Pubblichiamo l’intervento "I canti dell’Eden e il linguaggio dei geni" che Robert C. Berwick, membro del Mit di Boston terrà oggi alle 21 a "BergamoScienza" nell’ Auditorium; la rassegna, arrivata alla VI edizione, alla quale hanno partecipato tra gli altri Marcello Coradini, Vincenzo Balzani, Luciano Maiani, Mark Clampin, John Banville, Leslie Robertson, si conclude domani con James Turrel che parlerà di "Scienza e Arte" nel Centro Congressi.
L’uomo cantava come un fringuello
La nascita del linguaggio
Era un’abilità usata nel corteggiamento e avrebbe poi influenzato la parola
Per Darwin i nostri avi utilizzavano la voce per produrre cadenze musicali ovvero un canto
di Robert C. Berwick (la Repubblica, 18.10.2008)
Come si è evoluto il linguaggio umano? Dare risposta a questa domanda è un’ardua impresa. Sin dai tempi di Darwin, i teorici dell’evoluzionismo hanno fatto ricorso ad un parallelismo per dare una spiegazione dei fatti. A cosa può essere paragonato il linguaggio? Nessuna altra specie animale è dotata di linguaggio, malgrado il tentativo fatto dai film di Walt Disney. Altre specie animali ricorrono a sistemi di comunicazione diversi dal linguaggio umano. Il linguaggio può essere utilizzato per comunicare, proprio come ogni altro aspetto del nostro agire: lo stile nel vestire, la gestualità e via dicendo.
Tuttavia, l’uso del linguaggio ha, per lo più, una connotazione «interna», ovvero è al servizio del nostro pensiero. E’ alquanto difficile, infatti, trattenersi dal parlare tra sé e sé in ogni momento di veglia e, persino, di sonno. Solo gli esseri umani possono fare con le parole cose stupefacenti: «Cosa quasi inconcepibile, la pistola che ora fissava era impugnata da un enorme albino dai lunghi capelli bianchi». Questo componimento non avrebbe mai potuto essere l’opera di primati intenti a battere sui tasti di una macchina da scrivere. E’ tratto da Il Codice da Vinci di Dan Brown. Se poi vogliamo definirlo un buon linguaggio, è un’altra storia.
E’ interessante notare come quanto scritto da Darwin più di cento anni fa sull’origine del linguaggio in L’origine dell’Uomo e la Selezione Sessuale sia corretto e confermato da due recentissime scoperte; la prima di carattere genetico condotta sull’uomo e sui fringuelli e la seconda, di carattere linguistico, attinente il linguaggio e il ritmo.
Darwin sosteneva che: «qualche antico progenitore dell’uomo. utilizzava la voce in larga misura per produrre vere e proprie cadenze musicali, ovvero un canto. Questa abilità, per lo più impiegata durante il corteggiamento, avrebbe influenzato il linguaggio... e il suo reiterato utilizzo avrebbe agito sul cervello... la formulazione di un pensiero lungo e complesso non può più prescindere dall’ausilio delle parole, siano essere pronunciate o taciute, proprio come una lunga equazione non può prescindere dall’utilizzo dei numeri».
Come apparirà chiaro a tutti coloro che hanno una goccia di sangue italiano nelle vene, Darwin intendeva proporre l’idea che l’Opera stesse all’origine del linguaggio. Nell’Atto Primo darwiniano, le «cadenze musicali» attiravano la femmina verso il maschio. Quanto più piacevole il canto, quanto più numerosa la prole: il Bel Canto portava ad una migliore. ehm sapete cosa intendo! La «cadenza musicale» formava il sistema linguistico di «input e output», proprio come la stampante di un computer ci consente di visualizzare ciò che abbiamo scritto. Nel Secondo Atto darwiniano, questa «stampante del linguaggio» ha dato impeto allo «sviluppo del cervello» in relazione all’utilizzo delle parole per la formazione di «lunghe e complesse serie di pensieri».
Cosa possiede l’uomo che gli altri animali non hanno? Consideriamo un ingrediente come il controllo vocale, benché alcuni fringuelli siano degli eccellenti cantori. Un secondo ingrediente potrebbe essere l’intelligenza. Nuove evidenze suggeriscono che gli uccelli siano molto più intelligenti di quanto non si pensasse in passato. Un esempio, a tal riguardo, è quello della cornacchia nera che a Tokio porta le noci in corrispondenza degli incroci pedonali in attesa che il semaforo diventi «verde» e che le autovetture, schiacciandole, ne rompano il guscio. Dopodiché, la cornacchia attende che il semaforo ritorni nuovamente «rosso» e che il traffico si fermi per raccogliere in tutta sicurezza i gustosi frutti. (Questa strategia non funziona ovunque, tutte le cornacchie che hanno provato ad imitare l’esempio a Napoli non sono sopravvissute).
Dunque, gli uccelli possiedono il senso del ritmo. Gli uccelli sono intelligenti, ma non hanno il dono del linguaggio perché non dispongono di parole. Alcuni animali sono molto bravi ad assegnare nomi a determinati oggetti. Gli scimpanzé pigmei sono noti per questa abilità in quanto sono in grado di riconoscere svariate centinaia di simboli con diversi colori, forme e dimensioni proprio come i tasselli di un puzzle. Questi scimpanzé sanno assegnare nomi diversi ad oggetti diversi, proprio come noi ricorriamo a nomi diversi per identificare diversi tipi di pasta. Ma questi scimpanzé non sono dotati di linguaggio perché sono pressoché muti. Non possono cantare per salvare la loro anima. Quindi, gli uccelli sono dotati di quelle che Darwin chiamava «cadenze musicali», ma non di parole, mentre i nostri più vicini antenati possono assegnare nomi a oggetti e simboli, ma non possono cantare. Solo l’uomo possiede entrambe queste abilità, ovvero il canto e la parola. Il risultato? Il linguaggio umano.
Che entrino ora le recenti scoperte! In un modo o nell’altro, prendiamo le parole presenti nella nostra testa e le pronunciamo ad alta voce. Tuttavia, questa meccanica può incepparsi. Alcune persone, infatti, sono affette da disordini del linguaggio ereditari. Pertanto, sebbene riescano a comprendere alla perfezione una domanda come: «Dove abiti?», avranno difficoltà nel cercare di rispondere.
All’interno del loro DNA si è verificata una rottura. I ricercatori hanno riscontrato che un’anomalia genetica impedisce il normale sviluppo del cervello. Ciò danneggia il linguaggio in quanto i nervi che governano i muscoli deputati alla produzione della corretta sequenza fonica non espletano la proprio funzione. Il danno, in questo caso, non riguarda il sistema che funge da «collante» e che accorpa le parole nella nostra mente prima che esse vengano pronunciate, in altre parole il computer centrale, ma bensì la «stampante» del linguaggio. Esperimenti condotti sui fringuelli danno conferma di tutto ciò. Al termine dello scorso anno, gli scienziati sono riusciti a «simulare» in via sperimentale le problematiche dell’uomo sugli uccelli. Per fare ciò, hanno inserito copie danneggiate di un gene chiave in uccelli neonati prima che imparassero a cantare, con l’intento di perturbare il loro canto, proprio come nell’uomo.
Il linguaggio umano è anch’esso dotato di ritmo, basti pensare alla cantilena che accompagna una strofa poetica come: «Non mi dire, in tristi cifre, che la vita è un sogno vuoto» (Longfellow) o dai toni più familiari: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono/di quei sospiri ond’io nutriva ‘l core/in sul mio primo giovenile errore». Se analizziamo la purezza ritmica del testo poetico ecco che udiremo una serie di «accenti ritmici», uno per ciascuna sillaba. Analogamente, la parola «rima» è composta da due sillabe: ri-ma. Come si formano gli accenti ritmici? Ed ora entri la scoperta linguistica dell’MIT: tutti gli accenti ritmici delle lingue del mondo possono formarsi «incollando» le sillabe tra di loro in modo tale da formare nuove unità.
I fringuelli possiedono la medesima «struttura ritmica». Proprio come quando battiamo il tempo con il piede a ritmo di musica, così l’uomo o gli uccelli parlano o cantano senza incespicare. Questa è l’origine del linguaggio. Tutti gli animali esposti ad un apprendimento vocale ricorrono a questo sistema per formare ritmi in assenza di parole, contrariamente a quello che fanno «discenti» privi di apprendimento vocale come gli scimpanzé. Gli scimpanzé possono fare ricorso alle parole, ma non hanno ritmo e non dispongono di un «collante». In assenza di quest’ultimo ingrediente, pertanto, non possono sviluppare il linguaggio in quanto incapaci di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare un vero linguaggio occorrono parole, ritmo e un «collante». In questa prospettiva, la vera essenza della specie umana si è caratterizzata attraverso il canto e le parole, ovvero con l’Opera. Ma gli italiani lo sapevano già da tempo!
Così funziona la mente dei poeti
Le strutture basilari della metrica sono comuni a tutte le lingue
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 18.10.2008)
Quando iniziai a studiare l’inglese a scuola, la professoressa ci disse che ogni parola dell’inglese ha la sua particolare pronuncia e che bisognava impararla parola per parola. C’era in questo una certa saggezza pratica, ma anche il riflesso di un antico modo di studiare la fonologia che Morris Halle e Noam Chomsky hanno sbaragliato nel 1968 con il loro monumentale saggio The Sound Pattern of English (ormai abbreviato da anni tra i linguisti con la sigla Spe). Non più regole e regolette, ma eleganti principi di livello molto astratto. Su questa base si è sviluppata la fonologia moderna. Si sono, infatti, scoperte delle scansioni mentali distinte, un po’ come dei conta-secondi, attivi nella nostra mente, che ritmano in tempo reale un tic tac per le sillabe, uno per i fonemi, uno per la metrica, uno per i morfemi (in italiano, parti delle parole come «ndo», «ito», «ato» ecc).
Come le pecorelle, questi suoni vanno a due a due o a tre a tre, a seconda della lingua. Poi questi gruppi sono a loro volta ulteriormente, mentalmente, raggruppati a due a due, o a tre a tre. Si noti, non a quattro a quattro o a cinque a cinque. In astratto la mente potrebbe fare anche questo, ma non lo può fare in concreto, non la mente umana così com’è costruita.
L’importanza di questo lavoro la lascio valutare da Marina Nespor, fonologa internazionalmente nota, docente all’Università di Milano Bicocca: «Quel libro, sul sistema che determina la forma sonora delle parole inglesi, ha più di ogni altro cambiato la concezione di come i suoni sono organizzati nelle lingue naturali». Di Morris Halle mi dice: «È a buon diritto considerato l’ideatore della fonologia moderna».
Prima di dare la parola allo stesso Halle, di cui mi professo discepolo e di cui mi onoro di essere amico, voglio riportare un consiglio che per anni dava ai migliori studenti di linguistica del Mit Samuel Jay Keyser, allora capo del dipartimento di cui Halle e Chomsky erano i membri più prominenti: «Cercate di essere come Morris». Halle, che fece assumere al Mit l’allora giovanissimo Chomsky, non si offendeva affatto quando Keyser poi aggiungeva: «Soprattutto non cercate di essere come Noam, perche nessuno può essere come Noam».
Con un ex allievo del Mit, Nigel Fabb, ora professore a Glasgow, Halle ha appena pubblicato alla Cambridge University Press un altro approfondito lavoro, Meter in Poetry, sulla metrica nella poesia. Passando ad un attento setaccio poesie in ben 15 lingue, dall’italiano all’arabo, dall’inglese al greco, di poeti che spaziano da Dante a Montale, da Verlaine ad Aristofane, senza omettere i salmi dell’Antico Testamento, Halle e Fabb hanno messo in evidenza le strutture comuni, ciò che le poesie ci rivelano sull’organizzazione della mente umana.
«In tutte le lingue e le culture - mi dice Halle - troviamo la poesia metricamente organizzata. E troviamo che ogni metrica è basata su gruppi di due o di tre sillabe, cioè in ciò che tradizionalmente si chiamano "piedi", con variazioni che vengono ampiamente sviluppate nel nostro libro. Semplificando un po’, i piedi sono a loro volta raggruppati in coppie o in triplette, chiamate "metra" e questi di nuovo in coppie o triplette chiamate "cola"» (in italiano tradotto dalla Nespor come «diastichi»).
In tanta uniformità, esistono anche vari gradi di libertà, e così le metriche variano nel tempo e nelle lingue. Halle mi spiega che, essenzialmente, oltre alla scelta tra gruppi di due e gruppi di tre, i gradi di libertà ulteriori sono di due tipi: il bordo ( edge) del verso dal quale far partire il raggruppamento (da destra o da sinistra) e la posizione di un elemento principale, la «testa», di nuovo dall’estremo destro o dall’estremo sinistro. In sostanza, ogni poeta, in ogni epoca ed in ogni lingua, ha cinque opzioni possibili per ogni unità, cinque per le sillabe, cinque per i piedi e così via per i metra e i cola.
Qualche scoperta inattesa? «Sì, nella poesia delle lingue neo-latine (italiano, francese, spagnolo, portoghese) le sillabe sono sempre e solo raggruppate a due a due, partendo dal bordo destro del verso e la testa del piede è sempre a destra. In inglese, russo e tedesco, invece, si hanno più variazioni. Oltre alle coppie si hanno triplette, si parte anche da sinistra, oltre che da destra ». Molte interessanti similitudini sussistono tra l’organizzazione della metrica in poesia e il modo in cui le diverse lingue assegnano l’accento tonico. Di nuovo coppie e triplette e di nuovo «teste» posizionate verso destra o verso sinistra.
Nessuna eccezione? Halle è molto fiero di aver trovato un’eccezione in alcuni salmi dell’Antico Testamento. «In essi si ha una conta diretta del numero di sillabe, non un raggruppamento in coppie o triplette. Il Salmo 137, per esempio, ha i seguenti numeri di versi: sette ripetuto cinque volte, poi cinque, sei, sette, otto, poi otto e cinque che si alternano quattro volte, poi in decrescendo otto, sette, sei, cinque, poi infine di nuovo sette ripetuto cinque volte. Ho pensato che questo corrispondesse a una struttura visiva, in particolare architettonica. E ho scoperto che il secondo Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani sotto Vespasiano, aveva due ali, un tetto, e un porticato con quattro colonne. La stessa struttura del salmo» (vedi figura).
Due domandine finali. Cosa ci insegna tutto questo sulla mente umana? «La capacità di raggruppare in coppie e triplette e poi, di nuovo, ricorsivamente, raggruppare il risultato in altre coppie o triplette è una proprietà universale della nostra mente. E così la capacità di designare elementi prominenti, le teste, e poi mantenere questa prominenza di nuovo ricorsivamente. Questa ricorsività è fondamentale anche in sintassi, come da anni sottolineato da Chomsky. Qualunque buona teoria della mente umana dovrà spiegare questi fatti».
Trattare la poesia in questo modo non è un po’ riduttivo? Halle risponde piuttosto seccato: «Quando Pitagora dimostrò il suo teorema non "ridusse" l’ipotenusa ai cateti, ma capì una proprietà vera dei triangoli rettangoli che nessuno aveva prima notato. Quando noi ora mostriamo che ogni metrica poetica consiste in questi raggruppamenti ripetuti in coppie o in triplette non "riduciamo" i versi a niente altro. Rendiamo esplicita una proprietà che era rimasta fino ad ora implicita».
Proprio da Halle ho imparato perché in inglese l’accento della parola comparable è sulla o, non sulla prima a, e di Arabic è sulla prima a, non sulla seconda, e perché noi italiani sbagliamo sempre, molto prevedibilmente, tanti accenti delle parole inglesi. Come per la poesia, il segreto sta nella sillabificazione e nel raggruppamento delle sillabe. Per questo la mia professoressa delle medie aveva torto come fonologa, ma ragione come praticona della lingua.
Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo: una buona notizia
Resta un giallo la comparsa del linguaggio
di Telmo Pievani (Corriere della Sera, La Lettura, 16.10.2016)
Un abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio. In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali, uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni, indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente impariamo da piccoli. Questa grammatica generativa trova il suo fulcro nella struttura gerarchica della sintassi, che ricorsivamente ci permette di esprimere combinazioni potenzialmente infinite di frasi.
Va da sé che, una volta definita la facoltà del linguaggio in questi termini minimalisti e computazionali, come una macchina interna perfetta, una capacità del genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna speranza di avvicinamento a questo modello sintattico gerarchico per gli uccelli canori, i cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti neanderthaliani.
Tutto il resto, cioè l’esternalizzazione del linguaggio, è secondario. La relazione col mondo esterno, attraverso vocalizzazioni o segni, è condivisa con altri animali in vario grado, ma non è decisiva, perché il linguaggio non si è evoluto per la comunicazione, secondo Berwick e Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli lingue di cui abbiamo traccia scritta negli ultimi 5.000 anni è come una stampante che trascrive in modo ogni volta diverso il lavoro dello stesso computer: ciò che conta è il processore interno, che è universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. -Non rifiuta più in blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale), cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento biologico con grandi effetti mentali.
Così nacque secondo i due autori la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita del linguaggio umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa e a dominare il mondo, estinguendo le altre forme umane come Neanderthal e Denisova, che non avrebbero avuto questa riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non fu quello di comunicare meglio, ma di pensare meglio, attraverso un collante cognitivo interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi percettivi e cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il pensiero, permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione mentale di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui».
Il problema maggiore di questa impostazione sta nel presupporre ancora che la teoria evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni di modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è solo il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come Richard Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come esponenti della «biologia mainstream ».
L’evoluzione è un gioco complesso di relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun cenno al contesto reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe avvenuta. Il giallo, dunque, continua.
Dall’inglese al turco e dal russo all’hindi le parole per indicare i genitori sono l’eccezione alla babele universale
Ecco perché tutto il mondo dice mamma (e papà)
Più che vocaboli veri e propri balbettii ritmici simili a un canto
Ambedue termini sono composti da vocali e consonanti facili e “a portata di voce”
di Marino Niola (la Repubblica, 20.10.2015)
DIO non poteva essere dappertutto, dice un proverbio ebraico, così ha creato le mamme. Ma, per farsi capire ovunque, le ha chiamate tutte con lo stesso nome. Ma-ma. Due sillabe che risuonano identiche in tutte le lingue. Più o meno come quelle di papà. Che, pur se in seconda battuta, ne condivide la diffusione universale.
Fatto sta che il nome della madre e quello del padre sono uguali dappertutto. Basta un rapido confronto fra le diverse lingue, per accorgersi che i termini per dire mamma e papà sono sostanzialmente identici sopra e sotto l’equatore. In inglese mom e dad, in tedesco mama e papa, in francese maman e papa, in greco mamá e mpampás, in russo mama e nana, in turco anne e baba, in caucasico naana e daa. E in hindi maa e pipà. E la differenza apparente tra le lettere d, t, b, p e v non inganni perché, come insegnano i linguisti, si tratta in realtà di fonemi equivalenti, proprio come m ed n.
E se per le lingue del Vecchio Continente si potrebbe ipotizzare che queste somiglianze siano la conseguenza del fatto che derivano tutte da una comune origine indoeuropea, questa spiegazione non vale certo per tutte le altre. Come per quelle della famiglia austronesiana, che dal Madagascar all’Australia, passando per Polinesia, Indonesia e Malesia, comprende circa milleduecento idiomi. Così, in una sorta di rap familista universale, i suoni si ripetono con ostinazione.
A Samoa mama e tama, alle Figi nana e tata. In singalese amma e tatta, in cinese mama e paa, in eskimese anana e ataata, in zulu umama e ubaba, in swaili mama e baba.
In realtà, le prime parole pronunciate dai neonati di tutto il mondo sono le uniche eccezioni alla confusa babele delle lingue. Anche se non si tratta proprio di parole, ma di suoni. Siamo più o meno intorno al quinto mese di vita, quando i neonati cominciano a cinguettare come uccellini. Con quel tipico balbettio ritmico, fatto di vocalizzi e di gorgheggi, che manda in visibilio mamma e papà. Sono quei suoni ripetuti, più cantati che parlati, a segnare il debutto del bambino sulla scena del linguaggio. Quando il sipario della vita si apre su quell’istante decisivo in cui il mondo intero è sospeso sulla punta della sua lingua. Che, in quell’età felice, serve più a giocare che a parlare.
È più o meno quel che diceva Giacomo Leopardi quando paragonava il neonato ad un usignolo che canta, saltella, trilla, attratto dall’infinita varietà delle cose che cominciano a scorrere davanti ai suoi occhi.
Ma quel gioco è la chiave della memoria, che comincia a familiarizzare con i volti che lo circondano, a salvare nel suo hard disk i profili delle persone più vicine, primi fra tutti i genitori. E a loro lancia i primi segnali di piacere, fatti di vocali e consonanti. A iniziare dalle più facili, quelle più a portata di voce.
Come la a, che delle vocali è la più aperta. Basta aprire la bocca e l’ahhh sorge spontanea. Basta chiuderla e respirare col naso perché venga fuori la m. Un intervallo che somiglia molto alla ehm prolungata che noi emettiamo quando cerchiamo di trovare il filo del discorso. Una pausa al confine tra il linguaggio e il silenzio, tra la comunicazione e il rumore di fondo. E quando il bambino inizia a soffiare tra le due labbra escono i suoni labiali. Cioè p, b, v, d, t. Da questo nascono i mama, gli amama, i naan, i papa, i baba, i tata che commuovono i grandi, i quali spiano con ansia amorosa i bimbi nella speranza di riconoscere una parola, che ancora non c’è, in ogni minima vibrazione di labbra infantili. Che, per definizione, suonano ma non parlano. Lo dice la stessa parola infante composta da in (non) e fans (parlante) - che significa proprio colui che non può dire. Insomma l’associazione tra quel suono e quel significato non è opera dei bambini, ma degli adulti che li ascoltano.
Ma spiegazioni scientifiche nulla possono di fronte alle ragioni del cuore, che portano gli adulti a interpretare quel solfeggio pieno d’incanto e di stupore alla luce delle loro abitudini fonetiche e delle loro attese affettive. E quindi a riconoscervi con emozione le parole mamma e papà. Con relativi conflitti genitoriali su chi sia stato nominato per primo. È la prova che il linguaggio, come diceva il celebre psicanalista Jacques Lacan, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno.
Noam Chomsky
“Quello che siamo e facciamo sono soltanto linguaggio"
Intervista all’intellettuale americano che spiega le sue teorie e le sue radicali opinioni politiche
di Federico Capitoni (la Repubblica, 18.01.2014)
«Non penso che ci sia un politico che abbia mai prestato una qualche attenzione a ciò che scrivo, dico o faccio». A 85 anni, Noam Chomsky si rende bene conto che pure essere uno degli intellettuali più ascoltati del pianeta, non cambia la direzione che il mondo ha preso. Il grande linguista americano, a partire dagli anni Settanta, ha scelto seriamente la strada del pensiero e dell’attivismo politico che lo ha portato oggi a essere l’interlocutore privilegiato nei dialoghi sui problemi di ordine mondiale. Una raccolta dei suoi saggi politici, I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie, in libreria il 23), mette ora in fila tutte le sue risposte, generalmente volte a condannare i sistemi neoliberisti e neocolonialisti.
Nel frattempo la sua idea di una grammatica universale (facoltà mentale comune a tutti gli individui) e la teoria della grammatica generativa (l’insieme, finito, delle regole che danno luogo alle potenzialmente infinite formulazioni delle frasi) hanno iniziato a camminare da sole: «La grammatica generativa è ormai una scienza, - dice - e come tale raccoglie i risultati prodotti dalla partecipazione collettiva di tanti studiosi».
Il 25 gennaio a Roma, all’interno del Festival delle Scienze, Chomsky terrà una lezione magistrale in cui parlerà del linguaggio e della mente. Ma il pubblico italiano potrà incontrarlo anche la sera prima in un curioso spettacolo musicale, Conversazioni con Chomsky, una talk-opera multimediale del compositore Emanuele Casale, ove il linguista parteciperà a «una sessione di domande sugli argomenti della linguistica, dell’economia e della politica, anche italiana»...
Professor Chomsky, lei parteciperà a un’opera musicale. Si dice spesso che la musica sia un linguaggio universale. Ma, innanzi tutto, la musica è un linguaggio?
«Il concetto di linguaggio nell’uso comune è vago e informale. È comunque possibile formulare almeno alcune chiare domande. Per esempio quali relazioni ci sono tra musica e linguaggio umano? Ci sono studi su questo e molte idee interessanti ma la domanda generale non ha risposta. È come domandarsi se gli aeroplani volino (certo, ma non come le aquile) o se i sottomarini nuotino (non proprio come delfini). Sono faccende che hanno a che fare con le metafore che scegliamo di accettare, non sono questioni fattuali».
Cosa differenzia il linguaggio verbale dagli altri sistemi di segni (suoni, figure, gesti)?
«È importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale. Può essere espresso attraverso suoni, il modo più comune, o segni grafici. Come abbiamo scoperto in anni recenti, molti linguaggi simbolici che sono nati nel mondo sono particolarmente simili ai linguaggi orali. A ogni modo il linguaggio umano differisce da altri sistemi di segni in alcuni importanti aspetti: struttura, uso, rappresentazione neuronale. È stato anche scoperto che lo stesso gesto può funzionare in maniera diversa se viene usato in un sistema di segni o se in un contesto non linguistico. Le proprietà fondamentali del linguaggio umano appaiono uniche e sono probabilmente emerse relativamente di recente rispetto al processo evolutivo. La facoltà del linguaggio sembra essere ampiamente dissociata da altri sistemi cognitivi umani e completamente differente dai sistemi di comunicazione animali».
Se il linguaggio è generato dalla grammatica e la grammatica fondata su strutture foniche, si potrebbe dire che il linguaggio si origina più probabilmente dal suono che dal segno?
«Quello che possiamo dire è che il suono è solo una delle forme di esternalizzazione del linguaggio e non sembra essere essenziale della sua natura. Concordo con la tradizione che tende a considerare il linguaggio primariamente uno strumento del pensiero e la sua esternalizzazione, in una o un’altra modalità, un processo secondario. È tuttavia vero che i segni grafici sono cosa piuttosto recente nella storia dell’uomo, tra l’altro solo in certe culture, e che non possano essere collegati all’origine del linguaggio».
Cosa pensa delle recenti ricerche neurolinguistiche? I risultati scientifici mettono a tacere la lunga diatriba tra “innatismo” e “comportamentismo”?
«Nonostante io abbia sempre trovato fuorviante parlare di dibattito tra “comportamentismo” e “innatismo” (e soprattutto su questa parola bisognerebbe accordarsi, perché non ha un significato ben definito), non si può seriamente dubitare che ci sia un alto numero di fattori innati che entrano in ogni aspetto della funzione cognitiva. L’unica alternativa è la magia. Il lavoro scientifico è determinare questi fattori:per esempio, qual è la dote biologica che rende il bambino, e non un altro organismo, in grado di sviluppare le capacità che io e lei stiamo usando ora? E così domande simili sulle facoltà mentali e non. Anche i comportamentisti ormai credono a fattori innati».
Se il linguaggio dà forma all’esperienza, quanto i problemi del mondo dipendono dal linguaggio?
«Difficile pensare che esista un’attività umana in cui il linguaggio non sia direttamente coinvolto. Dire che ci sia una dipendenza dal linguaggio è plausibile ma è una questione davvero troppo seria e indefinita per esaminarla».
Il suo ultimo libro si intitola I padroni dell’umanità. Chi sono costoro?
«I centri corporativi delle società industriali avanzate vogliono farsi ricordare come i padroni dell’umanità. Il termine è preso in prestito da una frase di Adam Smith: “la vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. È esattamente la proprietà istituzionale delle società capitaliste ».
Lei scrive che potere e verità sono in conflitto e che gli intellettuali o ricercano la verità o comandano. È dunque impossibile il governo dei filosofi sognato da Platone?
«Bakunin predisse che il governo dalla classe emergente della scientific intelligentsia avrebbe portato alle peggiori e brutali autocrazie della storia umana. È risultata un’osservazione lungimirante. Non c’è dunque ragione per aspettarsi che il governo dei filosofi, o quello di una qualsiasi altra élite, sia migliore».
Tra i temi che le stanno più a cuore c’è l’ambiente. Quali rischi dobbiamo temere maggiormente?
«Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi, è quasi un miracolo che siamo scappati a un disastro nucleare non così tanto tempo fa. Pessimismo e ottimismo sono questioni soggettive, non sono importanti: qualunque sia il proprio stato d’animo, le azioni da intraprendere sono essenzialmente le stesse».
La mappa della lingua è universale e infinita
Viaggio nella cartografia delle strutture verbali dove «istintivamente le aquile che volano nuotano»
I meandri del cervello
Ciò che ogni essere umano sempre padroneggia è un oggetto certo finito, ma di portata illimitata, cui è concesso un repertorio incalcolabile di espressioni
di Noam Chomsky (Corriere della Sera, 08.01.2014)
Il linguaggio è stato proficuamente studiato per 2500 anni, ma solo di recente è diventato possibile formulare chiaramente la sua proprietà fondamentale: in parole semplici, ogni lingua offre il modo di esprimere un repertorio infinito di pensieri. Nel corso degli anni vi erano stati tentativi sommari di cogliere tale proprietà. Per esempio, Charles Darwin osservò che gli animali inferiori differiscono dagli esseri umani solamente per il maggior potere, un potere quasi infinito , di associare e comporre i più svariati suoni con le più svariate idee.
L’espressione quasi infinito deve essere intesa come, semplicemente, infinito , e adesso sappiamo che il modo di fare tali associazioni è nell’uomo radicalmente diverso da quello di ogni altra specie. Ciò detto, Darwin aveva sostanzialmente ragione, sebbene non fosse ancora in grado di formulare in dettaglio un programma produttivo di ricerca su questa speciale facoltà umana.
Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersall, in una sua recente rassegna sulle origini dell’uomo, conclude dicendo: «L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata quasi certamente il portato dell’invenzione di quello che è il singolo più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio». In sostanza, ritroviamo il potere notevolissimo di cui parlava Darwin.
A partire dalla metà del XX secolo, le scienze formali (matematica, logica e teoria del calcolo) avevano offerto una ricca comprensione di come un sistema finito - il cervello umano o un calcolatore programmabile - possa generare un repertorio infinito di espressioni. Ciò rese possibile formulare precisamente la proprietà in questione e aprire la strada a un’indagine in profondità sulla proprietà che era stata fino ad allora inaccessibile a un esame specifico.
La lingua che ogni essere umano padroneggia è un oggetto finito, ma di portata infinita. È una proprietà interna alla persona, un sistema di elaborazione e calcolo di un cervello finito che rende possibile esprimere un repertorio infinito di espressioni strutturate, ciascuna delle quali viene interpretata su due livelli: quello dell’apparato sensorio-motorio (per lo più suoni, ma anche segni nei linguaggi dei segni) e quello dei sistemi di pensiero atti a interpretare il mondo circostante, pianificare le azioni, ragionare ed eseguire molti altri processi mentali. Uno schema di ricerca che vuole cogliere tale proprietà è (per definizione) una grammatica generativa . Tale tipo di grammatica cerca di rendere totalmente espliciti i processi finiti che subentrano nel normale uso della lingua nella sua varietà complessa e illimitata.
Il programma di ricerca della grammatica generativa , avviato in questi termini circa 60 anni orsono, ha enormemente arricchito l’ambito dei fenomeni empirici accessibili allo studio, includendo lingue di tipi assai diversi. Ha, inoltre, consentito di indagarli a un livello di profondità prima inimmaginabile e in domini nuovi: per esempio studiare in modo nuovo e molto illuminante in che modo il significato di espressioni complesse sia determinato dall’operare di poche e astratte regole interne al linguaggio.
Studiare il linguaggio come oggetto biologico ha anche consentito di ampliare enormemente il tipo di dati propri a una certa lingua, includendo il modo in cui il bimbo la acquisisce e come esso è dissociato da altre funzioni cognitive, inaugurando anche una bio-linguistica e una neuro-linguistica.
Un obiettivo ancora più ambizioso è stato quello di portare alla luce (usando le parole dell’insigne linguista Otto Jespersen) «i grandi principi che sottostanno alle grammatiche di tutte le lingue, ottenendo una più approfondita comprensione dell’intima natura del linguaggio e del pensiero umano».
Nell’era moderna, tale studio ha preso il nome di grammatica universale , adattando una terminologia tradizionale al nuovo contesto. Non mi sembra possa essere messo seriamente in dubbio che gli esseri umani sono accomunati da un bagaglio biologico prefissato, che è alla base della capacità di acquisire e usare il linguaggio, e questo è ciò che la grammatica universale studia. Che questa capacità sia, in essenza, il patrimonio unico dell’umanità, è quanto Darwin e molti altri studiosi avevano riconosciuto. Nella misura in cui comprendiamo le proprietà della grammatica universale , lo studio di una lingua può poggiare sui risultati ottenuti nello studio di altre lingue, consentendo, una volta di più, una maggior comprensione della natura e dell’uso del linguaggio.
Lo studio di ogni bagaglio biologico è sempre complesso. Cionondimeno, c’è stato un notevole progresso sul fronte della grammatica universale , sebbene molti problemi e ardui interrogativi siano ancora aperti e ne scaturiscano sempre di nuovi. Il progresso è stato sufficiente a rendere abbordabile un nuovo programma di ricerca negli ultimi anni: chiedersi quale sarebbe la soluzione perfetta per soddisfare le richieste fondamentali imposte dal funzionamento del linguaggio, imposte, cioè, dalla proprietà fondamentale vista sopra.
Quando si scoprono delle discrepanze tra ciò che si osserva e le soluzioni ideali, ci si chiede come reinterpretare i dati e come rivedere le intuizioni teoriche in modo da sanare tali discrepanze. Questo programma prende il nome di programma minimalista , e ben si attaglia al quadro della recente e subitanea emergenza evoluzionistica del linguaggio descritta da Tattersall. Adottando progressivamente questo programma di ricerca è stato possibile rivelare che alcune proprietà piuttosto sbalorditive della grammatica universale sono il portato coerente dell’ipotesi che il design del linguaggio sia ottimale sotto il profilo visto sopra.
Un esempio di tale ottimizzazione è il fenomeno onnipresente dello spostamento sintattico. I sintagmi possono essere uditi in una posizione nella frase, ma interpretati sia in tale posizione che in una diversa. La frase «Quali libri ha letto Gianni?» viene interpretata come se fosse «Quali libri sono tali che Gianni ha letto quei libri?». «Libri» è il complemento oggetto diretto di «leggere», ma non viene pronunciato o scritto immediatamente alla destra del verbo. Tale spostamento è stato a lungo, nella professione, considerato una strana imperfezione del linguaggio, ma possiamo oggi mostrare che risulta da una radicale semplificazione del calcolo mentale sintattico, mostrare, cioè, che è la più semplice operazione mentale sintattica immaginabile, il risultato automatico di una massima semplicità.
Contrariamente a quanto ritenuto fino a pochi anni fa, l’assenza di ogni spostamento sintattico sarebbe stata una strana e inspiegabile imperfezione. Un ulteriore esempio è il dato insolito e curioso che le regole del linguaggio sono, senza eccezioni, centrate sulla minima distanza strutturale, non superficiale (cioè calcolata lungo il numero di parole nella frase), anche se tale distanza sarebbe in linea di massima più facile da calcolare e da elaborare linguisticamente. Così nella frase «Istintivamente le aquile che volano nuotano» l’avverbio «istintivamente» è superficialmente più vicino a «volano», ma strutturalmente più vicino a «nuotano», al quale in effetti si applica.
Questa computazione mentale è più astratta e più complessa, ma è quella giusta. Non ci sarebbe niente di errato nel pensiero che le aquile che istintivamente nuotano volano, ma non lo si può esprimere con questa frase. Tale proprietà è linguisticamente onnipresente ed è automaticamente colta dal bimbo sulla base di dati praticamente miseri, se non del tutto assenti. Lavori recenti offrono una spiegazione sorprendente, basata sull’efficienza del calcolo sintattico mentale, con conseguenze di vasta portata che minano alla base svariate ipotesi tradizionali e ben radicate sulla natura e l’uso del linguaggio. In questo caso, i principi della grammatica universale sono stati verificati su studi delle funzioni cerebrali, un successo importante e arduo, ottenuto in lavori diversi, tra i quali spiccano quelli di Andrea Moro (Università di Pavia), il quale ha integrato contributi di spicco alla teoria linguistica con indagini pionieristiche nel campo della neuro-linguistica.
Una linea di ricerche molto produttive ha esplorato ciò che in termine tecnico si chiama la cartografia delle strutture linguistiche, cioè le gerarchie universali delle frasi, attraverso le modifiche apportate dagli avverbi e le strutture di informazione veicolata dalle frasi (con componenti tecnici come il fuoco, l’informazione topica e così via). In particolare, i più recenti lavori di Guglielmo Cinque (Università di Venezia) e Luigi Rizzi (Università di Siena) hanno rivelato strutture linguisticamente universali di notevole complessità, con interessantissime conseguenze sintattiche e semantiche, dischiudendo nuovi problemi sul perché il linguaggio è organizzato in tal modo e non in qualche altro modo.
È impossibile in questo breve spazio passare in rassegna i risultati conseguiti nel moderno studio del linguaggio, le sue rappresentazioni neurali, il suo intimo ruolo nelle nostra vita mentale e sociale. Né raccontare le molte sfide ancora aperte alla nostra comprensione del linguaggio che tali risultati hanno suscitato, segno che si tratta di una disciplina vivace e in continuo fermento. Tali ricerche procedono, senza dubbio, a un livello che travalica nettamente quanto potevamo immaginare anche solo alcuni anni addietro, e offrono prospettive entusiasmanti su scoperte ancora più profonde delle capacità linguistiche della nostra specie, appunto sul «singolo più notevole tratto dell’uomo moderno» e la nostra specialissima sensibilità moderna.
L’errore di sostenere che solo l’evoluzione ci abbia dato la parola
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 08.01.2014)
La disciplina linguistica chiamata grammatica generativa, inaugurata da Noam Chomsky oltre 60 anni fa, come lui stesso racconta nel testo qui accanto scritto per il «Corriere», conta oggi circa duemila studiosi in varie parti del mondo e in Italia, seconda solo agli Stati Uniti per quantità e qualità di contributi.
Quasi dall’inizio s’è scontrata con critiche e pretese smentite, come correttamente riferito ne «la Lettura» del 15 dicembre da Sandro Modeo («Il gene che creò la parola: due studi smentiscono le teorie di Chomsky sul linguaggio»). Questi attacchi sono stati tutti puntualmente e, a mio avviso, persuasivamente controbattuti non solo da Chomsky stesso, ma anche da altri insigni studiosi del settore. Un tema ricorrente in queste critiche consiste nel ribadire che il linguaggio, nella sua evoluzione biologica, nei correlati cerebrali e nel suo uso collettivo non è una facoltà unica e speciale, bensì la conseguenza di capacità cognitive generali e di una lunga storia di contatti sociali.
Tale tesi si scontra con molti dati fondamentali. Soggetti quasi completamente privi di movimenti volontari acquisiscono e usano il linguaggio senza problemi. L’ipotesi che il linguaggio sia un derivato della motricità in generale, tesi già sostenuta dal celebre psicologo svizzero Jean Piaget molti anni addietro, è del tutto infondata. Quanto poi alla modularità della mente e del cervello, si tratta di uno dei dati centrali meglio comprovati delle moderne scienze cognitive. Nel settore del linguaggio, molteplici patologie molto specifiche mostrano come una singola componente cognitiva possa essere compromessa senza intaccarne altre. Da un lato, si sono studiati soggetti con limitatissime capacità cognitive generali, ma competenza linguistica intatta. All’opposto, deficit linguistici assai specifici in soggetti che godono di competenze cognitive extra-linguistiche intatte.
Sul fronte della sintassi vera propria, innumerevoli dati su svariate lingue e dialetti mostrano che le esigenze della comunicazione tra parlanti non possono nemmeno cominciare a spiegare la natura fondamentale delle strutture sintattiche. Oltre agli esempi offerti da Chomsky nel suo testo qui a fronte, molti altri dello stesso tenore possono essere citati. Perché la frase «Ogni uomo ama sua madre» può benissimo significare che ciascun uomo ama la propria madre, mentre la frase «Sua madre ama ogni uomo» vuol dire tutt’altro? Perché è sintatticamente impeccabile chiedere «Con quale collega non sai mai come comportarti?». Ma orribile chiedere: «Come non sai mai con quale collega comportarti?».
Perché il tipico afasico di Broca e i bimbi piccoli capiscono senza problema «Mostrami l’elefante che sta innaffiando il leone», ma hanno seri problemi a comprendere la frase «Mostrami il leone che l’elefante sta innaffiando?». Perché in espressioni come «far ridere i polli», «far divertire i bambini», «far cuocere il brodo» è il soggetto stesso che compie l’azione, mentre in espressioni come «far licenziare gli operai», «far tagliare il bosco» si danno istruzioni a qualcun altro?
Niente di tutto ciò è misterioso per la grammatica generativa . Impossibile, invece, spiegare questi fenomeni invocando le regole della conversazione, la cognizione generale del mondo e l’impatto delle emozioni sui parlanti. Quindi, la sintassi è una sfera cognitiva specifica e non proviene dalle pressioni selettive della comunicazione, degli scambi sociali e nemmeno del pensiero in generale. «Lo ritengo intelligente», «lo sospetto colpevole» vanno benissimo, ma «lo nego intelligente» oppure «lo escludo colpevole» vanno malissimo, anche se i pensieri corrispondenti sono chiarissimi.
Bisogna ammettere che è molto difficile far passare l’idea che la sintassi non sia il prodotto evolutivo del movimento, della comunicazione e della generica conoscenza del mondo. Un mio studente americano, dopo aver seguito con attenzione tre lezioni nelle quali avevo spiegato in dettaglio perché la tesi di continuità tra linguaggio e altre sfere cognitive è insostenibile, mi disse candidamente: «Niente potrà mai persuadermi che il linguaggio non è il prodotto evolutivo della comunicazione e del pensiero in genere». Ne rimasi piuttosto scandalizzato, dato che si tratta di scienza e non di fede ideologica, ma almeno era più sincero di molti oppositori della grammatica generativa .
L’incontro al Festival delle Scienze
Corriere 8.1.14
L’universo mondo che ruota attorno al macro-tema «I linguaggi», declinato in ogni possibile sfaccettatura: linguistica fantastica e lingue immaginarie, genetica e patologie del linguaggio, i linguaggi della sessualità, il linguaggio della ricerca, la filosofia del linguaggio o il linguaggio dei segni... Questi alcuni degli argomenti affrontati nella nona edizione del Festival delle Scienze che si svolgerà a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, dal 23 al 26 gennaio prossimi (festival prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con Codice). -Quattro giorni tra analisi scientifica, indagine filosofica e incursioni nella fantascienza, fitti di incontri, conferenze, proiezioni, dibattiti e laboratori, con ospiti provenienti da tutto il mondo (gli eventi del festival, a esclusione degli spettacoli, sono a pagamento al costo di due euro). -Tra i tanti nomi presenti, oltre a quello di Noam Chomsky (per lui una serata speciale introdotta da Andrea Moro dal titolo Il linguaggio come organo della mente , ore 21 di sabato 25), Bernhard Nickel, Jason Stanley, Stephen Crain, Jesse Snedeker, Alfonso Caramazza, Simon Fisher, Tullio De Mauro, Nicla Vassallo.
Linguaggio
Quando tutti gli uomini usavano le stesse parole
Alla fine dell’era glaciale, prima del mito della torre di Babele, esisteva un unico idioma nato nel Caucaso
Uno studio pubblicato sulla rivista Pnas ricostruisce “l’antenato comune” che risale a 15mila anni fa
di Elena Dusi (la Repubblica, 05.07.2013)
Mentre le terre riemergevano dall’ultima era glaciale, e prima della costruzione della torre di Babele, c’è stato un periodo in cui gli uomini parlavano una lingua sola. Era un idioma arcaico, sconosciuto, nato probabilmente dalle parti dell’Anatolia o del Caucaso. Ma nonostante l’erosione cui l’uso quotidiano sottopone le regole del nostro comunicare, gli “archeologi delle parole” sono convinti che di quella lingua madre comune a tutti i popoli dell’Europa e dell’Asia esistano ancora oggi delle tracce.
Ricostruendo l’albero genealogico dei termini più radicati e diffusi in tutte le lingue moderne, gli esperti dell’università inglese di Reading sono riusciti a dare una data di nascita al primo idioma parlato probabilmente dall’uomo. La loro ipotesi - 15mila anni fa - è molto più antica sia della tradizione biblica (4mila a. C.) che della barriera con la quale gli studi di paleo-linguistica si erano sempre scontrati (8-9mila anni fa). Da un punto situato nel cuore dell’Eurasia, la “lingua madre” si sarebbe diffusa seguendo poi le rotte dell’agricoltura e le migrazioni dei nomadi lungo le steppe.
L’autore dello studio pubblicato oggi su Pnas è Mark Pagel, una vita dedicata all’archeologia della comunicazione, da sempre convinto che le parole siano come i geni e che le lingue siano assimilabili alle specie viventi. Facendosi affiancare da esperti di biologia, ha cercato di ricostruire l’“antenato comune” delle lingue dell’uomo. È partito da alcuni termini molto conservati in tutti gli idiomi di Asia ed Europa e ha percorso la loro storia a ritroso. Osservando i rami di un albero, ha cercato di ricostruirne la radice ed è approdato appunto all’epoca di 15mila anni fa, in cui l’ultima era glaciale si stava dissolvendo e l’homo sapiens si preparava gradualmente alla rivoluzione dell’agricoltura e delle città.
La tecnica dello studioso inglese è stata criticata in passato, e forse lo sarà anche oggi. Ma nella loro ricerca Pagel e i suoi colleghi spiegano con chiarezza di aver calcolato che mediamente ogni parola ha il 50 per cento di probabilità di scomparire da una lingua ogni 2-4mila anni. I cambiamenti avvengono più rapidamente se un significato può essere espresso da molti sinonimi. Esistono però termini talmente cardinali per un idioma da restare intatti anche oltre 10mila anni. Pagel ne ha trovati una ventina. Sono espressioni che ancora oggi usiamo con una frequenza superiore a una ogni mille parole pronunciate: questo, quello, cosa, no, chi, cosa, io, tu, dare, uomo, madre.
I ricercatori hanno usato queste espressioni come “sonde” con cui esplorare il terreno profondo delle lingue, registrando le ricorrenze in luoghi ed epoche assai diverse, poi tracciando l’albero genealogico e stimando il punto d’origine: la radice, del tronco del linguaggio umano. Lo stesso metodo viene usato dai genetisti per disegnare la storia delle specie viventi attraverso le mutazioni del loro Dna. Una ricerca condotta due anni fa con un metodo simile aveva stimato che due lingue parlate in Siberia e in Alaska avevano un’antenata comune risalente a 12mila anni fa. Le parole, in fondo, si trasmettono dai genitori ai figli e mutano a seconda delle esigenze di una società secondo regole prevedibili.
Lo stesso Darwin aveva definito “curiosamente simili” i raggruppamenti che esistono fra idiomi e specie viventi. E come gli organismi, le circa 7mila lingue del mondo sono soggette a estinzione. Si stima che tra il 50 e il 90 per cento di esse sarà scomparso alla fine del secolo.
Nella tana delle parole
Come si forma il linguaggio? La risposta va cercata nell’architettura del cervello
In laboratorio Il fattore considerato determinante è la struttura dei neuroni. I progressi compiuti grazie alla collaborazione tra la linguistica e la neurobiologia
di Andrea Moro (Corriere della Sera, 29.09.2010)
C’è una domanda che per certi versi costituisce la prima e più radicale questione che l’uomo ha posto sulla natura del linguaggio: la struttura di questo codice è in qualche modo influenzata dalla struttura del mondo o si forma in modo indipendente? Come tutte le grandi domande è facile formularla, meno facile capirne tutte le implicazioni, praticamente impossibile trovare una risposta esauriente; ma la scienza non è scienza se non riconosce il mistero, dunque non è certo questa consapevolezza a fermare il desiderio di conoscere uno dei fenomeni che più ci caratterizza, se non addirittura quello che ci caratterizza totalmente.
Per capire quanto complessa sia la questione, basti pensare che certamente il linguaggio è prodotto dal nostro cervello, che è a sua volta parte del mondo, e che dunque, in un certo senso, è scontato dire che il nostro linguaggio è in qualche modo sottoposto alle leggi fisiche e biologiche che permettono lo sviluppo del cervello sia nell’individuo che nella specie. Ma ovviamente ciò che non è affatto scontato è se la struttura del codice, cioè, per esempio, le regole che a partire dalle parole danno le frasi, dipende o meno dalla struttura del cervello. È questa domanda che oggi per certi versi è ritornata ad essere al centro dell’arena, sotto i nuovi e potenti riflettori della linguistica moderna e della neuropsicologia.
Certamente nel corso dei secoli la riflessione sul linguaggio ha oscillato più volte tra le due polarizzazioni possibili. Cosa mai può aggiungere la scienza moderna rispetto a questa domanda così ingombrante ma pure così importante? La prima novità è che le nuove risposte possono solo nascere dalla collaborazione tra scienze indipendenti, in questo caso dalla linguistica e dalla neuropsicologia. Oggi possiamo contare su almeno un risultato di forte convergenza tra queste due discipline, nate con metodi e scopi diversi, ormai consolidato.
E stato dimostrato, infatti, che la capacità di produrre un numero potenzialmente infinito di frasi a partire da un insieme finito di parole - capacità che possiedono tutti e solo gli esseri umani - dipende in qualche modo dalla struttura del cervello. Non solo: il fatto che tutte le lingue del mondo abbiano un nucleo di regole comuni e che alcuni tipi di regole, pur concepibili a tavolino, non si trovino mai in nessuna lingua non è più visto come un accidente storico o il risultato di una convenzione culturale ma come l’espressione dell’architettura neurobiologica del cervello.
Questo risultato, che fornisce nuovi supporti alle intuizioni maturate in seno alla linguistica nella seconda metà del novecento a partire dai lavori di Noam Chomsky, non sarebbe stato neppure immaginabile se non avessimo avuto accesso, sia pure indiretto, ad alcuni aspetti dei meccanismi neuropsicologici come ad esempio quelli misurabili con le tecniche delle neuroimmagini. Ed è proprio dalle neuroimmagini che arrivano due risultati che ripropongono la polarizzazione della quale stiamo parlando in modo inedito e affascinante.
Entrambi si basano su una delle scoperte dominanti della fine del secolo scorso: l’esistenza nel cervello delle scimmie di neuroni specchio, cioè una popolazione di neuroni che si attiva sia quando si compie un’azione di tipo motorio secondo una certa intenzione (ad esempio afferrare una mela e portarsela alla bocca) sia quando la si vede (o la si sente) compiere. Questa scoperta, che fa capo al gruppo di ricerca coordinato da Giacomo Rizzolatti ha ormai dati empirici forti a favore dell’ipotesi che un sistema sostanzialmente simile a quello dei neuroni specchio delle scimmie sia presente nell’uomo.
Paradossalmente, malgrado il grandissimo interesse, da un certo punto di vista questa scoperta ci lascia, per così dire, equidistanti rispetto al problema generale della natura del linguaggio umano. Da una parte, infatti, si è capito che per comprendere frasi che esprimono azioni come afferro un coltello il cervello attiva una rete che si sovrappone sostanzialmente a quella del sistema dei neuroni specchio degli animali, suggerendo che il linguaggio si possa essere parzialmente evoluto a partire da meccanismi che sono cooptati da sistemi diversi, come appunto quello motorio e che dunque si correli in modo diretto alla struttura del mondo.
Dall’altra, proprio un esame dello stesso sistema di neuroni in un recente esperimento sulla comprensione delle frasi negative porta dati nuovi a favore dell’idea che esista invece un residuo del linguaggio che non possa intrinsecamente essere ricondotto a nessuno stimolo del mondo fisico. Si è infatti osservato che quando si interpretano frasi di azione negative del tipo non afferro un coltello il sistema dei neuroni specchio viene parzialmente inibito. Ora, siccome nel mondo non esistono «fatti negativi», questo risultato conduce necessariamente ad ammettere che esistono aspetti centrali del linguaggio - e certamente la negazione, legata alla capacità di giudicare il vero o il falso è centralissima - che non possono essere derivati dalla struttura del mondo.
Siamo daccapo; anzi no. Non abbiamo risposto alla domanda centrale sulla relazione tra struttura del mondo e struttura del linguaggio ma siamo riusciti a riformularla secondo prospettive inedite e possiamo ragionevolmente aspettarci che nei prossimi anni la ricerca si concentri proprio su questi temi. Come la tartaruga per Achille, il linguaggio umano sembra inafferrabile nella sua interezza ma, lentamente, con passione, si ha l’impressione che ci si possa avvicinare almeno tanto da riuscire a guardarla negli occhi, la nostra tartaruga.
Michael C. Corballis e Philip Lieberman ribaltano molti dati e inquadrano il linguaggio al termine di un processo evolutivo a lungo dominato dai gesti
E l’uomo un giorno incominciò a parlare
Così gli organi della respirazione e deglutizione sono stati «riconvertiti»
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 23.03.2009)
Le muraglie più resistenti, a livello di pregiudizio culturale, sono spesso le più eteree e impalpabili. Così per il linguaggio umano, unicum dell’universo che Cartesio riteneva spiegabile solo come «dono divino»; e che i «neocartesiani» - costellazione vasta e composita, comprensiva di filosofi, linguisti e psicanalisti - continua a inquadrare più o meno come un’entità platonica e astratta, irriducibile alla matassa prosaica del nostro cervello.
Un libro dello psicologo australiano Michael C. Corballis, uscito nel 2002 e appena tradotto da Raffaello Cortina, intitolato Dalla mano alla bocca, può servire non solo a rovesciare la prospettiva, inquadrando nel linguaggio umano uno degli esiti più complessi dell’evoluzione, ma rilancia anche un’ipotesi audace (abbozzata già da Étienne Bonnot de Condillac) che vedrebbe nella parola l’approdo conclusivo di un percorso a lungo dominato dalla gestualità, e per un tratto connotato dal condominio delle due modalità comunicative, come mostrerebbe la nostra abitudine «residuale» di gesticolare conversando, anche al telefono.
Corballis articola la sua tesi per sequenze incalzanti. Vede nell’acquisizione della postura bipede, intorno a 5 o 6 milioni di anni fa (non si sa se in un habitat di savana crescente, con nuove pressioni di fuga e predazione, o in siti semiacquatici, con la camminata conseguente al nuoto) la possibilità di «liberare» gli arti superiori incanalandoli verso la prensione e il lancio, premesse per un salto di manualità tecnologica.
Quindi, individua nella «lateralizzazione» emisferica cerebrale a sinistra - specie nella famosa «area di Broca» - la svolta neuroanatomica decisiva nella scrematura delle funzioni comunicative, in quanto responsabile sia delle «vocalizzazioni» di tante specie animali (da quelle delle scimmie a quelle vertiginose degli uccelli), sia, appunto, del linguaggio gestuale umano, sviluppato a partire da schemi basici quali «l’additare» (per esempio un nemico, una belva, un compagno).
E infine, delinea la genesi della parola (anticipata da ansiti e grugniti) e la sua emancipazione dal gesto dopo dettagliati mutamenti anatomici e neurofisiologici, in un processo graduale giunto a compimento circa 175 mila anni fa: l’abbassamento della laringe, l’allungamento del tratto sopralaringeo e le modificazioni cerebrali (non solo quantitative) legate alla necessità di leggere e decifrare un ambiente carico di nuove e diverse pressioni selettive.
Secondo Corballis, insomma, a un certo punto la matrice «iconica» del linguaggio gestuale (che pure può coprire molte sfumature espressive, come mostrano i 4.500 segni impiegati dai sordi) ha dovuto lasciare il passo a quella «simbolica » della parola, coi suoi molteplici vantaggi adattativi: l’arbitrarietà (e quindi la maggior precisione, per esempio nel nominare frutti e animali), l’impiego al buio e a distanza (capitale nel comunicare stati di allarme) e, viceversa, la graduazione fonetica (il sussurro per non farsi udire).
Ma - ecco il punto - l’incontestabilità di questa successione filogenetica gesto-parola, per Corballis, sarebbe dimostrata dalla controprova ontogenetica del linguaggio infantile: i bambini, infatti - nella loro poderosa scrematura costruttiva, con 10-15 mila vocaboli acquisiti tra l’anno e mezzo e i cinque anni, cioè uno per ogni ora di veglia - impiegano i gesti due o tre mesi prima delle parole.
Per quanto corretto (e seducente) nel dimostrare la sua tesi, Corballis è però parziale nel rendere le origini del linguaggio nell’insieme. Un’utile integrazione viene così da un libro (2006) di Philip Lieberman, docente di scienze cognitive alla Brown University: Toward an Evolutionary Biology of Language («Verso una biologia evoluzionistica del linguaggio», da tradurre al più presto).
Infoltendo e affinando i risultati dei lavori precedenti, Lieberman condivide con Corballis la svolta «cronologica» del linguaggio umano (intorno a 150 mila anni fa), valutandola però più come un’accelerazione in cui diverse strutture fisiologiche preesistenti (cerebrali in particolare) si «riconfigurano» interagendo tra loro in rapporto ai nuovi stimoli, ed esaltando così la facoltà ricombinatoria di quello che François Jacob chiamava il «bricolage» evolutivo. Lo mostra bene - motivo accennato anche da Corballis - la conversione di organi deputati a funzioni primarie quali la deglutizione o la respirazione (dalla lingua alla laringe stessa) in strumenti di emissione e articolazione della parola.
Sono due, per Lieberman, i passaggi decisivi. Il primo è l’incidenza linguistica del cervello antico o «rettiliano», coi «gangli basali» deputati a molte funzioni motorie umane (camminare, correre, danzare, ma anche alla coordinazione delle zampe negli insetti o al trotto-galoppo nei cavalli), dalle quali si sarebbe sviluppata una «sintassi di base», ovviamente in interazione con aree sensoriali-cognitive della corteccia (Broca e Wernicke incluse) e con la memoria (nell’ippocampo). Prova di tale incidenza sono i malati di Parkinson, il cui deficit di dopamina nei gangli basali comporta disturbi cinetici, sintattico- verbali e cognitivi (pensiero rallentato).
Il secondo passaggio è l’azione del gene regolatore FOXP2, a partire, forse, da 100 mila anni fa: gene non specifico dell’uomo (si trova in topi e scimpanzé) né del cervello (viene espresso anche nei polmoni), ma decisivo nel coordinare una dinamica, fondata proprio sui gangli basali, alla base dell’elaborazione del linguaggio. Tutti e due i casi confermano nell’evoluzione (nella selezione) un processo ad altissima flessibilità, in cui ogni struttura - insieme generale e specifica - è coinvolta in più funzioni con ruoli variabili (ora prevalente, ora gregaria, ora addirittura inibita e silente), così come uno strumento, in un’orchestrazione, può essere voce solista, parte della polifonia o «in pausa».
Correggendo e integrando Corballis (vedi la notevole analisi su come il cervello discrimini suono e senso di una voce dall’intricato spettro di segnali acustici del mondo esterno), Lieberman ne rinsalda alla fine le acquisizioni polemiche: sull’inesistenza, per esempio, di una «grammatica universale», smentita sia a livello di linguaggi «segnati» (spesso molto diversi tra loro) sia a livello di lingua parlata (ci sono lingue, come il dialetto indonesiano Riau, che non distinguono nomi, verbi, aggettivi). E più estesamente, i due libri vedono nel linguaggio - sottratto a ogni dimensione trascendente - una lenta, laboriosa conquista del sapiens per riuscire a comunicare, anche a se stesso, i paesaggi emotivi e cognitivi, consci e inconsci, estesi nel rapporto tra il cervello e il mondo.
Ansa» 2008-11-01 13:16
BAMBINI GIA’ A UN ANNO CONOSCONO CENTINAIA PAROLE
ROMA - Non le pronunciano ma, fin dai primi sei mesi di vita, i bambini riescono a mettere nel cassetto del proprio cervello tantissime parole. Infatti, anche se i bambini cominciano a dire le prime parole a un anno, la loro ’’attivita’ linguistica’’ comincia molto prima, a sei mesi circa. Il che significa che quando iniziano a parlare conoscono gia’ centinaia di parole, come spiega uno studio pubblicato sulla rivista ’’Current Directions in Psychological Science’’.
Sono tante, dicono i ricercatori dell’universita’ della Pennsylvania, le capacita’ linguistiche dei neonati. Ad esempio possiedono un’abilita’ unica nel distinguere le differenze fonetiche, che pero’ perdono col passare del tempo. Un piccolo di sei mesi, che sta imparando l’inglese, e’ in grado infatti di distinguere tra i suoni di consonanti simili nell’Hindi che non ci sono in inglese, ma a un anno non e’ piu’ capace di farlo.
I ricercatori hanno dimostrato che durante la prima infanzia i bambini non solo conoscono i vari pezzi che compongono una parola, ma anche l’intera parola. Il che permette loro di incrementare il vocabolario e sviluppare la grammatica. Anche se non sanno il significato della parola, gia’ a otto mesi iniziano a impararne il suono e sono capaci di riconoscerla. Cosi’ come riescono a distinguere tra vocali lunghe e corte e interpretare questa differenza secondo le regole della loro lingua. Dall’eta’ di un anno dunque sanno riconoscere gli errori di pronuncia delle parole, ne imparano la forma e acquisicono informazioni su come queste forme sono usate. Tutti risultati ottenuti osservando come e quanto i piccoli si fermavano a fissare con gli occhi un oggetto chiamato.
Durante gli esperimenti sono stati infatti tracciati e seguiti i movimenti degli occhi mentre i neonati guardavano due oggetti, come un cane e una mela. Cosi’, dopo aver chiamato l’oggetto di fronte al bambino, si vedeva se il bambino lo guardava o meno. In questo modo i ricercatori potevano cambiare leggermente il suono della parola, ad esempio dog (cane) e tog, e vedere se i piccoli guardavano ugualmente verso il cane o meno o se rimanevano indifferenti al cambio. Il risultato e’ stato che i piccoli non guardavano l’oggetto quando era pronunciato in modo sbagliato, confermando cosi’ che dall’eta’ di un anno sanno riconoscere gli errori di pronuncia delle parole, ne imparano la forma e acquisicono informazioni su come queste forme sono usate.
Il linguaggio dei neonati e’ spesso al centro dell’interesse degli esperti. In un recente studio pubblicato nell’edizione on line della rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Pnas, e condotto da un gruppo internazionale coordinato dall’universita’ della British Columbia, e’ stato dimostrato che se le prime parole che imparano i bambini sono mamma e papa’, questo non accade solo perche’ i genitori sono le persone piu’ vicine. La vera ragione, secondo gli esperti, risiede nel cervello e nella sua organizzazione, che lo programma in modo da riconoscere, apprendere e memorizzare piu’ facilmente le parole che contengono sillabe che si ripetono.