Scrive Freud in Pulsioni e loro destini: "La trasformazione di una pulsione nel suo contrario è particolarmente evidente nella conversione dell’amore in odio. Tale compresenza costituisce l’esempio più significativo dell’ambivalenza emotiva".
Risponde Umberto Galimberti *
Ho letto, caro professore, con interesse il suo articolo sui delitti di famiglia. Premetto che non sono uno studioso, lavoro in ferrovia, ma per vecchia passione e qualche trascorso di filosofia e psicologia, la seguo sempre con molta attenzione. In quest’articolo, e proprio per farla breve, mi ha colpito lo spirito e l’impostazione con la quale affronta il tema sopra descritto e che posso riassumere riportando una sua frase: "Allora c’è da chiedersi quanto il nostro amore si è fuso e combinato con l’odio".
Mi scuso del mio modo un po’ scolastico, ma mi viene una domanda: non è proprio sulla complessità di questa problematica che la psicologia, ma più approfonditamente la psicanalisi, hanno da sempre concentrato la loro attenzione? Cercando proprio in modo scientifico e quindi in modo analitico e non moralistico di scoprire le implicazioni dell’odio partendo proprio dai sentimenti di profondo amore, e dalla delusione e dalle frustrazioni di quest’ultimo?
La grande scoperta, almeno così l’ho interpretata io, è stata quella di comprendere come la sfera affettiva e sentimentale è sempre e comunque inquinata dall’aggressività, dalla gelosia, dal possesso, dall’egoismo ecc.
A me queste discipline hanno insegnato a "governare", attraverso la comprensione e non la "valutazione morale", quel grande amalgama della nostra interiorità, che non è purezza ma profonda e contraddittoria umanità. La capacità di governare questa complessità è ciò che ci rende umani, è ciò che ci rende superiori agli animali e migliori sentimentalmente.
Se ciò fosse vero, se cioè io avessi bene interpretato, la nostra attenzione, di fronte ai fatti che lei prende in considerazione riguardo ai delitti di famiglia, dovrebbe rivolgersi a indagare il processo perverso che schiaccia l’uomo sui suoi istinti più regressivi. Quindi oggi da quella società che Lei bene descrive nessuno può ritenersi immune e lo sforzo, secondo me, andrebbe orientato a indicare e a suggerire, per attrezzarci anche individualmente a contrastare questo barbaro assalto culturale, per sprigionare in noi quella umanità che sola può rendere felici noi e il nostro prossimo.
La ringrazio dell’attenzione, se avrà avuto modo di prestarmela e la saluto con grande stima.
Giuseppe Ferrara, Venezia - Mestre
giuseppe_ferrara@inwind.it
Solo per la ragione, che conosce solo le definizioni e le distinzioni, l’amore è diverso dall’odio. Per la nostra psiche, invece, i sentimenti sono tutti ambivalenti, fusi cioè con i loro contrari, come può constatare chiunque abbia una certa familiarità con la sua anima, dove è possibile toccare con mano come il piacere si intreccia con il dolore, la maledizione con la benedizione, la luce del giorno con il buio della notte. E come tutte le cose sono nell’anima incatenate, intrecciate, innamorate senza una visibile distinzione. Perché l’abisso dell’anima, che tutte le cose sottende, vuole che così si ami il mondo. Prendiamo per esempio l’amore: tutti sappiamo che non è una cosa tranquilla, non è solo delicatezza, confidenza, conforto. E neppure solo comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l’anima e contamina i corpi. Amore non è solo silenzio, domanda, risposta, suggello di fede eterna, ma anche lacerazione di intenzioni un tempo congiunte, tradimento di promesse mancate, naufragio di sogni svegliati. Amore è violazione dell’integrità degli individui, è toccare con mano i limiti dell’uomo. Ma per violare non bastano le carezze, ci vogliono anche i pugnali.
Prendiamo per esempio Sartre là dove scrive: "Sono smarrito di fronte all’altro che vedo e tocco e del quale non so più che fare. È già molto se ho conservato il ricordo vago di un certo al di là di quello che vedo e tocco, un al di là di cui so precisamente che è ciò di cui voglio impadronirmi. È allora che mi faccio desiderio".
Ma che cos’è davvero il desiderio? È, come tutti credono, l’amore per l’altro? Roland Barthes ci mette in guardia da questa idilliaca persuasione perché, nella forma dell’amore per l’altro, in realtà "io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio". E di rincalzo Freud scrive: "Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare".
Ignorando il reciproco scambio che si è soliti supporre in ogni relazione d’amore, il desiderio, infatti, conosce solo il furto e il dono. Per questo l’amore che cerca sicurezza e stabilità tende a spegnere i desideri che teme come il suo negativo più profondo, o di deviarli nella finzione dell’immaginario, come si deviano le forze temute di un fiume, scavandogli un letto artificiale o derivandone mille rigagnoli che si disperdono nella terra.
Amore, infatti, è solo la chiave che ci apre le porte della nostra sempre ambivalente vita emotiva di cui ci illudiamo di avere il controllo, mentre essa, ingannando la nostra illusione, ci porta per vie e devianze dove, a nostra insaputa, scorre, in modo tortuoso e contraddittorio, la vitalità della nostra esistenza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DELL’AMORE ("CHARITAS") O LA VIA DI MAMMONA ("CARITAS")?! Il nuovo saggio di Luce Irigaray...
intervista
Il furto delle idee e l’etica del filosofo
Salvatore Natoli riflette sui plagi di Galimberti a suo danno: «So tutto da vent’anni. Sono dispiaciuto, ma non ho voluto far polemica»
DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 23.04.2008)
Per Salvatore Natoli, il filosofo dai cui saggi Umberto Galimberti ha attinto a piene mani per il suo Gli equivoci dell’anima - come mostrato ieri su queste pagine -, le citazioni a ’virgolette dimenticate’ non sono state una sorpresa. Commenta le rivelazioni di Avvenire con un tono che fa trasparire dispiacere e tristezza, ma nessuna aggressività: «Sono cose di più di vent’anni fa, c’è stato per me il tempo di rielaborare. In questi casi, o attacchi o te ne fai una ragione. Fidando che prima o poi qualcuno se ne accorgerà».
Professor Natoli, ritiene che la nuova edizione del saggio di Galimberti, che contiene diversi - anche se parziali - riferimenti al suo lavoro, abbia rimesso le cose a posto?
«Per me la cosa, evidentemente, è molto antica. Quando me ne sono accorto la prima volta mi sono molto dispiaciuto, visto che avevo un rapporto di fiducia e di amicizia con Galimberti. Poi però, nonostante che in numerose occasioni altri lettori e amici mi facessero rilevare questi plagi, non ho voluto fare polemiche. Così ho anche trascurato, diciamo così, di controllare nella seconda edizione quanto sia stato effettivamente rettificato. Proprio non l’ho vista: il libro l’avevo già letto, avrei dovuto rileggerlo attentamente per controllare se avesse messo le virgolette o meno. E la cosa non mi andava granché. Insomma: io non so quanto la correttezza filologica sia stata ripristinata. Io ho visto solo la prima edizione, e mi sono reso conto di tutto quello che poi voi avete pubblicato, e anche molto di più. Ma ho lasciato stare».
Un caso isolato?
«Beh, una cosa analoga mi è poi successa con il Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli 1996), nel quale avevo raccolto la mia rubrica ’Altri termini’ pubblicata su Avvenire tra il 1995 e il 1996. Nell’estate del 2001, Galimberti ha pubblicato una sua serie dedicata ai vizi su La Repubblica. Ricordo che fu mia sorella a segnalarmelo: ’Guarda che ci sono dei pezzi, su Repubblica, dove il Dizionario dei vizi e delle virtù è ricopiato!’. Allora avevo preparato anche un dossier... Poi, anche in questo caso, quando è uscito il libro in cui Galimberti raccoglieva quegli articoli ( I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli 2003) ho visto, sfogliandolo velocemente, che mi citava. Ancora una volta, non ho controllato se metteva genericamente Natoli o se virgolettava in modo adeguato».
Come ha reagito?
«La cosa mi è dispiaciuta, ovviamente, ma non ho fatto ulteriori indagini: non avevo intenzione di sollevare pettegolezzi - perché i non addetti ai lavori, quando succedono cose di questo genere, parlano immediatamente di pettegolezzi tra filosofi. Volevo evitare di cadere in situazioni triviali. Insomma, dicevo tra me e me, prima o poi, qualcuno se ne accorgerà ».
Ma la voglia di denunciare i fatti le sarà pur venuta...
«La tentazione di fare un’uscita pubblica, sì, una volta l’ho avuta. Ma poi hanno prevalso le ragioni che le dicevo, oltre ad altre considerazioni, più personali - nonostante la scopiazzatura, con Galimberti avevo pur sempre un rapporto, se non di amicizia, quantomeno di cordialità ».
Le sembrano plausibili le scuse invocate da Galimberti con Giulia Sissa, le ’dimenticanze’ di virgolettati?
«Ovviamente, sul caso particolare della Sissa non so nulla: all’epoca lessi sì il libro dell’antropologa, Il piacere e il male, ma poi non mi sono certo messo a cercare i riscontri con L’ospite inquietante di Galimberti. Per quanto riguarda invece i miei testi pubblicati su Avvenire, direi che lì la questione è patente. Quale commento vuole che faccia? È tutto lì da vedere. Sono dispiaciuto, sono cose che da certe persone non ti aspetteresti. Poi io ho abbandonato la presa, mi trovavo in una situazione molto scomoda: la gente leggeva e se ne accorgeva, molte persone venivano da me e mi dicevano ’guarda che Galimberti ha preso da te, ma non reagisci?’. Boh, si vedrà, qualcuno se ne accorgerà. E alla fine è successo».
I fatti emersi in questi giorni rischiano di gettare un’ombra sull’intera opera di Galimberti?
«Certo sono fatti ricorrenti. Tra l’altro, al di là delle citazioni letterali, de Gli equivoci dell’anima la cosa che più mi era dispiaciuta era la parafrasi, l’ispirazione teorica. Perché la cosa più grave in questi casi - non parlo solo di Galimberti, parlo in generale - non sono tanto le citazioni puntuali, che tutti possono evidentemente controllare, ma la parafrasi dei concetti, l’impossessarsi di un patrimonio di elaborazione. È la dimensione più difficile da controllare, e anche la più pesante per un autore. E la più grave: dal plagio letterale ti puoi difendere, dalla parafrasi no».
Così, è come se due capitoli interi de «Gli equivoci dell’anima» fossero stati praticamente presi di peso da quei suoi lavori?
«Direi di sì. E forse anche l’impianto dell’intero libro».
Tra l’altro, trattandosi di opere filosofiche, il debito intellettuale nei confronti dell’elaborazione del pensiero non è ancora più grave?
«Qui il discorso da fare è un altro: a reagire dovrebbe essere la comunità scientifica. Ci vuole un’etica della scrittura. Purtroppo, io ritengo in generale che oggi la ricerca sia subalterna e timida nei confronti dei soggetti mediatici. E questo, indipendentemente da Galimberti, è grave: se davanti al successo la comunità scientifica si intimidisce, il vulnus ricade sulla formazione dei giovani. E questo da un punto di vista formativo e pedagogico è devastante».
È un limite del sistema accademico e culturale italiano in particolare?
«Direi di sì. Dinnanzi a queste cose si reagisce poco, nel senso che il successo mediatico mette soggezione, e quindi lo si asseconda. Invece la comunità scientifica dovrebbe reagire. Questi episodi vanno contro ogni valorizzazione dell’originalità di pensiero».
E su «Repubblica» si «ispirava» alle rubriche di «Avvenire»
L e altre sospette affinità tra gli scritti di Galimberti e quelli di Natoli riguardano le rispettive rubriche «I vizi capitali», apparsa su «La Repubblica» nell’estate del 2001 e poi confluita nel volume «I vizi capitali e i nuovi vizi» (Feltrinelli 2003), e «Altri termini», uscita in «Agorà» nel 1995-96 e poi raccolta in «Dizionario dei vizi e delle vritù» (Feltrinelli 1996). Nonostante Galimberti avesse ben presente la precedente opera di Natoli, tanto da citarne alcuni brevissimi passi con le dovute virgolette, spesso trascura di attribire al vero autore passaggi anche lunghi, che così si presentano come farina del sacco del filosofo di «Repubblica».
A titolo di esempio, riportiamo un brano sull’invida di Natoli e il suo gemello, non virgolettato né attribuito, di Galimberti: NATOLI. «In una società in cui l’inuguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile, si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e perciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite. Non così, evidentemente, in una società in cui la disuguaglianza la si ritiene innaturale e ancor più prodotto del disordine e dell’iniquità sociale [...]. Si riescono a trovare buone ragioni per trasformare l’invidia in virtù travestendo il sentimento di distruzione dell’altro in istanza di giustizia [...]. Il non ratificare facilmente il successo dell’altro fa sì che divenga legittimo richiedere all’altro le credenziali del suo successo. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle».
GALIMBERTI. «Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite, mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale, se non addirittura il prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia può rivestire i panni della virtù e trasformarsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortuna. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle». (E.C.) La sua serie sui vizi era assai «simile» agli articoli già usciti sul nostro giornale
Le signore maltrattate
di Redazione (Il Giornale, 23.04.2008)
Di solito si dà la precedenza alle signore. Nell’ormai feuilletonesco «caso Galimberti», nemmeno questo. Le... appropriazioni del filosofo monzese, infatti, hanno colpito prima Salvatore Natoli (come si spiega nell’intervista in questa pagina) e poi Alida Cresti e Giulia Sissa. Nel senso che, come documentato dal Giornale nei giorni scorsi, per un articolo comparso su Repubblica.it e poi sul sito dello stesso quotidiano, Galimberti ha «attinto» al saggio di Alida Cresti Nell’immaginario cromatico (ed. Medical Books, 1997), mentre per assemblare L’ospite inquietante si è gettato anima e corpo su Il piacere e il male di Giulia Sissa (ed. Feltrinelli).
Il filosofo recidivo e il caso dell’articolo cancellato dal web
di Redazione (Il Giornale, 22.04.2008)
Il titolo del libro, uscito nel 1997, è Nell’Immaginario cromatico. L’autrice Alida Cresti, l’editore la piccola Medical Books di Palermo. Non si tratta certo di un best seller, piuttosto di un testo per specialisti, per psicologi.
Eppure il tema del colore e dell’immaginazione è affascinate. Insomma uno di quelli che si possono riutilizzare anche per degli articoli dotti da quotidiano. È così che il testo sarebbe diventato vittima di un altro episodio di copia e incolla a firma Umberto Galimberti. Uno «scippo» precedente a quello che ha visto coinvolta Giulia Sissa. Un caso gia finito di fronte al tribunale civile di Roma, sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale. Riemerge, però, soltanto adesso, dopo il clamore suscitato dallo scoop del Giornale.
Un caso che vanta già un’ordinanza emessa in data 30/5/2006 che, relativamente al raffronto tra Nell’Immaginario cromatico e un articolo di Umberto Galimberti intitolato La stinta metropoli che spegne le emozioni (pubblicato su Repubblica il 15 gennaio 2006 e poi apparso anche sul sito del quotidiano), recita così (pag. 3 riga 18): «Nella fattispecie, dal raffronto dei due testi ed in particolare delle pagine dalla 17 alla 23 del volume della ricorrente (Alida Cresti, ndr) emerge chiaramente che il Galimberti nel proprio articolo ha riprodotto e riportato pedissequamente interi brani del libro della Cresti, a volte invertendo semplicemente l’ordine delle parole, appropriandosi così di fronte al pubblico di espressioni narrative e concetti, frutto dell’attività creativa dell’autrice, in lesione del diritto morale di paternità dell’opera oltreché economico di distribuzione e pubblicazione della medesima».
L’ordinanza vieta a Galimberti e al gruppo editoriale l’Espresso ogni nuovo utilizzo dell’articolo anche in via telematica. Il Collegio, come spiegatoci dall’avvocato Luca Saldarelli, ha poi respinto a pochi mesi di distanza un reclamo dello stesso Gruppo l’Espresso che cercava di invalidarla (il 19/07/2006), confermando il provvedimento del giudice monocratico.
E D I TO R I A L E - AGORA’
INTELLETTUALI: LA CASTA DIFENDE IL «COPIONE »
di EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 24.04.2008)
I casi dei ripetuti ed estesi plagi condotti dal filosofo Umberto Galimberti sui lavori di Giulia Sissa e Salvatore Natoli, evidenziati negli ultimi giorni da diverse testate tra cui «Avvenire», pongono un problema che va ben al di là della situazione contingente e delle persone implicate. Si tratta della questione della proprietà delle idee. Non si parla, banalmente, di diritti d’autore (benché anche questo sia in ballo), ma del fondamento stesso dell’attività intellettuale, della ricerca e dell’elaborazione del pensiero.
Sorprende leggere la difesa d’ufficio di Galimberti condotta ieri, sulle colonne del «Corriere della Sera», da Gianni Vattimo: «I nostri sono solo pensieri... Il sapere umanistico è teorico. Non dico che sia aria fritta, ma è tutto argomentativo... È tutto un glossare». Sorprende che lo spirito di casta possa prendere il sopravvento sull’orgoglio per il proprio lavoro - che, parlando di filosofia, è indissolubile dalla propria vita.
Ben più profondamente, ieri su queste pagine Natoli ha invece additato il vero nocciolo del problema: «Davanti al successo, la comunità scientifica si intimidisce... Invece, dovrebbe reagire». È questo che dobbiamo chiederci: come reagirebbe a un caso simile una comunità scientifica «sana», retta da quell’«etica della scrittura» invocata da Natoli? Come si comporterebbe un Paese dove le credenziali della propria autorevolezza sono una cosa seria?
Il rischio è che in Italia tutto si riduca alla solita bolla di sapone, davanti alla quale fare spallucce dopo pochi giorni. Il successo mediatico, fatto di apparizioni televisive e impegnati interventi sulle pagine più blasonate, è uno scudo formidabile, soprattutto quando si sposa a una certa consorteria culturale che - non è vicenda solo di oggi - in Italia ha sempre avuto la granitica capacità di elevare al di sopra di ogni ombra le proprie icone. «La comunità scientifica dovrebbe reagire», spera Natoli.
In pratica? In pratica la prima a doversi fare domande dovrebbe essere l’università. Le cattedre vengono assegnate - si suppone, si spera - in base ai meriti scientifici degli aspiranti, misurati in termini di quantità e qualità di pubblicazioni. Se queste pubblicazioni sono, in tutto o in parte, copie, plagi, appropriazioni indebite di idee - perché questo, e non banale «dimenticanza» di virgolette, è ciò che accade quando si spacciano per propri lunghi brani di altri autori, malamente o per nulla citati -, che si fa? Può un sistema accademico serio ignorare la cosa? E poi la stampa, l’editoria.
In quel Paese immaginario dove le cose funzionano come dovrebbero, è difficile immaginare che un autore «pizzicato» con le mani nella marmellata - intellettuale - altrui continuerebbe a trovare credito e spazio. A chiosa, un nostro «plagio»: come ha scritto Galimberti, «diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortuna. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle». O come qualche anno prima (lo abbiamo sottolineato ieri su queste pagine) ha scritto Natoli: «Legittimo richiedere all’altro le credenziali del suo successo. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle».
il caso
Il «vizio» di Galimberti: plagiato anche Natoli
Il filosofo di «Repubblica» è nell’occhio del ciclone per essersi «ispirato» al lavoro di Giulia Sissa.
Senza dichiararlo. Eppure non è la prima volta: già nel 1987 aveva attinto, sempre senza citarlo, agli scritti di un collega...
di EDOARDO CASTAGNA *
Galimberti non copia. «Galimberti dimentica i virgolettati». Queste le sue parole di difesa, riportate - tra virgolette - domenica da Il Giornale, il quotidiano che ha ’pizzicato’ nell’ultimo saggio del filosofo, noto al grande pubblico prima per le sue comparsate al Maurizio Costanzo Show e poi per le paginate su La Repubblica, tutta una serie di passi simili in modo imbarazzante ad altrettante frasi de Il piacere e il male (Feltrinelli) di Giulia Sissa, moglie dell’antichista Marcel Detienne.
Galimberti difende il suo L’ospite inquietante (ancora Feltrinelli) sostenendo: «Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Il che non ha minimamente soddisfatto la Sissa, ricercatrice e ’cervello in fuga’ all’Ucla di Los Angeles, che ieri si è sfogata con il Corriere della Sera: «Quello di Galimberti non è stato un chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi». Il filosofo, in sintonia con un editore in posizione decisamente scomoda, promette di riparare quanto prima, inserendo nella prossima edizione del suo lavoro i dovuti riconoscimenti alla Sissa (che nella prima versione è citata appena una volta, e pure male).
Galimberti precisa che all’origine della ’svista’ c’è il fatto che le sue pagine incriminate erano la rielaborazione di una recensione da lui dedicata nel 1999 proprio al libro della Sissa, dove ’riassumeva’ il suo pensiero: «È che sono uno che si innamora della bella scrittura, e non sono abbastanza filologo... Mi piacevano le frasi della Sissa, le ho rielaborate, poi a dieci anni di distanza non mi ricordavo più che cosa fosse suo e cosa mio». Tacendo sull’entità - davvero minima - della ’rielaborazione’, la colpa quindi sarebbe quindi di una recensione e di dieci anni trascorsi. Una dinamica che però non si può proprio applicare a un altro caso di somiglianze ’sospette’ tra passi di Galimberti e altri scritti. Sì, perché il «vizietto» del professore sembra essere stato assai precoce: risale infatti al 1987 il saggio Gli equivoci dell’anima, nel quale l’allora quarantacinquenne filosofo, già da più di dieci anni cattedratico a Venezia, ha ’riassunto’ e ’rielaborato’ numerose intuizioni del suo collega e coetaneo Salvatore Natoli. Anche questa volta, ’dimenticando i virgolettati’.
In quel 1987 i saggi di Natoli che hanno ’ispirato’ Galimberti erano stati pubblicati su due riviste di settore; soltanto più tardi sarebbero stati raccolti in volume, quello del 1986 in Vita buona, vita felice (Feltrinelli - e chi, sennò? - 1990) e quello del 1982 in Teatro filosofico (Feltrinelli 1991). I passi sospetti riportati in questa pagina sono soltanto alcuni fra quelli nei quali la corrispondenza è letterale, o quasi; ma altre intuizioni galimbertiane appaiono profondamente ispirate dal lavoro di Natoli. In anni più recenti, è possibile che la ’somiglianza’ abbia incuriosito lo stesso Galimberti, tanto che nelle successive edizioni de Gli equivoci dell’anima si è premurato di inserire alcune note, che dovrebbero rendere - nelle intenzioni - a Natoli il suo merito. Un correre ai ripari che suona da mezza ammissione di colpevolezza: tuttavia, spesso le virgolette ’dimenticate’ continuano a essere tali (salvo poche eccezioni), a fronte dei numerosi passi gemelli, e i nuovi inserimenti non sembrano sufficienti a render conto di tutte le frasi che il filosofo di Repubblica pare aver preso di peso dai saggi di Natoli.
Dimostrando anche - vista la lunghezza dei passi - di possedere una memoria veramente fuori dal comune.
«Copia e incolla» o ispirazione? Ecco i brani incriminati
Riportiamo in queste colonne alcuni esempi - per nulla esaustivi - di somiglianze sorprendenti tra passi dei saggi di Salvatore Natoli e il volume di Umberto Galimberti. A sinistra, i passaggi di Natoli, estratti da due riviste (le sigle identificano le pubblicazioni e i numeri di pagina): i primi cinque estratti sono parte del saggio «Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale», apparso su «Il sapere antropologico», 1/1986; i successivi, da «Télos, skópos, éschaton. Tre figure della storicità», pubblicato su «Il Centauro», 5/1982. A destra, su fondo grigio, gli equivalenti passi galimbertiani, estratti dalla prima edizione (quella dove il nome di Salvatore Natoli non appare mai) de «Gli equivoci dell’anima» (1987).
Natoli: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l’anima guadagna profondità. Ma la profondità è insieme l’estremamente distante dal sensibile [...]» (S30)
Natoli: «Quest’idea di separazione ed autosufficienza dell’anima costituirà uno dei filoni determinanti dell’antropologia occidentale [...]. La felicità non coinciderà più con la fruizione piena ed equilibrata della propria corporeità, ma sarà rinviata, potrà essere spostata alla fine della vita terrena o sublimata in un logos eterno indifferente al fluire della vita» (S13)
Natoli: «Porsi in rapporto con la verità equivale a svolgersi come interiorità. Questo motivo platonico sarà ripreso più tardi dalla filosofia cristiana: in interiore homine habitat veritas, dice la tradizione agostiniana
» (S31)
Natoli: «Le tecniche di emancipazione dalla corporeità esigevano un controllo estremo del corpo e perciò una conoscenza sempre più approfondita di esso [...]. In una parola, bisognava avere misura delle capacità del corpo per dominarle e reprimerle o investirle e sublimarle » (S33)
Natoli: «La [...] trasformazione del pensiero in rappresentazione: da luogo delle idee, o mente, a orizzonte della presenza [...] Se prima, dunque, l’anima, quale sostanza spirituale, abitava il corpo, adesso [...] è [...] limite estremo della presenza, totale
esteriorità rispetto a tutto ciò che essa include» (S14-15)
Natoli: «Il finito, infatti, è perfectum, vuoi come compiuta definizione concettuale, vuoi come eterno ritorno dell’uguale [...].
Entelécheia significa entelés écho, cioè a dire: ho compimento; è lo stesso che dire sono compiuto, finito» (C12-13)
Galimberti: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l’anima guadagna in profondità che è insieme l’estremamente distante dal sensibile [...]» (G50)
Galimberti: «Quest’idea di separazione e di autosufficienza dell’anima costituirà uno dei filoni determinanti dell’antropologia occidentale [...]. La felicità non coinciderà più con la fruizione della propria corporeità, ma sarà spostata alla fine della vita terrena, in una dimensione eterna, indifferente al fluire del tempo» (G51)
Galimberti: «Questi due motivi ricompaiono identici nella tradizione cristiana [...]. Con essa, infatti, si ribadisce che la verità abita l’interiorità e disabita il mondo. I motivi agostiniani: in interiore homine habitat veritas [...]» (G51)
Galimberti: «Le pratiche di emancipazione dalla corporeità esigeranno un controllo sempre più accurato del corpo e quindi una sua conoscenza sempre più approfondita; bisognerà cioè aver consapevolezza delle capacità del corpo per poterlo dominare, reprimere o sublimare» (G51)
Galimberti: «Da sostanza spirituale che abita il corpo [...] l’anima diventa l’orizzonte [...]. Questa inclusione fa dell’anima il limite estremo della presenza, l’esteriorità rispetto a tutto ciò che essa include» (G52)
Galimberti: «Il finito è perfectum, perché compiuto, perché non lascia nulla fuori di sé [...]. Entelés écho significa infatti: ’ho raggiunto il compimento’, ’sono compiuto’ » (G113)
Natoli: « Skopós significa fine, ma questa volta nel senso di bersaglio, meta [...]. Una volta che lo scopo è raggiunto, è, perciò stesso, radicalmente consumato» (C22)
Natoli: «Questa asserzione, inoltre, è inclusa in una più generale argomentazione che distingue tra volontà e proponimento [...]. La conclusione aristotelica è chiarissima: ’ tutti infatti vogliamo ciò che ci siamo anche proposti, però non tutte le cose che vogliamo ce le proponiamo » ( Eth. Eud., 1226b, 17-19) [...]. La deliberazione calcola anche l’intervallo di tempo che intercorre tra la decisione e la realizzazione, e quindi tutte le
opportunità che il tempo concede» (C24)
Natoli: «Il kairós designa una temporalità complessa e qualitativa. La radice indoeuropea della parola krr raffigura un’idea di unione, di armonia [...], ossia una situazione temporale articolata in sé stessa e soprattutto collegata con il recente passato e l’immediato futuro. Questa temporalità è perfettamente congruente con lo skopós » (C25)
Natoli: «L’éschaton, infatti, è il tempo di Dio [...]. Apocalisse è, infatti, rivelazione o, più propriamente, svelamento da apo-kalýpto: dis/occulto, scopro il celato. Il verbo kalýpto,
infatti, risale alla stessa radice indoeuropea
kel da cui il celo latino, che significa appunto occulto, copro, nascondo. L’apocalisse svela [...]. Quanto abbiamo detto finora configura l’éschaton come assoluto futuro
» (C27-29)
Natoli: «Lo spirito dell’Utopia ha carattere
progressivo sia nell’ordine del tempo che nella determinazione degli scopi [...]. Lo spirito rivoluzionario, al contrario, considera lo sviluppo del tempo come movimento accelerato verso la fine e considera la fine come
esplosione-dissoluzione del male» (C41)
Galimberti: « Skopós è parola greca che significa [...] ’l’oggetto su cui si fissano gli occhi’, quindi ’il bersaglio’, ’la meta’ [...]. Quando lo scopo è raggiunto, è per ciò stesso consumato» (G114)
Galimberti: «La differenza aristotelica tra
volontà e proponimento ribadisce questa categoria: ’Tutti infatti vogliamo ciò che ci siamo proposti, però non tutte le cose che vogliamo ce le proponiamo» ( Etica eudemia,
1226b, 17-19). Nello scarto tra volontà e proponimento c’è tutto lo spazio del desiderio che occupa l’intervallo che corre tra il presente e il futuro, tra l’intenzione e la sua realizzazione [...]» (G115)
Galimberti: «Di qui l’importanza del kairós,
la cui radice krr dice unione, nodo, armonia. Ciò che si tratta di unire e annodare armonicamente è il recente passato che conferisce al presente le condizioni per operare sull’immediato futuro. Solo nel buon intreccio di questo nodo qualcosa può configurarsi come scopo» (G115)
Galimberti: «L’éschaton [...] è il tempo di Dio [...]. Apo-kalýpto significa dis-occultare, svelare il celato. La radice kel, da cui il celo latino, significa: occulto, copro, nascondo. L’apocalisse svela [...]. L’éschaton inaugura una temporalità che è assoluto futuro » (G115-116)
Galimberti: «La chiave [...] dell’utopia ha un carattere progressivo nell’ordine del tempo e nella determinazione degli scopi, mentre quella della rivoluzione ha un carattere esplosivo
perché segna un’accelerazione del tempo verso la fine, per l’irruzione dell’elemento salvifico e risolutore» (G118)
* Avvenire, 22.04.2008
’’Guardati come ’ladri in giacca e cravatta’, si trovano ad affrontare anche il disprezzo sociale’’
Galimberti: ’’Manager in caduta rischiano rifugio in psicofarmaci’’
Il filosofo all’Adnkronos Salute: "Essendo abituati al problem solving immediato preferiranno andare dal farmacista che sul lettino dello psicanalista’’. E sottolinea: ’’Se l’identificazione con il proprio ruolo è stata totale sarà difficilissimo adattarsi a lavori di minor prestigio"
Roma, 4 ott. (Adnkronos Salute) - La crisi finanziaria potrebbe avere risvolti devastanti sul piano psicologico per i top manager che si troveranno a perdere il lavoro e lo status sociale, travolti dal terremoto dei mercati. E, vista la loro abitudine a risolvere i problemi in tempi rapidi, per combattere un probabile stato depressivo "sceglieranno di andare dal farmacista piuttosto che dallo psicanalista", rifugiandosi così, erroneamente, negli piscofarmaci con l’illusione di una cura immediata. A descrivere i rischi in agguato per chi "ha identificato se stesso con la propria carriera", è lo psicanalista e filosofo Umberto Galimberti (nella foto), che illustra all’ADNKRONOS SALUTE "la forte crisi d’identità" che rischiano i grandi manager della finanza, una volta caduti ’in disgrazia’.
Oggi poi la minaccia per l’equilibrio psicologico dei manager ’decaduti’ è ancora più forte perché - spiega Galimberti - "si trovano ad affrontare anche il disprezzo sociale. Non solo non hanno più il loro posto di prestigio e tutti i soldi che avevano prima, ma sono anche guardati dall’opinione pubblica quasi come dei ’ladri in giacca e cravatta’". In generale - riferisce l’esperto - queste persone "che già oggi frequentano spesso gli studi di psicanalisti e psichiatri, hanno sostanzialmente identificato se stesse con il loro mestiere e la carriera. Non sanno chi sono, di solito hanno grosse carenze affettive, trascurano la famiglia con cui non hanno un vero dialogo. E sono maledettamente attaccati al proprio status perché senza di esso perdono l’identità".
Ora, di fronte alla crisi finanziaria e a una perdita di potere, "se la loro identità è collocata solo in quello che fanno, il giorno in cui non possono più farlo non sanno più chi sono", e si ammalano. Così - aggiunge Galimberti - "essendo abituati al problem solving immediato, di solito, per affrontare il problema, preferiscono andare dal farmacista piuttosto che sul lettino dello psicanalista. Ma - avverte - dimenticano che con gli psicofarmaci si riducono i sintomi e non la depressione che è alla base". Una depressione "che - sottolinea - quando deriva dall’identificazione nella propria funzione, è seria e può anche portare al suicidio".
Qualora poi dovessero riciclarsi in un nuovo lavoro meno gratificante o di potere, "se sono riusciti a conservare un minimo di identità sganciata dalla funzione ce la faranno, ovviamente rimboccandosi le maniche e adattandosi a lavori di minor prestigio. Se invece - sostiene l’esperto - l’identificazione con il proprio ruolo è stata totale sarà difficilissimo per loro scendere nella scala sociale".