di Umberto Galimberti (la Repubblica, 30 ottobre 2007)
Morti viventi che si aggirano per le contrade e vivi impauriti che si coprono il volto con maschere terrorizzanti per spaventare i morti e tenerli lontani. Questa è Halloween, una festa pagana diffusa tra le popolazioni del Nord Europa a partire dal 4.000 a. C., riconvertita dal cristianesimo nel 600 d. C. nella festa dei Santi, con particolare riferimento ai cristiani uccisi in nome della fede, seguita dalla festa in onore dei morti. Due culture che si scontrano e si sovrappongono.
Due temporalità che si contaminano e, nella contaminazione, confliggono. Halloween non è il carnevale, festa della sovrabbondanza prima della penuria quaresimale, Halloween mette in scena il gioco della vita e della morte in un tripudio beffardo e grottesco, perché se la vita è uno stupido scherzo, possiamo berci sopra oltre ogni misura.
Per questo la modernità, che ancora abita la cultura cristiana, senza però più credere alla propria salvezza, mette in scena lo spettacolo della morte deridendola con ogni sorta di scherno. Nulla della tragedia greca che si consegna al destino, per crudele che sia. Nulla della pietas romana che onora il defunto e lo propizia. Halloween guarda lo spegnersi autunnale della natura come metafora della condizione umana, e reagisce a questa tristezza mettendo in scena una gioia macabra.
Il cristianesimo, con la sua fede nella sopravvivenza, depotenzia la morte a semplice transito: da questo cielo e da questa terra colmi di dolore a "nuovi cieli e nuove terre" (Isaia). E così l’uomo non ha la stessa sorte di tutti i viventi nati dalla terra e dalla terra riassorbiti. Il suo tempo non è quello "ciclico" della natura che, per perpetuare la sua vita, esige la morte di tutti i viventi che ha generato, secondo l’ordine del tempo. La promessa della salvezza conferisce alla vita umana un "senso" che non ha la cadenza del ciclo della natura, per cui la morte perde il suo tratto beffardo e tragico.
Un’altra vita si annuncia dopo quella che appare una fine. Non così per il mondo pagano che, non avendo speranze ultraterrene, sa di non poter evitare la propria sorte mortale, di fronte alla quale, come dice Sartre: «È la stessa cosa aver guidato popoli o essersi ubriacati in solitudine». Dal nulla venuto e al nulla destinato, il pagano, a differenza del cristiano, non chiede il senso della propria esistenza. Sapendosi evento della natura che, nella sua crudeltà innocente, conduce alla morte tutti coloro che ha generato, il pagano si affida a quella temporalità ciclica, propria della natura, che governa il nascere e il dissolversi di tutte le vite, secondo necessità. Una natura a un tempo generativa e distruttiva, copiosa di vita e di morte.
Qui il paganesimo greco coglie l’essenza del tragico, dove l’innocenza della natura nel suo eccesso di vita e nella sua crudeltà confligge con la vita del singolo individuo che vuol durare. Dalla dimensione tragica il paganesimo greco fuoriesce non ipotizzando, come il cristiano, un mondo ultraterreno, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere che consentono, come dice Ippocrate, di procrastinare la vita evitando almeno la morte evitabile. Non illudersi, quindi, affidandosi a cieche speranze, non rassegnarsi nella più tetra delle malinconie, ma conoscere per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità o ignoranza.
Non così il paganesimo nord-europeo che alla conoscenza ha preferito la rassegnazione, e ha reagito alla malinconia che l’accompagna col tripudio della festa notturna dei morti che ritornano per spaventare i vivi, e con i vivi che indossano teschi e cospargono il corpo di rigagnoli di sangue per esorcizzare nella finzione lo spettro della morte. In questa macabra festa, dove si sfida la morte col riso sarcastico di chi non può sfuggire a una sorte ineluttabile, si sospendono tutte le regole adottate per una buona conduzione della vita, si infrangono tutti i tabù, ci si concede a tutti gli eccessi, in quell’atmosfera pallida che il chiarore della luna concede, quasi a simulare il pallore della morte. Perché se il sole è vita, nella notte di Halloween, ciò che si celebra è il sole spento, quella luce nera e così poco rassicurante che presagisce il buio dell’oltretomba.
I bambini, che ancora non percepiscono la propria morte, in quella notte, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano a 13 porte gridando con tono minaccioso "Dolcetto o scherzetto" (Trick or treat, nella versione inglese), richiamo alla tradizione celtica che voleva si lasciassero dei dolci sulla tavola in segno di accoglienza per i defunti che in quella notte avessero fatto visita ai vivi. Ma perché bussare 13 porte se le case del cielo che presiedono il ritmo della natura sono 12 come i mesi dell’anno?
Perché la tredicesima porta, come ci ricorda Jean Bodin nel suo trattato sulla Demonomania del 1580, è quella che annuncia: «Il crollo imminente dell’ordine, con mutamenti del ciclo delle stagioni, morie di bestiame, carestie imminenti, piogge di sangue e di pietre».
Del resto, se io devo morire, perché non anche il mondo? Tutto è vano, tutto fu. E di fronte all’indifferenza della natura e all’insignificanza della vita umana, si faccia festa. Non la festa dionisiaca della cultura greca che è deflagrazione di un ordine in vista di un ordine nuovo (Dioniso e Apollo), ma beffardo esorcismo di una cupa rassegnazione, e quindi urlo che spezza ogni presunta armonia, o, come si legge nelle Bucoliche di Virgilio, «canto sfrenato che può tirar giù dal cielo anche la luna». Questo è Halloween. Il canto della disperazione.
Perché la modernità recupera questo antico rito? Perché della cultura greca il nostro tempo ha perso la "giusta misura", e del cristianesimo la speranza di salvezza. Ciò che è rimasto è il motivo cristiano della denigrazione del mondo (Qui amat mundum non cognoscit Deum, diceva Sant’Agostino). Una denigrazione che si accompagna al piacere morboso e perverso della propria dissoluzione. E tutti sappiamo che nel cupio dissolvi c’è anche del gusto, l’unico forse che davvero assapora la tarda modernità. Halloween è solo una festa, che però richiama il sentimento del nostro tempo che fatica sempre più a dar senso alla vita e alla morte, e perciò celebra l’apoteosi del nulla.
Bamboccioni. Quei giovani che vivono nella bolla familiare
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 9 ottobre 2007)
Non mi pare inopportuna la definizione di "bamboccioni" formulata da Padoa-Schioppa a proposito del 52 per cento delle donne e del 70 per cento degli uomini che a trent’anni vivono ancora con i genitori. E tutte le reazioni suscitate danno l’impressione di voler blandire ancora una volta i giovani, invece di sollecitarli a uscire da questa loro infanzia prolungata. Ma, al di là delle polemiche, forse è bene vedere da vicino i fattori che determinano questa “bolla familiare” che sembra arrestare quello che la storia ha sempre conosciuto come “passaggio generazionale”.
1. Innanzitutto perché chiamare “giovani” uomini e donne di trent’anni? Perché la vita si è allungata, si è soliti rispondere. Non è vero. Si è allungata la vecchiaia, dal momento che a sessant’anni si è più o meno tutti in pensione. Ed è già una sproporzione trent’anni per crescere e trent’anni per essere soggetti attivi.
2. La società si è fatta complessa e affollata, e perciò ha adottato come strumento di selezione il prolungamento dei processi formativi, per cui le funzioni che un tempo svolgeva un geometra o un ragioniere a diciotto anni oggi sono espletate da chi ha conseguito una laurea o addirittura un master in architettura o un economia a ventotto anni.
3. Questo prolungamento di dieci anni, oggi richiesto per raggiungere livelli di competenza, trattiene in famiglia, per un decennio in più, i figli, che così erodono la ricchezza accumulata dai genitori, peraltro beneficiari di uno stato sociale che i figli già oggi sanno di non poter godere. Per effetto di questa erosione i figli dei figli non potranno fruire della ricchezza dei padri e lo spettro della penuria si fa incombente per le generazioni future, per cui si mettono al mondo meno figli, non solo per le difficoltà economiche di crescerli e per la carenza di strutture educative e assistenziali.
4. È caduto il tabù della sessualità che, culturalmente, era il primo motore del congedo dei figli dalla famiglia d’origine. Oggi a partire dai sedici anni i ragazzi possono fare l’amore nella loro stanzetta con genitori, se non consenzienti, senz’altro permissivi, per cui il bisogno di uscire di casa si attenua, perché già in casa si dispone di quel che un tempo era consentito solo fuori casa. Niente di male, per carità, ma è un fatto.
5. La famiglia è diventata un raduno di mondi separati dove, se non ci sono particolari conflitti, ciascuno conduce la sua vita nel reciproco rispetto, ma soprattutto senza interferenze. I legami affettivi, dati per acquisiti, non si alimentano. E se si cena insieme lo si fa davanti alla televisione. Si sviluppa così un concetto di libertà come “indipendenza” da chiunque altro, con in comune solo la fruizione dei servizi materiali. Per cui chi resta in famiglia avverte sempre meno il peso dei legami parentali un tempo decisamente più vincolanti di oggi.
6. Questo essere insieme tutelati dall’assoluta libertà individuale sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti. Se la famiglia d’origine garantisce che ogni scelta non implica effetti irrevocabili, non muta il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può anche risultare irrevocabile, perché abbandonarla?
7. Ne Il disagio della civiltà Freud osserva che nel processo di civilizzazione l’umanità ha dovuto sacrificare una parte di libertà e felicità individuale per garantirsi un po’ di sicurezza. A questo sacrificio non sono chiamati i “bamboccioni” a cui ha fatto riferimento Padoa-Schioppa, perché nella famiglia d’origine la sicurezza è maggiore di quella che ci si potrebbe garantire uscendo di casa e, dopo quanto abbiamo detto, anche la libertà non è in alcun modo limitata. Sicurezza e libertà non confliggono più, non esigono alcun sacrificio e, stante la libertà sessuale consentita, anche la felicità non soffre di particolari limitazioni.
Resta un solo inconveniente: che là dove la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma la scelta di tenersi aperta la libertà di scegliere non si costruisce alcuna biografia, ma si rimane in quello stato infantile (i “bamboccioni”) dove tutto è possibile perché nulla è ancora ben definito. E questo a trent’anni, quando la vita ha già lasciato alle sue spalle più di un terzo del proprio percorso.
8. A parziale giustificazione di questa tendenza di massa a restare nella famiglia d’origine è che, come fa notare Miguel Benasayag ne L’epoca delle passioni tristi il futuro ha cambiato segno, e da “futuro promessa” è diventato “futuro minaccia”. E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro, quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, dove trovare il coraggio e la voglia di abbandonare un porto sicuro? In questo scenario resta aperta una sola domanda: quali saranno tra non molto le conseguenze sociali dell’implosione della forza di inserimento e di coraggio tipica dell’età giovanile?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
In attesa di Halloween, benvenuti all’inferno
Il mondo è pieno di luoghi ritenuti ingresso del regno delle ombre
Dall’antro della Sibilla Cumana al cuore voodoo di New Orleans
di Vittorio Sabadin (La Stampa, 20.10.2016)
Tra poco sarà di nuovo Halloween, e i negozi già espongono i costumi da fantasma che indosseranno i ragazzi. Ma il mondo è pieno di luoghi dove si possono incontrare fantasmi autentici. Ogni religione colloca il proprio inferno nelle viscere della Terra, in un sottosuolo spaventoso pieno di tormenti, bruciato da fiamme eterne. Poiché ognuno di questi inferni ha un’entrata, le agenzie turistiche potrebbero benissimo organizzare visite agli inferi: nel mondo ci sono almeno dieci ingressi conosciuti al regno delle ombre, al quale bisogna però avvicinarsi con grande prudenza, perché il viaggio non sia di sola andata.
Darmon Richter, un giornalista e fotografo che si appassiona a cose strane (sta studiando i monumenti sovietici nei paesi dell’Europa dell’Est) e lavora anche per Daily Telegraph e The Guardian, ha compilato il primo elenco delle porte degli inferi, che da giorni rimbalza online da un sito all’altro. Finire all’inferno è sempre una sciagura, ma almeno si ha il vantaggio che praticamente ogni paese ha il suo ingresso. Quelli con il maggior numero di peccatori ne hanno anche più di uno.
In Italia
In Italia, ad esempio, ce ne sono almeno tre. Il più noto è al lago d’Averno, vicino a Pozzuoli, sotto il quale Enea ha incontrato prima Didone nei campi del pianto, e poi i compagni troiani caduti in battaglia. Poco lontano, c’è un altro ingresso celebrato da Virgilio, l’antro della Sibilla cumana, che ancora oggi riverbera l’eco delle sue profezie. Nessuno può negare che sotto a questi luoghi si trovi un vero inferno, i Campi Flegrei, una caldera vulcanica assopita da secoli, ma non per questo meno minacciosa, piena com’è di ribollenti solfatare vicino alle quali venne girato persino il film Totò all’inferno.
Un’altra porta dell’Ade si trova nel centro di Roma, tra le rovine del Foro, nei pressi della Curia. Secondo Tito Livio, qui si era aperta una voragine che nessuno riusciva a riempire. Un oracolo suggerì di gettarvi la cosa più preziosa della città e un centurione, Marco Curzio, affermando che questa cosa era il coraggio dei suoi soldati, vi si gettò dentro con il suo cavallo. Oggi di quella voragine resta nel Lacus Curtius un piccolo pozzo, buono solo per lanciarvi augurali monetine.
In Europa
In Grecia le porte degli inferi si trovano a Capo Matapan, nel Peloponneso. L’ingresso è comodo, ci si arriva in barca attraverso grotte sul mare e infatti molti ne hanno approfittato: ci sono passati Orfeo, che ha percorso mille gradini in discesa cercando Euridice, e poi Ercole per la sua dodicesima fatica, catturare Cerbero. Non molto lontano, a Ierapoli, nei pressi della città turca di Denizli, c’è l’ingresso all’inferno più pericoloso. E’ stato scoperto solo nel 2014, ma Strabone già ne parlava nel I secolo a.C. come della dimora del dio Plutone dalla quale uscivano vapori velenosi che uccidevano gli uccelli e inducevano allucinazioni e stati di trance negli esseri umani.
Nel corso del Medioevo la porta degli inferi più popolare si trovava in Islanda, sotto il vulcano Ecla. Ne scrivevano con terrore i monaci cistercensi che avevano assistito alle sue spaventose eruzioni, una ventina in successione a partire dal 1100. Sulla sommità del vulcano volteggiavano le anime dei dannati e la caldera era considerata l’eterna prigione di Giuda. Il vulcano da qualche anno è calmo, ma a ogni Pasqua tutti giurano di vedere streghe danzanti sul ciglio.
Nel mondo
Ovviamente, uno dei posti migliori dove cercare una porta dell’inferno è New Orleans, regno dei riti voodoo. Ma il percorso è complicato: qui le anime dei defunti non vanno direttamente agli inferi, ma passano prima attraverso un purgatorio. Se si vuole incontrare Baron Samedi, bisogna poi aprire sette porte nell’ordine giusto e nessuno sa dove si trovino. Si dice che la prima sia nella tomba della veggente e sacerdotessa Marie Lavau al cimitero Saint Louis, ma c’è chi consiglia invece di andare all’incrocio tra Canal Street e Basin Street e chiedere informazioni al primo tipo strano che passa.
Altri ingressi al mondo delle ombre si trovano in Giappone, nella città di Beppu, famosa per le sue sorgenti calde e colorate. Quella di Chinoike Jigoku, rossa a causa dell’ossido di ferro, sviluppa 78 gradi di temperatura ed è stata un luogo prediletto per la tortura dei prigionieri. In Cina c’è una intera città dedicata ai fantasmi, Fengdu, il luogo dove passano tutte le anime nel loro viaggio verso Naraka, il mondo sotterraneo del buddhismo. Nel Belize c’è la Grotta del sepolcro di cristallo, l’Actun Tunichil Muknal dei Maya, piena di scheletri lasciati lì perché sono inutili nel regno dello ombre.
Insomma, non c’è che l’imbarazzo della scelta: romani e greci pensavano che ci fosse una sola virtuosa via per accedere ai Campi Elisi, ma di porte per l’inferno è pieno il mondo.