà di Gesù Cristo". E poi avviamento di ragazzi al seminario, con l’obiettivo di "colonizzare" la struttura ecclesiale attraverso incarichi di primo piano.
È questo - secondo le vittime dei plagi e degli abusi (così lontani nel tempo da rendere difficile ormai un’azione penale) che solo oggi, dopo tanti anni, hanno trovato il coraggio di parlare e chiedono giustizia appellandosi al Papa - ciò che è avvenuto almeno a partire dal 1975 in una parrocchia della periferia di Firenze, la Regina della Pace. Affidata fino al 2005 a un "carismatico" sacerdote oggi ottantenne, don Lelio Cantini, allontanato dalla città solo un anno fa ma mai privato dell’ordinazione. Con a fianco una donna, presunta "veggente" le cui visioni di Gesù, raccontano le vittime, servivano alla selezione degli "eletti". Oggetto di punizioni esemplari, privati dell’assoluzione e dell’eucaristia, se non avessero obbedito alle imposizioni del "priore", come il sacerdote si faceva chiamare. Fra cui quella sistematicamente rivolta a ragazzine di dieci, quindici, diciassette anni, di avere rapporti sessuali con lui, come forma, diceva, di "adesione totale a Dio". Facendo credere a ognuno di essere il prescelto e intimando il segreto assoluto pena il "castigo divino". Per questo, vinte le rimozioni e preso contatto con i compagni di allora, solo oggi le vittime hanno scoperto di aver condiviso un passato identico e terribile.
Ed è innanzitutto alla Chiesa, anziché ad avvocati e tribunali, che si rivolgono fin dal gennaio 2004, inviando alla Curia di Firenze esposti e memoriali, e ottenendo vari incontri personali - prima con l’allora arcivescovo Silvano Piovanelli e poi con l’arcivescovo Ennio Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Con l’unico risultato, nel settembre 2005, di un trasferimento del "priore" "per motivi di salute" in un’altra parrocchia della Diocesi. Da qui la decisione di appellarsi al Papa. La prima volta con una lettera del 20 marzo 2006, con allegati dieci dettagliati memoriali di venti vittime di abusi, a cui risponde il cardinale Camillo Ruini, ricordando alle vittime, sentito Antonelli, che il sacerdote sotto accusa dal 31 marzo ha lasciato anche la Diocesi e augurandosi che questo "infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo nei fatti".
Le vittime però non ci stanno. Il ’priorè vive con la "veggente" in una città della costa toscana, ha sempre intorno un gruppo di seguaci ed è tuttora ordinato. E a questo punto si muovono, di loro iniziativa, alcuni sacerdoti. "Non vogliamo sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio", spiegano in una nuova lettera al Papa, inviata il 13 ottobre 2006 tramite la Segreteria di Stato. Dove parlano di "iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle esistenze quotidiane" perseguito da una setta "purtroppo cresciuta dentro una parrocchia cattolica". E ricordano che a "quasi due anni" dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non sono ancora arrivati né "una decisa presa di distanza" dai personaggi coinvolti nella vicenda, né "una scusa ufficiale", né "un atto riparatore autorevole e credibile". A Repubblica, che glielo chiedeva, Antonelli ha risposto ieri di non voler fare alcun commento della vicenda.
Intanto la storia circola, e sono ora i parroci vicari foranei, responsabili delle zone della diocesi, a chiedere all’arcivescovo di portarla all’assemblea diocesana, davanti a tutto il clero. Antonelli li ha convocati alla fine di febbraio per mostrare una sua comunicazione alle vittime del 17 gennaio, relativa ai "provvedimenti" a carico del sacerdote adottati, scrive, "sulla base delle vostre accuse", al termine di un "processo penale amministrativo" e sentita la Congregazione per la Dottrina della Fede. Per cinque anni, scrive il cardinale, il "priore" non potrà né confessare, né celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della Madonna. E quanto alle vittime, l’invito, visto che "il male una volta compiuto non può essere annullato", è a "rielaborare in una prospettiva di fede la triste vicenda in cui siete stati coinvolti", e a invocare da Dio "la guarigione della memoria".
Ma loro, con "stupore e dolore", annunciano che non si fermeranno. Finora non hanno fatto nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, "nulla è più escluso". Nella lettera alla Segreteria di Stato i preti chiedono a loro nome "un processo penale giudiziario", che convochi testimoni e protagonisti, e applichi "tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico", che il prete che ha rovinato le loro vite sia "privato dello stato clericale", anche "a tutela delle persone che continuano a seguirlo". E che sia ora la Santa Sede a fare davvero luce su tutta la vicenda.
* la Repubblica, 8 aprile 2007
Le testimonianze
"Mi fece spogliare in camera
ero soltanto una ragazzina"
"Allora ero assolutamente incapace di una scelta libera" *
FIRENZE - Ecco alcune testimonianze raccolte dalle vittime degli abusi avvenuti nella parrocchia fiorentina. "Per vent’anni ho completamente rimosso tutto", racconta una di loro, oggi quarantacinquenne, sposata con figli, seguita dall’associazione Artemisia per le donne abusate. Le "immagini" di allora le tornano agli occhi solo pochi anni fa, all’improvviso, "durante una terapia". Il primo abuso comincia quando ha dieci anni. "Il "priore" mi chiamava su, nel suo studio o nella camera da letto, mi faceva spogliare e mi spiegava come, negli atti che mi avrebbe chiesto, si sarebbe realizzata la più piena comunione eucaristica". Le dice "di pensare alla Madonna, che aveva avuto Gesù a dodici anni, che ero la diletta del Cantico dei Cantici e che quello che avveniva fra noi era lo stesso che avveniva nel giardino dell’Eden". Ripensandoci, B. dice di provare tuttora "attacchi di vomito". I rapporti vanno avanti per quindici anni. "Ero assolutamente incapace di una scelta libera e consapevole".
Anche D. A., oggi quarantenne, a un certo punto diventa la "diletta" dal "priore": "Avevo diciassette anni, è andata avanti finché mi sono sposata" ricorda. "Mi diceva che io avevo bisogno di affetto e che lui poteva darmelo. In nome di Gesù cominciò ad abbracciarmi...". Quando si fidanza, però, D. comincia a chiedersi "perché il priore impedisse a una coppia non sposata anche solo di parlare fra sé, quando con lui si potevano fare quelle cose". Ma il coraggio di parlare del suo passato lo trova solo nel 2004, incontrando alcune ex compagne di allora.
L. A., quarantaquattro anni, artigiano, una moglie e un figlio, è uno dei ragazzi prescelti dal sacerdote a far parte del futuro clero della "vera chiesa". "Prima di una partita di calcio - racconta - mi chiamò e mi disse che "quelli lassù" mi avevano prescelto per fare il sacerdote. Scoppiai in un pianto dirotto, ma il priore disse che se avessi rifiutato mi avrebbe cacciato per sempre dalla parrocchia". Che voleva anche deludere una famiglia legatissima al sacerdote: "Mio padre lo frequentava fin da piccolo, lui si era offerto di aiutarci. Decideva tutto per noi". Fino a farsi consegnare beni e denaro da usare, spiegava, "per costruire la futura chiesa. Alla nostra famiglia, diceva che avrebbe pensato Gesù". L. accetta di entrare in seminario. "Non avevo la forza per oppormi" racconta. La crisi esplode al terzo anno di teologia. Il "priore" lo accusa di essere "una pentola marcia", ma lui abbandona. E, fra mille difficoltà, si ricostruisce la vita.
* la Repubblica, 8 aprile 2007
Caro Federico,
che cosa vogliamo farne di un prete minore e minorato come questo ? Per di più ottantenne ? Storie come queste (e anche più atroci) sono all’ordine del giorno in qualsiasi ambito, anche se a te fa piacere e comodo, per portare avanti le tue tesi anticlericali, presentare solamente quelle che coinvolgono la Chiesa.
Da una parte si diventa sostenitori della campagna contro la pena di morte (e quindi contro la condanna alla pena capitale di efferati assassini, che hanno massacrato e torturato anche dei bambini!) e dall’altra si vuole condannare un vecchio prete (che significherebbe dargli il colpo di grazia!) che in passato ha commesso alcune (o tante) porcate !
Mettiamoci d’accordo ! Non possiamo usare sempre due pesi e due misure...
Saluti e inchini.
Blasius Nutritus
Caro Biagio
ma perché non vuoi aprire gli occhi o alzare gli occhi al cielo?! Qui il problema non il "tuo" prete e non è nemmeno la pena di morte, ma - se vuoi - è proprio di ciò che tu chiami "due pesi e due misure"!!! Il problema è di far funzionare la Bilancia - la Legge: e se la Legge funziona possiamo correggere e guarire le nostre ferite.
Ma se in Vaticano coprono da millenni queste pratiche e si mettono la Legge sotto i piedi, la questione è questa - e un’altra!!! E, se vuoi, proprio quella di "cantare ancora la messa" di un’ideologia dell’imbroglio, della violenza, e della morte - in una parola, di Mammasantissima e del suo "adorato" Figlio - il Padrino di "Cosa nostra"!!! Se non vuoi leggere le mie considerazioni, rileggiti ancora i Promessi Sposi o le notazioni di Monsignor Ravasi, forse ti aiuteranno a nutrirti meglio!!!
Con stima - e ringraziamenti, per l’attenzione.
M. saluti,
Federico La Sala
Preti pedofili
Chi ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura
di Pino Nicotri
Sorpresa: ecco chi, come e quando ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura. Non lo indovinereste mai... *
Prima si sono rivolti con fiducia alla Chiesa, anziché ad avvocati e tribunali, inviando fin dal gennaio 2004 alla curia di Firenze esposti e memoriali sulle violenze sessuali ai danni di minori consumate per anni dal parroco Lelio Cantini, titolare della parrocchia Regina della Pace. Con la complicità di una donna, la solita “veggente” di turno le cui visioni di Gesù servivano alla selezione degli “eletti”, Cantini ha imperversato per anni e anni imponendo violenze, psicologiche e fisiche, fra cui quella sistematicamente rivolta a ragazzine di dieci, quindici, diciassette anni, di avere rapporti sessuali con lui, come forma, diceva, di “adesione totale a Dio”, facendo credere a ognuno e a ognuna di essere il prescelto e intimando il segreto assoluto pena il “castigo divino”. A furia di insistere, le vittime di Cantini hanno ottenuto qualche incontro con l’allora arcivescovo Silvano Piovanelli, con l’arcivescovo Ennio Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Ma tutto quello che sono riusciti a ottenere è stato il trasferimento del parroco mascalzone in un’altra parrocchia della stessa diocesi nel settembre 2005, cioè ben 20 mesi dopo gli esposti, motivato ufficialmente “per motivi di salute”, vale a dire senza che venisse né denunciato alla magistratura né svergognato in altro modo né privato dell’abito talare con la sospensione “a divinis”.
Deluse, le vittime e i loro familiari si sono allora rivolti al papa, con una lettera del 20 marzo 2006 recante in allegato i dettagliati memoriali di dieci tra le almeno venti vittime di abusi. “Non vogliamo sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio”, hanno spiegato al papa il 13 ottobre 2006 con una nuova, nella quale parlano di “iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle esistenze quotidiane” e lamentano come a “quasi due anni” dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non fosse ancora arrivata né “una decisa presa di distanza” dai personaggi coinvolti nella vicenda né “una scusa ufficiale” e neppure “un atto riparatore autorevole e credibile”.
Alla loro missiva ha risposto il cardinale Camillo Ruini, ma in un modo francamente incredibile, di inaudita ipocrisia e mancanza di senso della responsabilità. Il famoso cardinale, tanto impegnato nella lotta incessante contro la laicità dello Stato italiano, a fronte alle porcherie del suo sottoposto si rivela quanto mai imbelle, omertoso e di fatto complice: tutta la sua azione si riduce a una lettera agli stuprati per ricordare loro che il parroco criminale il 31 marzo ha lasciato anche la diocesi e per augurare che il trasferimento “infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo nei fatti”. Insomma, fuor dalle chiacchiere e dall’ipocrisia, Ruini si limita a raccomandare che tutti si accontentino della rimozione di Cantini e se ne stiano pertanto d’ora in poi zitti e buoni, paghi del fatto che il prete pedofilo e stupratore sia stato spedito a soddisfare le sue brame carnali altrove. Come a dire che i parenti delle vittime della strage di piazza Fontana o del treno Italicus si sentano rispondere dal Capo dello Stato non con il dovuto processo ai colpevoli, bensì con una letterina buffetto sulle guance che annuncia, magno cum gaudio, che i colpevoli anziché andare in galera sono stati trasferiti in altri uffici e che pertanto augura, cioè di fatto ordina, “serenità” tra i superstiti e i parenti delle vittime. Un simile comportamento oggi non ce l’hanno neppure gli Stati Uniti: è vero che non permettono a nessuno Stato estero di giudicare i propri soldati quali che siano i crimini da loro commessi, da Mai Lay al Cermis, da Abu Graib a Guantanamo e Okinawa, ma è anche vero che gli Usa anziché stendere il velo omertoso del segreto li processa pubblicamente in patria e non sempre in modo compiacente.
Come sempre la Chiesa si comporta in tutto il mondo come uno Stato nello Stato, con la pretesa non solo di intervenire - come è particolarmente evidente in Italia - contro l’autonomia della politica, ma per giunta di sottrarre il proprio personale alla magistratura competente. Il dramma però è che Ruini ai fedeli fiorentini che hanno subìto quello che hanno subìto non poteva rispondere altrimenti, perché - per quanto possa parere incredibile - a voler imporre il silenzio, anzi il “segreto pontificio” sui reati gravi commessi dai religiosi, compresi gli stupri di minori, è stato proprio l’attuale papa, Ratzinger. Con una ben precisa circolare inviata ai vescovi di tutto il mondo il 18 maggio 2001 e che più avanti riproduciamo per intero, l’allora capo della Congregazione per la dottrina della fede, come si chiama oggi ciò che una volta era la “Santa” (!) Inquisizione e poi il Sant’Ufficio, non solo imponeva il segreto su questi orribili argomenti, ma avvertiva anche che a volere una tale sciagurata direttiva era il papa di allora in persona. Vale a dire, quel Wojtyla che più si ha la coda di paglia e più si vuole sia fatto “santo subito”, in modo da sottrarlo il più possibile alle critiche per i suoi non pochi errori.
Da notare che per quell’ordine scritto diramato a tutti i vescovi assieme all’allora suo vice, cardinale Tarcisio Bertone (oggi ancor più potente perché scelto dal papa tedesco come nuovo Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri del Vaticano), Ratzinger nel 2005 è stato incriminato negli Stati Uniti per cospirazione contro la giustizia in un processo contro preti pedofili in quel di Houston, nel Texas. Per l’esattezza, presso la Corte distrettuale di Harris County figurano imputati il responsabile della diocesi di Galveston Houston, arcivescovo Joseph Fiorenza, i sacerdoti pedofili Juan Carlos Patino Arango e William Pickand, infine anche l’attuale pontefice. Questi è accusato di avere coscientemente coperto, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori. Da notare che l’omertà e la complicità di fatto garantita dalla circolare Ratzinger-Bertone ha danneggiato non solo la giustizia di quel processo, ma anche dei molti altri che hanno scosso il mondo intero scoperchiando la pentola verminosa dei religiosi pedofili negli Stati Uniti (dove la Chiesa ha dovuto pagare centinaia di milioni di dollari in una marea di risarcimenti) e in altre parti del mondo. Un porporato che si è visto denunciare dalle vittime un folto gruppo di preti, anziché punire i colpevoli li ha protetti facendoli addirittura espatriare nelle Filippine, in modo da sottrarli per sempre alla giustizia.
Sono emersi casi imbarazzanti anche in Austria e Polonia, con l’aggravante che si trattava delle massime cariche ecclesiastiche, tra le quali l’arcivescovo di Cracovia pedofilo Julius Paetz, la cui pedofilia era nota fin da quando lavorava in Vaticano nell’anticamera del papa suo connazionale, Wojtyla, e proprio negli anni in cui è “misteriosamente” scomparsa la ragazzina cittadina vaticana Emanuela Orlandi. Ma a scorrere le cronache dei giornali locali si scopre che anche in Italia le condanne di religiosi per pedofilia abbondano, solo che - pur essendo gli stupratori scoperti solo la punta dell’iceberg - vengono tenute accuratamente nascoste. E perché vengano nascoste lo si capisce finalmente bene, e in modo dimostrato, leggendo il testo della circolare emanata dall’ex Sant’Ufficio.
A muovere l’accusa contro l’attuale pontefice, documenti vaticani alla mano, è l’agguerritissimo avvocato Daniel Shea, difensore di tre vittime della pedofilia dei religiosi di Galveston Houston. E Ratzinger sarebbe stato trascinato in tribunale, forse in manette data la gravità del reato, se non fosse nel frattempo diventato papa. Nel settembre 2005 infatti il ministero della Giustizia, su indicazione di Bush e Condolezza Rice, ha bloccato il processo contro Ratzinger accogliendo la richiesta dell’allora segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano, di riconoscere anche al papa, in quanto capo dello Stato pontificio, il diritto all’immunità riconosciuto non solo dagli Stati Uniti per tutti i capi di Stato. A questo punto è doveroso e niente affatto scandalistico porsi una domanda, decisamente scomoda: quanto ha pesato nella scelta di eleggere papa proprio Ratzinger la necessità di sottrarlo alla giustizia americana e di difenderlo per avere in definitiva eseguito la volontà del pontefice precedente? C’è anche un altro particolare: di solito non si riesce a portare in tribunale anche i superiori dei preti stupratori perché in un modo o nell’altro evitano di ricevere l’atto di accusa, specie se risiedono sia pure solo ufficialmente in Vaticano. Ratzinger invece l’atto di citazione ha accettato di riceverlo: si può escludere lo abbia fatto per obbligare i suoi colleghi cardinali ad eleggerlo papa quando Wojtyla - sempre più malato - fosse venuto a mancare?
Come che sia, Shea però non demorde. Due anni fa è venuto a Roma per protestare in piazza S. Pietro assieme ai radicali in occasione della Giornata mondiale contro la pedofilia. E oggi si dice pronto a ricorrere fino alla Suprema Corte di Giustizia degli Stati Uniti per evitare che i firmatari della circolare vaticana che protegge i sacerdoti pedofili la facciano del tutto franca. Intanto dobbiamo constatare con sbigottimento che i tre nomi più impegnati nella lotta contro la laicità dello Stato italiano e del suo parlamento, vale a dire Ratzinger, Ruini e Bertone, sono stati colti con le mani nel sacco della sottrazione alla magistratura dei preti pedofili e strupratori di minori.
Ecco il testo integrale tradotto dal latino dell’ordine impartito per iscritto da Ratzinger e Bertone:
«LETTERA inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica e agli altri ordinari e prelati interessati, circa I DELITTI PIU’ GRAVI riservati alla medesima Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001
Per l’applicazione della legge ecclesiastica, che all’art. 52 della Costituzione apostolica sulla curia romana dice: “[La Congregazione per la dottrina della fede] giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti, che vengano a essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio”, era necessario prima di tutto definire il modo di procedere circa i delitti contro la fede: questo è stato fatto con le norme che vanno sotto il titolo di Regolamento per l’esame delle dottrine, ratificate e confermate dal sommo pontefice Giovanni Paolo II, con gli articoli 28-29 approvati insieme in forma specifica.
Quasi nel medesimo tempo la Congregazione per la dottrina della fede con una Commissione costituita a tale scopo si applicava a un diligente studio dei canoni sui delitti, sia del Codice di diritto canonico sia del Codice dei canoni delle Chiese orientali, per determinare “i delitti più gravi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti”, per perfezionare anche le norme processuali speciali nel procedere “a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche”, poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore, edita dalla Suprema sacra Congregazione del Sant’Offizio il 16 marzo 1962, doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici.
Dopo un attento esame dei pareri e svolte le opportune consultazioni, il lavoro della Commissione è finalmente giunto al termine; i padri della Congregazione per la dottrina della fede l’hanno esaminato più a fondo, sottoponendo al sommo pontefice le conclusioni circa la determinazione dei delitti più gravi e circa il modo di procedere nel dichiarare o nell’infliggere le sanzioni, ferma restando in ciò la competenza esclusiva della medesima Congregazione come Tribunale apostolico. Tutte queste cose sono state dal sommo pontefice approvate, confermate e promulgate con la lettera apostolica data in forma di motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela.
I delitti più gravi sia nella celebrazione dei sacramenti sia contro la morale, riservati alla Congregazione per la dottrina della fede, sono:
I delitti contro la santità dell’augustissimo sacramento e sacrificio dell’eucaristia, cioè:
1° l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la profanazione delle specie consacrate:
2° l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la simulazione della medesima;
3° la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale;
4° la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica;
Delitti contro la santità del sacramento della penitenza, cioè:
1° l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo;
2° la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso;
3° la violazione diretta del sigillo sacramentale;
Il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età.
Al Tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede sono riservati soltanto questi delitti, che sono sopra elencati con la propria definizione.
Ogni volta che l’ordinario o il prelato avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolte un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale, a meno che per le particolari circostanze non avocasse a sé la causa, comanda all’ordinario o al prelato, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale. Contro la sentenza di primo grado, sia da parte del reo o del suo patrono sia da parte del promotore di giustizia, resta validamente e unicamente soltanto il diritto di appello al supremo Tribunale della medesima Congregazione.
Si deve notare che l’azione criminale circa i delitti riservati alla Congregazione per la dottrina della fede si estingue per prescrizione in dieci anni. La prescrizione decorre a norma del diritto universale e comune: ma in un delitto con un minore commesso da un chierico comincia a decorrere dal giorno in cui il minore ha compiuto il 18° anno di età.
Nei tribunali costituiti presso gli ordinari o i prelati possono ricoprire validamente per tali cause l’ufficio di giudice, di promotore di giustizia, di notaio e di patrono soltanto dei sacerdoti. Quando l’istanza nel tribunale in qualunque modo è conclusa, tutti gli atti della causa siano trasmessi d’ufficio quanto prima alla Congregazione per la dottrina della fede.
Tutti i tribunali della Chiesa latina e delle Chiese orientali cattoliche sono tenuti a osservare i canoni sui delitti e le pene come pure sul processo penale rispettivamente dell’uno e dell’altro Codice, assieme alle norme speciali che saranno date caso per caso dalla Congregazione per la dottrina della fede e da applicare in tutto.
Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio.
Con la presente lettera, inviata per mandato del sommo pontefice a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, ai superiori generali degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio e delle società di vita apostolica clericali di diritto pontificio e agli altri ordinari e prelati interessati, si auspica che non solo siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da parte degli ordinari e dei prelati prelci sia una sollecita cura pastorale.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001.
Joseph card. Ratzinger, prefetto.
Tarcisio Bertone, SDB, arc. em. di Vercelli, segretario»
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Come avrete notato, lo scippo della pedofilia alla magistratura civile e penale di tutti gli Stati dove viene consumata è nascosto tra molte parole che parlano di tutt’altro. E il ruolo “giudiziario”, cioè di fatto omertoso, della Congregazione ex Sant’Ufficio è comunque confermato in pieno dalla vicenda fiorentina. A difendere i fedeli violati sono scesi in campo anche i locali preti ordinari e a causa delle loro insistenze il cardinale Antonelli il 17 gennaio ha scritto alle vittime di Cantini che al termine di un “processo penale amministrativo” tutto interno alla curia e sentita per l’appunto la Congregazione per la dottrina della fede, l’ex parroco “non potrà né confessare, né celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della Madonna”. Tutto qui! Di denuncia alla magistratura, neppure l’ombra, e del resto il “segreto pontificio” non lascia scampo. Per uno che per anni e anni se l’è fatta da padrone anche con il sesso di ragazzine di soli 10 anni - e di 17 le più “vecchie” - senza neppure scomodarsi con un viaggio nella Thailandia paradiso dei pedofili, si tratta di una pena piuttosto leggerina.... Da far felice qualunque pedofilo incallito! Quanto alle vittime, Antonelli ha anticipato l’ineffabile Ruini: visto che “il male una volta compiuto non può essere annullato”, il cardinale invita le pecorelle struprate a “rielaborare in una prospettiva di fede la triste vicenda in cui siete stati coinvolti”, e a invocare da Dio “la guarigione della memoria”.
Ma a guarire, anche dai troppi condizionamenti opportunistici della memoria, deve essere semmai il Vaticano. E infatti i fedeli fiorentini, che hanno letto la missiva del cardinale con “stupore e dolore”, hanno deciso di non fermarsi. Finora non hanno fatto nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, “nulla è più escluso”. I preti schierati dalla loro parte chiedono al papa - nella lettera inviata tramite la Segreteria di Stato oggi retta proprio da Bertone! - “un processo penale giudiziario”, che convochi testimoni e protagonisti, e applichi “tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico”. Chiedono inoltre che Cantini, colpevole di avere rovinato non poche vite, sia “privato dello stato clericale” anche “a tutela delle persone che continuano a seguirlo”.
Però, come avrete notato, neppure i buoni preti fiorentini si sognano di fare intervenire la magistratura dello Stato italiano. I panni sporchi si lavano in famiglia... Che è il modo migliore di continuare a non lavarli. Come per la scomparsa di Emanuela Orlandi. 08.04.2007.
Pino Nicotri
Nella foto, Pino Nicotri giornalista investigativo del settimanale “L’Espresso” e autore di importanti libri inchiesta tra i quali “Mistero Vaticano - La scomparsa di Emanuela Orlandi” Kaos Edizioni.
Fonte e commenti:
* IL DIALOGO, Martedì, 10 aprile 2007
La Sacra Unione di fatto
di Enzo Mazzi *
«Sacra Unione di Fatto», questa è la giusta definizione del modello cristianamente perfetto di ogni famiglia, incarnato da quella che tradizionalmente viene chiamata "Sacra Famiglia". Potrebbe sembrare una battuta spiritosa e dissacrante. È invece una reale contraddizione teologica irrisolta che il cristianesimo si porta dietro da quando è divenuto religione dell’Impero. Costantino si convertì al cristianesimo ma al tempo stesso il cristianesimo si convertì a Costantino. La nuova religione dovette cioè farsi carico della stabilità dell’Impero accettando di sacralizzarne alcuni capisaldi e fra questi proprio la famiglia. Fu un compromesso fatale.
Il cristianesimo non era nato per difendere la famiglia. Anzi all’inizio fu un movimento di superamento del concetto patriarcale di famiglia. La cultura e la teologia predominanti nella esperienza da cui sono nati i Vangeli è di un "radicalismo etico", quasi una rivoluzione, che si propone di oltrepassare la cultura e la teologia tradizionali: «Vi è stato detto..., io invece vi dico... » afferma Gesù in contraddittorio con sacerdoti, scribi, farisei. «Si trattò all’inizio di un movimento di contestazione culturale e di abbandono delle strutture della società» (G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, 2004). Basta pensare alla reazione di Gesù, in un episodio del Vangelo di Matteo: «Ecco là fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: "E chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"».
Un orizzonte nuovo di valori universali si apre in realtà nel Vangelo col superamento del concetto patriarcale di famiglia: da tale oltrepassamento nasce la comunità cristiana, la nuova famiglia, "senza padre" o meglio con un solo padre «quello che è nei cieli». «Nessuno sia tra voi né padre né maestro... » dice infatti Gesù. Se è vero che «la realizzazione pratica dell’etos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia», come ha sostenuto di recente il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università del papa, la Lateranense, se cioè bisogna rivolgersi alle scelte della grazia di Dio per sapere che cos’è la natura, allora bisogna concludere che Dio privilegia "l’unione di fatto" e non la famiglia. Insomma per dirla con parole semplici prima viene l’amore, l’unione, la solidarietà e poi viene il patto, la legge, il codice. Questa sembra l’essenza più profonda della natura umana. Lo dice plasticamente il Vangelo: «Il sabato (cioè la norma) è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato». Il compromesso con l’Impero portò alla attenuazione se non al fatale capovolgimento di un tale etos evangelico.
È questa una intrigante contraddizione per le gerarchie ecclesiastiche del "Non possumus" e della rigida Nota anti-Dico, per i preti, i cattolici e i laici del Family-day.
Una traccia vistosa e significativa di tale contraddizione si trova ancora oggi nel celibato dei preti, religiosi e religiose. Il dogma cattolico mentre considera biblicamente il matrimonio come «segno sacro dell’Alleanza nuova compiuta dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, con la sua sposa, la Chiesa», d’altro lato ha bisogno di un segno opposto e cioè la verginità e il celibato per significare «l’assoluto primato dell’amore di Cristo» (cf. Compendio del Catechismo 340-342). Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 338 pone la domanda: «Per quali fini Dio ha istituito il Matrimonio?». La risposta è questa: «L’unione matrimoniale dell’uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli». Il fine della "generazione/procreazione" fa parte strutturale della natura del matrimonio. Se esclude il fine della procreazione il patto matrimoniale è nullo. Al n. 344 e 345 lo stesso Catechismo dice: «Che cosa è il consenso matrimoniale? Il consenso matrimoniale è la volontà, espressa da un uomo e da una donna, di donarsi mutuamente e definitivamente, allo scopo di vivere un’alleanza di amore fedele e fecondo... In ogni caso, è essenziale che i coniugi non escludano l’accettazione dei fini e delle proprietà essenziali del Matrimonio». Addirittura al n. 347, il rifiuto della fecondità viene additato come peccato gravemente contrario al Sacramento del matrimonio: «Quali sono i peccati gravemente contrari al Sacramento del Matrimonio? Essi sono: l’adulterio; la poligamia, in quanto contraddice la pari dignità tra l’uomo e la donna, l’unicità e l’esclusività dell’amore coniugale; il rifiuto della fecondità, che priva la vita coniugale del dono dei figli; e il divorzio, che contravviene all’indissolubilità».
La contraddizione si avviluppa su se stessa e si incattivisce: Maria e Giuseppe escludendo dal loro matrimonio la fecondità naturale, per amore della verginità di Maria, secondo il Catechismo cattolico compiono un grave peccato.
Il Diritto Canonico conferma il dogma in modo apodottico in vari canoni. Specialmente il canone 1101 sancisce che è nullo il matrimonio di chi nel contrarlo «esclude con un positivo atto di volontà» la procreazione. È in base a queste enunciazioni dogmatiche e normative che il Tribunale della Sacra Rota emette quasi ogni giorno dichiarazioni di nullità del matrimonio, perché anche uno solo degli sposi può provare di aver escluso per sempre la procreazione al momento del consenso matrimoniale. I cattolici che si battono per la difesa e la valorizzazione della "famiglia naturale" e si preparano addirittura a scendere in piazza per scongiurare il riconoscimento delle unioni di fatto e l’approvazione dei Dico molto probabilmente non hanno mai riflettuto su queste contraddizioni, non le conoscono o le allontanano dalla loro coscienza e dall’orizzonte della loro fede. Esse invece sono invece parte integrante della stessa fede. Vediamo meglio perché. Il Vangelo di Matteo racconta che «Giuseppe, come gli aveva ordinato l’angelo del Signore, prese in sposa Maria che era incinta ed ella, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù». Il dogma cattolico aggiunge che Maria aveva consacrato in perpetuo la sua verginità al Signore e quindi nello sposare Giuseppe aveva escluso in maniera assoluta la procreazione, essendo Giuseppe pienamente consenziente con tale esclusione. "Maria sempre vergine", nell’intenzione e nei fatti. Così dice il dogma. Chi lo nega è eretico. Ma con questa esclusione positiva ed assoluta della prole, per lo stesso dogma cattolico e per il Diritto Canonico il matrimonio di Maria con Giuseppe è invalido. Maria e Giuseppe erano una coppia di fatto che oggi il Diritto Canonico non può riconoscere come vero matrimonio. Dio nel momento in cui decide di farsi uomo sceglie di crescere e di essere educato da una coppia, Maria e Giuseppe, che per il dogma e per il Diritto cattolico era unita di fatto in un matrimonio non valido e quindi non era vera famiglia: era appunto una Sacra Unione di fatto.
Dietro una spinta così forte proveniente del Vangelo, da anni ci siamo impegnati, come tanti altri, e con forti conflitti, a immedesimarsi nelle discariche umane prodotte nella "città delle famiglie normali". E lì abbiamo trovato bambini abbandonati per l’onore del sangue, ragazze madri demonizzate e lasciate nella solitudine più nera, handicappati rifiutati, carcerati privati della parentela, gay senza speranza, coppie prive di dignità perché fuori della norma, minori violentati dai genitori, mogli stuprate dietro il paravento del "debito coniugale". La "misericordia" del Vangelo ci ha imposto di non demonizzare anzi di accogliere la ricerca di forme di convivenza meno distruttive. Per purificare lo stesso matrimonio, non certo per distruggerlo. Quei bambini abbandonati, quelle ragazze madri, quegli handicappati, quei carcerati, quei gay, quelle vittime di violenze intrafamiliari, hanno avuto bisogno di "unioni di fatto", magari cosiddette "case famiglia", che se ne facessero carico. Poi anche le famiglie si sono aperte alle adozioni e agli affidamenti. Ma la breccia è stata aperta da "unioni di fatto".
Fine della famiglia tribale e delle sue discariche? Macché. Nuove emergenze incombono. La competizione globale, questa guerra di tutti contro tutti, riporta a galla il bisogno di mura. Il mondo del privilegio non accetta la condivisione e non ne conosce le strade se non nella forma antica della elemosina che oggi è confusa impropriamente con la solidarietà; conosce molto bene però l’arte dell’arroccamento. E di questo bisogno di blindatura approfittano i crociati della famiglia. Guardando bene al fondo, in nome di che si ricacciano in mare gli extra-comunitari? Sono estranei alla nostra famiglia e alla nostra famiglia di famiglie. La difesa a oltranza della famiglia canonica oggi è fonte di esclusione verso i dannati della terra. L’opposizione al riconoscimento delle nuove forme di solidarietà è nel profondo radice di violenza verso gli esclusi. La crociata contro le famiglie di fatto oggettivamente è egoista, oltre i bei gesti e le belle parole e oltre le stesse intenzioni, al di là delle apparenze. Non basta difendere la famiglia naturale. Bisogna ancora una volta guarirla.
È necessario riscoprire il primato dell’amore e della solidarietà oltre i confini di razza, etnia, famiglia, quell’amore responsabile e quella solidarietà piena che sono sacre in radice e rendono sacro ogni rapporto in cui si incarnano. Bisogna ritrovare le strade dell’apertura planetaria della famiglia, di una famiglia purificata e guarita, già annunciate dal Vangelo, nelle attuali esperienze delle giovani generazione e dei nuovi soggetti, con prudenza creativa, senza nascondersi limiti e pericoli, ma anche senza distruttive demonizzazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.07, Modificato il: 13.04.07 alle ore 14.11
Il parroco fiorentino, oggi 85 anni, è stato riconosciuto colpevole di abusi sessuali
nei confronti dei suoi giovani parrocchiani tra il 1973 e il 1987
Don Cantini "spretato"
su ordine di Benedetto XVI
Una prima "sentenza" nel 2005 fu considerata troppo debole e inefficiente
La richiesta dei fedeli di un supplemento d’indagine e dell’intervento diretto del Pontefice
ROMA - Il Papa, su proposta della Congregazione per la dottrina della fede, ha ridotto allo stato laicale don Lelio Cantini, il sacerdote di 85 anni ritenuto responsabile di abusi sessuali e psicologici negli anni 1973-1987 nella sua parrocchia fiorentina della Regina della Pace. Quattordici anni di abusi sessuali e ricatti e pressioni psicologiche che hanno trovato la forza di emergere solo nel 2004 quando le denunce delle stesse vittime hanno finalmente trovato ascolto.
"Abuso plurimo e aggravato nei confronti di minori, delitto di sollecitazione a rapporti sessuali compiuto nei confronti di più persone in occasione della Confessione, dell’abuso nell’esercizio della potestà ecclesiastica nella formazione delle coscienze": è questa la conclusione dell’istruttoria supplementare resa nota con una ’Notificazione’ diffusa in serata alla stampa dal cardinale Ennio Antonelli, amministratore apostolico della diocesi di Firenze che il 26 ottobre passerà la guida della Curia al nuovo arcivescovo monsignor Giuseppe Betori.
La sentenza pone la parola fine ad una vicenda che ha molto scosso la chiesa fiorentina e che è esplosa nell’aprile 2007, dopo che alcuni parrocchiani denunciarono di essere stati vittime di questi abusi tanto che la procura di Firenze aprì un’inchiesta.
Quella su cui oggi il Pontefice ha deciso è l’istruttoria bis condotta dalla Curia a carico del prete. "Sono emersi ulteriori riscontri destinati a dare nuove ripercussioni al caso" disse a settembre monsignor Charles Scicluna, promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, il "pubblico ministero" che per conto della Santa Sede ha vagliato per mesi il voluminoso fascicolo con le risultanze del supplemento di indagine imposto da Roma alla Curia fiorentina dopo le insistenze delle vittime, e affidata al padre carmelitano Francesco Romano.
Nel 2005 infatti l’allora cardinale Piovanelli aveva chiuso la vicenda con un semplice processo canonico amministrativo, al termine del quale, pur riconoscendo don Cantini colpevole di "delittuosi abusi sessuali, falso misticismo e dominio delle coscienze", aveva condannato l’anziano prete a pene minime, come il divieto di celebrare messa in pubblico per cinque anni e l’obbligo di recitare litanie alla Madonna. Una condanna leggera, che non teneva conto, ad esempio, del perverso meccanismo psicologico con cui don Cantini costringeva le sue vittime a commettere peccato. La parte più dolorosa della storia.
Di fronte alla cautela di Antonelli le vittime, che avevano già scritto più volte alla Santa Sede, si sono rivolte di nuovo alla Congregazione per la dottrina della fede chiedendo un supplemento di indagine. Nel riserbo più assoluto, padre Romano ha riascoltato le loro voci, ma anche per la prima volta quelle dei tanti che in qualche modo sono stati a conoscenza delle vicende della Regina della pace. E alla fine, il voluminoso dossier con i risultati è stato consegnato all’arcivescovo. Fino alla decisione del Pontefice.
Nella vicenda è stato chiamato in causa dalle vittime anche il vescovo ausiliare Claudio Maniago (proveniente e formatosi nella parrocchia della Regina della Pace) che è stato criticato da alcuni di loro per avere sottostimato il caso. Don Cantini dal dicembre scorso è ricoverato per motivi di salute al Convitto ecclesiastico a Firenze.
* la Repubblica, 12 ottobre 2008
Primo Piano. La Chiesa nella bufera
Da predicatore vaticano a supporter di Arkeon l’associazione accusata di violenze sui minori
Padre Cantalamessa, il frate che ha accostato lo scandalo pedofilia con l’antisemitismo, è tra i sostenitori del leader
del gruppo Sacred Path, Vito Carlo Moccia, a giudizio a Bari per associazione a delinquere. E non solo
di Giovanni Maria Bellu (l’Unità, 9.4.2010)
l processo è in corso a Bari. Gli imputati sono undici, accusati di reati quali associazione a delinquere, truffa, violenza privata, maltrattamento di minori. Il decreto che dispone il giudizio di Vito Carlo Moccia, inventore del metodo Arkeon, e presidente dell’associazione “Sacred Path”, è un repertorio di violenze psicologiche atroci. La più perfida consisteva nel fare credere agli adepti di aver subito nell’infanzia una violenza sessuale. Per questo si resta di stucco quando, nel leggere l’enorme materiale di documentazione sul “caso Arkeon”, si scopre che il più autorevole sostenitore di questa organizzazione è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, il frate cappuccino che lo scorso 2 aprile, parlando in presenza di Benedetto XVI, ha scatenato uno scandalo planetario paragonando la campagna di stampa sulla pedofilia nella Chiesa con «gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo».
È una storia complicata che si sviluppa in un lungo arco di tempo. Conviene, dunque, andare con ordine. Fondata da Vito Carlo Moccia nel 1999, l’associazione “Sacred Path” (cioè “il sentiero sacro”) nel Duemila, con l’invenzione del metodo Arkeon, assume la natura che l’ha portata in tribunale. Ma in quei primi anni opera con discrezione, aumentando proseliti e profitti attraverso un discreto passaparola. Ha anche una buona stampa. La popolarità televisiva arriva l’11 settembre del 2004. E quel giorno che il nome di padre Raniero Cantalamessa compare per la prima volta accanto a quello di Vito Carlo Moccia. Il predicatore dedica una puntata della sua rubrica televisiva “A sua immagine, le ragioni della speranza”, che va in onda tutti i pomeriggi del sabato su RaiUno, al metodo Arkeon e conduce un’intervista encomiastica a Moccia sul rapporto padre-figlio.
Ancora del lato oscuro di Arkeon non si è parlato. Cantalamessa, dunque, potrebbe essere ignaro di tutto. Deve infatti passare un altro anno e mezzo prima che lo scandalo esploda. Il 20 gennaio del 2006, Maurizio Costanzo ospita nel suo “Tutte le mattine”, che va in onda su Canale5, la psicologa Lorita Tinelli, presidente del Cesap (Centro studi sugli abusi psicologici) e due ex adepti di Arkeon: un “maestro” e una “allieva”. La denuncia dei metodi di Moccia è precisa e circostanziata: le accuse che sono alla base del processo in corso a Bari per la prima volta diventano pubbliche.
Ma Padre Cantalamessa non cambia idea. Al contrario. Un mese dopo a Milano, nella chiesa di S. Eustorgio, celebra una messa alla quale assistono Vito Carlo Moccia e centinaia di suoi discepoli. La cosa colpisce e sorprende quelli che già nutrono molti dubbi sulla vera natura di “Sacred path”. Perché il presentarsi come associazione non solo tollerata ma addirittura approvata dalla Chiesa è uno degli argomenti più forti di una campagna di proselitismo sempre più intensa: il numero degli adepti arriverà a sfiorare la ragguardevole cifra di ventimila.
L’Unità è in grado di raccontare quale fu il comportamento di padre Cantalamessa quando alcune persone si rivolsero a lui per segnalargli specifiche tragedie familiari prodotte dal metodo Arkeon. L’autenticità di questi documenti che aiutano a ricostruire quale retroterra culturale e anche spirituale ci sia dietro la clamorosa gaffe su pedofilia e antisemitismo è certificata. Sono stati, infatti, prodotti dai legali di Vito Carlo Moccia a sostegno di un atto di citazione contro il Centro studi sugli abusi psicologici. In sostanza Moccia, per difendersi, ha chiamato in causa e difficilmente può averlo fatto senza esserne stato autorizzato il predicatore della Casa pontificia.
«Reverendo Padre», comincia così la lettera di un “musicista e studioso cattolico” di Rovereto (abbiamo i nomi degli autori di tutte le missive citate, ma li omettiamo per evidenti ragioni di discrezione, nda), il quale segnala a Cantalamessa il caso di una sua conoscente madre di un ragazzo che «da qualche tempo frequenta il movimento». «È preoccupata scrive perché il figlio «crede ciecamente ai poteri di Moccia, è aggressivo, ha abbandonato la fede e la parrocchia, sostiene la non divinità di Cristo e la sua equiparabilità ai vari profeti e santoni della storia. Sostiene, e qui sta il problema, che il movimento e il Moccia sono “benedetti” da lei padre Cantalamessa che di recente avrebbe celebrato una Santa messa con i diaconi di S. Eustorgio in Milano con il gruppo condividendone gli intenti». Quindi l’autore della lettera chiede al predicatore della Casa pontificia «il giusto consiglio da dare a quella mamma che da poco ha perso il marito e che, da buona cristiana, vorrebbe aiutare il figlio a recuperare la Verità e la Vita».
La risposta arriva poco più di due settimane dopo, il 24 marzo 2006. È una difesa accorata di Moccia e dei suoi metodi. C’è solo una vaghissima, e reticente, presa di distanze; «Non ho celebrato la messa per loro. Hanno chiesto di partecipare a una messa da me celebrata per la parrocchia di S. Eustorgio e sono stati accolti da me e dal parroco. Erano in 400 e hanno edificato tutti: molti si sono confessati e moltissimi hanno fatto la comunione». È vero. Cantalamessa, però, non dice che l’incontro con Moccia si protrasse oltre la celebrazione, proseguì nella sacrestia. Forse non sapeva, né immaginava, che quei momenti erano stati filmati e trasferiti in un Cd promozionale poi diffuso da “Sacred path”.
Il successivo capoverso della lettera è significativo per le analogie che presenta con gli argomenti utilizzati da chi, all’interno della Chiesa, vorrebbe negare il problema della pedofilia. È la tesi del “caso singolo”. «Il campo in cui opera Vito scrive Cantalamessa chiamando confidenzialmente per nome il capo di Arkeon è delicato e non meraviglia che ogni tanto ci sia qualcuno che, per motivi umani spesso complessi e talvolta inconfessati, sparga sul suo conto le voci più allarmanti, giudicando da un caso singolo tutto il complesso dell’opera». Ma la vera sorpresa è alla fine: il predicatore della Casa pontificia non si limita a difendere il capo di “Sacred path” ma si premura di informarlo della denuncia che gli è stata confidenzialmente rivolta. In calce alla lettera c’è, infatti, una nota manoscritta: «Caro Vito, ti invio una lettera che ho ricevuto e la mia risposta, perché, penso, è giusto che sia informato. Con affetto ti abbraccio e ti benedico. P. Raniero».
Qualche tempo dopo, a Cantalamessa giunge un’altra segnalazione allarmata. A inviargliela, il 5 aprile del 2006, è una signora di Magenta: «Molto reverendo padre, mi rivolgo a lei per chiederle aiuto. Una mia cara amica è disperata perché i suoi due figli, entrambi laureati e coniugati, con le loro rispettive famiglia hanno da tempo aderito ad una organizzazione che ha completamente stravolto in senso negativo la loro mente, il loro comportamento e il loro modo di vivere. Essi dicono di dover obbedire ad un certo “maestro”, fondatore e capo, rifiutano i contatti con la loro madre, non le lasciano avvicinare i nipoti. Seguono riti strani e pericolosi ... L’organizzazione si chiama Arkeon». Il comportamento di padre Cantalamessa è sbalorditivo. Nella documentazione non c’è, come ci si aspetterebbe, la sua risposta. C’è invece (datata 19 aprile 2006) una lettera, scritta dalla stessa città, di un signore che poi è il marito dell’amica disperata della signora di Magenta. Questo signore, al pari dei due figli, ha aderito ad Arkeon o, almeno, ce l’ha in grande simpatia. E fa riferimento al contenuto della lettera inviata a Cantalamessa dall’amica della moglie. Come è potuto succedere? L’unica spiegazione è che anche questa volta Moccia sia stato informato e che abbia chiesto all’adepto di Magenta di scrivere qualcosa di rassicurante all’autorevole sponsor cattolico.
Nel giugno del 2006 viene avviata l’inchiesta giudiziaria. E a ottobre di quello stesso anno, il “caso Arkeon”, come ormai si chiama, riesplode sugli schermi. Questa volta in una puntata di “Mi manda Rai 3” dove sono presenti gli accusatori (tra i quali la psicologa Lorita Tinelli) e il leader degli accusati, Vito Carlo Moccia. C’è anche un ragazzo che racconta di essere stato obbligato a chiedere l’elemosina con appeso al collo un cartello con su scritto «sono schizofrenico». Sua madre in seguito racconterà di aver segnalato il dramma del figlio a padre Cantalamessa fin dal 2004, dopo aver assistito sgomenta all’intervista di Moccia nella rubrica del predicatore, e di non aver mai avuto risposta. L’immagine dell’associazione ne esce a pezzi davanti all’opinione pubblica. Ma, ancora una volta non davanti al predicatore della Casa pontificia.
Ecco come risponde a una lettera inviatagli qualche giorno dopo da un’aderente al Cesap: «Ho visto la trasmissione e mi ha dato l’impressione di un penoso linciaggio. Agli accusati non è stato permesso di terminare una sola frase. C’è stato, mi sembra di capire, un caso di un operatore che ha effettivamente abusato della propria posizione che, però, è stato per questo sospeso (...) Non si dovrebbe fare di ogni erba un fascio. Chi si sognerebbe di voler mettere fuori legge la Chiesa cattolica o l’associazione degli psichiatri perché qualche loro membro ha abusato del suo ufficio?».
Due mesi dopo, il 30 dicembre 2006, si verifica l’evento televisivo più importante. E anche più significativo rispetto ai rapporti tra Cantalamessa e “Sacred path”. Nella settimanale puntata della sua rubrica, il predicatore pontificio manda in onda la registrazione di un’intervista. Nello schermo appare una giovane coppia con un bambino di circa tre anni tenuto in braccio dal padre. Il padre dice di chiamarsi Luca, afferma di «essere stato» omosessuale e di essere «guarito» grazie ad Arkeon. Curiosamente, nel presentare il filmato, Cantalamessa non nomina l’organizzazione ma la definisce semplicemente «gruppo di sostegno». Né, naturalmente, dice chi ha realizzato il filmato, né di chi è la voce fuori campo che pone a Luca domande sul suo percorso. Eppure lo conosce benissimo: è, infatti, Vito Carlo Moccia.
La puntata non passa inosservata. E non solo perché, in seguito, molti riconosceranno in quel Luca il «Luca era gay» della canzone di Povia. Interviene il garante della privacy che rivolge alla Rai e al conduttore un ammonimento per aver violato le regole deontologiche che tutelano i minori. Il bambino di Luca non solo era perfettamente riconoscibile ma, osserva il garante, ha dovuto assistere a un’intervista che riguardava «anche aspetti estremamente delicati relativi a vissuti dolorosi di uno dei genitori: gli abusi sessuali subiti da parte di un familiare».
Se potevano esserci ancora dei dubbi sulla gravità e sulla serietà delle accuse a “Sacred path”, essi vengono a cadere il 10 ottobre del 2007 quando a Moccia e agli altri dirigenti vengono notificati gli avvisi di garanzia. La notizia fa clamore e la tv torna ad occuparsene. Questa volta è Striscia la notizia che scopre e manda in onda spezzoni dell’intervista-spot a Moccia andata in onda nel 2004. L’effetto è sconvolgente per il contrasto tra la figura del predicatore e i fatti raccontati dai testimoni. Cantalamessa è costretto a intervenire.
È una presa di distanze imbarazzata e tardiva, come le scuse alla comunità ebraiche dopo la gaffe sull’antisemitismo. Scrive il predicatore: «Personalmente io non sono venuto a conoscenza di nessun abuso, che altrimenti sarei stato il primo a denunciare e condannare».
È falso. Padre Raniero Cantalamessa fu informato dei comportamenti di “Sacred path” sicuramente nelle due lettere che abbiamo riportato. Non solo non fece alcuna denuncia ma, come abbiamo visto, informò il capo dell’organizzazione. Proprio come quei prelati che, davanti alle denunce di casi di pedofilia, non si rivolsero alla magistratura ma alle autorità ecclesiastiche gerarchicamente superiori.
l’Unità 9.4.10
Il ruolo di Cantalamessa. È stato affidato fin dal 1743 ai frati dell’ordine dei cappuccini
Le funzioni solenni Tra gli altri, il compito di tenere l’omelia in occasione del venerdì santo
«Predicatore apostolico»: il frate che “parla” ai papi
Un ruolo chiave per la Chiesa quello ricoperto da Raniero Cantalamessa. Il «predicatore della Casa pontificia» è un -interlocutore della curia e del papa, è il frate che stimola l’esame di coscienza sulla coerenza col Vangelo.
di Roberto Monteforte
Quella del predicatore della Casa pontificia è una funzione di grande prestigio e delicatezza. Egli è il frate che, proprio per la forza e la condizione del monaco, “parla” alla Curia e al Papa. Che aiuta il pontefice, i cardinali e i superiori degli ordini religiosi a meditare il Vangelo, sollecitando e stimolando la riflessione personale, l’esame di coscienza sulla coerenza con le verità evangeliche. È dal 1743, per volontà di Papa Benedetto XIV, che questo compito è assegnato ai padri cappuccini. In precedenza veniva svolto a turno dai Procuratori generali dei quattro ordini mendicanti (i Predicatori ossia i Domenicani, i Minori ossia i Francescani, gli Eremitani di Sant’Agostino e i Carmelitani).
Le meditazioni del predicatore si tengono nella Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo apostolico e avvengono in due momenti particolari dell’anno liturgico: tutti i venerdì di Quaresima e in quelli di Avvento. Spetta al predicatore della Casa pontificia tenere l’omelia il giorno del venerdì santo. Le riflessioni del predicatore apostolico sono le parole della Chiesa che giungono ai fedeli. Vengono, infatti, rilanciate dai media cattolici. Sono rivolte al Papa e alla curia, ma che hanno anche un preciso intento divulgativo.
L’esperienza di divulgatore della Parola padre Raniero Cantalamessa (che è predicatore apostolico dal 1980) l’ha maturata anche come conduttore televisivo. Per una decina d’anni, sino alla fine dello scorso anno, con la trasmissione di RaiUno “A sua immagine. Le ragioni della speranza” ogni sabato pomeriggio ha spiegato al grande pubblico il Vangelo della domenica.
Padre Cantalamessa è figura autorevole e stimata non solo Oltretevere. Non fu certo un caso se la congregazione generale dei cardinali, in occasione del conclave dell’aprile 2005 che portò all’elezione di Benedetto XVI come successore di Giovanni Paolo II, chiese a lui, oltre che al cardinale Špidlíkdi, di svolgere le «esortazioni» al collegio cardinalizio. ❖