André Neher, un ebreo da Ezechiele ad Auschwitz *
Pubblicato nel 1970, «L’esilio della parola» di André Neher esce ora in nuova traduzione per Medusa (pp. 238, euro 19,50, introduzione di Sergio Quinzio). -Neher(1913-1988), ebreo tedesco sopravvissuto al nazismo, interroga le prove più dure dell’esperienza biblica: da Giobbe a Saul (vero «Edipo ebreo»), da Ezechiele a Giona, Abramo, Elia e fino ad Auschwitz. -Alla domanda «Perché Dio ha taciuto?» Neher non dà risposte accomodanti, ma colloca quel silenzio nel cuore della Rivelazione, come nota Massimo Cacciari nella postfazione (di cui in questa pagina proponiamo un brano). *
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Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire. Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari *
La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né definire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi - che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano - ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si rivela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos.
Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa - a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.
* Avvenire, 26.10.2010
L’ EBRAISMO
E L ’EUROPA: NON SOLO SHOAH
di Massimo Giuliani (Avvenire, 11.12.2010)
Nel corrente dibattito sulle radici ebraico-cristiane dell’Europa spesso la prima parte dell’aggettivo sembra un omaggio sì dovuto ma un po’ marginale, come ’marginali’ sono sempre stati gli ebrei, sia numericamente sia teologicamente, nel corso degli eventi che hanno fatto la storia del Vecchio continente. Qualcuno ricorda che l’ebraismo «costituisce la base del cristianesimo». Altri si spingono a menzionare l’età d’oro, un po’ mitizzata, della convivenza delle tre religioni monoteiste nella Spagna dei primi secoli del secondo millennio.
Ma quando si giunge alla modernità, i nomi degli ebrei Spinoza o Marx o Freud spesso suonano più come una minaccia che come una ricchezza all’identità europea, in virtù della forza critica del loro pensiero nei confronti della religione, di ogni religione istituzionalizzata. Al di là di questi e pochi altri casi, il contributo specifico del pensiero ebraico allo sviluppo di un ethos comune europeo è spesso ignorato.
Si ignorano ad esempio le complesse vicende degli ebrei nell’Europa tra il XV e il XVII secolo, epoca di grandi persecuzioni (dalla cacciata dall’Impero spagnolo ai feroci pogrom ucraini del 1648-49) ma anche di grandi ripensamenti e di vivaci movimenti quali la diffusione della mistica o cabala come risposta ai nuovi esili, l’elaborazione di un’inedita identità marrana capace di supportare appartenenze multiple, lo scoppio della febbre messianica attorno ad una figura carismatica come Shabbataj Zvi - l’onda lunga della quale riverberò anche nella Rivoluzione francese e nel movimento dei Giovani turchi - e, non ultimo e forse sintesi di tutto ciò, il maturare e il diffondersi del pensiero di Baruch de Spinoza, con la sua critica ai testi sacri e la rivendicazione della libertà religiosa. E senza la battaglia per la libertà religiosa, ormai gli storici concordano, la modernità non sarebbe stata possibile, né sarebbe stata possibile la Costituzione statunitense o il pensiero liberale contemporaneo.
Tornare a riflettere su queste tappe dell’evoluzione della coscienza europea, attraverso le lenti dei summenzionati eventi della storia ebraica, è l’intento del convegno che si tiene all’università La Sapienza di Roma, dal 13 al 15 dicembre, sulle ’Radici ebraiche dell’Europa’: non per contrapporre retorica a retorica, ma per evidenziare, ancora una volta, la pluralità e la complessità degli apporti culturali che hanno fatto e che continuano a rendere unica e interessante la casa dei popoli europei.
La parabola iniziata con la diaspora ebraicoiberica verso le numerose sponde del Mediterraneo è sembrata chiudersi, tragicamente, con la Shoah e con il progettato sterminio nazista dell’ebraismo europeo. In realtà quel giudaismo è sopravvissuto, nonostante il prezzo pagato da così tanti ebrei, e continua a vivere in una riflessione ebraica sui limiti della modernità stessa, sul valore dell’integrazione e sui pericoli dell’assimilazione, e soprattutto sul bisogno di recuperare tradizioni, lingue ed eredità culturali sia sefardite sia ashkenazite.
Nessuna riflessione complessiva sull’identità odierna dell’Europa può prescindere dalla memoria della Shoah; ma sarebbe culturalmente riduttivo limitarsi a quella memoria mettendo tra parentesi la ricchezza offerta dalle ’culture ebraiche’ nel corso dei secoli che hanno preceduto la Shaoh. Spinoza, Mendelsohn (con il suo sodalizio con Lessing) e il Ba’al Shem Tov, Herman Cohen (ossia la rivalutazione di Kant) e Rosenzweig (con l’uscita dall’hegelismo), Buber e Leo Strauss, Jonas e Levinas, Derrida e Fackenheim, e via elencando, non sono che i numi tutelari di un pensiero ebraico che resta tra noi e senza il quale saremmo tutti più smarriti e perplessi.
Trovare Dio nel deserto dell’anima
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 29.12.2010)
Secondo la scarna descrizione che di lui fecero fra’ Eliseo de los Martires e fra’ Girolamo di San José, Juan de la Cruz, Giovanni della Croce - uno dei più grandi mistici dell’Occidente - era di statura medio piccola e ben proporzionato nel corpo; il volto, moro, aveva una fronte ampia e spaziosa, naso appena aquilino, barba a mezzo pelo, occhi neri profondi e incoraggianti; il portamento era distinto e grave e, nella sua modestia e mitezza di tratto, irradiava una impronta di nobiltà spirituale, di serenità, e di calma.
Ma, dietro a quella mitezza e a quella serena calma, si celava una volontà di ferro: la volontà che nel corso della sua non lunga vita (era nato, da una famiglia povera, nel villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nel 1542, morì nel convento di Ubeda, in Andalusia, mentre i confratelli gli leggevano brani del Cantico dei Cantici, il 13 dicembre del 1591), gli consentì di lottare con tutte le sue forze per la riforma dell’ordine del Carmelo a cui apparteneva (in questo vicinissimo a Santa Teresa d’Avila, che aveva incontrato nel 1567 e procedeva in questa stessa linea, fondando conventi «teresiani» dal Nord al Sud della Spagna); gli dette il coraggio e la pazienza di sopportare le contestazioni e le umiliazioni dei carmelitani che rimanevano calzati e vedevano come perturbatori della conservazione gli scalzi, e per circa un anno un duro carcere; la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun motivo all’idea che la vera riforma della Chiesa non andava impiantata sulla ortodossia del pensiero e della dottrina, bensì cercata e risolta nel cuore dell’uomo addormentato in una fede affievolita, o spenta.
Le sue poesie, fortemente improntate dal Cantico dei Cantici, il libro amoroso e mistico per eccellenza, descrivono l’Amore: il dolore insopportabile che si prova per la lontananza o l’assenza di chi è amato e si nasconde; lo sgomento della solitudine; i misteriosi tocchi d’amore che, per sua volontà imperscrutabile, l’amato concede improvvisamente a chi ama e invece si sente abbandonato e ferito, come prigioniero nel ventre di una bestia, e poi improvvisamente vede un lampo che, però, di nuovo lo acceca e lo ferisce, dal momento che è un lampo, e scompare; infine, le dolcezze sublimi dell’unione, ineffabili, paragonabili con molta approssimazione a un naufragio di una luce piccola in una luce immensa, di un suono in una musica silente. Sono poesie meravigliose. A chi lo interrogava su quale fosse l’origine di questi versi così ricchi e belli, rispose: «A volte era Dio a darmeli, a volte ero io a cercarmeli». Li cercava - come fa ogni poeta, ogni scrittore, ogni artista nel buio più assoluto: vera condizione, imprescindibile, per la creazione.
È lo stesso buio, la tenebra, che è al centro dei suoi Commentari - la Salita al Monte Carmelo, la Notte Oscura, il Cantico Spirituale, la Fiamma d’amore: vale a dire, i lunghi commenti che seguono le Canzoni, nei quali, appunto, si specchiano il verso e la prosa, i percorsi niente affatto dissimili del poeta e dell’uomo che insegue Dio e da Dio è inseguito - perché tutto, tutto comincia da lì. Comincia dal buio che l’anima sente nella mancanza d’amore, e lì finisce: nella tenebra che Dio impone all’anima per poterla accogliere nuda, smarrita nel buio, dentro di Sé.
Nessuno, mai, è riuscito a raccontare questo cammino dalla tenebra alla tenebra, e dalla tenebra alla luce, come ha fatto Juan de la Cruz. Nessuno, mai, ha tracciato una salita tanto ardua, priva di ogni consolazione, comprese quelle ultraterrene. Nessuno, mai, ha concepito per l’anima un abisso così profondo. La Sposa è già in una notte oscura, eppure è infiammata d’amore: un amore che non riesce a definire e la sovrasta, e che forse, in una sua precedente visita, le ha regalato lo Sposo. Quindi, esce dalla sua casa addormentata, esce dalla prigione dei sensi, e va a cercarlo. Ma, per trovarlo, deve andare dove lui si è nascosto e dove, dunque, deve lei stessa nascondersi; deve ridursi a una tenebra ancora più oscura: e spogliarsi, annullare ogni conoscenza terrena, ogni conoscenza dell’intelletto, ogni tentazione della memoria, ogni folle presunzione della fantasia; deve annichilirsi nel corpo e nello spirito come, nel Getsemani e sulla Croce, fece Gesù.
«Per giungere a ciò che non sai» , scrive Juan de la Cruz nella Salita al Monte Carmelo, «devi passare per dove non sai; per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove non hai niente; per giungere a dove non sei, devi passareper dove ora non sei; per giungere interamente al tutto, devi rinnegarti totalmente in tutto» .
L’anima, insomma, deve conoscere Dio attraverso ciò che Egli non è, piuttosto che attraverso ciò che è; deve farsi arida e vuota come il deserto (deve andare nel deserto in cui andò Gesù); deve sentirsi tradita, abbandonata, morta, sola. Ma ecco che in quel momento, quando penserà di essere infinitamente lontana da Dio, sentirà un «tocco amoroso» che la sconvolge, una voce forte e dolce che la chiama, e capirà che mai più di quel momento è stata vicina a Dio: che non è fuggito, è in lei tutto nascosto, e la sta chiamando.
Come è possibile questo amore? Come è possibile amare chi non si conosce? Come è possibile, nel buio, questo amore del buio? Come è possibile che io vada a cercarti - dice la Sposa allo Sposo - se «quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore e quello che non riesco a comprendere mi uccide?». È possibile - le risponde lo Sposo - perché io non ti ho abbandonata mai, io ti amata da sempre, prima che tu lo sapessi, e ti amerò per sempre. La Sposa trema, incredula, a queste rivelazioni che di colpo squarciano la tenebra fitta, e balbetta d’amore, non sa che dire. Allora, l’Amato le infonde nel cuore una immensa, pacifica e amorosa certezza: il calore che non si consuma mai della fiamma. E l’anima brucia e non si consuma in quella fiamma. È rapita e si perde in quella pacificante luce. E - come accade nel Fedro, e alla fine del Verbo degli uccelli, il poema mistico medievale del persiano Attar, come accade in ogni amore vero - la bellezza dell’Amata e dell’Amato si specchiano e si confondono.
* San Juan de la Cruz o Giovanni della Croce nacque in Spagna nel 1542 e morì nel 1591. Fondatore dei Carmelitani Scalzi, fu beatificato nel 1675 e canonizzato nel 1726. Il volume contenente Tutte le opere di Juan de la Cruz, con testo spagnolo a fronte, è curato da Luigi Bracco (Bompiani, pagine CXCVIII-2330, € 45) e fa parte della collana «Il pensiero occidentale» , diretta da Giovanni Reale.