L’ansia di sapere chi siamo davvero
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 19.01.2007)
Eugenio Scalfari, sull’“Espresso” del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all’indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all’interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall’enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell’unica religione (“una religio in varietate rituum”).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all’appartenenza di genere e all’orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l’identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all’altra?
Io vedo nell’abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha “confinato” popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di “tolleranza”, su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell’appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che “costruire un’identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia”, perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un’identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non “appiattirsi sul presente” che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari “senza storia” finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un’ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: “Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene”. Appiattimento sull’assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un’incognita, quando non come una minaccia.
La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l’identità di ciascuno nella sua “funzionalità” all’interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l’identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all’interno dell’apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all’interno dell’apparato ciascuno svolge?
Nell’assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall’idea di “progresso” che porta in sé quel tratto “qualitativo” tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di “sviluppo” che segnano un incremento “quantitativo” molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un’idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell’età della tecnica. Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l’uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L’uomo è antiquato).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l’antico messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall’alto della sua biografia: “Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il “sé”, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza”.
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po’ pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: “Diventa ciò che sei”. Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono. “Diventa ciò che sei” potrebbe essere allora il modo di costruire un’identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell’appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d’uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l’economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell’uomo d’oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all’inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: “Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti”.
L’identità è appartenenza
Costruire una identità deprivata dalle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia
di Eugenio Scalfari (l’Espresso, 18.01.2007).
Umberto Galimberti è uno dei pensatori che più mi appassionano per la profondità delle sue osservazioni filosofiche, psicologiche, sociali e anche per la nitidezza e semplicità della sua scrittura e del suo eloquio. Per questo da molti anni gli sono amico e consento quasi sempre con le sue tesi.
Su ’Repubblica’ del 28 dicembre ho trovato una sua breve scheda a proposito dei mutamenti dell’identità che sono già in corso e ancor più lo saranno nei prossimi anni e decenni, via via che verranno meno le ’appartenenze’ sulle quali da secoli e anzi da millenni l’identità della nostra specie e degli individui che la compongono è stata costruita.
Il tema è dunque quello dell’identità e dell’appartenenza, finora strettissimamente connesse tra loro. Ma se le appartenenze si indeboliscono fino a scomparire del tutto in un futuro più o meno prossimo, che fine farà l’identità? Ne avremo ancora una riconoscibile da noi stessi e dagli altri? Dove si specchierà quell’identità nuova priva di specchi nei quali cercare conferma del nostro esistere come soggetti? Con quali strumenti riusciremo a costruirla in assenza delle appartenenze?
Cedo ora a lui la parola perché renda ancor più evidente e attuale la dimensione del problema che ha posto. "Ogni volta che rivendichiamo la nostra identità dimentichiamo che questa è decisa quasi totalmente dalle nostre appartenenze: religiosa innanzitutto (essere cristiani invece che musulmani, ebrei, buddisti, eccetera), culturale (essere nati e cresciuti in Occidente piuttosto che altrove), ideologica (essere di destra o di sinistra o qualunquisti), famigliare (a seconda si abbia o non si abbia una famiglia nobile, borghese, proletaria), di genere (maschio, femmina, transgender), di orientamento sessuale (etero, omo, bisex). Di qui il problema: che ne è della mia identità oggi che i contorni delle diverse appartenenze si smarginano, i confini dei diversi territori diventano permeabili, le leggi allargano le loro maglie per ospitare il più possibile tutta la gente e per garantire a ciascuno l’esercizio della propria libertà?".
Galimberti non è affatto spaventato da questa prospettiva, anzi ci vede "una grande occasione" perché nasca un’identità vera, senza la comoda protezione dell’appartenenza e quindi un ’essere-sé-stessi’ senza che nessun dispositivo religioso culturale giuridico possa definirci. Naturalmente non sarà un processo semplice né lineare. Susciterà (sta già suscitando) incertezze e paure, procederà a scossoni, darà luogo a crisi, scontri, azioni e reazioni, ma andrà avanti perché il mondo ha abbattuto i suoi tramezzi e i muri maestri che separavano culture, costumi, persone; la tecnologia ha reso possibile l’unificazione del pianeta.
E conclude: "L’assenza di confini offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, de-situa e così scongiura quella fittizia identità che è data esclusivamente dalle nostre appartenenze". Che ci vanno sempre più strette (la chiosa è mia).
Una descrizione di quanto sta accadendo intorno a noi (e anche dentro di noi) impeccabile e una conclusione fiduciosa com’è nel carattere dell’amico Galimberti. Che però questa volta non mi convince del tutto e lascia comunque aperte molte domande. Provo a formularne qualcuna.
È vero, le appartenenze plasmano l’identità e inevitabilmente costringono la libertà individuale entro limiti prefabbricati. Prefabbricati da chi? Dai ’tempora’ e dai ’mores’. Cioè dalle generazioni che sono alle nostre spalle, le quali a loro volta sono cresciute sulle spalle di quanti le precedettero. Insomma dalla storia. Dovremmo dunque cancellare la storia e la memoria? In gran parte la rimozione del passato sta avvenendo, ma è un fenomeno positivo per la ricchezza dell’umanesimo? Poiché credo di conoscere abbastanza bene Galimberti non penso che giudichi positivamente l’appiattimento sul presente delle nuove generazioni. Ma l’annullamento delle appartenenze porta a questo, lo si voglia o no.
Seconda osservazione. Per costruire un’identità fondata sull’’essere-sé-stessi’ bisogna conoscere, appunto, sé stessi, vecchia raccomandazione dei filosofi da Socrate in poi. Ma è possibile conoscere sé stessi?
Personalmente sono stato anch’io per lungo tempo fautore di questa massima e per quanto possibile ho cercato di applicarmela. Ma col passare degli anni credo d’essere arrivato alla conclusione che conoscere sé stessi sia pressoché impossibile. Se è permesso utilizzare il vecchio lessico kantiano, è impossibile conoscere la ’cosa in sé’ da parte di osservatori esterni. Ma - penso io - è altresì impossibile che la cosa in sé si conosca. La cosa in sé, cioè l’essenza della cosa e nel caso nostro il mio ’sé’ non è conoscibile, non è oggettivabile. Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente ha capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il ’sé’, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza.
Non ho bisogno di spiegare questi processi a Galimberti che ne è maestro. Ma lo invito a riflettere sul fatto che costruire un’identità de-privata dalle sue appartenenze, si fondi principalmente sull’ ’essere-sé-stessi’ , quando si sa che conoscere sé stessi è impossibile, equivale a costruire sulla sabbia. Naturalmente ci sono geni creatori, artisti, conquistatori, che appartengono solo a sé stessi e alle loro passioni. Ma una società non è fatta di geni, sarebbe una galera anzi un inferno. Caro Umberto, dopo un lungo periodo di fatiche mentali la cui meta è stata di risolvere la conoscenza della cosa in sé, sono arrivato alla conclusione che noi siamo costruiti in modo da poter conoscere soltanto i fenomeni. La cosa in sé, per dire l’essenza, è come Dio per i credenti: c’è, ma è inconoscibile fino al momento in cui saremo assunti nel regno dei cieli e contempleremo l’Uno partecipando alla sua essenza.
Tutto è possibile, ma l’identità ci serve qui e ora. Quella del credente è certamente un’identità forte. Non essendo la mia, devo cercarla in altre appartenenze.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’EDIPO.
FILOSOFIA ANTROPOLOGIA PSICOANALISI E RINASCITA:
LA RIPRODUZIONE SOCIALE NELLA CAVERNA E UNA SOLLECITAZIONE A USCIRE DAL CINEMA.
Una nota a margine della "lettura" che del film di Marco Bellocchio ("Rapito") propone Felice Cimatti *
"RAPITO". Una nota a margine della "lettura" che del film di #MarcoBellocchio propone #FeliceCimatti ("Il soggetto e la libertà", "FataMorgana Web", 4 giugno 2023):
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NOTA.
"RAPITO". A meglio comprendere l’interpretazione "dialettica" del film, proposta da Felice Cimatti - “Prima il rapimento, poi la libertà, è questa la strada inusuale e controintuitiva che Bellocchio ci propone di seguire”, - forse, può essere opportuno riascoltare, sul tema della relazione "pedagogica", l’intervista fatta nel 2017 da Chiara Ugolini allo stesso regista:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: "LA MATURITA’ E’ TUTTO"("King Lear", V. 2) ... MA E’ ANCORA DIFFICILE DA RAGGIUNGERE.
Un omaggio a William Shakespeare...
PSICOLOGIA E FILOSOFIA. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991 ).
"CONOSCI TE STESSO" (DELFI): "ECCE HOMO. Come si diviene ciò che si è" (Nietzsche, 1888). Il problema è antico, e il cammino di ogni essereumano è ancora lungo. Per lo più siamo fermi (come umanità) in una fase dello sviluppo segnato dalla minore età, di "giovani" che non hanno imparato a pensare con la propria testa e a camminare con i propri piedi; di esseri umani che vivono ancora come cammelli che viaggiono in un deserto con le loro tavole del "tu devi"; e di molti altri che hanno saputo liberarsi dei pesi, ma vanno in giro in una foresta solo a ruggire come leoni con la potenza del loro "io voglio", ma Nessuno ancora è giunto a venir fuori dal proprio "stato di minorità", a diventare maggiorenne, e a saper dire, con semplicità, "io sono colui che sono": "Ecce Homo" ("Ecco un Essere Umano"). Forse è bene rimettersi in cammino con Dante e Virgilio e uscire dall’orizzonte della caduta e della tragedia.
Federico La Sala
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
La psicoterapia? Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima
Da Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici. Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più profondi e la scoperta del sé
di Andrea Cionci (La Stampa, 12.09.2018)
«I primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica, vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima dell’affermarsi del Cristianesimo.
Pitagora e la tragedia greca
«Sull’esame di sé e la “confessione” delle proprie mancanze - spiega Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta autore del recente “La scoperta di sé” (San Paolo ed.) - nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la “confessione”, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente dell’”esame di coscienza” che il cristiano deve fare prima della confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la propria coscienza e mantenerla integra”.
Le intuizioni di Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità attuale spesso e volentieri conduca ad andare “dove ci porta il cuore” (cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni.
“Ma tu non essere impulsivo” raccomandava Eschilo nel coro de “I Sette contro Tebe”: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che conducesse a un’azione perfettamente libera».
Un sentimento umano
Se l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la coscienza parlando con qualcuno.
Nel Messico antico, i peccatori andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva sottoporre a lavacri o a salassi.
«Il senso di colpa - spiega il neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa - esiste da sempre ed è legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole, infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o danneggiamento che si è procurato all’esterno per “pareggiare i conti” e ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella cosiddetta “televisione verità” con persone che spettacolarizzano senza vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente edificanti».
Le prime confessioni cristiane
Pubbliche erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato. Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni».
All’inizio, lo stato di penitente era molto gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote, il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto «professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento.
Sovrapposizioni
Secondo Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti, intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo cambiamento nella sua vita.
Il parallelo col sacramento cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto con azioni risarcitorie, o con la preghiera.
Vi è infine da ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati.
L’anonimato
Fu il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione vis à vis.
Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione del corpo.
Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari.
Non sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una soluzione tecnica come quella della grata del confessionale tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e comfort emotivo al paziente attraverso il completo anonimato.
Un terreno ricco di spunti
Il grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’ approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un percorso che può essere lungo e difficile.
Ciò che emerge è che i contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?
Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg (Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi, che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la radice biochimica della seduzione del Male?
Tra religione e scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica», sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einstein quando aprì al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa».
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ... *
’My mirror’, nell’era dei selfie specchiarsi nell’altro è rivoluzionario
Esperimento di ’eye contact’, 4 minuti per guardarsi negli occhi altrui
di Redazione ANSA *
Guardarsi foto bowie15 iStock. © Ansa Guarda le foto...
MILANO.
Una doppia cabina, in cui due sconosciuti si siedono uno di fronte l’altro, per 4 minuti, semplicemente per guardarsi negli occhi. Al termine di questa breve interazione, ognuno dei due, assistito da alcuni facilitatori, racconta all’altro le sensazioni che ha provato.
E’ ’My mirror’, un nuovo esperimento di eye contact, organizzato da Caritas Ambrosiana, che sarà possibile sperimentare a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili dal 23 al 25 marzo.
Le tecniche di eye contact - spiegano gli organizzatori - dimostrano che 4 minuti di contatto visivo avvicinano le persone più di tante parole.
Così, con My Mirror si proverà a favorire l’incontro tra tante persone diverse, per genere, età, nazionalità, storie. L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario e comunque non lascia nessuno indifferente
Secondo le stime, in media, ognuno di noi passa 5 anni della propria vita collegato a internet, 11 davanti alla tv. Con quante persone potremmo connetterci se ci prendessimo la briga di guardaci negli occhi gli uni con gli altri? E come cambierebbe la percezione che abbiamo del mondo?
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
My Mirror fa parte della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey” volta a promuovere la “cultura dell’incontro”.
* ANSA, 23 marzo 2018 (ripresa parziale - senza foto).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Umberto Galimberti: il declino della convivenza
La convivenza con sé stessi, è secondo Galimberti quella più difficile: il tempo libero dal lavoro che dovrebbe essere quello da dedicare all’incontro con sé stessi viene dedicato invece alla distrazione, perché la convivenza con se stessi è diventata una cosa difficile. La controprova per esempio è il declino della psicanalisi che fa conoscere sé stessi e oggi nessuno ha il tempo per questo. Forse non siamo nemmeno interessati a sapere chi siamo.
Il problema della convivenza con gli altri invece è oggi condizionato dai fenomeni migratori, per cui dobbiamo imparare a convivere con l’altro da noi, che non è cosa facile. E infine c’è il mondo digitale: i ragazzi oggi non si incontrano più, eppure sono sempre connessi, con una modalità nella quale il corpo sostanzialmente sparisce e la connessione diventa un incremento esponenziale della convivenza: non si convive perché si è connessi.
Convivenza è condivisione di ideali, di modalità di stare al mondo, anche modi di ridere, di scherzare, di lavorare, lo stare insieme è convivenza, mentre attraverso il Web non si sta insieme, ma si comunicano a distanza i propri gusti, le proprie identità, magari anche false.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CONOSCI TE STESSO". "ECCE HOMO. Come si diventa ciò che si è". Una bella e limpida discussione tra U. Galimberti ed E. Scalfari, ma ancora in un orizzonte "pre-copernicano" e "pre-fachinelliano".
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
Il ritorno in libreria del “Labirinto” di Eugenio Scalfari
È in libreria il romanzo Il Labirinto di Eugenio Scalfari (Einaudi Supercoralli, pagg. 214, euro 19). Pubblicato per la prima volta diciotto anni fa, il libro torna in una nuova edizione con un’introduzione di Scalfari stesso, che nelle prime pagine spiega il valore di un simbolo sempre più attuale: «Col passare degli anni - scrive Scalfari - la nostra civiltà è diventata in tutto il mondo più labirintica che mai».
Nel romanzo Scalfari racconta la storia di una famiglia molto numerosa, i Gualdo, guidata da un patriarca eccentrico che si chiama Cortese. I Gualdo vivono in una casa enorme, fatta di tante stanze, corridoi, passaggi e anfratti. Insieme a Cortese, amante delle recite e della teatralità, ci sono il figlio Stefano e il nipote Andrea. Finché un giorno nell’immensa dimora, tra il mare e la campagna, arriva una pittoresca compagnia di girovaghi a portare un vento di cambiamento.
Ma cos’è il labirinto del titolo? Certo non è solo una figura architettonica, ma è il mito che dall’antichità ai nostri giorni è riuscito a descrivere meglio la condizione dell’animo umano.
Scrive Scalfari: «Tutti noi viviamo dentro un labirinto e non c’è filo di Arianna che riesca a farcene uscire, non c’è Teseo che vi riesca, non c’è Dedalo che lo costruisca e non c’è Minotauro che lo abiti». Il labirinto siamo noi, suggerisce Scalfari. Siamo noi con tutte le nostre umanissime e aggrovigliate contraddizioni.
* Repubblica, 06.04.2016
Torna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari
L’uomo perso nel suo eterno labirinto
di Paolo Mauri (la Repubblica, 01.04.2016)
Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo “Il Labirinto”di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent’anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: «prende l’image e fassene suggello». L’immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l’autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal ’94, anno di uscita di “Incontro con io”.
Ma perché scegliere la via del romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l’immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po’ di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.
Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l’esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.
Scalfari tenta dunque una lettura dell’enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall’altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano.
Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l’altro, come narra nel Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l’influsso letterario di un’altra illustre dimora: quella del Gattopardo.
Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com’è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie.
Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell’Io. Del resto, scrive Scalfari nell’introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, «Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice». E molti dei Gualdo erano portati all’introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé.
Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l’autore cerca una risposta. L’ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità.
Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon.
La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l’Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere...
Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia? È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d’altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga.
Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall’altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall’amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c’è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l’umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere. Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo.
Da Arianna a oggi il mito che descrive la nostra condizione
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 01.04.2016)
Un viluppo di corridoi, scalette, ballatoi passaggi, abbaini, cantine, soffitte: ecco la casa dei Gualdo. Da questo incredibile intrico se ne sviluppa però un secondo, ulteriore, fatto stavolta non di ambienti, ma di parentele, ascendenze o discendenze; talmente complesso che nessuno riesce più a raccapezzarcisi, e solo l’Io che narra questa storia ne possiede la chiave. Un simile proliferare di grovigli quasi inevitabilmente conferisce a questo romanzo di Eugenio Scalfari il titolo che porta: Il Labirinto. Così come subito suggerisce al lettore, anche al più distratto, il ricordo di Teseo, di Arianna, del Minotauro e di Dedalo.
Ma per quanto ciò possa sorprendere, l’autore non aveva pensato al mito greco. Ce lo rivela Scalfari stesso, nel saggio premesso a questa seconda edizione del suo romanzo: narrando la storia dell’intricata casa dei Gualdo, il mito del Labirinto cretese non si era affacciato alla sua fantasia.
La memoria di Teseo e del filo di Arianna è emersa in lui solo “dopo”, a cose fatte, quando, a distanza di vent’anni, ha deciso di rileggere la sua opera. Singolare vicenda di letteratura, che potremmo descrivere ricorrendo alla lezione di Umberto Eco: in altre parole, al momento in cui scriveva il proprio romanzo, il mito del Labirinto era rimasto estraneo alla “intenzione dell’autore”; ma evidentemente non era estraneo alle “intenzioni della sua opera”, che conteneva comunque questo ulteriore significato, a prescindere da ogni consapevole scelta.
Il racconto mitico, dice del resto lo stesso Scalfari, non è semplicemente “una favola tramandata dai millenni”, ma “crea e inventa fin dai primordi dell’esistenza”: nessuna meraviglia perciò che sappia ricrearsi anche in nuove narrazioni che di esso sono inconsapevoli. Ma in che cosa consiste, per Scalfari, questo labirinto ritrovato, se possiamo chiamarlo così?
Il Labirinto, spiega l’autore, «è il mito per eccellenza, perché è quello che meglio descrive la condizione umana. Noi siamo tutti in un labirinto dal quale è impossibile uscire». Questa antica figura dà forma simbolica al viluppo delle nostre contraddizioni - provocate dal potere, dall’amore, dal desiderio, dal narcisismo, dalla malinconia - quelle che ci stringono in una rete dalla quale è impossibile districarsi. Unicamente i miseri e gli ebeti restano fuori dai corridoi di questa eterna prigione, per gli altri non c’è scampo. «Solo quando la morte arriva e ti tocca la spalla, il labirinto scompare insieme a te».
Così avviene allorché Stefano Gualdo, uno dei protagonisti del romanzo, lascia la vita convinto che, per vivere la propria morte, bisogna che la sua mente sia vuota d’ogni pensiero; così avviene allorché, dopo un commiato protrattosi per tre giorni, la Regina porta fuori dal labirinto Cortese Gualdo, il patriarca.
Man mano, sotto i nostri occhi il labirinto secondo Scalfari si viene configurando come un cammino intricato che può avere la stessa durata dell’esistenza; un lungo e protratto passaggio - contraddittorio, laborioso - che dal territorio della vita conduce a quello della morte.
A questo punto, però, il mito torna a riaffacciarsi. Stavolta non solo nella memoria dell’autore, ma anche in quella del lettore. Quando Enea si trova di fronte alla porte dell’Ade, ciò che vede scolpito sui battenti è proprio (con le parole di Virgilio) “l’inestricabile errare” nella buia dimora cretese. L’immagine del Labirinto la troviamo dunque raffigurata esattamente sulla soglia che separa il regno dei vivi da quello dei morti - in Virgilio l’intrico delle linee e degli spazi marcava già l’estremo passaggio.
A questo punto possiamo chiederci: questa scelta del poeta romano fu casuale, o c’è qualcosa d’altro? In realtà, già da tempo egittologi e studiosi del vicino oriente hanno messo in luce come, anche in queste civiltà, la figura del labirinto si associ alla soglia che separa la vita dalla morte.
Ma il caso forse più impressionante ci viene dai racconti di Malekula, un’isola della Melanesia: secondo i quali il defunto, per accedere al regno oltremondano, deve districarsi di fronte a un intrico di linee - detto “La via” - che corrisponde a un vero e proprio labirinto. Questa complessa figura geometrica gli viene presentata, tracciata sul suolo, da un’ombra guardiana, che cercherà di metterlo in imbarazzo cancellandone una metà allorché il defunto si sforzerà di venirne a capo: solo una conoscenza completa degli intrichi che compongono “la Via” permetterà al nuovo arrivato di accedere al regno dei morti, altrimenti ne resterà escluso.
Sono molte dunque le tradizioni culturali nelle quali il labirinto si configura come un simbolo del passaggio - laborioso, contraddittorio - dalla vita verso la morte. Il fatto è che, come abbiamo già ricordato con Scalfari, il racconto mitico «crea e inventa fin dai primordi dell’esistenza». E attraverso il gioco del narrare, ieri come oggi, continua creare.
La perdita del centro psichico, così l’Io è diventato liquido
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 13.10.2015)
IL NOSTRO tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l’esasperazione del carattere liquido dell’identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda: «Chi crediamo di essere?». L’identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline .
Mentre l’età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione, Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l’identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell’identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell’Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell’Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo mostrando che la terra non è il centro dell’universo; Darwin il secondo affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell’Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l’Io non sia «padrone nemmeno in casa propria ». L’identità dell’Io non è un centro statico dal quale si irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino servitore di tre padroni: tirato dall’Es, dal Super-Io e dalla realtà esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme Lacan concepirà l’Io non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più grande» dell’uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l’Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide. L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l’elogio filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l’identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell’età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di apertura e di liberazione.
Nondimeno, come il rovescio di una stessa medaglia, questa evaporazione dell’Io innesca - come esito di un movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente - l’esigenza di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature. Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L’Io torna ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in quella degli altri.
Si riabilita così una concezione paranoica dell’identità fondata sull’esistenza, altrettanto solida, dei suoi “nemici” più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il suo centro identitario. Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo la morte di Dio - dopo la perdita irreversibile del “centro” - dove gli uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
SE L’IO CATTIVO ORDINA LA STRAGE
La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo. La passione per le armi, come nel caso di Napoli, è un sintomo che deve allarmare
di Umberto Galimberti (la Repubblica D, n. 941, 30 maggio 2015)
Condivido la diagnosi della neuropsichiatra, che mi pare corretta. Troppo spesso siamo sicuri della nostra identità, e questa sicurezza è tanto più solida quanto più rimossa è l’altra parte di noi stessi.
Il motivo della doppia personalità è presente nel mito, nella letteratura, nei flm, nella psicoanalisi, nell’immaginazione infantile (si pensi al "compagno immaginario" che i bambini inventano per dialogarci nei momenti di solitudine), in un gioco vertiginoso di ombre e specchi.
Come scrive Wendy Doniger in La differenza sdoppiata (Adelphi): «Le mitologie indù e greca abbondano di sdoppiamenti incentrati sull’identità di persone che in vario modo hanno subito una scissione. Queste storie affrontano problemi che interessano molte culture, compresa la nostra: quale risposta dare?». Questa domanda è ripresa da Massimo Fusillo in L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio (Mucchi Editore), secondo il quale: «Si parla di doppio quando l’identità di un personaggio si duplica: uno diventa due. A questo punto sorge l’interrogativo: come si fa a essere ciò che si è?».
È quanto accade per esempio in La prodigiosa storia di Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso (1814), La principessa Brambilla di Ernst Hoffmann (1820-1821), Il sosia di Fëdor Dostoevskij (1846), Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde di Robert Louis Stevenson (1885), Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), La metamorfosi di Franz Kafka (1915). In questi romanzi è in gioco l’identità dell’Io, a proposito del quale Jacques Derrida scrive: «L’Io è sempre in certo qual modo uno pseudonimo», dietro il quale si agitano le più radicali domande su quel labile confine che delimita l’Io e l’altro da sé.
Si tratta di un confine che la psicoanalisi di Freud ha cercato di precisare distinguendo l’Io dall’Es e dal Super-io, mentre la psicologia analitica di Jung in qualche modo vi allude delimitando l’Io quale cerchio minore nel cerchio maggiore del Sé. Sempre in ambito psicoanalitico, lo studio più approfondito su questo tema è stato condotto da Otto Rank (Il doppio, Edizioni SE), per il quale il doppio è l’immagine rimossa di se stessi che, quando appare al soggetto, da un lato genera angoscia fino a incrinare la sicurezza della propria soggettività, dall’altro consente al soggetto di realizzare surrettiziamente i propri desideri più nascosti e rimossi, come il soggetto non oserebbe mai e come la sua coscienza non gli permetterebbe mai di agire. Ma quando la coscienza cala le sue difese, l’altra parte di noi stessi, con cui non facciamo mai i conti e mai ci rapportiamo, irrompe producendosi in gesti che noi tutti conosciamo nei nostri momenti d’ira, devastanti, quando non sono più controllati.
Quanto a coloro che detengono armi o si esercitano nei poligoni di tiro, ovviamente non è escluso che sia sottesa a questa passione, neppure troppo nascosta, la possibilità di uccidere. La stessa che anima i cacciatori che, per il piacer loro, privano noi tutti della gioia di vedere gli uccelli volare nel cielo e non consentono agli animali di abitare quei pochi boschi e foreste risparmiati dalla cementificazione. L’io cattivo, come lei lo chiama, già governa indisturbato l’io buono in molti di noi, e di volta in volta se ne vedono gli effetti devastanti, perché chi si rifornisce di armi o non rispetta la natura che ci circonda ha già di suo una natura governata dalla tentazione omicida. Che prima o poi può esplodere. La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo.
Senza metamorfosi non c’è identità
I miti classici raccolti da Ovidio nel suo poema c’insegnano come sia illusorio pensare di conservare le proprie radici Elevando barriere che cimettano al riparo dal mutamento
di Umberto Curi (Corriere della Sera - La Lettura, 01.06.2014)
Come si diventa ciò che si è? In un mondo quale è il nostro, la risposta abituale sembra essere intuitiva. Poiché tutto intorno a noi cambia incessantemente, e con ritmo crescente, l’unica strada per tutelarci consiste nel preservare la nostra identità, mettendola al riparo da ogni mutamento. Si spiegano così alcuni fenomeni, altrimenti incomprensibili, legati alla riproposizione di slogan, modelli di comportamento, stili di vita attinti alla tradizione. E si spiega così anche la fortuna di alcuni movimenti politici, in Italia e in Europa, la cui ragion d’essere principale è una diffusa paura del nuovo e del diverso. Assai più che in passato, al giorno d’oggi la prospettiva del cambiamento, l’idea stessa della metamorfosi, suscita reazioni contrastanti, per lo più ispirate al rifiuto e alla rimozione.
In tale contesto, la nuova edizione Rizzoli delle Metamorfosi di Ovidio, con la traduzione interessante e «spericolata» di Vittorio Sermonti, sembra procedere in controtendenza. Tanto più perché il poema si presenta come una grandiosa raccolta di miti antichi: «racconti» considerati poco adatti all’esigenza dell’uomo contemporaneo, perché frutto di immaginazione e dunque privi di ogni attendibilità.
In effetti, pochi altri temi sembrano differenziare il moderno dall’antico, come l’atteggiamento verso il mito. Perfino sotto il profilo linguistico, la tendenza rimasta a lungo prevalente è quella di contrapporre mythos e logos , come espressioni rispettivamente di una narrazione fittizia, e perciò anche «irrazionale», e di un ragionamento rigorosamente logico. Curioso è notare lo scarso, o nullo, fondamento filologico di una distinzione così assiomatica.
Fra Omero e Platone, e dunque per quasi 5 secoli, i termini impiegati per indicare la «parola» sono ben nove, ciascuno con una specifica sfumatura di significato. Fra essi, a differenza di ciò che abitualmente si pensa, mythos è la parola vera e autoritativa, quella che indica il reale, l’oggettivo, mentre logos (da leghein : scegliere, raccogliere) è la parola ponderata, usata per convincere. Come è confermato dal fatto che nei poemi omerici le parole usate da Ulisse, idonee a ingannare, sono dette logoi , mentre le parole pronunciate da Priamo, circondate dall’autorità del re, sono mythoi .
D’altra parte, già a partire da Aristotele, polemico verso il ricorso al mito nei dialoghi platonici, il significato originario è stato rovesciato, e si è perciò presentata la nascita della filosofia come un graduale affrancamento della luce della razionalità dalle oscurità indecifrabili del mito. È stato necessario un lungo e accidentato percorso, avviato con gli scritti di Francesco Bacone e di Giambattista Vico, perché si sviluppasse una vera e propria scienza del mito, capace di valorizzare adeguatamente il significato delle fabulae antiche.
Si è così chiarito che, anziché essere considerato come testimonianza fossile dell’infanzia dell’umanità, o indizio di primitivismo culturale, il mito doveva essere interpretato come un «testo» pregnante e complesso, per la cui appropriata comprensione s’impone un approccio multidisciplinare. Come ha sottolineato Marcel Detienne, uno dei maggiori studiosi del mito, si dovrebbe ormai mettere tra parentesi l’idea del mito come genere letterario o racconto fantastico, e scoprire «la varietà delle produzioni affidate alla memoria: proverbi, racconti, genealogie, cosmogonie, epopee, canti d’amore o di guerra».
Il più ricco repertorio di miti antichi in lingua latina è costituito dai 15 libri delle Metamorfosi di Ovidio, la cui composizione risale ai primi anni dell’era volgare, mentre per trovare un corrispettivo in lingua greca è d’obbligo riferirsi all’opera convenzionalmente intitolata Biblioteca , della quale, oltre al nome dell’autore, si ignora anche la data di stesura. Ma, mentre nell’opera greca è più evidente l’intento classificatorio, il poema latino si segnala non solo come capolavoro poetico, non abbastanza valorizzato, ma anche come testo di grande e inesplorato rilievo filosofico.
Al centro dell’opera ovidiana è la nozione che compare nel titolo, non casualmente lasciata in greco dal poeta di Sulmona. Infatti, morphé non è la forma in senso latino. È, invece, ciò che appare , quello che si offre alla visione. In quanto tale, la morphé si distingue dalla sostanza: ne rappresenta una delle possibili manifestazioni, uno fra i modi in cui essa può rendersi visibile.
Si comprende, allora, per quali ragioni, ricondotta al suo etymon (e dunque a ciò che è «vero» di un termine), la meta-morphosis non indichi affatto un mutamento sostanziale, ma alluda piuttosto ad un cambiamento nel modo di apparire.
Così, nel poema di Ovidio, ciò che i personaggi descritti diventano attraverso la metamorfosi non è in contraddizione, ma in continuità, con la loro natura , nel senso specifico che ciò che essi sono per nascita può manifestarsi in un modo o nell’altro, senza che questa transizione implichi un mutamento di identità.
Da questo punto di vista, il concetto stesso di metamorfosi, mentre sottolinea il cambiamento della morphé , presuppone la conservazione di una identità che si manifesta appunto in maniera morfo-logicamente differente.
Questa dialettica di alius e idem emerge per esempio nella prima metamorfosi descritta da Ovidio, quella del re dell’Arcadia, uccisore degli ospiti, introdotto come notus feritate Lycaon. La duplicità di espressioni con cui può manifestarsi la natura del personaggio è già implicita nella definizione con la quale egli è subito presentato, dove la feritas può appunto esprimersi come ferocia dell’uomo, ma al tempo stesso come carattere latentemente ferino, reso manifesto dal processo metamorfico. Nella trasformazione di Licaone in lupo (che sotto il profilo linguistico si presenta come passaggio da Lykaon a lykos ), il carattere della ferocia costituisce il ponte fra l’uomo e l’animale. Licaone non si trasforma in lupo. Egli è già lupo (almeno nel nome) e la metamorfosi non fa che restituirgli un aspetto con-forme alla sua genuina natura.
Un ragionamento simile si può fare anche per un altro grande mito raccontato nel poema, al quale si richiama lo stesso Sermonti nella breve introduzione. Attraverso la metamorfosi, tanto Narciso quanto Eco diventano ciò che già sono: riflesso visivo il primo, risonanza acustica la seconda. Le loro definitive trasformazioni, rispettivamente in un delicato fiore acquatico e in una roccia capace di rimandare il suono di una voce, suggellano un processo in cui il mutamento di forma è funzionale alla conquista della propria vera identità.
In questa affascinante rappresentazione delle forme in movimento, un punto centrale dovrebbe essere inteso ancor oggi come un monito. Per essere compiutamente se stessi, è vitale e insostituibile il rapporto, in qualunque modo declinato, con l’altro da sé. Senza metamorfosi, nessuna identità.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 settembre 2013)
Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).
Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti.
È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore.
La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4).
Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio.
Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi.
Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.
Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva.
Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti.
Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.
Materiale sul tema:
Quel che resta del sacro
Il cristianesimo, l’etica e l’Occidente
Secondo il saggio di Galimberti sarebbe “una religione dal cielo vuoto”
Così Mancuso discute questa tesi, tra punti di vista comuni e idee divergenti
di Vito Mancuso (la Repubblica, 15.11.2012)
A chi prega ogni giorno «Padre nostro che sei nei cieli» non fa probabilmente piacere veder qualificata la propria fede come «la religione dal cielo vuoto», secondo quanto recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Umberto Galimberti appena uscito da Feltrinelli. Consapevole dell’affondo, l’autore avverte di non aver voluto essere «provocatorio e nemmeno offensivo», ma non per questo rinuncia a ribadire: «E tuttavia il cielo del cristianesimo è vuoto».
Il libro di Galimberti è ampio, sinuoso, profondo, apre e chiude scenari con magistrale disinvoltura. Il credente che lo legge può affogare, ma può anche imparare a nuotare tra pericolose correnti. Tra le questioni sollevate vi è quella del senso, se cioè questa categoria non sia solo un traballante rifugio della mente, vi è la connessione tra l’Occidente e la sua religione («l’Occidente di cristiano non ha solo le radici, ma il tronco, i rami, le foglie, i frutti, tutto è cristiano in Occidente»), vi è l’immancabile trattazione della tecnica e della psiche, la figura della fede filosofica e molte altre cose. Ma la questione decisiva è il cielo vuoto del cristianesimo. Ovvero il cielo vuoto dell’Occidente.
Per Galimberti ciò dipende dal fatto che il cristianesimo ha eliminato dal concetto di Dio la pienezza della vita. La vita infatti è bene + male, giustizia + ingiustizia, mentre il Dio cristiano è solo bene e solo giustizia, quindi strutturalmente incapace di rispecchiare la straboccante totalità della vita. Liberando Dio dalla responsabilità del male, il cristianesimo l’ha impoverito rendendolo incapace di abbracciare il tutto, così che, a differenza degli Dei greci e dell’Islam, il cristianesimo è rimasto privo della dimensione del sacro. Il sacro infatti non conosce distinzione tra bene e male, ma veicola una dimensione di fascino e insieme di terrore, in un’originaria ambiguità che rispecchia alla perfezione l’ambiguità della vita (il latino sacer significa al contempo “sacro” ed “esecrato”). Privo di sacralità, ridotto a etica, il cristianesimo non è più in grado di riempire il cielo della storia, che quindi, per l’Occidente, risulta vuoto.
Tale analisi di Galimberti riprende e riattualizza la critica teologica di Nietzsche al cristianesimo. A differenza infatti dell’ateismo antropocentrico di Marx o di Freud, l’anticristianesimo di Nietzsche si nutre di vigorosa teologia greca e accusa il cristianesimo di aver prodotto «la castrazione contronatura di Dio in un Dio soltanto del bene». Per Nietzsche però «si ha bisogno tanto del Dio cattivo quanto di quello buono», perché «che importerebbe un Dio che non conoscesse né ira, né vendetta, né invidia, né scherno, né astuzia, né azioni violente... un Dio simile non lo si comprenderebbe, a quale scopo dovremmo averlo?». Le analisi di Galimberti sul sacro sono variazioni di questo motivo fondamentale elaborato da Nietzsche per ristabilire il primato naturale della forza contro il primato innaturale dell’etica, un’operazione per la quale il filosofo tedesco riteneva di dover combattere fino alla morte il cristianesimo.
Ma Galimberti, lui, come giudica l’operazione cristiana che toglie il sacro originario dall’ambiguità etica per porre il primato del bene e della luce? Al lettore non è dato sapere, perché l’ambiguità avvolge anche Galimberti, che da un lato connota negativamente la desacralizzazione cristiana: «Smarrite le tracce del sacro, attenuata con l’incarnazione la trascendenza di Dio, il cristianesimo si è ridotto ad agenzia etica»; dall’altro lato giudica il messaggio cristiano più positivamente attribuendo la responsabilità della crisi non all’idea di Dio come bene ma alla teologia basata sulla metafisica greca: «Il cristianesimo ha costruito la sua teologia non sul messaggio di Cristo, ma sulla logica e la metafisica platonico-aristotelica, che nel suo crollo ha trascinato con sé anche il Dio cristiano».
Io penso che la tesi di Galimberti secondo cui «il cristianesimo ha desacralizzato il sacro, sopprimendo la sua ambivalenza e assegnando tutto il bene a Dio e tutto il male al suo avversario » sia fondata: nel cristianesimo l’ambiguità originaria del sacro viene meno, l’immagine di Dio portata da Gesù rende impossibile un Dio dell’ira e della vendetta. L’incarnazione quale centro del cristianesimo infatti va speculativamente compresa nel senso che il valore assoluto spettante alla divinità si estende all’umanità: il sacro cioè non è più il tempio o la legge, ma si trova nei volti concreti degli esseri umani, e per questo il Nuovo Testamento giunge a dire che non si può amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede.
Nietzsche quindi ha ragione nell’attribuire a Gesù l’identificazione di Dio soltanto col bene, solo che non si tratta di una “castrazione contronatura”, ma di un’acquisizione teologica decisiva, su cui si fonda l’etica dell’Occidente, soprattutto dopo la sconfitta del mostro nazifascista inebriato dalla sacralità della forza e della volontà di potenza proclamata da Nietzsche. Né si tratta, come vuole Galimberti, del “germe dell’ateismo”, ma piuttosto dell’inaugurazione di un nuovo modo di pensare Dio, non più all’insegna del teismo, ma di un altro modello concettuale vicino alla mistica dell’unità, il panenteismo.
Naturalmente si è trattato di un processo lungo, incoerente (tutti sanno che il cristianesimo ha ampiamente conosciuto la violenza) e ancora in corso. Ma a seguito del Vaticano II, che ha accettato la libertà religiosa e quindi il primato della coscienza, l’acquisizione che l’unica cosa sacra è la vita libera degli esseri umani è ormai irreversibile. Oggi quindi esistono le premesse perché si compia la rivoluzione teologica di Gesù (dal teismo al panenteismo) e appaia chiaro che la più alta dimensione del sacro è l’uomo vivente immagine di Dio.
Il cristianesimo è giovane, ha appena duemila anni, e forse solo adesso, sempre più libero dagli interessi del potere grazie alla secolarizzazione, sta iniziando a confrontarsi seriamente con le diversità del mondo.
Forse l’avrebbe avvertito anche Galimberti se, invece di prestare tanta attenzione alle analisi di Baget Bozzo colme di invidia verso la forza politica dell’Islam e tese a suscitare ostilità verso questa grande religione mondiale, si fosse occupato anche delle dinamiche mondiali del cristianesimo, mentre non nomina autori come Bonhoeffer, Florenskij, Teilhard de Chardin, Schweitzer, Rahner, Tillich, Panikkar, Küng e movimenti come la teologia della liberazione, né dice una parola su profeti come Romero, Camara, Bello, Martini. Un po’ strano per un libro che si intitola Cristianesimo.
In realtà assistiamo oggi nel mondo a una profonda trasformazione del concetto di sacro, che non intende avere più nulla a che fare con la concezione primitiva e maschilista del culto della forza e dell’arbitrio, compreso il Dio del teismo e dell’onnipotenza di alcune pagine bibliche.
Oggi a risultare sacra per la coscienza è la lealtà della relazione, l’armonia che va costantemente ricercata e costruita, il volto umano di ogni razza o colore, con la profonda trasformazione del concetto di religione che questo porta con sé. Peccato però che gli uomini di Chiesa in grado di cogliere questa dinamica siano rari, mentre i più, e in questo Galimberti ha ragione, si occupano di argomenti «che ogni società civile può affrontare e risolvere da sé» e lasciano i singoli a «vedersela da soli con l’abisso della propria follia».
Galimberti conclude il suo libro chiedendosi: «È ancora in grado l’Occidente, e il cristianesimo che è la sua anima, di varcare le porte del nulla?». Quanto all’Occidente io non lo so, ma so che il cielo interiore dell’anima umana non sarà mai vuoto fino a quando vi sarà chi, all’ideologia della forza, preferisce il nobile ideale del bene e della giustizia. E so che il cristianesimo può ancora alimentare molte energie in questa direzione.
LA CHIESA, IL CELIBATO DEI PRETI (UN "CHARISMA", NON UNA LEGGE!!!), E LA PEDOFILIA.
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 23 marzo 2010)
Tagliandosi i genitali, Origene ha indubbiamente trovato il modo più semplice per dominare le passioni e raggiungere quell’ideale ascetico di cui parla il Vangelo di Matteo (19,12) a proposito di «coloro che si sono fatti eunuchi in vista del Regno dei cieli». Forse non è necessario arrivare a questi estremi. I Padri della Chiesa avvertono che «la castrazione non basta a garantire all’uomo il regno della purezza. Solo la mutilazione spirituale predicata da Gesù Cristo ci riesce».
Ma è poi vero? O sempre di mutilazione si tratta. A sentire Freud, che naturalmente non è né il Vangelo né la Bibbia, la nostra vita è contesa tra la pulsione di vita e la pulsione di morte. E l’Eros, contrapposto a Thanatos (o pulsione di morte), fa parte delle pulsioni di vita, per cui la sessualità repressa può essere alla base di numerose patologie. Lo spazio inibito al principio di piacere, che tanto ruolo svolge nella costruzione di sé, viene occupato non dal principio di realtà (che consiste nel raggiungere la soddisfazione non immediatamente, ma attraverso un «lavoro»), ma, come dice Freud, da una sorta di «anestesia psichica» caratterizzata da indifferenza, da distacco, quando non da sentimenti di odio, di disprezzo, di cattiveria, di aggressività, e nei casi più gravi da somatizzazioni.
Queste cose Freud non le dice solo a proposito della religione in quel suo saggio che porta il titolo Avvenire di un’illusione (1927), ma le aveva già anticipate in un suo scritto del 1908: La morale sessuale civile e il nervosismo moderno, dove, precorrendo i nostri tempi, riteneva che la ricaduta della morale cristiana sull’organizzazione della nostra società provocasse un’eccessiva repressione delle pulsioni, per ottenere una maggior efficienza nell’ambito lavorativo, con incremento dei fattori d’ansia e di nervosismo che oggi plachiamo con un ricorso sempre più massiccio agli psicofarmaci.
Le analisi di Freud non hanno trovato finora disconferme. Ma a queste sue considerazioni possiamo aggiungerne altre meno fisiche, meno corporee, meno pulsionali, meno erotiche, meno inconsce, in qualche modo più in linea con la cultura «spirituale» del cristianesimo da cui tutti siamo stati formati, e quindi più persuasive. Lo scenario è dischiuso da parole come empatia, confidenza, reciprocità, apertura, comprensione dell’alterità, dove l’altro, il radicalmente altro, per l’uomo è la donna e per la donna è l’uomo.
Ciascuno di noi, infatti, ha dentro di sé una controparte sessuale che per l’uomo è la sua femminilità e per la donna la sua maschilità. L’uomo è «rotondo», come dice Platone nel Simposio, quando integra nella sua vita l’altra parte di sé. E questo non lo può fare se non attraverso la mediazione di una donna in carne e ossa o di un uomo in carne e ossa. E questo a prescindere da qualsiasi relazione sessuale. Ora mi domando i celibi come possono diventare «rotondi» cioè completi e ben integrati nella loro composizione psichica senza relazione con l’altra parte di sé?
A differenza della cultura greca che conosceva solo l’anima e il corpo, il cristianesimo introduce una terza dimensione che chiama «spirito (pneuma)». San Paolo dice che risorgeremo non con l’anima, come comunemente si crede, ma con un «corpo spirituale (soma pneumatikos)». Ma come si perviene allo spirito se l’anima, la psiche, è deficitaria, carente, non costruita, per mancata integrazione della propria controparte sessuale, e quindi «nevrotica».
La nevrosi è un conflitto tra pulsioni sessuali e aggressive da un lato e regole di contenimento dall’altro. Ma, se invece del contenimento, subentra la soppressione del mondo pulsionale, allora abbiamo una mutilazione della personalità, dovuta prima che alla negazione delle esigenze del corpo, che pure ha il suo effetto, alla negazione delle espressioni dell’anima per carenze affettive ed emotive, che le neuroscienze oggi ci dicono incidere anche sui processi razionali e sulle capacità critiche e di giudizio che concorrono al controllo delle pulsioni, al punto che, in assenza di dette capacità, le pulsioni diventano impulsi incontrollati e perversi.
Lo «spirito» non si costruisce sulla mutilazione dell’«anima». E l’anima non trova la sua completezza senza l’interazione col mondo femminile per i maschi e col mondo maschile per le donne. Perché così vuole la natura e forse anche il comandamento di Dio, là dove nel Genesi (2,18) si legge: «Non è bene che l’uomo sia solo».
La solitudine dei sacerdoti e delle monache non può essere compensata dalla comunità a cui sacerdoti e monache si dedicano o in cui vivono, perché l’anima si forma e si costruisce nel «rapporto duale», in cui l’ascolto e la parola dell’altro sono fattori essenziali per la formazione di quelle figure psichiche che si chiamano: confidenza, empatia, reciprocità, flessibilità del giudizio, comprensione.
Se riconosciamo che queste componenti d’anima sono assolutamente necessarie a chi, in nome di Dio, dedica la sua vita alla cura del prossimo, dobbiamo anche sapere che a suggerire le parole, che non siano solamente recitate, ma che per davvero incidono nei percorsi di vita, è solo un amore che si è per esperienza conosciuto, perché, come scrive il teologo ortodosso Christos Yannaras: «Se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui». E tutto questo prima e a prescindere dallo scatenamento delle pulsioni, che non educate e condivise, non hanno modo di esprimersi se non in modo perverso.
Ecce Homo...Ecco l’Uomo; disse Pilato.
Quell’Uomo rifiuto’ il pane, offertogli da satana e condanno’ anche la; mondana filosofia. "Non si vive solo di pane"; ne’ di solo filosofia. Comunque; il clero continua ad insegnarla...sapendo o non sapendo che e’ in conflitto con cio’ che la Sacra Scrittura dice...perche’? e perche’ immischiarla; e’ forse per fare una piu’ bella figura ed apparire colti e teocratici. Ragione-religine, si, si devono ricononoscersi l’una l’altra ma; immischire pure la filosofia e’ un condimento che non condisce, per il beneficio di un migliore sapore; al contrario gli da’ un differente test amaro e non piacevole al palato...almeno per chi vuole dimostrare chi siamo e che siamo diventati ( e cio’ che si e’)!!!.
La filosofia, dovrebbe; essa stessa essere riformata...che sia piu’ umanitaria, piu’ comprensibile usarla solo per aiutare ad arrivare a ragionare molto meglio ed arrivare ad una conclusione basata sulla vera conoscenza della verita’ delle leggi Supreme, evitando il sentimentalismo e la sufficenza della maggioranza; o; di quello che le persone, in generale fanno e praticano; riguardo ad un soggetto, o in un modo di fare certe cose!!!.
Oltre a Kant c’e’ ben altro; ci puo’ essere; una terza prospettiva, che; pur intuendo di cosa comporta... deliberatamente nella maggioranza dei casi ; non vogliono metterla in pratica...come alternativa sconosciuta alla maggioranza dell’uomo comune e anche a quelli intellettuali e colti; nella o con la filosofia mondana. (Quando un Italiano non sa una cosa, la insegna)!!!
Anche in questo ventunesimo secolo; fra dieci filosofi vi possono essere piu’ di dieci idee...imitando cosi’ il detto che; anche fra i Giudei; dove sono dieci a conversare e dibattere vi sono piu’ di dieci opinioni, fra di loro.
Deliberatamente, molti non si costruiscono una vera biografia; mostrandosi d’essere differenti che; nella maggioranza dei casi comporta praticare il (Penziero debole) ma che; a lunga distanza prova d’essere il migliore penziero!.
Sento, dentro di me; il dover di tentare di fare la prova; cosi’ che; in questo affare di parole; le mie piu’ ricordate, per ultimo; cercando e insistendo nel provare che la filosofia; dovrebbe essere riformata. Per esempio, nel caso dell’eutanasia...caso che; dovrebbe essere basato sulla nostra coscienza; dovremmo lascare che; ci ditta quale via sia migliore e quando sia necessaria...al contrario se; la coscienza diventa dittatoriale allora la nostra mente ragiona a senzo unico...usando la scusa dell’antitesi; paragonando e mettendo nella stessa categoria gli aborti con l’uso dell’eutanasia di Welby e di Eluana.
Anche qui la filosofia fa’ fiasco ragionando che questa vita e tutto quello che c’e’! altri invece la pensano al contrario facendo prolungare l’agonia compiendo sforzi disperati...prolungando la vita fino agli ultimi sgoccioli. Filosofia secolare-tecnologie mediche...si; ragionevoli da chi vuole essere quello che vuoi essere ma; non quello che sarebbe essere il migliore di te stesso, seguendo l’esempio del nostro creatore, imitando le orme del suo Figlio e ragionare e dire quello che Lui stesso disse e fece in certe circostanze....essendo molto flessibile, considerevole e compassionevole, usando empatia. Ecco perche’ si diventa quello che si e’!!!. Come uno che; non costruisce una buona biografia-reputazione di se stesso... ma; pensa a quella che sia migliore che dimostri...agli uomini!!! e non a Dio. Molti; riggettano la cosa giusta da fare...figuriamocci se; darebbero la loro vita per gli altri!!!. Solo pochi lo fanno; mostrando cosi...che scelgono di diventare cio’ che si e’...usando la forza interiore, del muscolo ben addrestrato; la nostra coscienza...tramite lo Spirito Santo; per distruggere i penzieri dell’antitesi del dio interno!!!
Per diventare puri ci sono delle esiggenze da soddisfare...la nostra spiritualita’ e la moralita’ mentale e fisico. Per spiritualita’ non consiste solo nel dire di credere ma; praticare. Dimostrando che ora abbiamo una nuova personalita’ che si conforma...per farci diventare cio’ che si e’. Non consiste nel leggere o pregare a cantilena e non capire o meditare, su’ quelle parole che diciamo...VENGA IL TUO REGNO COME IN CIELO COSI ANCHE SULLA TERRA!!!. Non consiste ad avere una certa forma di santa devozione...per poi mostrarsi falsi quando ci e’ di comodo. Chi vuole essere puro puo’ anche sapere e studiare quanti atomi ci sono in un pelo di barba, con accurata conoscenza. Puo’ darsi che crediamo che nel prossimo futuro ci sara’ una certa fine...Fine di un’epoca moderna, meglio tradotto; Fine di un stistema di cose. La traduzione dei Scritti Sacri meritano una migliore traduzione...poiche’ capire quello che e’ scritto ne dipende la nostra vita stessa...e la nostra spiritualita’; difatti anche la punteggiatura sbagliata, puo’ trasmettere a praticare una certa dottrina nel modo sbagliato, come anche capire la distinsione fra un nome e un titolo puo’ farci capire una cosa sbagliata. Addirittura credere in certe dottrine che la parola stessa...se da una solo parola si puo’ capire quale... ci si puo’ trovare a credere cio’ che e’ considerato sbagliato e che Gesu’ non ha’ mai menzionato; ne Dio lasciato detto tramite i suoi comandamenti!!! Quindi piu’ cose sbagliate crediamo e pratichiamo e piu’ ci fa’ diventare cio’ che si e’. Fra essere o non essere io scelgo; ESSERE CIO’ CHE SI E’!!!.
DIBATTITO La postmodernità ha posto l’esigenza di riportare la fede nel discorso pubblico Come ha dimostrato l’ultima discussione tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. I due concordano sulla necessità di scommettere sulla religione perché nelle attuali società secolarizzate essa può far crescere coscienza normativa e solidarietà civile
Processo all’Illuminismo
Ma sul futuro pesa la «razionalità plurale» espressa da Rorty e Vattimo e simbolizzata dal labirinto (Eco e Borges) e dal rizoma
di Rosino Gibellini (Avvenire, 12.07.2007)
Alle origini della postmodernità vi è l’annuncio della «morte di Dio» di Nietzsche, che toglie il fondamento ultimo alla realtà; i «sentieri interrotti» di Heidegger nei confronti di una teoria generale dell’essere; e la svolta verso il pluralismo del linguaggio di Wittgenstein. La concettualità della postmodernità è stata introdotta in filosofia dal filosofo francese Jean-François Lyotard con La condizione postmoderna (1979), caratterizzata come fine dei grands récits, dei megaracconti del progresso e delle mete finali del divenire storico; e ha inoltre i suoi filosofi in Jacques Derrida con il «decostruzionismo» e con il pensiero della «differenza»; in Gianni Vattimo con il «pensiero debole»; in Richard Rorty con il «neopragmatismo». La postmodernità come ricerca di una razionalità plurale ha i suoi simboli nel rizoma (Deleuze e Guattari), nel labirinto (Borges e Eco), e nella rete senza centro.
Un esempio illuminante di questo percorso è il dibattito, avvenuto in Europa in anni recenti, sul futuro dell’illuminismo. Subito dopo il secondo conflitto mondiale Adorno e Horkheimer pubblicavano la Dialettica dell’illuminismo (1947), nella quale i due filosofi francofortesi mostravano come il processo storico dell’illuminismo si era mutato nel suo contrario, in una universale alienazione in quanto la ragione storica si è fatta ratio del dominio sull’uomo e sulla natura.
A quarant’anni (1947-1987) dalla pubblicazione di quell’opera, che poneva in termini nuovi il dibattito sull’illuminismo e sulla sua storia degli effetti, un gruppo di eminenti studiosi ha voluto ripercorrere la «dialettica dell’illuminismo» nell’opera Il futuro dell’illuminismo (1988). Per Habermas, si tratta di individuare il «nucleo razionale» dell’illuminismo, al di là delle ambiguità storiche: questo nucleo razionale è un lascito da conservare e da sviluppare per affrontare in nuovi problemi, «che, semmai, possono esser risolti solo alla luce del sole, solo con la cooperazione, solo con le ultime gocce di una solidarietà pressoché dissanguata». Nell’ambito di questa revisione critica hanno portato il loro contributo anche i teologi Metz e Moltmann, i principali rappresentanti della teologia politica europea. Per Moltmann, la cultura dell’illuminismo «non è minacciata dall’esterno, ad esempio, dalla "sindrome conservatrice", o dalle "controrivoluzioni religiose", o dalle profezie della "fine dell’epoca moderna", o dal "postmoderno", o dalla New Age, bensì dalle contraddizioni dello stesso illuminismo».
Le «tre grandi contraddizioni» sono: a) il contrasto strutturale tra il progresso del Primo Mondo e la miseria e povertà del Terzo Mondo: «O riesce alla cultura dell’illuminismo di portare i popoli del Terzo Mondo alla libertà politica, alla giustizia sociale e all’autonomia culturale, oppure essa distrugge i due terzi dell’umanità. Per questo essa deve per così dire saltare se stessa, ossia la sua forma europea»; b) il sistema del terrore nucleare, per cui l’epoca moderna, minaccia di capovolgersi in in epoca della fine; c) la crisi ecologica, in cui è andata a sbattere la civiltà tecnico-scientifica dell’illuminismo, che rischia di portare al collasso della natura. Scrive Moltmann: «La cultura dell’illuminismo potrà conservare i suoi ideali e adempiere alle sue promesse in alleanza con il cristianesimo».
Si va dunque delineando un nuovo rapporto tra ragione e fede e può essere emblematica la discussione intervenuta tra il teologo Joseph Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas nel gennaio 2004, che ha avuto vasta eco internazionale, soprattutto dopo l’elezione del cardinal Ratzinger a Papa con il nome di Benedetto XVI. Nel suo discorso di Monaco di Baviera, e nella sua analisi, Habermas ripropone la questione già posta dal filosofo Böckenförde, che in un saggio del 1967 constatava che lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire.
Habermas riprende questo tema, che ora, in filosofia della politica, va sotto il nome di «teorema Böckenförde». È una previsione che aveva, in altra forma, già espresso Romano Guardini in La fine dell’epoca moderna (1950): «Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all’"usufrutto" che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato». Secondo Habermas, una società democratica per mantenersi ha bisogno della solidarietà del cittadino, ma tale solidarietà potrebbe esaurirsi «a causa di una secolarizzazione destabilizzante della società». Sorge allora la questione, evocata da Böckenförde: dove può attingere la società democratica secolare, che fonda autonomamente se stessa da se stessa, ispirazione e forza per mantenere questo indispensabile tessuto connettivo?
C’è un fatto visibile, che si impone all’attenzione: la religione persiste; e per Habermas, essa deve essere assunta come una «sfida cognitiva». Non si tratta solo, da parte della filosofia politica, di prendere atto del fatto di questa persistenza, ma di assumerlo positivamente come «sfida cognitiva», in quanto la religione e le religioni hanno la capacità di «alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini». Ma è necessaria un’operazione di traduzione dei «contenuti di significato» della religione in termini universalmente comprensibili e recepibili nel discorso pubblico, per incorporarli nel discorso pubblico al servizio della società.
La società democratica è secolare, e rimane tale, ma può attingere linfa dalla religione; non subordina a sè la religione, non la passa in eredità (come nel caso di Bloch), la rispetta nella sua alterità di sapere rilevato, ma attinge da essa ciò che è traducibile in linguaggio pubblico, uninversalmente comprensibile. Un esempio di questa traducibilità è l’affermazione biblica secondo la quale l’uomo è stato creato a immagine di Dio, che Kant ha tradotto nel linguaggio filosof ico a tutti comprensibile, della dignità dell’essere umano, da considerare sempre come fine e mai come mezzo.
Habermas, come si era espresso nel grande discorso di Francoforte 2001, dal titolo di risonanze hegeliane, Fede e sapere, all’indomani dell’abbattimento delle Twin Towers, è preoccupato per una «secolarizzazione distruttiva»; per una «secolarizzazione che deraglia»; per «l’entropia delle scarse risorse» concettuali e spirituali; e, insieme, per le previsioni di «scontro di civiltà» come esito del confronto nel pluralismo di culture e religioni. E avanza questa proposta nell’intento di mediare tra la tesi del fondamentalismo e dell’integralismo, che nega la società secolare; e la tesi del secolarismo (Blumenberg, Löwith), che, nella tolleranza, relega la religione nella sfera del privato.
La proposta di Habermas riconosce alla religione una funzione pubblica: «La frontiera di quello che la religione può portare nella vita sociale del nostro tempo è una frontiera da esplorare nel dialogo a due».
Il cardinale Ratzinger, nel suo discorso di Monaco di Baviera (2004), manifesta un «forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società «post-secolare», sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione da entrambi i lati, e avanza la proposta di «una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra».
La proposta di Ratzinger, certo, va oltre la proposta di Habermas della «sfida cognitiva». Ma entrambe le proposte convergono nella valorizzazione della religione per la sfera pubblica nel nuovo contesto della società post-secolare.
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Teologia
La riflessione su Dio nel XX secolo
Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci della nuova Appendice, «Il passo del Duemila in teologia», in margine al volume di Rosino Gibellini «La teologia del XX secolo» (Queriniana, pagine 752, euro 39,00). Quest’opera propone una ricostruzione globale della storia del pensiero cristiano del Novecento nei suoi momenti più significativi, nelle sue tematiche più impegnative, nei testi essenziali che ne scandiscono il percorso. Rosino Gibellini (nella foto), teologo e filosofo, è fondatore e direttore della Biblioteca di teologia contemporanea dell’Editrice Queriniana.
LA DITTATURA DELLA COSCIENZA
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 26 febbraio 2007)
C’è una parola magica che, quando si è in procinto di fare i disastri o a disastri avvenuti, viene evocata per garantirsi l’impunità, quando non addirittura il rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni e soprattutto le conseguenze della azioni. Questa parola magica si chiama “coscienza”. L’abbiamo sentita evocare da Fernando Rossi e da Franco Turigliatto, i due senatori che, con il loro voto, hanno determinato la caduta del governo Prodi. Alla “coscienza” e a quella sua variante che sono i “princìpi” era ricorso anche Clemente Mastella per giustificare la sua opposizione ai Dico. Alla “coscienza” ricorrono infine tutti quei medici che rifiutano l’interruzione di gravidanza anche nei casi consentiti dalla legge o la sospensione delle cure come nel caso Welby e in altri simili.
Ma cos’è questa “coscienza”? E’ la dittatura del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne derivano. Il medico che, in nome dell’ “obbiezione di coscienza”, rifiuta l’interruzione di gravidanza a chi nella miseria genera molti figli nella più assoluta indigenza, a chi resta incinta in età infantile, a chi porta in grembo feti affetti da malattie ereditarie, non si fa carico delle condizioni della madre e dell’infelicità futura dei nascituri, ma solo dell’osservanza dei suoi principi, che consente alla sua coscienza di sentirsi “a posto”, proprio perché rimuove, nega, non vede o non vuol vedere le conseguenze della sua decisione.
Questo tipo di “coscienza” che non assume alcuna responsabilità sociale è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere eretta a principio della decisione. Se poi, alle sua spalle lavora l’obbedienza a principi che qualche autorità, come ad esempio la chiesa, pone come “vincolanti”, allora si giunge a quell’autolimitazione della responsabilità che abbiamo conosciuto in epoca nazista, dove tutti, dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili solo di fronte ai superiori (“Ho obbedito agli ordini”) e non responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni.
Se la dittatura della coscienza soggettiva, che in nome dei propri principi non si piega alla mediazione e non si fa carico delle domande sociali (come possono essere quelle delle coppie di fatto o dei malati terminali che chiedono l’interruzione delle cure) diventa principio inappellabile in politica, che è il luogo dove dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora bisogna dire chiaro e forte che coloro che si attengono alla dittatura della coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede alcuna responsabilità collettiva, ma solo l’osservanza dei propri principi.
E questo vale tanto per i medici, la cui responsabilità oggi non è più solo tecnico- professionale ma anche sociale, quanto per i politici che, per il solo fatto di aver deciso di entrare in politica, non possono esonerarsi, in nome dei loro principi, di ascoltare le domande, le richieste, i desideri di coloro che li hanno eletti. Perché la politica è “mediazione”, non “testimonianza”. Per la testimonianza ci sono altre sedi, come ad esempio la condotta della propria vita.
Se si attiene unicamente ai propri principi, senza farsi carico delle mediazioni e soprattutto delle conseguenze delle proprie azioni, una simile coscienza, che limita a tal punto il “principio di responsabilità collettiva e sociale”, è troppo ristretta e troppo angusta per diventare il punto di riferimento della decisione politica, che per sua natura deve farsi carico della mediazione e delle conseguenze delle sue risoluzioni. Per cui la dittatura della soggettività è in ogni suo aspetto incompatibile con l’agire politico, e non salva neppure l’anima perché, come ci ricorda Kant: “La morale è fatta per l’uomo, non l’uomo per la morale”. E questo monito vale anche, e forse a maggior ragione, per l’ideologia.