Parliamo di donne
di Rossana Rossanda (il manifesto, 31.03.2008)
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d’occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l’avvocata Hillary Rodham corre anch’essa con il nome del marito, perché è l’ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E’ vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell’elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l’Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.
Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.
Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell’insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».
Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell’arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E’ interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l’autonomia? Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.
Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).
In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l’intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell’attuale politica degli Usa. C’è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?
In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d’una gerarchia cattolica invadente. E’ stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l’essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni ’70, finendo con l’essere l’unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.
Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d’esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).
Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L’una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l’uno e l’altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l’oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l’interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.
La seconda posizione, all’inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un’eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.
Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l’intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L’avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.
Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.
Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell’autonomia.
Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si possa civilmente dare? Io non credo.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE.... HA ‘VINTO’.
LA LEZIONE DEI "PROMESSI SPOSI"....
L’ANTROPOLOGIA E’ ANTROPOLOGIA...
’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA...
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI...
IL RISPETTO DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA MAESTRA PER UN’ALTRA POLITICA.
«Le lotte femminili hanno migliorato questo Paese»
di Marisa Rodano *
Il dibattito aperto sull’Unità sul «silenzio delle donne» è una bellissima iniziativa, che ho molto apprezzato. Mi ha però lasciata interdetta una frase del pur interessante intervento di Lidia Ravera. «Ve la ricordate la rivolta da camera delle nostre madri?»- ha scritto Ravera - «Erano donne che avevano vissuto la loro giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore a un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento».
Mi sono chiesta: come è possibile che una scrittrice, colta, brillante e intelligente come Lidia Ravera non sappia che quelle madri, le donne della generazione della resistenza, negli anni ’50 e ’60 erano rimaste in campo, avevano condotto straordinarie lotte per ottenere il diritto al lavoro e allo studio, la parità di salario, la tutela delle lavoratrici madri, il divieto di licenziamento per matrimonio, i servizi sociali?
Nel 1963 - proprio negli anni sessanta di cui parla Lidia Ravera - Nilde Jotti, allora responsabile femminile del Pci, sottolineava con soddisfazione che, «grazie alle lotte e alla combattività delle lavoratrici, le disparità salariali si erano fortemente accorciate« (dal 19% di scarto al 7,2% nell’industria e nel commercio e dal 30% alla parità contrattuale nell’agricoltura.)(...).
Altro che lamento! Quelle donne erano fiere delle lotte condotte, delle conquiste realizzate. Le faceva soffrire piuttosto il fatto che il loro lavoro fosse cancellato, rimosso; che quelle loro figlie, impegnate nel movimento femminista, le contestassero, avversassero l’Udi e rifiutassero la linea di emancipazione (...). La vita delle donne italiane nel corso degli anni è profondamente cambiata: il diritto al lavoro, alla parità di retribuzione, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, un nuovo diritto di famiglia basato sulla eguaglianza, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore, la tutela dei figli nati fuori del matrimonio, l’autodeterminazione nella maternità e nell’aborto sembrano oggi norme ovvie e pacifiche, ma sono costate lunghe lotte. (...). Attualmente il contrattacco si è dispiegato in modo feroce: precarietà del lavoro, riduzione dei servizi, impossibilità di usufruire dei diritti (maternità, previdenza, lavoro) sanciti nelle leggi; una crescente violenza maschile contro le donne. Soprattutto, come denuncia Ravera, sta passando un modello culturale, un’immagine di donna, «tette grandi, cervello piccolo», che per affermarsi comunque - fare la velina o essere eletta in parlamento sembrano obiettivi equivalenti! -deve vendere il proprio corpo.
Uscire dal silenzio, tornare a dire «noi» anziché «io», ricostruire una rete tra i tanti gruppi e movimenti femminili che tuttora esistono, riprendersi la piazza, organizzare la lotta è oggi urgente e necessario. Ma per far questo sarebbe utile che la stampa, quella poca che, come l’Unità, non è asservita, desse visibilità alle donne che non tacciono; che, ad esempio, facesse sapere ai suoi lettori e alle sue lettrici che l’Udi esiste ancora. (...)
* l’Unità, 01 settembre 2009
Nomi e potere, quando a decidere è il «genere»
di Luisa Muraro *
L’apatia politica, oggi purtroppo diffusa, non ha né sesso né età, ha detto giustamente Benedetta Barzini nel suo intervento al dibattito promosso da l’Unità. Se così è, non sembra giusto rivolgersi specialmente alle donne e prendersela con le femministe. Una ragione c’è, tuttavia: negli ultimi decenni le donne sono state protagoniste di cambiamenti positivi e le aspettative nei loro confronti sono ancora vive, come ha mostrato il recente messaggio di Veronesi sulla forza delle donne. Ciò di cui occorre tenere conto è che anche loro, le donne, anche noi, le femministe, avevamo delle aspettative e che molte di queste non hanno ancora trovato risposta. L’indignazione femminile non è un pulsante che si possa premere a piacere.
Farò un caso soltanto, minore solo in apparenza, quello del linguaggio della vita pubblica. Tra i paesi europei che conosco meglio, l’Italia è l’unico che non ha ancora imparato il corretto uso del femminile nel linguaggio pubblico. In Italia invece regna il disordine: maschili tenaci («il ministro» Carfagna), femminili strampalati («presidentessa»), nomi maschili con articoli femminili e predicati che vanno per conto loro, imbarazzo di chi si rivolge a una Letizia Moratti: «Signor sindaco» o «Signora sindaco»...
Ma non è solo la lingua che ne soffre. Se la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia e quella che serve la clientela, commessa, ma quella che governa una città o siede in parlamento prende un titolo di genere maschile, il messaggio che si riceve è trasparente. La questione è stata posta molto presto dalle femministe e ripresa dai linguisti più attenti, ma con risultati modesti. Sciatteria e disordine continuano a regnare nell’uso corrente, sui giornali e negli altri media, forse per inconsapevolezza della posta in gioco.
Attualmente ci troviamo a fare i conti con un altro effetto della tendenza a cancellare il femminile o a ridicolizzarlo quando si presenta fuori dalla sfera della vita familiare. È il contraccolpo che ne viene alle donne attive nella vita pubblica ed esposte per ciò stesso al clima di volgarità favorito da un capo del governo che promette cariche pubbliche in cambio di servizi sessuali. E rende così letteralmente vera la vecchia equazione maschilista tra donna pubblica e prostituta. Si capisce che queste donne siano indignate. Non si capisce però che se la prendano con altre donne (le ragazze che accettano inviti altolocati, le mamme delle ragazze, le femministe che non fanno manifestazioni). Qui, infatti, non c’entrano le aspettative, qui si tratta di risposte che bisogna incominciare a dare in prima persona alle persone giuste, che nel caso in questione non sono le donne.
Berlusconi non ha inventato niente, occorre dirlo? Nella bottega sempre aperta del potere dove tutto si compra e tutto si vende, lui si è distinto per certi comportamenti che sono un’esplicita caricatura di quello che lì avviene. Il contrasto fra un certo successo popolare che ha in Italia e lo scandalo che suscita all’estero, si riduce in fondo a una questione di distanze. Da distante si vede quello che esce dalle righe. Da vicino si vede anche la cerchia dei tanti che gli somigliano, sui quali lui riesce a spiccare per una schiettezza di uomo furbo, come quando ha replicato “non sono un santo”. Da vicino si vede anche che l’indignazione che suscita in Italia non è tutta di buona marca. Ci sono uomini, e sono tanti, che si sentono offesi nella loro dignità di facciata. Gli va bene che la bottega funzioni ma che sia con un certo decoro. In che cosa questo consista esattamente, non lo so, però ho notato un fatto degno di attenzione: le donne coinvolte nelle ultime vicende berlusconiane non hanno sacrificato niente sull’altare del decoro di facciata e invece hanno sacrificato qualcosa su quello del dire la verità.
* l’Unità, 31 agosto 2009
La fine di un ciclo
di Rossana Rossanda (il manifesto, 04.09.2009)
Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell’inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.
In questo quadro, l’ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d’Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l’imbarazzo che circonda l’Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un’anomalia, siamo da non prendere sul serio.
Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall’altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.
Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l’ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell’occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com’è fra il corporativismo della società americana e l’eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.
Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com’è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d’un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.
Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.
La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l’ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s’erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.
Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L’Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre più sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.
Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l’asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l’Europa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’Onore ferito
di Ida Dominijanni (il manifesto, 03.09.2009) *
Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell’Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E’ un caso e non lo è. Perché fin dall’inizio dell’affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.
Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.
Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po’ nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com’è stato per Patrizia D’Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com’è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).
Il premier e la sua corte hanno un’idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l’ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.
Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l’onore del premier con le sue battute "sull’utilizzo di speciali accorgimenti contro l’impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l’onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l’evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.
Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.