Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli)
di Federico La Sala (www.ildialogo.org/appelli, 24.02.2004)
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente" (U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia.
Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia.
Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala, (Martedì, 24 febbraio 2004)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EDIPICHE AVANCES DI "UNA VECCHIA SIRENA" E L’ITALIA DEVASTATA DA "PESTE E COR_NA"
(Un omaggio a René Girard e) Una presa di posizione per l’Unità
di Federico La Sala *
L’UNITA’ (il quotidiano diretto da Furio Colombo, fondato da Antonio Gramsci, e - non si sottovaluti la cosa - l’UNITA’ stessa) della nostra DEMOCRAZIA sta subendo in questi giorniun durissimo attacco. Cosa c’è al fondo e dietro? C’è la forza, l’astuzia, la volontà di potenza e la menzogna di chi non vuole rispettare le REGOLE DEL GIOCO democratico e costituzionale e pretende di imporre la SUA legge e il SUO dominio. Di qui il boicottaggio e la rabbia contro chi ha il coraggio di servirsi della propria intelligenza senza essere guidati da un altro. Ripartiamo (dalla caverna e) dalle figure! La vignetta di DM, sull’Unità del 3.10.2003 in prima pagina - in riferimento alla votazione alla Camera sulla legge Gasparri e ai 36 "franchi tiratori" - registra un fatto fondamentale.
VALE UNA LEZIONE di Filosofia e di Politica per tutti i cittadini e per tutte le cittadine, oltre che per i tutti i cittadini e per tutte le cittadine Parlamentari: "Signore A: QUALCUNO HA VOTATO SECONDO COSCIENZA...; signor B: DOVEVATE PERQUISIRLI... AVEVO DETTO DI NON PORTARLA IN AULA". Evidenzia il legame circolare che esiste tra la libertà della coscienza e la sovranità democratica e ci sollecita ulteriormente e ancor di più a SVEGLIARCI e a ricordare che la COSTITUZIONE è la nostra carta d’identità e il nostro passaporto (su questo, cfr. il commento di Furio Colombo sull’Unità del 2.06.2002) di cittadini e cittadine libere - sovrani e sovrane, come insegnava don Lorenzo Milani. E ancor di più e meglio - al di fuori del sonnambulismo mediatico e mediasetico - mette in risalto il l-e-g-a-m-e tra l’art. 1 ([...] LA SOVRANITA’ appartiene al POPOLO, che la esercita nelle forme e i limiti della COSTITUZIONE) e l’art. 67 (OGNI MEMBRO del PARLAMENTO rappresenta la NAZIONE ed esercita le sue funzioni SENZA VINCOLO DI MANDATO); e quanto PREZIOSO - se non vogliamo non cadere o nella confusione e il caos o nella dittatura AZZURRA!!! - sia questo L-E-G-A-M-E. In democrazia e per la democrazia, bisogna averlo caro. Preoccupiamocene.... Abbiamone cura: I CARE, come scriveva don Milani nella sua Scuola di Barbiana.
Ricordiamoci di ricordarlo. La nostra stessa sana e robusta costituzione dipende da QUESTO LEGAME, perderlo significa essere pronti ad ogni avventura - senza più bussola e altro strumento d’orientamento - e passare da un presidente-padre di tutti gli italiani e di tutte le italiane a un presidente padrone di tutto e di tutti e di tutte: da cittadini-re e cittadine-regine con in testa la CORONA a sudditi e a suddite di una società sempre più segnata dalla "rivalità mimetica"(René Girard) e piena di PESTE e di COR_NA, non più figli e figlie di una relazione democratica ma figli e figlie di una relazione astuta, autoritaria, menzognerae violenta. Significa ritornare indietro alla dialettica padrone-servo!
Al contrario, democraticamente, e come profondamente aveva capito Holderlin (e, sulla sua strada, non Hegel, non Marx e nemmeno Heidegger, ma Feuerbach ... e il maestro del nostro presidente Ciampi, Guido Calogero), noi siamo un dialogo! Negare questo, significa porsi fuori da questo orizzonte e auto-accecarsi. Il risultato è la rabbia, contrassegno di ogni idealismo e di ogni autoritarismo, che porta alla negazione dell’altro ..e "a Siracusa" (Platone-Heidegger) o, in ultimo, solo alla pace perpetua(e non nel senso e nella direzione indicata da Kant!).
Contro tutte le menzogne, si tratta di NON NEGARE e non spezzare IL LEGAME: ne va di ognuno e di ognuna di noi stessi e stesse, in prima persona, e tutti e tutte insieme. Chi vuole la morte dell’Unità (della libertà di stampa, del quotidiano diretto da Furio Colombo e fondato da Antonio Gramsci, e del nostro stesso legame politico-sociale... e personale!) che ci lega e ci fonda, CANTA solo vecchie canzoni e dice solo vecchie menzogne, non sopporta la differenza e vuole fare L’ALTRO a immagine e somiglianza di se stesso. Una semplice diavoleria - nient’altro!
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"Berlusconi MI E’ SEMBRATO- così Bruno Vespa ha commentato (La Stampa, 29 settembre 2003) il messaggio del Presidente del Consiglio a reti unificate, all’indomani del blackout nazionale -davvero in forma, è tornata la VECCHIA SIRENA, il SOLITO comunicatore dei tempi migliori. SEMBRAVA un un padre di famiglia che torna a casa e racconta alla moglie e i figli come è andata". QUESTA è la verità, nient’altro che la verità!
Se si fa attenzione, Vespa ha PARAGONATO il signor B. a una VECCHIA SIRENA e, in quanto tale, ad ULISSE. Il messaggio è più sottile e dice e non dice: accenna, come l’oracolo di Apollo a Delfi. Il signor B. non è il padre di tutti gli italiani e di tutte le italiane e non è lo sposo di Penelope-ITALIA e il re di ITACA-ITALIA. Il signor B. si è presentato da VECCHIA SIRENA e da signor B., presidente di FORZA Italia, si è CAMUFFATO da Ulisse, sposo della Regina e re (del partito-azienda) di FORZA Italia, all’ITALIA agli italiani e alle italiane.
Che gli italiani e le italiane vogliono diventare tutti figli e tutte figlie dell’edipico e falso Ulisse e essere tutti e tutte parte del partito "forza italia" ... questo è un problema dei cittadini e delle cittadine d’ITALIA e del Presidente della Repubblica d’ITALIA .... non di Vespa - ovviamente! E io non credo affatto che gli italiani e le italiane abbiano già ’ucciso’ dentro di loro il loro padre-presidente, né che vogliano perdere la loro corona di cittadini-sovrani e cittadine-sovrane!
Galimberti, in volume tutti i «copia-incolla»
◆ Il coperchio era saltato nel 2008, quando una serie di articoli di ’Avvenire’ e ’Il Giornale’ avevano smascherato il vizietto di Umberto Galimberti - filosofo, psicologo e soprattutto riverito maître à penser della sinistra -: il «copiaincolla ». Nei suoi articoli e nei suoi libri, inclusi quelli usati come titoli accademici, Galimberti ha infatti per decenni disinvoltamente pescato nelle opere dei colleghi, ’dimenticandosi’ di citarli. Un vizietto duraturo: nel giugno scorso un puntuale dossier di Francesco Bucci, apparso su ’L’Indice’, dimostrava come anche l’ultima ’fatica’ del filosofo, ’I miti del nostro tempo’, altro non fosse che un colossale riciclo. Bucci, allora, era in cerca di un editore per il suo materiale, ma ha faticato parecchio a trovarlo; ora però colma la lacuna Coniglio editore, che manda nelle librerie ’Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale’ (pagine 240, euro 14,50).
*Avvenire, 25.02.2011
Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»
IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»
di Marco Innocente Furina *
«Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri. Troppo volentieri.
Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.
«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».
Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».
Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».
Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero». Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà.
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora (Corriere della Sera 24.4.08)
È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l’antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell’iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l’assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all’irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l’enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l’esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest’arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l’assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch’essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l’effetto insensatamente contraddittorio dell’invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c’è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com’è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso - ed esso soltanto - contiene la verità. Invece qui c’è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che - oltre a rappresentare un’ulteriore petitio principii - per giunta accadde in un’epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l’autenticità dei testi - una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda - si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione - e quindi la lettera - del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.
Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.
Caro Galimberti, qual è il suo segreto?
Lei ha rischiato la reputazione impadronendosi di parole scritte da altri: perché?
di Pierluigi Battista (Corriere della Sera, 09.06.2008)
Egregio professor Umberto Galimberti, si rincorrono in questi giorni voci che denuncerebbero una sua reiterata propensione a includere nei libri da lei firmati interi brani ricavati dal lavoro altrui, senza dichiararne, come pure sarebbe d’obbligo, l’origine. In realtà si tratta di qualcosa di più di semplici voci, perché anche il più banale accostamento comparativo tra alcuni cospicui passaggi dei suoi libri e quelli di Giulia Sissa, Alida Cresti e Salvatore Natoli dimostrano senza possibilità di equivoco che un robusto lavoro, come si dice, di «copia-e-incolla», finisce per configurarsi come un’ indebita appropriazione intellettuale. Ora si aggiunge, sul Giornale, la scoperta di un lontano episodio del 1986 quando lei fu costretto a inserire una breve avvertenza nella seconda edizione di un libro su Heidegger in cui si ammetteva il fondamentale debito contratto a scapito di un lavoro del professor Guido Zingari. Ma non sarebbe ora, professor Galimberti, di rompere con fierezza il suo sdegnoso silenzio su tutta questa faccenda?
Inizialmente lei ha ammesso almeno uno dei misfatti, attribuendone la responsabilità a qualche disguido editoriale, così devastante da aver lasciato vanificare virgolette e indicazioni bibliografiche, che rendono differente una citazione da una volgare copiatura. Poi, un po’ goffamente, ha avanzato autodifensivamente l’idea che in fondo gli artisti, Mozart in testa, copiano sempre, e che la storia della cultura forma da sempre un reticolo intricato di prestiti e rimandi in cui si stenta a riconoscere l’originale dalla sua riproduzione. Un comprensibile imbarazzo e il meritato prestigio di cui gode la sua attività pubblicistica hanno indotto anche i più feroci tra i suoi detrattori a non infierire su un intellettuale di fama in evidente difficoltà. Ma adesso che viene alla luce una sua certa ripetitività copiatrice, una certa sua inclinazione recidiva a ciò che grossolanamente potrebbe definirsi un saccheggio di opere altrui, non sarebbe il caso che lei, apprezzato indagatore delle insondabili profondità dell’animo umano, uscisse con coraggio dal guscio della reticenza e ci aiutasse a comprendere qual è la segreta molla psicologica del suo così ricorrente e autodistruttivo operare?
Lei capisce, professor Galimberti, che una volta può essere un incidente, due volte una sfortunata coincidenza: ma quattro volte accertate delineano una prassi, un metodo, un’ossessione compulsiva. Che cosa davvero può averla indotta a rischiare ripetutamente la sua reputazione impadronendosi di parole scritte da altri, e non da remoti e sconosciuti autori magari mai tradotti in italiano, ma da figure stimate e note, o come nel caso di Natoli addirittura notissime? Lei sa benissimo che non avrebbe potuto farla franca, e che prima o poi i ripetuti misfatti sarebbero venuti a galla. E allora, chi e che cosa ha pensato di sfidare, rischiando di dilapidare con uno sciocco lavoro di copiatura anni e anni di onorata carriera intellettuale? Ci racconta una volta per tutte quale pulsione indomabile può suggerire a un uomo saggio e posato come lei di cadere sempre nello stesso catastrofico errore? Non è una banale autocritica che le si chiede, ma un’illuminazione sulle oscurità che albergano nei recessi più nascosti dell’essere umano.
Con immutata stima
Pierluigi Battista
Galimberti. Vent’anni di copia e incolla *
«Ecco, sì è successo... Ma vede, non ne voglio parlare. Nel 1989 abbiamo fatto un accordo tramite gli avvocati. Il professor Umberto Galimberti avrebbe fatto mettere una noticina di avviso in apertura del suo libro... Io però mi impegnavo a non tornare più sulla questione... Perché ho accettato? Mah, mi sembrava andasse bene, era comunque un’ammissione... Poi in ambito filosofico ci sono dei pesi, delle autorevolezze... Insomma lo sa anche lei, ci sono intellettuali ad alta visibilità... che hanno un certo accesso alle case editrici, e altri meno... Ma insomma non voglio parlarne e onestamente credo, in base a quell’accordo, di essere tenuto a non parlarne...».
Difficile strappare qualcosa più di quel che avete appena letto a Guido Zingari, ricercatore dell’Università di Roma Tor Vergata che ha in affidamento la cattedra di Istituzioni di filosofia. Rispetto di un vecchio accordo passato attraverso gli avvocati, timidezza, forse anche poca voglia di esporsi contro un peso massimo della filosofia che ha spazi televisivi, giornalistici ed editoriali. Anzi, se non ci fossero già stati i casi di Giulia Sissa, Alida Cresti, Salvatore Natoli - tutti ampiamente «saccheggiati» dal professor Galimberti - forse Zingari avrebbe attaccato il telefono alla prima domanda. Allora meglio lasciar parlare i fatti, le pagine dei libri e una noticina a inizio volume che, con il senno del poi, più che ammissione di colpa sembra il programma di un modus operandi eretto a stile di vita. Sì, perché quando questa noticina l’abbiamo trovata ci siamo chiesti: e se quello fosse stato il primo dei calchi? Il «copia e incolla» praticato e brevettato dal professor Umberto Galimberti prima che Bill Gates si ingegnasse a inserirlo in Windows?
Ma, abbiamo detto, spazio ai fatti. Nel 1983 Guido Zingari pubblica Heidegger. I sentieri dell’essere per una piccola casa editrice romana: Studium. Una introduzione al pensiero del grande filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un onesto libro per studenti o semplici curiosi.
Nel 1986 il professor Umberto Galimberti, allora associato (diventerà ordinario solo nel 1999), ma già in odor di notorietà, pubblica Invito al pensiero di Heidegger, per la più grande e meglio distribuita casa editrice Mursia. Una introduzione al pensiero del filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un libro per studenti o semplici curiosi. Insomma, proprio lo stesso prodotto, con un’unica mancanza: l’aggettivo «onesto». Aggettivo impossibile da usare, visto l’uso massivo del saccheggio. Un solo esempio di svariate righe. Zingari a pag. 19: «Husserl giungeva a Friburgo nel 1916 quale successore designato di Heinrich Rickert, che a sua volta andava ad occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L’insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico, che nello stesso tempo era un imparare guardando (Absehen). L’esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori greci assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
Umberto Galimberti a pag.14: «Nel 1916 Edmund Husserl giungeva a Friburgo quale successore designato di Rickert, che a sua volta andava a occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L’insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico che nello stesso tempo era un "imparare guardando" (Absehen). L’esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
È una delle clonazioni che ha spinto Zingari e l’editrice Studium a procedere a mezzo avvocati verso Galimberti e la Mursia. E così ecco il fatidico accordo, raggiunto nell’89. Le edizioni seguenti di Invito al pensiero di Heidegger, pur non modificando il testo, pur senza aggiungere quelle note e virgolette che sarebbero di rigore (come una citazione nell’indice dei nomi...) recano sul retro del frontespizio (dove si guarda poco) questa breve notazione che dà conto del saccheggio: «Diversi passi riportati nel presente volume relativi alla vita e alle opere di Heidegger, sono stati tratti dal volume di Guido Zingari, Heidegger. I sentieri dell’essere (presentazione di J.B. Lotz), Roma, Studium, 1983. In quest’ultimo essi si trovano specificatamente alle pp. 16, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 36, 121, 125 (citazione identica) e alle pp. 23, 25, 26, 28, 29 (citazione con alcune modifiche e interpolazioni)».
Al solito, un’ammissione di colpa, però microscopica, e in quelle pagine dove nessuno guarda. Un’ammissione con un accordo che però mette il danneggiato (accademicamente più debole) nella condizione di tacere, che evita troppa pubblicità ad un fatto che avrebbe potuto screditare un Galimberti in ascesa. Il risultato? Il libro di Zingari, che deve essere ben scritto, visto che Galimberti lo ha copiato a piene mani, è quasi introvabile. Il saggetto di Galimberti è stato invece ristampato per anni, è diffuso in moltissime biblioteche. Peggio, campeggia sul sito dell’Università di Venezia nella bibliografia del professore come se fosse una nota di merito e non un’opera scientificamente dubbia. Insomma quanto si sbagliava Friedrich Schiller quando scriveva: «La posterità non intreccia ghirlande per gli imitatori»! Almeno nel mondo accademico italiano c’è il rischio che le intrecci, eccome.
* Il Giornale 09.06.2008
"Saviano ha copiato Gomorra"
di Gian Marco Chiocci (il Giornale, 18.03.2009)
Napoli - Lui è Roberto Saviano. L’altro si chiama Simone Di Meo. Il primo ha sbancato con Gomorra, il secondo è rimasto un free lance dopo l’esperienza a Cronache di Napoli. Saviano è diventato una star, Di Meo è rimasto un giornalista di nera. In apparenza hanno in comune solo una cosa: la camorra. In realtà uno (Di Meo) accusa l’altro (Saviano) d’averlo turlupinato, fingendosi amico e copiando i suoi articoli sui clan senza nemmeno degnarsi di una citazione a pie’ di pagina. Per questo il cronista ha prima riempito di richieste di rettifiche la casa editrice di Gomorra (Mondadori) eppoi è passato alle vie di fatto citando per danni l’autore del best seller: 500mila euro.
Di Meo ha già imputato a Saviano, sulle pagine del «Roma», di aver preso pezzi di suoi articoli sulla faida di Secondigliano e sul clan Di Lauro, di averli riportati pari pari nel libro (oppure di averli riassunti e rielaborati) omettendo di citare la fonte. In più lo accusa di aver appreso direttamente da lui notizie poi confluite nel libro (indiscrezioni giudiziarie, atti investigativi e processuali) come fossero farina del suo sacco. Persone vicine a Saviano precisano che non esiste alcun plagio e che per il libro lo scrittore ha attinto da fonti pubbliche, desumibili anche da giornali, e da fonti compulsate direttamente. La casa editrice, nello scambio epistolare con i legali di Di Meo, ha ripetutamente negato «ogni indebita appropriazione da parte di Saviano» limitandosi ad accettare «la circostanza concretatasi in un’omissione della fonte in occasione di una riproduzione testuale di un articolo».
Nella causa intentata contro Saviano, Di Meo osserva nero su bianco: «Non ci sono parole per esprimere la grande sorpresa avuta nel leggere il contenuto del libro: tutto ciò che avevo scritto per il giornale circa determinati argomenti, tutto ciò che avevo raccontato confidenzialmente, in totale buona fede ed in modo del tutto ignaro dai reali propositi del giovane free lance (quale era all’epoca Saviano, ndr)» a Saviano «era stato lievemente manipolato e, in alcuni casi, trasposto integralmente senza citare la fonte, per dar vita a un libro che da molti veniva salutato come un lavoro inedito». Svariati passaggi del libro, a detta di Di Meo e di altri cronisti napoletani citati, «sembravano essere il risultato di un evidente rimaneggiamento di articoli di cronaca nera di altrui paternità che senza difficoltà Saviano amava attribuirsi (...) sostenendo di essere stato presente a eventi o circostanze che giammai lo hanno visto presente», come nella prima uscita processuale del boss Paolo Di Lauro.
In particolare negli atti depositati al processo di Napoli, Di Meo cita un passaggio di un suo articolo del 17 dicembre 2005 riguardante il boss Raffaele Amato, riportato pari pari nel libro da Saviano: «... quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del clan e a un grosso trafficante albanese che si faceva aiutare per concludere gli affari di un interprete, il nipote di un ministro di Tirana». Nel libro si parla del boss che «godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali» mentre nell’articolo si scriveva sempre del boss e del «credito illimitato di cui godeva presso i cartelli internazionali».
Oppure. «Il clan di Lauro - si legge nell’edizione 2006 di Gomorra - è sempre stato un’impresa perfettamente organizzata, il boss lo ha strutturato con un disegno d’azienda multilevel». Un articolo sul clan del 2005 lo ricalca così: «La struttura organizzativa del clan di Lauro sembra copiata dai management dei guru dell’economia americani: è l’applicazione del principio multilevel».
E ancora. A proposito del rinvenimento del corpo di Giulio Ruggiero subito dopo l’arresto del boss Cosimo Di Lauro, si leggeva nell’articolo di Cronache: «Poi la macabra esecuzione della decapitazione, eseguita con un flex, la sega elettrica utilizzata dai tagliatori e tornitori per tranciare anche il ferro. Non un colpo netto, ma una lenta operazione da macellai». Invece Gomorra: «Non il colpo netto dell’accetta ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature». E via discorrendo. Frasi più o meno simili, forse copiate o forse no. Passaggi interi in cui, dopo più solleciti, «la fonte viene finalmente citata all’undicesima ristampa» allorché si affronta il capitolo dei «quattro punti» del patto di sangue tra gli Spagnoli e i Di Lauro. Questo ed altro c’è nel processo sul presunto plagio di Saviano. Per saperne di più l’appuntamento è alla prossima udienza, 7 luglio, ore 9, tribunale di Napoli.
di Redazione *
La mania del copia incolla non sembra limitarsi all’ambito filosofico. Anche Roberto Saviano, autore di Gomorra sembra aver deciso di prendere lezioni dal professor Umberto Galimberti, «pizzicato» dal Giornale in uno dei più clamorosi casi di clonazione editoriale multipla degli ultimi anni. Il caso che ha coinvolto il filosofo di Repubblica è partito il 17 aprile del 2008 quando il nostro quotidiano ha rivelato, con un attento confronto testuale svolto dallo studioso Roberto Farneti, che alcune pagine del Saggio L’ospite inquietante, con cui il docente di Ca’ Foscari è rimasto nelle classifiche di vendita della saggistica per molti mesi, erano state copiate dal libro della professoressa Giulia Sissa, Il piacere e il male.
L’«incidente», ossia il riciclo di frasi di Giulia Sissa, senza virgolette e senza note, è stato riconosciuto dallo stesso Galimberti pochi giorni dopo. In un intervista rilasciata a un nostro cronista ammetteva: «In quelle pagine ho rielaborato una recensione del 23 aprile 1999... Mi piacevano le frasi della Sissa, le ho rielaborate, e poi a dieci anni di distanza non mi ricordavo più cosa fosse suo e cosa mio...».
Caso chiuso? No per niente, perché si trattava tutt’altro che di un incidente isolato. A pochi giorni di distanza il Giornale ha scoperto che, questa volta in un articolo di Repubblica, il professor Galimberti aveva «clonato» alcune pagine di un libro della studiosa Alida Cresti (Nell’immaginario cromatico). In questo caso era addirittura intervenuto, con un’ordinanza, il tribunale civile di Roma, in data 30/5/2006 dichiarando che «il Galimberti nel proprio articolo ha riprodotto pedissequamente interi brani del libro della Cresti...».
Ma nemmeno questa scoperta ha chiuso la vicenda, il filosofo Salvatore Natoli ha denunciato ad Avvenire di aver subito una serie di altre «clonazioni» documentabili. Dopo queste nuove scoperte il professor Galimberti si è chiuso in uno sconcertante silenzio da cui non è più uscito. Nemmeno quando il 6 giugno il professor Guido Zingari ha raccontato al Giornale come anni prima (1986) Galimberti avesse saccheggiato il suo saggio Heidegger. I sentieri dell’essere utilizzandolo per il suo Invito al pensiero di Heidegger. A un ulteriore controllo è poi risultato che due dei testi che contenevano brani saccheggiati a Zingari e a Natoli erano stati presentati da Galimberti per il suo concorso da professore ordinario di filosofia. Secondo il rettore di Ca’ Foscari «in un caso del genere deve intervenire il ministero per la creazione di un giurì su richiesta di un cattedratico... Non può agire l’Università». E lì il caso Galimberti si è «ufficialmente» chiuso (escludendo il fatto che in un articolo del 6 luglio Il Giornale denunciava, inascoltato, altre numerose clonazioni...).
«Roberto mi ha saccheggiato e pensare che eravamo amici»
di Redazione *
Simone Di Meo, perché ha citato per danni Roberto Saviano?
«Se colleghi e avvocati napoletani sfottono chiamandomi “il Saviano dei poveri” ci sarà un perché».
Si spieghi meglio.
«La causa per plagio, chiamiamola così, si sviluppa su due livelli. Il primo è la mancata citazione, nel libro, di alcune parti di miei articoli che sono state letteralmente saccheggiate e riproposte senza alcuna variazione. Una sorta di copia-incolla di pezzi miei e di altri cronisti. In altri casi non c’è la traslazione integrale, ma Saviano ci gira intorno, usa spesso termini e riferimenti precedentemente utilizzati dal sottoscritto. Gli esempi sono numerosi».
E il secondo livello del (presunto) plagio?
«Ci sono notizie che sono state da me pubblicate su Cronache durante la faida di Secondigliano che sono diventate parti integranti della narrazione di Gomorra senza, anche qui, alcun riferimento alle fonti. Cioè a me. Di questi passaggi non esiste traccia in atti giudiziari, in agenzie di stampa o in reportage giornalistici».
Non le sembra di esagerare? Saviano di fonti importanti ha sempre detto di averne consultate tante...
«Sul capitolo di Secondigliano, Roberto ha preso tanta roba da me ed ha attinto a piene mani dal mio immenso archivio. Un giorno venne in redazione per intervistarmi, era ancora un free lance. Parlammo tantissimo, gli diedi casse di materiale, ci sentimmo anche dopo, al telefono e via mail. Lo aiutai sempre. Dopodiché scomparve non appena Gomorra andò in stampa. Non lessi subito il libro ma quando alcuni avvocati e diversi colleghi iniziarono a parlare di scopiazzature palesi di articoli a mia firma, allora lo acquistai. Ben scritto, indubbiamente. Un prodotto di marketing più che culturale. Di inedito, però, aveva davvero poco, e non solo perché riportava i contenuti di cronache locali. Leggendo quanto riportavano persone che frequentano il suo blog ho saputo che lui non mi avrebbe citato per il mio bene, non voleva che passassi per un cronista che utilizzava informazioni pericolose. Per non dire poi della sua presenza all’udienza del boss Di Lauro».
A che cosa si riferisce?
«A un certo punto lui descrive, minuziosamente, alcuni atteggiamenti tenuti dal boss durante il processo. Ma Saviano non c’era, lo sanno tutti che non era in aula. Però dopo che gli ho raccontato le fasi salienti dello show in aula, lui se ne è appropriato e l’ha raccontata come fosse un’esperienza vissuta in prima persona. Niente di male a riportare le notizie. Ma che almeno dicesse da dove provengono. C’è ad esempio un sito casertano che riportava una certa cosa e lui, rimasticandola un po’, l’ha riproposta. Poi, dalla 20ª ristampa in poi è misteriosamente scomparsa...».
Poi lei è corso a citarlo per danni.
«I miei avvocati hanno scritto alla Mondadori che almeno dall’undicesima ristampa ha disposto l’inserimento del mio nome in un passaggio obiettivamente scandaloso. Abbiamo insistito per avere lo stesso trattamento in molti altri passaggi del libro, ma non siamo stati accontentati. Per la casa editrice erano fonti personali dell’autore. Ecco il perché della causa».
Nel suo libro Saviano cita spesso le fonti. Tutte tranne lei. Perché?
«Forse perché appartenevo a uno di quei piccoli giornali, tra il Napoletano e il Casertano, considerati erroneamente proprio da Saviano un’emanazione editoriale dei clan. Quindi prendere le notizie da un sedicente dipendente della camorra e riportarle in un libro anticamorra, non sarebbe stata un gran furbata».
* il Giornale, 18.03.2009
Roberto Saviano, l’accusa di plagio del Daily Beast: “Ha copiato da Wikipedia”
Il giornale statunitense accusa di “sistematico plagio” lo scrittore di Gomorra, dopo che nel luglio scorso anche ZeroZeroZero, il suo secondo libro, è uscito negli Stati Uniti. Quando l’autore dell’articolo ha fatto presente queste analogie allo scrittore napoletano, “lui ha sottolineato come le somiglianze fossero pure coincidenze”
di Elisa Murgese *
“Roberto Saviano ha copiato articoli e voci di Wikipedia per scrivere ZeroZeroZero”. L’accusa di “sistematico plagio” allo scrittore di Gomorra arriva dal sito americano the Daily Beast. La polemica del giornale statunitense arriva dopo la pubblicazione del secondo libro dell’autore napoletano, incentrato su cocaina e narcotraffico, uscito in Italia nel 2013 ma solo a luglio negli States. Secondo il Daily Beast, interi articoli di giornalisti americani e messicani sarebbero stati semplicemente tradotti e inseriti nell’opera senza essere in alcun modo citati. “Saviano non ha solo scritto un libro brutto. Ha scritto un libro incredibilmente disonesto - si legge sull’articolo pubblicato il 24 settembre sul Daily Beast - ZeroZeroZero è pieno di articoli rubati da giornalisti meno noti. Include interviste con ‘fonti’ che potrebbero non esistere e contiene diversi casi di palese plagio”.
L’articolo, lungo e particolareggiato, mette a confronto diversi passaggi di ZeroZeroZero confrontandoli con quelli che il sito Usa identifica come le fonti “copiate” da Saviano. Tra gli articoli “riscritti”, pezzi del Los Angeles Times, del quotidiano salvadoregno El Faro. In tutti i casi citati, il giornalista americano Michael Moynihan rileva affinità non solo rispetto alle cifre e ai dati pubblicati, ma anche nella costruzione delle fras i(naturalmente, tenendo conto delle differenze legate alle diverse traduzioni).
Quando Moynihan ha fatto presente queste analogie allo scrittore napoletano, “lui ha sottolineato come le somiglianze fossero pure coincidenze”. In una seconda email, secondo il Daily Beast, Roberto Saviano ha replicato che “c’è un solo modo per descrivere un documentario (il passo citato descriveva il protagonista del documentario “La vida loca” di Christian Poveda, ndr), e quando devo farlo, non faccio affidamento solo sulla mia memoria, ma anche su libri e articoli, così come fanno tutti i miei colleghi”. Contattata dal giornalista del Daily Beast, l’autrice dell’articolo del Los Angeles Times Deborah Bonello ha detto che “i due paragrafi hanno una notevole somiglianza che difficilmente dipende dal caso”, aggiungendo che il suo articolo si basa su un’intervista che le era stata concessa dal regista - ormai morto - di “La Vida Loca”.
Di somiglianze - o come li chiama il giornale americano “sistematici plagi” - del genere il lungo pezzo del Daily Beast ne cita almeno una decina. Ma il cuore dell’articolo di Moynihan riguarda la conclusione del romanzo. “ZeroZeroZero finisce con un vivido racconto dell’omicidio del giornalista messicano Bladimir Antuna Garcia da parte di una gang affiliata al noto narco-terrorista El Chapo”, si legge sul sito americano che sottolinea come questo racconto sia stato “completamente cannibalizzato da un report fatto nel 2009 dal Comitato per la protezione dei giornalisti”. A motivare la sua tesi, Moynihan inserisce nel suo articolo un link che affianca il testo dell’autore napoletano (nella sua versione in lingua inglese) e quello del CPJ.
Saviano ha scritto “un libro incasinato - continua l’articolo sul Daily Beast - una serie di storie in cerca di coerenza narrativa, dove a eventi insignificanti a livello globale viene data un’importanza storica, e ogni fatto viene gonfiato ed esagerato”. Altra accusa, il fatto che Saviano abbia usato come fonte Wikipedia. L’esempio in questione riguarda la descrizione di un’organizzazione criminale messicana - i Los Zetas - che sarebbe identica a quella riportata dalla nota enciclopedia online. “Se questa informazione (quella sulla gang messicana, ndr) fosse stata rivelata dalle fonti di Saviano, e le sue dichiarazioni in merito non sono chiare, gli avrebbero fornito una lista simile per ordine e parole alla descrizione apparsa nel 2008 su Wikipedia sotto la voce ‘Los Zetas’”. Nel suo articolo, il giornalista americano sottolinea di avere chiesto spiegazioni anche alla casa editrice Penguin Press ma di non avere ancora ricevuto alcuna risposta in merito. Accuse simili erano state fatte in merito a Gomorra: una condanna confermata in Cassazione aveva evidenziano come l’autore si fosse fatto ispirare da articoli di giornali locali. Ma in quel caso, a detta dell’autore, il plagio riguardava solo lo 0,6% dell’opera.
* Il FattoQuotidiano.it / Media & Regime, di Elisa Murgese - 24 settembre 2015
Saviano: "Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction"
Lo scrittore replica alle accuse americane: "Il mezzo è la cronaca, il fine è la letteratura"
di ROBERTO SAVIANO (la Repubblica, 25 settembre 2015)
Accade sempre così, prima con " Gomorra" e ora accade con " ZeroZeroZero": quando un libro ha molto successo, quando supera il muro dell’indifferenza, quando le storie che veicola iniziano a creare dibattito, è quello il momento giusto per fermare il racconto. Per bloccarlo. E come sempre il miglior metodo è gettare discredito sul suo autore. Come se fosse possibile smontare davvero un libro di oltre 400 pagine con un articolo di qualche migliaio di battute. Ma forse questo è lo scopo di una recensione a ZeroZeroZero uscita sul Daily Beast , che non si è accontentata di essere una stroncatura (è normale, no?, che un libro ne riceva), ma che vorrebbe essere altro. Che cosa, esattamente, lo lascia intendere l’autore, che si sofferma forse un po’ troppo sulla mia figura, sul fatto di essere ormai percepito come un personaggio politico e non solo come uno scrittore. Non è evidente, allora, che i miei libri, tutti, finiscano per scontare questa paternità troppo ingombrante?
Così, quando non si può dire che ciò che racconto è falso, si dice che l’ho ripreso altrove. Ma il mio lavoro è esattamente questo: raccontare ciò che è accaduto, nel mio stile, nella mia interpretazione. Mi accusano di aver ripreso parole altrui: come se si potesse copiare la descrizione di un documentario. Se la protagonista è donna, è madre, ha 19 anni, si chiama " Little One" e ha un numero tatuato in faccia, non so quanti modi ci possano essere per raccontarlo.
Di più. Per rendere i brani simili, il mio critico taglia il testo che avrei preso a riferimento, come fa per esempio nel caso di un passaggio del Los Angeles Times . Scrive il giornale americano, secondo il Daily Beast : "... there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there...". E questo sarebbe il brano che io avrei ripreso in ZeroZeroZero : "... about 15,000 members in El Salvador, 14,000 in Guatemala, 35,000 in Honduras, 5,000 in Mexico. The highest concentration is in the United States, with 70,000 members". E certo che i due passaggi si somigliano. E sapete perché? Perché per fare il suo gioco il Daily Beast ha omesso dall’articolo del Los Angeles Times un passaggio significativo. "Speaking at the Mexico City premiere of La Vida Loca last month, Poveda said officials estimate there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there, he said". La frase completa spiega insomma che quei numeri li ha dati Poveda stesso alla premiere messicana del film nel 2009. Ed è difficile dare questa informazione in maniera diversa, soprattutto se è Poveda stesso ad averne parlato.
Io cerco sempre di essere il più rigoroso possibile sui dati, riportandoli come sono forniti. E il caso di Christian Poveda è esemplare dal momento che a lui e al suo omicidio ho dedicato un intero capitolo di ZeroZeroZero : quindi l’ho citato, eccome se l’ho fatto! Del resto è sempre un azzardo utilizzare i puntini sospensivi indicando omissioni: in questo caso, per esempio, si stravolge sia quanto riportato in ZeroZeroZero sia quanto scritto sul Los Angeles Times , cambiando la posizione di dati e parole. Costruendo artatamente una somiglianza che non c’era, o che poteva essere ricondotta al pressbook diffuso quando il documentario di Poveda uscì.
Ma poi sarebbe davvero plagio riferire la trama di un documentario? Cioè, se io scrivo la descrizione del Padrino sto plagiando la quarta di copertina? Ridicolo. Conosco moltissimi giornalisti, tra cui i maggiori giornalisti sudamericani, che incontro periodicamente e con cui scambio ogni tipo di informazione: loro mi mandano i loro scritti e io mando a loro i miei perché condividere informazioni, e soprattutto analisi, è la cosa che tutti noi consideriamo più preziosa. Sì, analisi: perché le informazioni sono di dominio pubblico. Attenzione a questo passaggio: le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate, sempre.
Ma naturalmente, anche stavolta, sul Daily Beast , tutto prende le mosse dalla causa per plagio avvenuta in Italia: causa anche interessante da raccontare, visto che oltre a me, a processo, è finito un genere letterario, un genere che non è giornalismo, non è saggio e non è invenzione, ma qualcosa di diverso. Secondo me qualcosa di più - e i numeri di Gomorra lo hanno dimostrato.
Nella sentenza di primo grado della causa in cui due quotidiani locali campani mi accusavano di aver ripreso articoli, il giudice afferma che ciò che può essere oggetto di plagio sono opere che hanno carattere di " originalità e creatività", ergo la cronaca non ha né l’uno né l’altro requisito, essendo niente altro che " fatti". C’è solo un modo per dire come è avvenuto un arresto e come un imputato era vestito in tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. C’è solo un modo per descrivere un documentario. E spessissimo la fonte comune per notizie che riguardano arresti o indagini sono generalmente le conferenze stampa delle forze dell’ordine. Immaginiamo i vari quotidiani farsi causa per aver utilizzato parole uguali per descrivere uno stesso avvenimento?
Proprio sulla base di questo, il giudice di primo grado ha rigettato tutte le accuse. E non è stato neppure difficile smontarle: ai miei legali è bastato produrre in tribunale le decine di articoli identici a quelli di chi mi faceva causa, che descrivevano gli stessi avvenimenti. Anzi. Durante la riproduzione degli articoli da portare in udienza, ci siamo accorti che i quotidiani che mi avevano citato per plagio avevano pubblicato a mia insaputa (non ero ancora noto al tempo) alcuni miei articoli per intero: senza citare né autore né fonte. Non fatti simili né qualche parola uguale: ma due interi articoli. Per questo sono stati condannati: l’unica parte in cui le sentenze dei tre gradi di processo coincidono.
Sì, nella sentenza di secondo grado, per esempio, vengono accolte tre su dieci delle loro richieste: corrispondenti a meno di 2 pagine su 331, lo 0,6% del libro! Ma proprio su queste vale la pena soffermarsi ancora un attimo. Sono stato condannato per aver scritto "su un giornale locale" invece che "sul Corriere di Caserta ". E per aver riportato per intero un articolo virgolettato. Sapete quale? Quello che declamava le arti amatorie del boss Nunzio De Falco, mandante dell’assassinio di Don Peppe Diana. Il titolo dell’articolo era: "Nunzio De Falco, re degli sciupafemmine". Questo tecnicamente non sarebbe neppure plagio, e nemmeno appropriazione indebita, dal momento che non avevo nessuna voglia di attribuirmi la paternità di quell’articolo. L’autore, del resto, era sconosciuto. E sapete perché. Perché si trattava dell’esaltazione di un boss di camorra. Ed era proprio questo ciò che io volevo mostrare: quanto quei quotidiani peccassero di apologia verso i capi che avevano ucciso Don Peppe - quanto certa stampa locale fosse compiacente. Se li avessi propriamente citati, invece che dire "su un giornale locale", mi avrebbero fatto causa per diffamazione!
E gli altri due articoli? Uno riguarda la struttura del clan, l’altro il percorso fatto dalle auto dei carabinieri dopo la cattura del boss Paolo Di Lauro: ed entrambi veicolavano informazioni diffuse direttamente dalle forze dell’ordine. Allora vivevo a Napoli, assistevo alle conferenze stampa di carabinieri e polizia, e avevo come fonti gli organi investigativi: come tutti. Del resto chiunque vivesse a Napoli in quegli anni, e facesse il mio lavoro, trascorreva più tempo a parlare con gli inquirenti che sulle scrivanie. Era tempo di guerra di camorra (c’era almeno un morto al giorno) e tutti volevamo capire che cosa stava succedendo, come il nostro si stava trasformando in un vero e proprio territorio in guerra.
Per inciso: la sentenza di terzo grado ha sancito definitivamente il carattere autonomo e originale di Gomorra , come aveva stabilito la sentenza di primo grado, rimandando al Tribunale circa la quantificazione del danno. Ma andrebbe ricordato che questo processo ha un antefatto. Importante. La citazione in giudizio da parte della società che pubblica Cronache di Napoli e Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta ) non nasce in seguito alla pubblicazione di Gomorra (2006), ma solo due anni dopo: quando cioè ospite del Festivaletteratura di Mantova (settembre 2008) criticai duramente quelle testate locali che considero contigue alle organizzazioni criminali, che fungono da loro " uffici stampa" e che sono organo di propagazione dei messaggi tra clan. A Mantova mostro ritagli di giornale e la platea resta attonita. Il giorno successivo, di Cronache di Napoli e Corriere di Caserta ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. Continuo a lavorare su questo per lo Speciale Che Tempo Che Fa del 25 marzo 2009 (19% dello share della serata e 4 milioni e mezzo di telespettatori, è la trasmissione televisiva più vista quella sera). Mostro anche la prima pagina del Corriere di Caserta con il titolo a caratteri cubitali: "Don Peppe Diana era un camorrista". Ecco, dopo averne parlato in televisione sullo stesso argomento scrivo un libro per Einaudi. Tra la presenza televisiva e il libro arriva dunque la citazione in giudizio per plagio da parte delle testate locali. Anche qui, occhio: non per diffamazione ma per plagio. E non nel 2006, anno in cui Gomorra viene pubblicato, non nel 2007, ma dopo. Dopo che di loro parlo in televisione.
Aggiungo due notizie sulla società che mi ha fatto causa. Maurizio Clemente, ex editore occulto delle due testate, è stato condannato a sette anni di carcere per estorsione a mezzo stampa: si faceva pagare per non diffondere informazioni su imprenditori e politici. E un processo con sentenza dello scorso febbraio ha dimostrato come un giornalista, Enzo Palmesano, che scriveva su un quotidiano del gruppo, sia stato licenziato su ordine del sanguinario boss di camorra Vincenzo Lubrano, che ha partecipato all’omicidio del fratello del giudice Imposimato. Ecco chi mi ha fatto causa. Ecco a chi i giudici di secondo grado hanno dato parzialmente ragione.
Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario?
Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l’unico modo davvero efficace per portare all’attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere. Perché in un libro che non è un saggio, ma appunto un romanzo non-fiction, non si devono riportare tutti coloro che ne hanno scritto: soprattutto quando le fonti sono aperte, come nel caso citato di un documento dell’Fbi, quindi fonti comuni, o come i documenti governativi sulle organizzazioni criminali in Guatemala, nel caso dei kaibiles - tutti esempi su cui si è esercitato il mio critico americano. Se, per ipotesi, descrivessi il crollo delle Torri gemelle, come faccio a citare tutti coloro che ne hanno fatto in quel giorno la cronaca? Allo stesso modo, siccome descriverò il crollo delle Torri gemelle, utilizzerò parole simili perché le fonti sono identiche e soprattutto perché la fonte comune è la realtà: l’attacco terroristico è avvenuto, è una notizia, e non ci sono molti modi per raccontare una notizia. Le interpretazioni, quelle sì, possono essere infinite, e a quelle va attribuita paternità: sempre.
I fatti accaduti, con buona pace dei miei detrattori, non appartengono a nessuno. O meglio appartengono a chi li racconta e poi a chi li legge. Ma nell’articolo americano su ZeroZeroZero c’è di più. Non ci si limita a dire che avrei riportato agenzie giornalistiche non citandole, ma che ho inventato personaggi - nonostante io abbia detto direttamente al mio critico, interpellato via email, che nessun personaggio è inventato. Lui insiste: "Sono troppo perfetti per essere veri". Ma è esattamente quello che ripeto da anni: la realtà è molto più incredibile della finzione. E quando ho deciso che forma dare a ZeroZeroZero , con tutto il materiale che avevo raccolto, non avevo dubbi: non potevo inventare. Quello che avevo, doveva essere raccontato così com’era. L’ho fatto, con il mio libro, in Italia e nel mondo: dove ZeroZeroZero - che ora compare negli Usa - è uscito ormai da due anni.
Insomma: prima mi si accusa di riportare notizie che esistono, ma prese da altri. Poi di aver inventato, perché ciò che scrivo è troppo perfetto. E a voi tutto questo non sembra l’ennesimo, furbo (ma poi nemmeno tanto) modo per delegittimarmi? Quando nell’articolo vengo definito "una specie di celebrità globale", "una rockstar letteraria", "il Rushdie di Roma", ho capito che ancora una volta ho fatto centro: il livore arriva quando c’è visibilità, quando il dibattito diventa centrale e catalizza l’attenzione. Ma mi dispiace per i miei critici, anche per quelli americani. Fiero dell’odio e della diffamazione, degli attacchi che ricevo quotidianamente, difenderò sempre il mio stile letterario: sia che lo usi per scrivere libri o articoli, sia che lo usi in teatro o per una serie tv. Così come l’omertà di alcuni sindaci non fermerà le riprese di Gomorra 2 , così il cachinno contro di me non fermerà la mia letteratura. Rassegnatevi: continuerò a indagare il reale, con il mio stile. Sarà di questo che avrà avuto paura anche la famiglia di Pasquale Locatelli, il broker di coca ora agli arresti. Anche di lui parlo in ZeroZeroZero e quando, nel 2013, il libro è uscito in Italia, anche lui ne ha chiesto il ritiro immediato. La richiesta è stata respinta.
Padiglione Italia
Roberto Saviano, il Marchio Civile Multimediale
Non basta essere simbolo, guru o profeta per avere uno stile
di Aldo Grasso *
Il presente di Roberto Saviano non è piacevole, il futuro pieno di incognite. Com’è noto, il giornalista Michael Moynihan, sul Daily Beast, ha accusato Saviano di plagio e altre scorrettezze apparse nel suo ultimo libro sul narcotraffico: ZeroZeroZero. In verità, qualche accusa era già uscita in Italia (anche ai tempi di Gomorra, con strascichi in tribunale). La risposta di Saviano (grande rispetto per la condizione in cui vive) è parsa molto fragile. Prima l’ha buttata su una discutibile forma di deontologia professionale: «Le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate».
Con buona pace di chi le notizie le scova. Poi sul suo ruolo di Coscienza Sociale: «Perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole... diventano visibili... Fiero dell’odio e della diffamazione... difenderò sempre il mio stile letterario». Stile letterario? Uhm! Non basta essere simbolo, guru o profeta per avere uno stile. Quello del primo libro è ben diverso dal secondo (che di letterario ha poco, anche se si presenta come romanzo-verità). Il problema sta nel terzo libro: Saviano sarà il corifeo di un New Journalism, uno scrittore in cerca d’Autore o un Marchio Civile Multimediale?
“Non si scherza con i santi. Sul declino dello spirito critico in Italia”. “Eroi di Carta”, seconda edizione.
di Alessandro Dal Lago (fb, 27 settembre alle ore 7:15
La bestia contro Saviano - Forse qualcuno si ricorderà che nel 2010 un mio libretto sul libro Gomorra (“Eroi di carta”) è stato accolto da roventi polemiche. Peggio: da giornalisti di “Repubblica” (Sofri), “Il fatto quotidiano” (Travaglio), l’”Espresso” (Goldkorn) sono stato accusato di vari crimini critici, e in sostanza di gettare fango sull’eroe anti-camorra. Nessuna di queste testate si è sognata di concedermi una replica, né ha analizzato le mie posizioni. Anzi, in un intervento sul “Fatto quotidiano” che non esito a definire infame, Paolo Flores d’Arcais ha dichiarato anche non avrebbe letto il mio libro e invitava chiunque a non leggerlo. Secondo me la piaggeria nei confronti di “Repubblica” e del suo eroe da parte di noti giornalisti ha toccato vertici surreali, come quando Deaglio ha dichiarato: “Sarebbe capace Dal Lago di scrivere “Gomorra”? Persino “Il manifesto”, su cui pubblicavo da 35 anni, ha preso posizione contro di me, pur dandomi lo spazio per replicare.
Ma non voglio riesumare una questione ormai invecchiata (se qualcuno è interessato può consultare la mia postfazione a “Eroi di Carta”, seconda edizione, dal titolo “Non si scherza con i santi. Sul declino dello spirito critico in Italia”). Tuttavia, le reazioni del gruppo "Repubblica- Espresso” alla feroce stroncatura di “ZeroZeroZero” da parte di “Daily Beast” meritano un commento. Nessuno è intervenuto nel merito. A cominciare da Saviano che si arrampica sugli specchi e alla fine chiama in causa la solita volontà di bloccare il suo “discorso” contro il crimine (e perché mai lo farebbe il “Daily Beast”?). Una difesa lagnosa e fuori fuoco esattamente come la reazione di Gad Lerner sul suo blog che, invece di entrare nel merito delle critiche, se la prende con il “gregge di giornalisti scopiazzatori, altro che Saviano”.
Le accuse di plagio a Saviano del “Daily Beast” sono circostanziate e chiunque può consultarle online. Ma quello che ni è interessa è l’’incapacità in Italia di criticare l’eroe e i suoi due libri. Mark Bowden aveva parlato più o meno negli stessi termini di “ZeroZeroZeroi” sul “New York Times”. Non è escluso, conoscendo il giornalismo Usa, che le stroncature si moltiplichino. E che qualche causa sia intentata contro Saviano da parte degli autori dei testi saccheggiati.. Ma ci esce peggio da questa vicenda sono i giornalisti alla Lerner, Fazio, Travaglio, Flores ecc. che, da quando Saviano è diventato un eroe anti-berlusconiano, vero o presunto (perché ha continuato a incassare i diritti di Mondadori),hanno chiuso gli occhi sui due libri, “Gomorra” e “ZeroZeroZero”, assolvendoli a prescindere da qualsiasi critica - avrebbe detto Totò .. Il potere mediale non è solo berlusconiano...