La lezione di Morin.
La sfida della complessità
La Francia lo celebra conla riedizionedelle opere e con convegni di studio
"Il cuore del problema è la conoscenza della conoscenza, una caccia all’errore"
di Fabio Gambaro *
PARIGI. Se c’è un intellettuale francese per cui l’espressione maître à penser abbia oggi ancora un senso, questi è Edgar Morin. Un maestro del pensiero rispettato e studiato, che da oltre mezzo secolo affronta con le armi della riflessione la complessità del mondo e le sue contraddizioni. A ottantasei anni, il sociologo approdato alla filosofia è oggi più che mai al centro del dibattito intellettuale: i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e le sue tesi discusse con grande attenzione in occasione di affollati convegni. L’ultimo qualche giorno fa a Parigi, dove, per due intere giornate, Morin si è confrontato pubblicamente con specialisti di varie discipline.
Non è un caso, dunque, che la casa editrice Seuil abbia deciso di ripubblicare nella sua integralità La Méthode, vale a dire i sei volumi scritti dallo studioso tra il 1977 e il 2004 (in Italia sono stati tradotti da Feltrinelli e Raffaello Cortina), affrontando, grazie al dialogo continuo tra scienze umane e scienze naturali, le molte forme della complessità. Una riflessione che, partendo dalla «conoscenza della natura», si allargata alla «natura della conoscenza», investendo poi il mondo delle idee, i territori dell’antropologia e il continente dell’etica. «Come tutti i pionieri, anch’io all’inizio sono stato incompreso, oggi però l’importanza del concetto di complessità è riconosciuta da tutti», ricorda Morin, al cui pensiero volontariamente aperto la rivista Communications ha appena dedicato un ricco numero monografico. «Quando ho iniziato a scrivere il primo volume del Metodo, non ero certo un profeta. Cercavo solo di capire la realtà che mi stava davanti, confrontandomi con le idee che iniziavano a circolare in certi ambiti di ricerca. In seguito, alcune delle mie intuizioni sono state recepite dal mondo della cultura, altre invece suscitano ancora molte resistenze».
Il Metodo è un lavoro in divenire che si è riorganizzato nel corso del tempo...
«Scrivere per me non è semplicemente redigere un testo a partire da un pensiero già cristallizzato. Al contrario, il momento della scrittura è quello in cui le riflessioni si formano e si trasformano, perché nuove idee modificano continuamente l’economia del lavoro già svolto. Senza dimenticare le letture di alcuni amici che, con le loro critiche, mi hanno mostrato nuovi orizzonti di ricerca, spingendomi a riprendere il lavoro. È un modo di lavorare difficile, ma appassionante, che trasforma di continuo il mio pensiero. Un pensiero, quindi, che non è mai immobile né definito una volta per sempre. Come diceva Nietzsche, il metodo arriva solo alla fine».
Perché il concetto di complessità le è sembrato da subito decisivo?
«I problemi importanti sono sempre complessi e vanno affrontati globalmente. Se voglio comprendere la personalità di un individuo, non posso ridurla a pochi tratti schematici. Devo necessariamente tenere conto di molte sfumature, spesso contraddittorie. Lo stesso vale per la situazione del pianeta, per comprendere la quale si devono tener presenti molti parametri. Insomma, la realtà è complessa e piena di contraddizioni che sono una vera sfida alla conoscenza. Per affrontare tale complessità, non basta semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi. Occorre trovare il modo per farli interagire all’interno di una nuova prospettiva».
È ciò che ha fatto lei nel Metodo?
«In effetti, ho cercato di elaborare alcuni principi in grado di mettere in relazione quelle conoscenze che gli strumenti tradizionali della conoscenza di solito non riescono a collegare. Per questo ho utilizzato l’insegnamento di quei filosofi che non hanno avuto paura di affrontare le contraddizioni, da Eraclito a Marx. Senza dimenticare Pascal, per il quale l’uomo era l’essere più miserabile e grottesco, ma anche il più nobile».
Il terzo volume del Metodo è dedicato alla «conoscenza della conoscenza». Perché?
«Questo è certamente il cuore del problema, giacché dobbiamo conoscere i meccanismi della conoscenza, se vogliamo comprendere i nostri errori. Se le mie idee hanno incontrato il favore di molte persone in ambiti diversi - dalla scienza alla letteratura, dalla filosofia alla pedagogia - è perché costoro erano profondamente insoddisfatti di una cultura dominata dal pensiero binario, fatta di opposizioni manichee che rimuovono ogni contraddizione. Nel mio lavoro hanno trovato una prima risposta ai loro dubbi. Io però ho solo rivelato intuizioni che, sebbene non formulate, erano probabilmente già presenti in molti studiosi. Esiste un’aspirazione diffusa ad un altro modo d’intendere la conoscenza. Per questo, le mie riflessioni hanno potuto diffondersi in molti paesi, tra cui anche l’Italia, dove il mio lavoro è seguito ancor più che in Francia. Di ciò naturalmente sono molto soddisfatto, anche se molto resta ancora da fare».
In quale direzione?
«Occorre occuparsi dell’insegnamento. La riforma della conoscenza e del pensiero potrà concretizzarsi solo attraverso una riforma dell’insegnamento, una problematica a cui ho dedicato La testa ben fatta e I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Il nostro sistema d’insegnamento separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo e impedendoci di cogliere quei problemi fondamentali che sono sempre globali. L’eccesso di specializzazione è diventato un problema. Esperti molto competenti nel loro settore, non appena il loro ambito specifico è traversato da altre problematiche, non sanno più come reagire. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi, ma non ne sono capaci».
Occorre un’ottica interdisciplinare?
«Certo, purtroppo però l’interdisciplinarietà avanza molto lentamente. Nel mondo della ricerca francese i baroni delle singole discipline non sono assolutamente sensibili a tale prospettiva. C’è però un movimento in corso, che io cerco d’incoraggiare.
L’interdisciplinarietà è positiva perché permette a persone che lavorano in campi diversi di dialogare, ma occorrerebbe fare un ulteriore passo in avanti in direzione della transdisciplinarietà, la sola capace di costruire un pensiero globale in grado di articolare i diversi saperi. In fondo, esiste già una scienza che si muove in questo modo e che ci può servire da modello».
Quale sarebbe?
«L’ecologia, che poggia sull’idea di ecosistema. Vale a dire, un’organizzazione complessa, fondata al contempo sul conflitto e la cooperazione, che nasce dalla eco-organizzazione e dall’implicazione reciproca delle diverse componenti del sistema. Facendo interagire molti parametri diversi, l’ecologia è un esempio molto utile, anche se resta una scienza con una dimensione aleatoria, dato che non siamo ancora capaci di rispondere a tutti i grandi interrogativi che essa solleva. Tuttavia, anche le cosiddette scienze esatte sono sempre più spesso costrette ad integrare la dimensione del dubbio e dell’incertezza. Nessuna scienza può vantare esclusivamente certezze. Si pensi alle difficoltà dell’economia di fronte al marasma dei mercati. Insomma, non bisogna mai eliminare il dubbio».
L’ecologia è un modello anche per il sistema della cultura? È per questo che ha parlato di ecologia delle idee?
«È uno dei modelli, dato che anche in ambito culturale agiscono contemporaneamente i principi di conflitto e di cooperazione. Partendo da questo punto di vista, è possibile pensare in termini diversi anche la relazione tra autonomia e indipendenza. In natura non si può essere indipendenti che dipendendo dal proprio ambiente. Ciò che vale per l’ambiente biologico, vale anche per l’ambiente sociale, urbano, culturale, religioso. Comprendere l’interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all’abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato».
* la Repubblica, 25.04.08
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
Filosofia.
Il secolo di Morin, umanista planetario
Il grande filosofo e sociologo francese il prossimo 8 luglio compirà 100 anni. Un volume di altrettante voci italiane ne scandaglia il pensiero, lucido e profetico
di Marco Roncalli (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
È l’omaggio della comunità italiana - accademica, ma non solo - al grande pensatore che l’8 luglio taglia il traguardo del secolo. Cento testimonianze d’autore per cento ritratti del filosofo e sociologo di fama mondiale Edgar Morin, nome acquisito da Solomon David Nahoum - ebreo sefardita con avi anche a Livorno - durante la Resistenza al nazismo. Cento anelli di una stessa catena di auguri, per un uomo da sempre attento alla concatenazione degli eventi, e al possibile scatenarsi dell’inatteso.
Voti augurali arrivati da esponenti di discipline diverse, a ricostruire il profilo di chi da tempo propone una conoscenza capace di superare proprio la frammentazione dei saperi, la separazione della scienza dalla coscienza, l’incapacità di abitare la complessità e di eleggere la Terra a patria comune. Una proposta nella consapevolezza di vivere un paradosso: con l’umanità per la prima volta legata in una comunità di destino pur sempre a rischio di autodistruzione; con pericoli globali che la minacciano, generati da una sempre più crescente potenza tecnologica e interdipendenza planetaria, ma sfocianti talora in rovinose disgregazioni, nazionali, etiche, religiose.
Sono i temi che da decenni stanno al centro delle riflessioni moriniane, aperte a influenze senza preclusioni, ma soprattutto alla ricerca della verità. Temi ripresi in Cento Edgar Morin. 100 firme italiane per i 100 anni dell’umanista planetario (Mimesis, pagine 444, euro 28,00), occasione speciale - scrive il curatore Mauro Ceruti - «per onorare lo studioso, il maestro e l’amico, che oggi, nel pieno di questa gravissima crisi planetaria, ci indica l’orizzonte di un nuovo umanesimo planetario, e continua a chiamarci e motivarci alla resistenza contro ogni forma di barbarie, per costruire insieme reti e oasi di solidarietà, di fraternità, di pensiero creativo».
Diversi per approccio, profondità di scandaglio, tasso di gratitudine, investimento emotivo, nitidezza del ricordo, condivisione fra realismo e utopia, i testi della raccolta. Tutti segnati dall’incontro con questo viaggiatore capace di narrare il globale e il locale, i panorami più vasti e i dettagli impercettibili dell’anima, entrato nelle loro vite con tutta la sua forza e mitezza. Doti di un uomo attaccato all’amore, all’amicizia, al dialogo, alla politica, alla pace, alla cultura, all’arte, alla musica, al cinema, al teatro, alla storia, al presente e al futuro, come danno conto le rapsodie delle sue memorie e - generose quanto a consigli e rispetto della libertà - le Leçons d’un siècle de vie (Denoël, pagine 160, euro 17,00) in arrivo in Italia per Mimesis dopo l’estate.
Così ecco David Sassoli, presidente del Parlamento europeo che legge l’opera moriniana come un invito a «caricarci sulle spalle la responsabilità del pensiero», pronto a recepirne, anche alla luce della «drammatica lezione del Covid-19» l’indicazione di «un umanesimo rigenerato». Ecco lo psicoterapeuta Oscar Nikolaus che ricondivide un testo del pensatore apparso su queste pagine il 15 aprile 2020 - «abbiamo bisogno di non esorcizzare i rischi e i pericoli ma siamo chiamati piuttosto a formare isolotti di resistenza». Ecco il filosofo Gianluca Bocchi agli occhi del quale «Morin è un pensatore rinascimentale » che «annulla quelle cristallizzazioni del pensiero» in cui «la rinuncia alle domande fondamentali della conoscenza» rischia di «intrappolare le nostre menti». O Giuseppe Gembillo per il quale Morin «rappresenta, al massimo livello, coscienza filosofica del nostro tempo». O il sociologo Sergio Manghi che di Morin rimarca il «contagioso andare per vie improbabili e incerte, che solo provandosi a percorrerle diventano vie».
Ma troviamo pure Carlo Petrini che ricorda il suo rapporto con Morin nel comune impegno a esaltare «l’incisività dei movimenti della società civile rispetto alla politica». Michelangelo Pistoletto che non dimentica la «comune intesa sulla necessità di proposte pratiche di trasformazione responsabile della civiltà umana». Don Luigi Ciotti che sottolinea la molteplicità di echi tra il pensiero di Morin e l’enciclica Fratelli tutti «segni di quel pensiero meticcio, transdisciplinare e transculturale, a cui dobbiamo affidare la visione e costruzione di un mondo nuovo».
A rivolgere buon compleanno al nostro, tutti a modo loro, attingendo a letture o ricordi, si incrociano nelle pagine il regista Alessandro D’Alatri e il semiologo Ruggero Eugeni, la studiosa di cultura visuale Chiara Simonigh, Marinella De Simone e Dario Simoncini del Complexity Institute, i rettori emeriti dell’Università di Udine Alberto Felice De Toni e dell’Università IULM Giovanni Puglisi; Lucio d’Alessandro rettore del Suor Orsola Benincasa e Alessandro Mariani, rettore dell’Università Telematica degli Studi IUL e pedagogista. Lui a ricordarci un altro leit motiv dell’opera di Morin: quello della “educazione globale” che «salverà il mondo».
In Europa serve una nuova Resistenza
L’intervista. Edgar Morin, 97 anni, ritrova negli anni dell’adolescenza antifranchista e antinazista e negli slanci ideali seguiti alla Seconda guerra mondiale i motivi per una rinascita continentale
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, La Lettura, 29.07.2018)
«Il mondo si evolve in una direzione spaventosamente regressiva. La norma voluta da Netanyahu e appena approvata dalla Knesset (Israele concepito come uno Stato solamente ebraico) è un durissimo colpo ai diritti civili e agli sforzi per favorire la pace. Bisogna creare delle oasi di resistenza fondate sulla fraternità, sulla solidarietà umana, sul rifiuto dell’egoismo trionfante. Adesso denunciare non basta: è necessario soprattutto enunciare un nuovo pensiero in grado di rispondere alla complessità del presente». Edgar Morin - Nahoum, il vero cognome, viene sostituito dal suo nome di battaglia durante la Resistenza - a 97 anni compiuti l’8 luglio, non getta la spugna. Anzi, con grandissima passione, lancia un grido di allarme: il destino dell’Europa e del mondo non può essere lasciato in mano ai fondamentalismi religiosi, ai nazionalismi, agli «imprenditori della paura» che vincono le elezioni, agli spregiudicati interessi economici delle superpotenze.
Di origini toscane («Sono molto fiero che i miei antenati, ebrei sefarditi, provengano da Livorno»), il filosofo non nasconde il suo grande amore per l’Italia. «La Lettura» incontra Morin a Fontfroide, splendida abbazia nei Pirenei, dove da tredici anni il musicista e filologo catalano Jordi Savall organizza un festival di musica, quest’estate dedicato al tema Musica e storia. Per un dialogo interculturale. Qui, nel meraviglioso giardino del convento, il filosofo francese ha tenuto una conferenza proprio sul tema della guerra e della pace.
Professore, quali sono i conflitti più preoccupanti in questo momento?
«L’area mediorientale è senza dubbio quella più turbolenta. C’è il problema della ricostruzione della Siria, c’è la necessità di ricreare un’unità nazionale in un Paese multiculturale destabilizzato come l’Iraq e l’antico spinoso problema dei rapporti tra palestinesi e israeliani, ora aggravato da questa pericolosa norma appena votata che discrimina le minoranze e pregiudica i processi di pace».
Partiamo dalla Siria...
«Ho sempre pensato che una politica più accorta avrebbe potuto evitare la distruzione della Siria (pensi a città meravigliose come Aleppo o al patrimonio archeologico sparso in tutto il territorio) e soprattutto le stragi che, a più riprese, hanno decimato la popolazione. Si è scatenato un conflitto internazionale all’interno di una guerra civile. Ma ancora la cosa più importante e preliminare è favorire la pace con la garanzia delle grandi potenze internazionali. A poco a poco la resistenza antiregime si è identificata con un aggregato molto disomogeneo: gli autentici oppositori della dittatura e poi pericolosissime frange fondamentaliste che hanno, con l’uso della violenza, ridotto quasi all’impotenza le altre componenti. Con il duro intervento militare della Russia, adesso i nemici del regime sono stati neutralizzati».
Come si può risolvere questo conflitto così contradditorio e ingarbugliato?
«Non è facile prospettare una soluzione. Però l’esperienza del Libano credo possa essere illuminante: una coesistenza pacifica ed equilibrata tra cristiani, sciiti, sunniti. Una confederazione del Medio Oriente in cui le grandi potenze giochino il ruolo di garanti».
Però non è facile dar vita a un compromesso tra i gruppi in conflitto e, soprattutto, tra le stesse grandi potenze.
«Certo. Il quadro si è ulteriormente complicato negli ultimi anni. Le monarchie arabe, per esempio, hanno avuto per lungo tempo a cuore la questione palestinese. Oggi sono ossessionate più dal conflitto religioso interno con gli sciiti che con Israele: l’Iran è diventato il primo nemico e i sionisti vengono addirittura visti come possibili alleati per sconfiggere le forze sciite. Questo cambio di strategia ha provocato un disinteresse per il destino dei profughi palestinesi e, nello stesso tempo, un rafforzamento delle posizioni fondamentaliste all’interno di Israele. In queste condizioni, trovare un compromesso è molto più difficile. Così come, dopo i grossi errori commessi in Iraq, non sarà facile trovare un nuovo equilibrio in un territorio completamente destabilizzato. E lo stesso discorso vale per il Maghreb: Paesi fratelli come il Marocco e l’Algeria, anziché essere solidali, sono in perenne conflitto. Le nazioni si rinchiudono sempre più in sé stesse scatenando aggressività e odio. Mancano una coscienza politica araba confederativa e una coscienza planetaria universalista».
Questo vale anche per l’Europa...
«Che tristezza! L’idea di Europa era nata su basi encomiabili. Dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, dopo l’aggressione tra nazioni sorelle, molti spiriti nobili avevano pensato di dar vita a un’unione europea per favorire la pace, la solidarietà e far fronte alla minaccia sovietica. Oggi l’Europa è ostaggio di tecnocrati, banchieri, finanzieri. È uno scandalo che uno dei continenti più ricchi non sia capace di esprimere una politica umanitaria solidale per favorire l’accoglienza di fratelli disperati che fuggono da guerre, fondamentalismi e miseria».
Dilagano egoismi nazionalisti alimentati dalla retorica della paura dell’altro...
«La rinascita, in diversi Paesi europei, dell’odio razziale, dell’antisemitismo, dell’antislamismo, è veramente preoccupante. Anche i governi più aperti sono paralizzati dalla paura di una sconfitta elettorale. Sono intimoriti dagli slogan della destra contro migranti e rifugiati. La Francia, che ha una storica tradizione umanitaria, avrebbe potuto benissimo accogliere la nave Aquarius, ma non l’ha fatto temendo la reazione dei lepenisti. Lo stesso vale per la Merkel in Germania: ha duramente pagato alle ultime elezioni le sue aperture».
E allora che cosa si può fare?
«Bisogna cambiare l’attitudine mentale. Far comprendere ai giovani che gli egoismi e i nazionalismi creano conflitti e, nello stesso tempo, rendono più misera la nostra esistenza. Solo un universalismo fondato sulla solidarietà e sulla fraternità potrà far fronte a questa deriva. Bisogna partire dalle scuole, dall’educazione delle nuove generazioni. E, per far questo, è necessaria una classe insegnante che abbia una coscienza civile: non si va a scuola per imparare un mestiere, ma per diventare cittadini colti e solidali».
Ma oggi scuole e università sono sempre più al servizio del mercato: non è un’utopia?
«Al contrario: l’“utopia” dilagante è quella di far credere che il mercato risolva tutti i problemi. Il vero realismo sta nella resistenza a questa “utopia”. La mia lunga vita mi ha insegnato che non bisogna mai abbassare le braccia. A 15 anni lavoravo per aiutare i combattenti spagnoli e poi ventenne ho militato nella Resistenza francese. In quegli anni sembrava impossibile frenare la tragica avanzata dei nazisti. Eppure, all’improvviso, una luce è apparsa nel tunnel. Ci sono momenti della storia in cui basta uno scarto inatteso per cambiare le cose: Gorbaciov nell’Urss o Papa Francesco nella Chiesa.
Ma soprattutto Mandela (qualche giorno fa era il centenario della sua nascita): anni di prigione e di lotta, per mutare radicalmente il destino di una società che sembrava immutabile. Bisogna resistere e continuare a combattere per rendere possibile l’impossibile».
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
Io Lenin, tu Lennon
A rimettere ordine nei miti del ’68 ci voleva un signore di 97 anni che ripubblica, mezzo secolo dopo, le riflessioni di allora. Non fu rivoluzione ma rivolta generazionale. E quel magma di istanze antitetiche, tra politica e pop, brucia fino a noi
di Marino Niola (la Repubblica, 13.05.2018)
Il Sessantotto non ha cambiato la politica, ma ha rivoluzionato le nostre esistenze. A dirlo è il filosofo e sociologo Edgar Morin in Maggio 68. La breccia, in uscita da Raffaello Cortina. Il libro si compone di testi in presa diretta, usciti su Le Monde nel maggio 1968 arricchiti da una illuminante riflessione scritta nel gennaio scorso. Sono pagine traboccanti di passione e di emozione. Dove si avverte l’incandescenza magmatica del sommovimento, colta in tutta la sua virtualità generatrice di futuro. Morin, che l’8 luglio compirà novantasette anni, individua le conseguenze di lunga durata di quella grande marea, la cui onda di ritorno arriva fino a noi. In effetti quel fremito prolungato che attraversa la schiena dell’Occidente borghese e non solo, dalla rivolta di Berkeley al Maggio francese, da Valle Giulia a Woodstock, da Piazza San Venceslao al Cairo di Nasser, ha finito per aprire una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della nostra civiltà. E ad assestare il primo colpo è stato un movimento transnazionale e trans-ideologico di adolescenti inquieti. Antiliberisti libertari, terzomondisti atrabiliari, situazionisti incendiari, maoisti conseguenziari, leninisti dottrinari, trotzkisti visionari, che non reclamavano un posto al tavolo dei grandi.
Volevano rovesciare il tavolo. Rifiutavano di vivere come i genitori, disprezzavano l’idea stessa di carriera. Aborrivano il mondo adulterato degli adulti, con la sua ragionevolezza fatta solo di calcolo, di economia, di interesse, di utile. “Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile!” era uno degli slogan. Il marxismo è stato il connettivo che ha permesso di tenere insieme questo patchwork multicolore e multivalore, più surrealista che leninista. E ha fornito un linguaggio in grado di unificare la molteplicità di istanze parricide che sono il vero minimo comune denominatore di quella che è stata, prima di tutto, una rivolta contro i genitori.
Contro il “seminirvana consumistico”. E contro i simboli e le istituzioni che davano corpo e anima all’autorità. Dalla famiglia allo stato, dalla scuola all’esercito, dalla Chiesa alla scienza, fino all’università dei baroni. Destinata a diventare il vero epicentro del terremoto sessantottino. Assestando “un colpo profondo al basso ventre di una società che aveva schierato dappertutto le sue difese, salvo che nella sua nursery sociologica”. A dire il vero, nell’immaginario della contestazione, più che il Capitale e i Grundrisse c’erano Rousseau, Rimbaud e perfino Thoreau, sapientemente amalgamati con il placebo comunista da una coorte di maître- à- penser che nel magnetismo pulsionale, emozionale, libidinale di quel momento hanno trovato una seconda giovinezza. Un elisir di lunga vita che ha fatto del forever young la sola, vera classe d’età della società postmoderna. All’immagine tradizionale dell’adulto-padre, dice Morin, il movimento “contrappone l’immagine incompiuta di un’adolescenza permanente”.
Non una stagione anagrafica, dunque, ma un’eterna primavera del corpo e dell’anima, del desiderio e della libertà. Nel vortice della contestazione globale, la parola d’ordine lanciata da Jean-Paul Sartre, “ribellarsi è giusto”, diventa una chiamata al levantamiento generazionale. Non solo contro genitori e professori. Si rivoltano anche gli operai contro dirigenti e padroni, i medici contro la casta dei primari, gli scrittori contro gli editori paternalisti. E i ragazzi ebrei contro i vecchi rabbini per “farsi riconoscere il diritto di trattare le questioni religiose”. È più ebollizione che rivoluzione. E dietro il mantra marxiano dell’intellettuale organico, affiora l’antifona reichiana dell’intellettuale orgonico. Che risuona tra le performance estreme del Living Theater che portano in scena il tramonto dell’Occidente e le tracce di un oriente dell’anima che molti vanno a cercare a Benares e a Katmandu. Una generazione in cerca di altro, qualunque sia quest’altro. Basta che non somigli a quel che ci hanno tramandato papà e mamma. Così il rifiuto del proprio mondo porta alla costruzione di universi utopici, di autentici ready made mitologici che vedono nella differenza l’antidoto contro la familiarità dalla quale ci si vuole emancipare. Ecco perché la rivoluzione, il socialismo, il sol dell’avvenire, più che un progetto politico sono un mito fusionale, spesso confusionale, sospeso tra istanze antitetiche. Marcuse e il Che, Mao e Hailé Selassié, guardie rosse e pantere nere, Gramsci e Krishna, Lenin e Lennon, pacifismo e lotta di classe, revival folk e femminismo, nuove spiritualità e stati alterati di coscienza, figli dei fiori e minigonne, la comune di Parigi e il Ristorante di Alice.
Da quel magma nascono molte scelte di vita che hanno a che fare più con il personale che con il politico e che oggi sfociano spesso nell’antipolitica.
Perché molte delle idee che sono alla base di fenomeni attuali come populismo, antiglobalismo, neotradizionalismo, revival identitario, antiscientismo, antiautoritarismo, ambientalismo e persino il rousseauvianesimo digitale, sono il frutto tardivo della contestazione. Come dire che il movimentismo attuale non è figlio di NN. Né nasce solo dai new media. Ma è l’ultimogenito, non riconosciuto, della controcultura, di quel protagonismo disseminato e degerarchizzato del “Non ho niente da dire, ma lo voglio dire”. Che nella rete e attraverso la rete riesce a piazzare il colpo vincente e trasformare la demagogia in egemonia. O almeno ci prova.
I consigli di San Tommaso a uno studente per avere una buona cultura *
"È cosa saggia lavorare in crescendo, dalle cose più facili alle più difficili "
Mio caro Giovanni, mi hai chiesto come fare per acquisire un ricco bagaglio culturale.
Ecco i miei consigli.
1. Non tuffarti a capofitto nel mare del sapere ma cerca di arrivarci lungo corsi d’acqua secondari. È cosa saggia lavorare in crescendo, dalle cose più facili alle più difficili. Questo è il mio consiglio, e tu faresti bene a seguirlo.
2. Sii lento a parlare...
3. Da’ grande importanza a una buona coscienza.
4. Non trascurare mai i momenti di preghiera.
5. Mostrati amabile con tutti.
6. Non mettere mai il naso negli affari altrui.
7. Non entrare in troppa familiarità con nessuno, perché la familiarità genera disprezzo e offre un pretesto per trascurare il lavoro serio.
8. Non sciupare tempo in chiacchiere inutili.
9. Cerca di seguire le orme degli uomini onesti e santi.
10. Non badare tanto a chi parla, ma accumula nella mente quanto di utile egli dica.
11. Assicurati di aver ben compreso quanto leggi o ascolti.
12. Chiarisci i punti dubbi.
13. Fa’ del tuo meglio per riporre tutto quello che puoi nella piccola libreria della tua mente...
14. Non preoccuparti di cose al di fuori della tua competenza.
Se seguirai alla lettera i miei consigli raggiungerai la meta desiderata.
Addio.
(san Tommaso d’Aquino, 1270).
* ALETEIA, 4 SETTEMBRE 2015
Morin, la storia non è finita
«Credo di essermi sbarazzato per sempre della logica binaria che ignora contraddizioni e complessità L’errore può essere fecondo a condizione di riconoscerlo»
di Edgar Morin *
La questione della verità, che è la questione dell’errore, mi ha tormentato in modo particolare fin dagli inizi dell’adolescenza. Io non ereditavo una cultura trasmessa dalla mia famiglia. Quindi per me le idee opposte avevano, ciascuna, qualche cosa di convincente. Bisogna riformare o rivoluzionare la società? La riforma mi sembrava più pacifica e umana ma insufficiente, la rivoluzione più radicalmente trasformatrice ma pericolosa. All’inizio della guerra mi sembrava di essere totalmente immunizzato nei confronti dell’Unione sovietica, cioè del comunismo staliniano.
Orbene, a partire dalla controffensiva che libera Mosca dall’accerchiamento e a partire simultaneamente dall’entrata in guerra del Giappone e degli Stati Uniti (dicembre 1941) che mondializza la guerra, si delinea un lavoro di conversione della mia mente: l’arretratezza ereditata dallo zarismo (Georges Friedmann) e l’accerchiamento capitalista giustificheranno per me le carenze e i vizi dell’Urss.
Una volta spezzato 1’accerchiamento capitalista, dopo la vittoria dei popoli sarebbe fiorita una cultura fraterna, veramente comunista. Ciò che avevo appreso da Trockij, Souvarine e da tanti altri fu allora rimosso nei sottosuoli della mia mente. Una speranza infinita quasi cosmica spazzava via ogni reticenza. Il disincanto comincia con il rigelo sovietico. Una successione di menzogne enormi e infami mi demoralizza fino a quello che fu per me lo choc finale: il processo Rajk a Budapest nel settembre 1949. Infine subisco un’esclusione che taglia il cordone ombelicale e mi libera (1951).
Qualche anno più tardi mi dedico a un lavoro autocritico, pubblicato nel 1959, per comprendere le cause e i meccanismi dei miei errori, dovuti meno alle mie ignoranze che al mio sistema di interpretazione e di giustificazione, dove avevo rimosso come secondari, provvisori ed epifenomenici i vizi che costituivano la natura stessa del sistema staliniano. Credo di essermi sbarazzato per sempre dei pensieri unilaterali, della logica binaria che ignora contraddizioni e complessità.
Ho scoperto allora che l’errore può essere fecondo a condizione di riconoscerlo, di chiarirne l’origine e la causa al fine di eliminarne il ritorno. Il lavoro liberatore dell’autocritica da me effettuato ha voluto andare alla fonte. Ho compreso che una fonte di errori e di illusioni è l’occultare i fatti che ci disturbano, anestetizzarli ed eliminarli dalla nostra mente. Ho compreso a qual punto le nostre certezze e credenze possano ingannarci, ho imparato a riflettere retrospettivamente su tutti gli accecamenti che hanno condotto la Francia alla guerra del 1939 senza saperla preparare, su tutti gli errori e su tutte le illusioni del nostro Stato maggiore nel 1940, su tutte le aberrazioni e su tutti i miraggi che sono seguiti. E pensando alla marcia sonnambula di una nazione dal 1933 al 1940 verso il disastro, io temo il nuovo sonnambulismo apparso nella nostra crisi, che non è solo economica, non è solo di civiltà, ma anche di pensiero. Mi domando se le angosce, gli smarrimenti, gli sconforti che aumentano nel nostro tempo non producano le fobie e gli accecamenti del rifiuto e dell’odio: «Svegli, dormono», diceva Eraclito.
La mia ossessione della ’vera’ conoscenza mi portò a scoprire nel 1969-1970, grazie a un soggiorno in California, la problematica della complessità. In effetti, la nozione di complessità ha chiarito retrospettivamente il mio modo di pensare, che già legava conoscenze disperse, già affrontava le contraddizioni piuttosto che evitarle, già si sforzava di superare alternative giudicate insuperabili.
Questo modo di pensare non era scomparso, benché sotterraneo, durante la mia euforia da comunista di guerra. Ormai, a costituire il problema da affrontare non sono solo gli errori di fatto (d’ignoranza), di pensiero (dogmatismo), ma l’errore di un pensiero parziale, l’errore del pensiero binario che vede solo o/o, incapace di combinare e/e, nonché, più profondamente, l’errore del pensiero riduttore e del pensiero disgiuntivo ciechi a ogni complessità. La parola metodo mi è apparsa come indicazione che si dovesse camminare a lungo e con difficoltà per arrivare a concepire gli strumenti di un pensiero che sia pertinente perché complesso.
E cammin facendo, ho acquisito la convinzione che la nostra educazione, per quanto dia strumenti per vivere in società (leggere, scrivere, far di conto), per quanto dia gli elementi (sfortunatamente separati) di una cultura generale (scienze della natura, scienze umane, letteratura, arti), per quanto si dedichi a preparare o a fornire un’educazione professionale, soffre di una carenza enorme per quanto concerne un bisogno primario del vivere: ingannarsi e cadere nell’illusione il meno possibile, riconoscere fonti e cause dei nostri errori e delle nostre illusioni, cercare in ogni occasione la conoscenza più pertinente possibile. Da qui una primaria ed essenziale necessità: insegnare a conoscere la conoscenza, che è sempre traduzione e ricostruzione.
Questo è dire che io pretenda di fornire la verità? Fornisco mezzi per lottare contro l’illusione, l’errore, la parzialità. Le teorie scientifiche, come ha mostrato Popper, non forniscono alcuna verità assoluta e definitiva, ma progrediscono superando degli errori. Fornisco non una ricetta, ma mezzi per svegliare e stimolare le menti alla lotta contro errore, illusione, parzialità e in particolare quelli propri della nostra epoca di erranza, di dinamismi incontrollati e accelerati, di offuscamento del futuro, errori e illusioni che nell’attuale crisi dell’umanità e delle società sono pericolosi e forse mortali.
L’errore e l’illusione dipendono dalla natura stessa della nostra conoscenza, e vivere è affrontare continuamente il rischio di errore e di illusione nella scelta di una decisione, di un’amicizia, di un habitat, di un coniuge, di un mestiere, di una terapia, di un candidato alle elezioni, eccetera. Il pensiero complesso insegna a essere coscienti che ogni decisione e ogni scelta costituiscono una scommessa. Spesso un’azione è deviata rispetto al suo senso quando entra in un ambiente di inter-retroazioni multiple, e può ritornare a fracassare la testa al suo autore. Quante sconfitte e quanti disastri sono stati provocati dalla certezza temeraria della vittoria! Quanti funesti capovolgimenti dopo un’ubriacatura di libertà, come piazza Tahrir e piazza Maidan!
Viviamo in una dittatura del calcolo pur vedendone i limiti
Per questo abbiamo l’esigenza di rifondare l’umanesimo
Unire Illuminismo e Romanticismo è la sfida del secolo
di Edgar Morin (la Repubblica, 02.04.2011)
La cultura occidentale, da sempre prigioniera del mito della ragione, ha idealizzato una razionalità pura, radicalmente separata dalle emozioni e dalle passioni. Antonio Damasio ci ha però insegnato che la razionalità pura non esiste. Ogni attività razionale è sempre accompagnata da una dimensione emotiva. Anche il più razionale dei matematici è animato dalla passione della matematica. Non si può pensare - come faceva Hegel - che tutto sia riconducibile al dominio della ragione, al contrario dobbiamo essere coscienti che moltissimi aspetti del reale sfuggono alla comprensione razionale. Una razionalità aperta e non ottusa, dovrebbe cercare di comprendere e integrare quest’altra dimensione.
La nostra cultura, invece, ha sempre inseguito un illusorio dominio della ragione, favorendo - come ha ricordato Adorno - una razionalità puramente strumentale, spesso al servizio di progetti deliranti. Per questo, lo sviluppo della civiltà occidentale - tutto sotto il segno dell’efficacia economica e del dominio della natura - è spesso figlio dell’hybris nata da una ragione troppo sicura di sé. Lo sviluppo scientifico ed economico - che pensavamo essere perfettamente razionale - produce così risultati del tutto irrazionali, come ad esempio la distruzione della biosfera, che è la nostra condizione vitale.
Questa visione riduttiva e semplicistica della razionalità è all’origine dell’odierna dittatura del calcolo, che il razionalismo occidentale considera una condizione necessaria e sufficiente per dominare la realtà, dimenticando che molti degli aspetti essenziali della nostra vita - l’amore, l’odio, il desiderio, la gelosia, la paura, ecc. - sfuggono del tutto ad ogni logica quantitativa. E perfino negli ambiti in cui il calcolo dovrebbe trionfare, ad esempio l’economia, la dimensione irrazionale è spesso decisiva, come ha dimostrato l’ultima crisi.
A questa razionalità chiusa e ottusa, va contrapposta un’altra razionalità, aperta e autocritica, che è sempre stata una corrente minoritaria del pensiero occidentale. È la razionalità di Montaigne, ma anche di Montesquieu o Lévi-Strauss. Una razionalità critica che accetta l’idea che le sue teorie possano essere rimesse in discussione. Essa non solo riconosce i propri errori, come ha insegnato Popper, ma sa anche accettare ciò che sfugge al suo dominio e alla sua comprensione. «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», ha scritto Pascal, ricordandoci l’importanza delle passioni, che devono essere integrate alle nostre modalità di conoscenza e di relazione con il mondo. Accanto alla lucidità razionale, occorre quindi valorizzare il potere conoscitivo delle passioni e delle emozioni (da sottoporre comunque a un controllo critico). Tra ragione e passione il dialogo deve essere continuo. Questa esigenza non è una novità. Basti pensare a Jean-Jacques Rousseau, che già ai tempi dell’Illuminismo sottolineava l’insufficienza del pensiero razionale e l’importanza dei sentimenti. Lo stesso vale per il romanticismo.
Oggi sarebbe importante tenere insieme le verità dell’illuminismo e quelle del romanticismo. Purtroppo non lo si fa quasi mai, perché siamo tutti prigionieri di una logica binaria che domina anche il mondo dell’educazione, dove si privilegia la razionalità, in nome di un universo fatto solo di certezze e una visione riduttiva dell’uomo. In realtà, accanto ad alcuni arcipelaghi di certezze incontestabili, noi ci muoviamo in un universo fatto da oceani d’incertezza. Se veramente volessimo insegnare ai giovani la complessità della realtà umana, dovremmo spiegare loro che, accanto all’homo sapiens, figura sempre l’homo demens, giacché il delirio e la follia sono da sempre una delle polarità umane. Come pure, accanto all’homo oeconomicus, non manca mai l’homo ludens, quello che adora il sogno e il gioco. Insomma, l’homo faber non è solo un inventore di macchine, ma anche un produttore di miti e di credenze che non poggiano certo sulla razionalità. Riconoscere questa ricchezza e questa complessità è oggi una necessità, perché solo così sarà possibile affrontare le sfide della contemporaneità.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)
Le cinque virtù dell’uomo nuovo
L’Occidente è abituato a valutare gli uomini basandosi solo sulla razionalità, sull’efficienza e sulla competenza professionale. -Ma la storia dimostra che le società complesse hanno bisogno di altri criteri: bisogna tener conto delle relazioni tra le persone, delle loro aspirazioni, dei loro sentimenti, tentando di unire illuminismo e romanticismo.
Dalla sintonia al desiderio di trascendenza, ecco cinque punti per fondare un nuovo umanesimo
Dobbiamo puntare a una visione diversa più ricca e profonda
Che tenga conto dell’importanza dei rapporti tra le persone
Per la nostra società l’essere umano è una creatura divisa in due: ragione e sentimento.
Sappiamo parlare della prima ma siamo impreparati sul secondo
Dalla sintonia al desiderio di infinito ci salveranno le qualità emotive
di David Brooks (la Repubblica, o2.O4.2011)
Sono stato testimone di un buon numero di errori politici. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti inviarono sul posto un gruppo di economisti, senza mettere in conto il basso livello di "fiducia sociale" di quel mondo. Al momento dell’invasione dell’Iraq, i vertici americani si trovarono impreparati di fronte alla complessità culturale di quel Paese, e ai traumi psicologici di assestamento dopo il regime di terrore di Saddam.
Avevamo un sistema finanziario basato sull’idea che i dirigenti delle banche fossero esseri razionali, non soggetti ad abbandonarsi in massa ad azioni insensate. In questi ultimi trent’anni abbiamo tentato in vari modi di riformare il nostro sistema scolastico, sperimentando di tutto, dai megaistituti alle miniscuole, dai charter ai voucher. Ma per troppo tempo abbiamo eluso la questione centrale: quella del rapporto tra docenti e allievi.
Sono arrivato a credere che questi errori nascano tutti da un unico equivoco, dovuto a una concezione semplicistica della natura umana. La nostra società - e non mi riferisco solo al mondo politico, ma a numerose altre sfere - vede l’essere umano come una creatura divisa in due parti distinte: da un lato la ragione, di cui è giusto fidarsi; dall’altro le emozioni, che sono invece sospette. Si tende a credere che il progresso sociale sia portato avanti dalla sola ragione, nella misura in cui riesce a reprimere le passioni.
Questa concezione conduce a una distorsione della nostra cultura, che esalta il razionale e il cosciente, ma resta nel vago sui processi in atto negli strati più profondi. Siamo bravissimi a parlare di cose materiali, ma quando si tratta di emozioni la nostra abilità viene meno.
Cresciamo i nostri figli focalizzando tutta l’attenzione sugli aspetti misurabili attraverso i voti o i test attitudinali; ma spesso non abbiamo nulla da dire sugli aspetti più importanti, come il carattere o il modo di gestire i rapporti. Nella vita pubblica, le proposte politiche provengono spesso da esperti perfettamente a loro agio in correlazione con quanto può essere misurato, quantificato o aggiudicato, ma che ignorano tutto il resto.
Eppure, mentre siamo tuttora invischiati in questa concezione amputata della natura umana, vediamo emergere una visione nuova, più ricca e profonda, grazie all’opera di un gran numero di ricercatori delle più diverse discipline, dalla neuroscienza alla psicologia, dalla sociologia all’economia comportamentale e via dicendo.
Questo corpus di ricerche, disperso ma sempre crescente, ci richiama alla mente una serie di concetti chiave. Ricordiamo innanzitutto che la parte più importante della mente è quella inconscia, sede dei più straordinari prodigi del pensiero. In secondo luogo, l’emozione non è contrapposta alla ragione; sono anzi le nostre emozioni ad attribuire valore alle cose, e a costituire la base della ragione. Infine, noi non siamo individui che costruiscono relazioni reciproche, bensì animali sociali profondamente interpenetrati gli uni con gli altri, "emersi" proprio grazie alle nostre relazioni.
Alla luce di questo, la visione illuminista francese della natura umana, che pone in primo piano l’individualismo e la ragione, appare fuorviante, mentre sembra più vicina al vero quella dell’illuminismo britannico, che privilegia il senso sociale e non ci descrive come creature divise. Il nostro progresso non avviene solo grazie alla ragione e al suo dominio sulle passioni.
Evolviamo anche educando le nostre emozioni.
Una sintesi di queste ricerche apre nuove prospettive in tutti i campi, dal mondo economico alla politica, passando per la famiglia. E porta a non privilegiare più lo sguardo analitico sul mondo, ma piuttosto il modo in cui le persone lo percepiscono per organizzarlo nella loro mente. Si guarda un po’ meno ai tratti individuali, e si presta maggiore attenzione alla qualità dei rapporti tra gli esseri umani.
Cambia anche il modo di vedere quello che chiamiamo «capitale umano». Nel corso degli ultimi decenni si è affermata la tendenza a definirlo nel senso più restrittivo del termine, ponendo l’accento sul quoziente di intelligenza e sulle competenze professionali - che certo sono importanti. Ma le nuove ricerche pongono in luce tutta una serie di talenti più profondi, che abbracciano sia l’aspetto razionale che quello emotivo, fondendo insieme queste due categorie:
1) Sintonia: la capacità di immedesimarsi nella mente altrui, prendendo conoscenza di ciò che ha da offrire.
2) Ponderatezza: la capacità di osservare serenamente i moti della propria mente e di correggerne gli errori e i pregiudizi.
3) Metis (da Metide, dea greca della saggezza, ndt) : la capacità di individuare gli schemi e i modelli di sistemi aggregati (pattern) comprendendo l’essenza delle situazioni complesse.
4) Simpatia: la capacità di inserirsi nell’ambiente umano che ci circonda e di evolvere all’interno dei movimenti di un gruppo.
5) Limerence (termine coniato dalla psicologa Dorothy Tennov per descrivere lo stadio finale, quasi ossessivo dell’amore romantico, uno sorta di ultra attaccamento, ndt): più che un talento, è una motivazione. Se la mente cosciente è avida di denaro e di successo, quella inconscia ha sete dei momenti di trascendenza in cui, mettendo a tacere la skull line - la «linea del cranio» - ci abbandoniamo perdutamente all’amore per l’altro, all’esaltazione per una missione da svolgere, all’amore di Dio. Un richiamo che sembra manifestarsi in alcuni con potenza molto maggiore rispetto ad altri.
Le tesi elaborate sul subconscio da Sigmund Freud hanno avuto effetti di vasta portata sulla società, oltre che sulla letteratura. Oggi, centinaia di migliaia di ricercatori stanno facendo emergere una visione sempre più accurata dell’essere umano. E pur essendo di natura scientifica, il loro lavoro orienta la nostra attenzione verso un nuovo umanesimo, poiché sta incominciando a porre in luce la compenetrazione tra emotività e razionalità.
Mi sembra di intuire che questo lavoro di ricerca avrà effetti di vasta portata sulla nostra cultura, cambiando il nostro modo di vedere noi stessi. E chissà che magari un giorno non riesca persino a trasformare la visione del mondo dei nostri politici. (L’autore è un editorialista del New York Times, il suo ultimo libro, che ha ispirato questo articolo, si intitola "The Social Animal")
© 2011 The New York Times - Distributed by The New York Times Syndicate (Traduzione di Elisabetta Horvat)
Schegge marxiane
Gli ultimi tre libri dello studioso francese della complessità Edgar Morin rivalutano il pensiero di Karl Marx in nome di una critica della realtà mondiale dopo il crollo del socialismo reale.
Un ritorno alle origini del suo percorso intellettuale dettato inoltre dal degrado ambientale e dai conflitti sociali alimentati dalla crisi economica, ma anche dagli effetti totalitari di una ideologia del progresso che sta portando l’umanità all’autodistruzione
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 29.06.2010)
Una vita segnata da grandi passioni e da una profonda insofferenza verso qualsiasi prassi teorica che non accetti di aderire a quel principio di realtà da cui dovrebbe trarre linfa vitale. Un’attitudine che lo ha portato a uscire dal pratico comunista francese poco dopo la liberazione del suo paese e a fustigare per quasi un quarantennio la figura dell’intellettuale engagé incarnato da Jean Paul Sartre, colpevole di occultare il reale in nome di una teoria, quella comunista, che nell’Unione sovietica era diventata una religione di stato strenuamente difesa da istituzioni e personaggi che ricordavano più l’inquisizione che non esponenti di un partito che voleva cambiare il mondo.
Uno strano destino ha però portato Edgar Morin, acclamato teorico della complessità, a ritornare alle sue origini intellettuali, mandando alle stampe, a pochi mesi di distanza, tre libri che hanno come asse portante il pensiero di Karl Marx, ritenuto, dopo una vita passata a marcare la distanza intellettuale e politica dalle sue posizioni, uno dei massimi filosofi dell’Ottocento e massimo interprete del capitalismo mondiale.
Certo, il Marx che propone Morin si discosta moltissimo da tutte le varie e spesso conflittuali interpretazioni che si sono accumulate nel corso degli anni. Sotto molti aspetti è un Marx vincolato alle nozioni di «individuo sociale» e di «essere generico», chiavi di accesso ai misteri della natura umana all’interno della quale la trasformazione e il cambiamento delle proprie condizioni di vita e di scambio con la natura impediscono, secondo Morin, il consolidamento di realtà politiche autoritarie.
Il ritorno all’autore de «Il capitale» è inoltre fortemente raccomandato come antidoto all’ideologia di uno sviluppo economico che si fa beffe delle compatibilità ambientali e che vede il libero mercato come una «terra promessa»: ideologia che sta conducendo l’umanità sull’orlo dell’abisso. Marx, in quanto sofisticato interprete della «mondializzazione» capitalista, può dunque aiutare a fermare la folle marcia verso l’autodistruzione della civiltà.
L’antagonismo rimosso
Fin qui nulla di nuovo. Sono oramai alcuni anni che intellettuali e opinion makers sicuramente non marxisti rivalutano il barbone di Treviri come lo studioso che ha saputo cogliere il meccanismo profondo che porta il capitalismo a periodiche crisi. È questa, ad esempio, la tesi sviluppata da Jacques Attali in un pamphlet di successo incentrato sull’autore de Il capitale.
Oppure Marx è stato evocato come il filosofo, e qui il riferimento d’obbligo è agli Spettri di Marx di Jacques Derrida, che ha colto quel principio ordinatore della realtà moderna che sono i rapporti di produzione. E, infine, in ordine di tempo va ricordato l’omaggio fatto alla sua critica dell’economia politica fatto da quella specie di bignami del libero mercato che è la rivista Economist, che ha indicato in Marx il teorico meglio attrezzato per comprendere il perché il crollo del castello dei subprime stava minacciando di coinvolgere non solo qualche economia nazionale, ma tutto il capitalismo mondiale. In ogni caso, sono tutti Marx che erano depurati della fortunata tesi che invitava a trasformare il mondo dopo averlo interpretato.
Dunque un filosofo o un economista che val bene agitare solo per segnalare che il capitalismo, o la modernità, non gode di buona salute. Edgar Morin, invece, e qui sta l’interesse del primo dei libri qui presi in esame (Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi, Erickson edizioni, pp. 104, euro 10), vuole inserire Marx nel Pantheon dei teorici della complessità, in base alla quale, sostiene Morin, gli antagonismi della realtà contemporanea sono complementari l’uno all’altro e entrambi importanti per comprendere il mondo così come esso è. In questo caso, la teoria marxiana «scopre» che il conflitto tra capitale e lavoro nasce all’interno di rapporti di produzione che, a loro volte producono asimmetrie di potere e diseguaglianze sociali. È questo uno degli antagonismi presenti nella società capitalistica. Ma è lo stesso Marx che indica nella borghesia un fattore dinamico, progressivo della modernità. Da qui la necessità di una dialogica che metta in una relazione di complementarietà gli antagonismi del capitalismo.
Indubbiamente, un’interpretazione stravagante, quella di Edgar Morin. Che ritorna anche nel saggio Il gioco della verità e dell’errore (Erickson edizioni, pp. 174, euro 14), nel quale il richiamo a Marx è mitigato da una condanna senza appello del socialismo reale, che ha costituito la forma più brutale di autoritarismo politico perché ha costruito un sistema di potere fondato su un concetto di verità assoluto. Nel socialismo reale non era contemplata nessuna possibilità di errore da parte del partito al potere. E anche quando esso si manifestava, la superiorità del socialismo reale risiedeva nella pratica dell’autocritica, dispositivo attraverso il quale gli interpreti della verità correggevano le piccole deviazioni dalla strada maestra che gli «esecutori» dei piani del partito aveva intrapreso.
In questi due volumi ci sono molte pagine dedicate allo spirito gregario degli intellettuali, che hanno fatto di tutto per occultare il fatto che le società socialiste erano società fondate sulla sistematica menzogna da parte delle autorità su quanto accadeva nei singoli paesi. E di come abbiamo legittimato regimi politici che negavano i più elementari diritti civili e sociali di quella classe operaia che volevano «liberare» dalle catene dello sfruttamento. Allo stesso tempo Morin tesse elogi non segnati dal dubbio al pluralismo politico delle società democratiche, perché impedisce l’«errore ideologico» che ha contraddistinto tutti i marxismi.
Anche in questo caso l’aspetto interessante della riflessione di Morin non è la critica del socialismo reale, che spesso suona le corde della morale e poco dell’analisi su come un movimento che voleva la liberazione di uomini e donne si è trasformato nel suo opposto. Interessante è la proposizione di una figura dell’intellettuale in quanto «deviante minoritario», l’unico modo per essere davvero nel reale, visto che gli intellettuali organici diventano sempre complici del potere, impedendo così sia la comprensione che le possibilità di trasformare la realtà.
Per Morin, gli intellettuali organici hanno legittimato il «rifiuto del reale» e confermato una visione dogmatica, religiosa del socialismo reale. Il «deviante minoritario» è invece la coscienza critica che sa cogliere gli antagonismi della realtà, ma anche la loro complementarietà, perché salvaguardia il momento della negatività, della critica, dell’opposizione che le minoranze hanno sempre rappresentato nelle società. Da qui alla affermazione apodittica che non ci sono principi normativi della realtà il passo è breve. Per Morin, infatti, assistiamo, talvolta paralizzati, altre volte entusiasti, a un continuo divenire che assume il reale e lo supera non cancellando nessuna delle sue caratteristiche.
La metamorfosi della civiltà
Gli studiosi di Hegel non avranno difficoltà a riconoscere in questa enfasi del divenire la categoria dell’aufhebung, che è sì sintesi tra una tesi e la sua antitesi, ma anche conservazione degli elementi di verità presenti tanto nella tesi che nell’antitesi. E Marx è stato il teorico che meglio di altri ha messo al lavoro la sintesi hegeliana, anche se per Morin questo consente di cancellare la centralità del conflitto tra capitale e lavoro nella riflessione marxiana. Non è infatti la classe operaia il soggetto del cambiamento, bensì il lavoro sotterraneo dei «devianti minoritari» che colgono appieno il complesso rapporto tra l’ideale e il reale e viralmente diffondono elementi di verità sul reale per attivare quella «metamorfosi della società-mondo» che si contrappone a qualsiasi idea di rivoluzione.
Nel volume Oltre l’abisso (Armando editore, pp. 125, euro 15) Morin non ha infatti dubbi. Dopo la soffocante stagione del socialismo reale, l’umanità è entrata nella spirale distruttiva del libero mercato che mette in discussione la stessa esistenza della specie umana.
Anche in questo caso Marx corre in aiuto il «deviante minoritario» perché la sua concezione della natura umana prevede che il singolo può essere homo sapiens, ma anche homo ludens, homo oeconomicus, homo mythologicus e homo demens, perché l’essere generico di cui scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici è propedeutico a quella unitas mulpiplex di cui l’umanità ha necessità per sfuggire alla sua possibile distruzione.
Il linguaggio di Edgar Morin talvolta è irritante per la continua evocazione di un fondo indicibile, perché «misteriosofico» dell’agire umano, che lo porta a un procedere poetico che poco facilita la lettura dei suoi testi. Ma non è questo che non convince della sua riflessione contenuta in questi tre volumi.
Tutto quanto ruota, infatti, all’irruzione nel reale di un imprevisto, la crisi economica di questo plumbeo inizio di millennio. Come dal nulla irrompono di nuovo sulla scena conflitti di classe che la retorica del libero mercato aveva occultato. E questa volte non c’è solo una granitica classe operaia che afferma il suo desiderio di non essere ridotta merce. Nella «società-mondo» il conflitto di classe ha come posta in palio proprio quell’individuo sociale marxiano che vuole diventare unitas multiplex. Morin è consapevole di ciò e cerca di salvaguardare la sua difesa del pluralismo politico facendo leva proprio su Marx, cioè uno dei critici più radicale della finzione democratica.
Non si vuole qui negare l’avversione al socialismo reale, né i limiti dei tanti marxismi. I punti che proprio non tornano della riflessione di Morin sono teorici e dunque politici. Il primo è il rapporto tra teoria e prassi. Per lo studioso francese c’è sempre contraddizione tra il pensare il mondo e la prassi per trasformarlo. Vale però la pena sottolineare che si può pensare il mondo per trasformalo, mentre la prassi è la condizione necessaria per poter pensare la realtà. Dunque tra teoria e prassi non c’è contraddizione, semmai una tensione fondamentale per sviluppare un punto di vista politico forte sulla realtà.
Per una umanità sull’orlo dell’abisso non serve però evocare l’alternativa tra socialismo o barbarie, quanto portare alla luce le potenzialità di riscatto, di rivolta, di trasformazione che si danno già nel reale. E gli antagonismi riportare al centro della scena dalla crisi economica, non mettono in evidenza solo generose resistenze destinate alla sconfitta, ma anche possibilità di ricombinare soggettività produttive disperse e annichilite dalla precarietà. In una situazione dove la fine della sinistra è continuamente rimossa da chi pensa di collegarsi a quella tradizione la riflessione di Morin aiuta però a sfuggire alla sirene che vogliono considerare definitivamente chiusa non quella storia, ma la possibilità stessa di poter cambiare il mondo.
Tra una teoria della complessità che pensa di poter superare gli antagonismi della realtà in nome della loro complementarietà e chi rimpiange la tradizione politica del movimento operaio va costruita tenacemente un’altra opzione. Quella appunto che guarda con interesse a un individuo sociale che, come scriveva Marx, riconosce la sua natura di animale sociale e al tempo stesso che vuol sfuggire al triste destino del regno della necessità. Un regno della necessità dove è vigente la finzione democratica, che certo aiuta, come scrive Edgar Morin, a sfuggire alla malattia dell’«errore ideologico», ma non aiuta certo l’esercizio della libertà.
La semi scomparsa di Marx dalle librerie italiane è il risultato, tra le altre cose, della politica culturale della ex-sinistra che in questi ultimi vent’anni non ha fatto altro che annunciare la morte di Marx, salvo trovarsi oggi di fronte ad una crisi mondiale del capitale che, guarda caso, e come molti economisti e commentatori anche di area liberale e cattolica non mancano di rilevare, conferma le analisi dell’autore del Capitale.
Molti intellettuali ex (comunisti, socialisti, nuova sinistra) trattano Marx nello stesso modo in cui i contemporanei del Moro definivano Hegel: «un cane morto». Guido Liguori di recente ha lamentato la scarsezza dei testi e le difficoltà a reperirli ogniqualvolta si vuole organizzare un percorso di studio su Marx o, semplicemente, si vuole leggere qualche suo testo. La necessità di dedicarsi ad attività di commento, traduzione e pubblicazione di testi antichi e moderni di e su Marx (e su importanti autori marxisti) è una necessità quindi impellente. D’altronde, come ricordava Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch, è più utile «studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano».
Va tuttavia segnalato il fatto che da qualche anno sono riapparsi testi e commenti di e su Marx. Da qui la segnalazione, consapevole della parzialità e dell’incompletezza di questi essenziali suggerimenti bibliografici, i quali, comunque, possono rappresentare una prima «cassetta degli attrezzi» per comprendere il mondo contemporaneo.
Al di là della ristampa de «Il capitale» da parte della Newton Compton, l’annuncio della ristampa dei Grundrisse da parte della manifestolibri per il prossimo ottobre, vanno segnali i seguenti libri:
Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di Vladimiro Giacché (Derive Approdi);
Karl Marx, Quaderni antropologici, a cura di Politta Foraboschi (Unicopli);
Karl Marx, Forme di produzione precapitalistiche, a cura di Diego Fusaro, (Bompiani);
Karl Marx, L’alienazione, a cura di Marcello Musto (Donzelli).
Per quanto riguarda i saggi sul Moro vanno invece ricordati :
Marx e Hegel. Contributi a una rilettura di Roberto Fineschi (Carocci);
Marx e l’etomismo greco. Alle radici del materialismo storico e Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sula lato cattivo della storia di Diego Fusaro, (Il Prato).
Marx e l’educazione di Mario Alighiero Manacorda (Armando);
Lessico marxiano , Manifesto libri;
La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, a cura di Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (Ombre corte);
Pensare con Marx Ripensare Marx. Teorie per il nostro tempo, a cura di Cinzia Azzurra (Edizioni Alegre);
L’ultimo Marx di Enrique Dussel (Manifestolibri),
il volume collettivo Marx e la storia. Con un’antologia di testi (Unicopli);
Marx di Stefano Petrucciani (Carocci) e
Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario di Diego Fusaro (Bompiani).
Donatello Santarone
Intervista
Morin: ripartiamo da Marx
Parla il filosofo francese: Senza un pensiero,
per la sinistra è difficile arginare la crisi”
di Manuela Modica (l’Unità, 12.03.2010)
Sandali aperti, e calze: tipico stile casual d’oltralpe. Sembrerebbe un qualsiasi crocerista nord-europeo, invece, è Edgar Morin, il filosofo francese che ha rivoluzionato il pensiero occidentale e gettato una scure sull’approccio del sapere scientifico così com’è adesso, tendente alla semplificazione e alla frammentazione. Uno dei maggiori filosofi viventi. E vive con una certa intensità: in barba ai suoi 89 anni, infatti, Morin cammina, sale strade scoscese, scalini, si piega per veder meglio le mura del forte. E chatta, tanto, mentre cerca la suoneria adatta al suo Ipod. Non crede alla conoscenza che si basa solo sul rapporto tra causa ed effetto e non crede ai miracoli: «Una volta sì, ma due miracoli di fila, no», dice rammaricato di aver perso le «stiló» che era un ricordo della moglie.
L’aveva già ripescato quella volta che l’aveva dimenticato al ristorante italiano a Parigi, racconta, e a ritrovare la penna della sua perduta moglie due volte non ci crede. Ma capiterà, e di fronte al secondo miracolo il grande filosofo francese non tratterrà le lacrime.
È in Italia per una serie di seminari tra Messina e Napoli, voluti dal «Centro studi della filosofia della complessità Edgar Morin», diretto dal professore messinese Giuseppe Gembillo. Comincia dallo Stretto, dove è sbarcato per un’intera settimana di incontri, e una girandola di strette di mano e di «sono onoratissimo» a cui ha partecipato con inchini e un’incredibile pazienza, sorridendo sempre, così che le pieghe del suo volto vanno disegnando una mappa di luoghi della sua storia, dove si potrebbe leggere dalla dominazione tedesca alla «scomunica» comunista gli eventi che l’hanno portato a riflettere sulle cose del mondo a modo suo, rifiutando il metodo imposto alla nostra cultura da Aristotele in poi.
Quel modo suo che lo porta a scandalizzare, ancora, affossando in un attimo l’idea di «sviluppo sostenibile»: «Non è affatto sostenibile. È da abbandonare l’idea stessa di sviluppo, che produce crisi morale, perché l’unica chiave attraverso la quale viene concepito è quella tecnicista. In quest’ottica anche quello di Pinochet in Cile può essere considerato sviluppo».
Sviluppo no, parliamo allora di crisi...
«La crisi ha fatto Hitler, la guerra civile spagnola, e finalmente la seconda guerra mondiale. Anche questa crisi è molto pericolosa, e invece di provvedere ad arginarla, è la scusa del capitalismo per licenziare i lavoratori mentre non c’è più un contropotere sindacale e politico che possa agire da freno, così che il capitalismo è scatenato. Occorre una ricostruzione, ma non la si può fare senza un pensiero: è quello che manca. Intanto, registriamo l’incapacità delle organizzazioni internazionali di arginarne la pericolosità, di fare qualcosa. E viviamo una economia chiusa, incapace di prevedere la crisi, incapace di prevedere quando finirà, perché è un’economia formale unicamente matematizzata che non ha nessuna connessione con le altre realtà sociali. La situazione è pericolosa, non solo per l’Italia, ma anche per la Francia e gli altri paesi».
Se questa è un’economia chiusa, immagina come dovrebbe essere l’apertura?
«Immagino un’economia pluralista, solidale, di cui abbiamo già degli esempi nell’associazionismo...»
Lei parla di Hitler, mentre in Italia molti ritornano a fare riferimento a Mussolini, associando la situazione storica e politica di oggi con quella del fascismo, è d’accordo?
«Penso che ci sia un’inflazione di parole, non è possibile identificare quel che succede oggi con quel che succedeva nel passato».
Però assistiamo a fenomeni, come il razzismo, per esempio, che riprendono vigore, quando sembravano superati dalle vicende della Storia...
«Certamente, è una regressione generale, però, legata alla regressione della sinistra, all’assenza di un umanismo di sinistra. Quel che è più preoccupante è la tendenza del governo a diminuire l’indipendenza del potere giudiziario. Ma la vittoria di Berlusconi è principalmente la sconfitta della sinistra, che viene da un vuoto, da un’assenza di un’idea politica della sinistra, di cui una parte ha anche abbracciato la corrente neoliberale. E l’altra non può solo criticare in modo astratto, non si può solo denunciare ma bisogna anche enunciare».
Perché la sinistra non trova il modo di enunciare?
«Nel secolo passato abbiamo vissuto un comunismo che viveva dell’illusione della realtà sovietica, adesso sappiamo che la Russia non può essere un modello. Che quel pensiero politico, adatto alla situazione passata, non è più adatto alla situazione presente. Bisogna trovare un’altra via: il capitalismo non è morto ma non è immortale. Il partito democratico, in Italia, non ha saputo trovare unità e soprattutto un pensiero nuovo, ma è la stessa crisi in Francia. Bisogna ricominciare, da quel che rimane vivo della critica del capitalismo di Marx, che deve esser pure ancora considerato, la mondializzazione era già il pensiero di Marx... Ma nessuna soluzione può essere più trovata in questo pensiero: bisogna ricominciare la politica di sinistra».
Qual è lo sguardo sull’Italia dalla Francia?
«L’Italia non vive in un mondo chiuso, ma all’interno di una situazione europea e planetaria. La regressione politica, la minaccia sull’indipendenza del potere giudiziario, la mancanza di vivacità politica... Sarkozy e Berlusconi sono due persone diverse ma non sono tanto distanti, pur nelle loro differenze caratteriali, sono quasi uguali: rivelatori di una stessa realtà». Qualcuno però sostiene che l’Italia stia insegnando la corruzione al mondo, la stia esportando... «È evidente che in Italia c’è un potere di mafia e camorra esteso. In Francia c’è una tradizione statale di integrità che è diminuita ma che rimane solida. Lo stato italiano non ha le basi storiche dello stato francese, e allora si, in Italia c’è più corruzione, ma attenzione, la corruzione guadagna terreno in tutti i paesi».
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Chi è
Dall’idea comunista alla teoria dei sistemi
La vita
Edgar Morin è nato a Parigi nel 1921. Entrato a vent’anni nel P.C.F., quando la Francia era ancora occupata, ne viene escluso dieci anni dopo. Sociologo al C.N.R.S., si dedica negli anni Cinquanta a ricerche, rimaste celebri, sul divismo, i giovani e la cultura di massa. Collabora con articoli politici al «France-Observateur» e poi al «Nouvel Observateur». Fonda, nel 1956, con altri intellettuali transfughi del P.C.F., che non hanno abbandonato l’idea comunista, la rivista «Arguments», che si ispira alla rivista «Ragionamenti» di Franco Fortini, e durerà fino al l962, trattando i temi politici centrali degli anni Cinquanta e Sessanta: il congelamento della lotta di classe nei paesi del «socialismo reale», la nuova classe burocratica, la guerra d’Algeria, il gaullismo. Nel 1967, con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda «Communications». Un soggiorno al Salk Institut nel l969 lo mette a contatto con la teoria dei sistemi che costituirà il punto di partenza delle sue successive ricerche epistemologiche.
Le opere
Segnaliamo: «L’An zéro de l’Allemagne», Parigi 1946; «L’homme et la mort», Parigi 1951; «Il cinema e l’uomo immaginario», Milano 1957; «Les stars», Parigi 1957; «Autocritique», Le Seuil Parigi 1959; «L’esprit du temps», Parigi 1962; «L’industrie culturelle», Parigi 1962, trad. it. «L’industria culturale», Bologna 1974; «Introduction à une politique de l’homme» Le Seuil Parigi 1965; «La comune di Parigi del maggio l968», Il Saggiatore, Milano l968; «Il paradigma perduto», Bompiani Milano 1974; «Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione», Feltrinelli Milano 1983; «La vita della vita», Feltrinelli Milano 1987; «Le rose et le noir», Parigi l984; «La conoscenza della conoscenza», Feltrinelli Milano l989; «Pensare l’Europa», Milano 1988; «Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi», Feltrinelli Milano l993.
Il Centro Studi
Il Centro Studi di Filosofia della Complessità Edgar Morin è stato fondato nel marzo 2002 a Messina da un gruppo di studiosi del Dipartimento di Filosofia dell’Università, da tempo impegnati a indagare le relazioni fra filosofia e scienze, e a esplicare i differenti paradigmi epistemologici che si sono succeduti e contrastati negli ultimi due secoli.