Nuccio Ordine, CONTRO IL VANGELO ARMATO. GIORDANO BRUNO, RONSARD E LA RELIGIONE, Cortina editore, 2007
Maria Mantello intervista Nuccio Ordine (n° 92 di Lettera Internazionale)
Nuccio Ordine è professore di Teoria della letteratura nell’Università della Calabria ed ha insegnato in diversi atenei europei e statunitensi. Esperto di autori del Rinascimento e di teoria dei generi letterari, ha raggiunto fama internazionale soprattutto per i suoi studi su Giordano Bruno, di cui ha curato anche l’edizione delle Opere Italiane per “Les Belles Lettres” e per la Utet . Quella di Nuccio Ordine per Bruno è una passione coltivata con impegno negli anni. Un lavoro di scavo nei testi bruniani, che gli ha consentito di raggiungere livelli critici notevoli. Ma che soprattutto stimola ad un approccio diretto agli scritti del Nolano. L’esperienza critica condotta da Ordine, come ha scritto il premio Nobel per la chimica (1977), Ilya Prigogine: “ha il merito di saper svegliare la curiosità del lettore e rendere appassionante la straordinaria esperienza filosofica di Giordano Bruno”. Altro merito di Ordine è quello di aver aperto una vasta riflessione sulle radicali innovazioni linguistiche della “Nolana Filosofia”. Nell’infinto cosmo di Bruno non ci sono più punti fissi. Si aprono infinite possibilità di conoscere ed agire. Cadono dogmi e si infrangono stereotipi. Allora, anche gli stantii codici letterari vengono sottratti alla gabbia della pedanteria dominante per intrecciarsi in un’inedita e straordinaria mescolanza di generi, linguaggi, stili.
Ma la prospettiva semiologica dei testi bruniani è stata delineata da Ordine anche attraverso l’analisi della complessa figurazione simbolica con cui Bruno riannoda la separazione cielo-terra operata dal cristianesimo. Si pensi ad una metafora come quella dell’asino, che tanto spazio ha nella filosofia del Nolano. Come ha scritto Eugenio Garin: “Nuccio Ordine è il primo a recensire sistematicamente il senso teorico dell’asinità, a precisarne ogni ambivalenza. Ad analizzare le sue accezioni contradditorie, a mostrare come questo gioco di significati opposti porti al cuore del pensiero del Nolano”. L’asinità ha infatti per Bruno due facce speculari: da un lato la connotazione negativa del dogmatismo arrogante e dell’obbedienza pedantesca; dall’altra quella positiva della umile pazienza, che arriva a spezzare l’unidimensionalità delle conclusioni, per conquistare con Fatica e Lavoro il pluralismo della ricerca. Come allora spesso accade nella filosofia di Bruno, il vizio si può ribaltare, per trasformarsi in qualità. Pertanto, anche la quiete rassicurante del simbolico asino può diventare strumento di riscatto dell’individuo. Così, proprio in virtù di una propositiva pazienza ogni individuo può superare soggezione e sottomissione per uscire dallo stato asinino della passività fideistica.
Nel suo recente libro, Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione (Cortina editore, febbraio 2007), i testi di Bruno (in particolare lo Spaccio della bestia trionfante) sono accostati a quelli del poeta della Pleiade, Ronsard, ma anche a quelli dell’ambasciatore del re di Francia, Michel de Castelneau e di altri intellettuali coevi. Da questa interessante lettura comparata emerge quanto l’ambiente politico-culturale della corte dei Valois fosse ampiamente caratterizzato dai grandi fermenti di tolleranza culturale, proprio nella diffusa condanna dei fanatismi religiosi. Scrive Ordine: “E’ possibile rintracciare anche una lunga tradizione poetica e iconografica legata ai Valois: il monarca-filosofo libero da ogni dogma di fede, in grado di riconoscere l’utilitas del culto ai fini sociali per superare i conflitti e rafforzare lo Stato” (p.142). Ed è proprio in questo ambito, che non a caso Giordano Bruno cerca affinità elettive ed alleanze politiche per prospettare la sua Riforma, il cui fine è quello di creare un mondo di pace e giustizia.
Si parla dell’Europa della seconda metà del ‘500, ma il pensiero va inevitabilmente ai nostri giorni, dove un rinnovato fondamentalismo delle fedi ripropone tragicamente mai dismesse aspirazioni teocratiche (di casa nostra e d’importazione), che fanno temere rinnovate guerre di religione. In questa prospettiva, l’insegnamento del filosofo postcristiano Bruno, che pensa alla religione come legame umano di coesione civile, frutto della responsabile e consapevole intersoggettività dell’azione umana nella storia, è allora ancora di grande attualità. Ne parliamo con Nuccio Ordine
Partiamo dal titolo del suo ultimo libro: perché Contro il Vangelo armato?
È la citazione di un verso di Ronsard della raccolta Discours des Misères de ce temps: in questo straordinario pamphlet il fondatore della Pléiade prende la distanza dai fanatismi religiosi dei protestanti e dei cattolici. La guerra civile tra “papisti” e “ugonotti” stava trascinando la Francia nel baratro della disgregazione sociale, morale ed economica. Senza ricostruire il dibattito che si andava svolgendo alla corte dei Valois e nell’Accademia del Palazzo, fondata successivamente da Enrico III, sarebbe stato difficile cogliere la sottile rete di allusioni e di rinvii utilizzata da Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante. E, sempre in riferimento al milieu francese, non bisogna dimenticare un elemento finora sfuggito alla critica bruniana: che il Nolano lavora al suo dialogo sulla riforma celeste nell’ambasciata francese a Londra proprio mentre l’ambasciatore e suo protettore, Michel de Castelnau, scrive i suoi Mémoires
Un’opera autobiografica in cui è possibile rintracciare elementi di riflessione in comune con Giordano Bruno?
Certamente. La critica bruniana aveva scartato i Mémoires ingannata dalle date che precedono i vari capitoli: il diario si apre con la morte di Enrico II (1554) e si chiude con l’editto di Saint Germain (1570). Bruno arriva in Francia e in Inghilterra negli anni Ottanta: quindi, apparentemente, nessuna speranza di trovare riferimenti utili. Solo dopo aver letto per intero l’opera ci si accorge che le annotazioni di Castelnau vanno ben al di là dei limiti cronologici: partendo da alcuni specifici episodi, l’ambasciatore divaga fino a parlare di eventi accaduti durante gli anni Ottanta. Nessuna allusione diretta a Bruno. Ma i Mémoires sono ricchi di importantissime riflessioni sui disastri provocati dalle guerre di religione, sulle conseguenze nefaste dei fanatismi cattolici e protestanti, sulla funzione civile dei culti, sulla necessità di ripristinare la Legge e la Giustizia. Mi sembra una coincidenza straordinaria: Bruno e Castelnau, sotto lo stesso tetto, scrivono due opere che, in maniera diversa, analizzano ruolo e responsabilità della religione nella vita civile. Non è un caso che Ronsard dedichi a Castelnau dei versi. E che Castelnau reciti a Fontainebleau una stupenda poesia di Ronsard sul teatro del mondo.
specifichiamo meglio la posizione politica di Ronsard.
Il poeta, assieme ad altri letterati legati a Caterina de’ Medici e agli eredi di Enrico II, si schiera a difesa della Monarchia, dello Stato, delle istituzioni civili. Ronsard, sulla scia di Machiavelli, riconosce che la religione ha soprattutto una funzione civile: il culto deve fungere da cemento sociale, deve avere un ruolo eminentemente politico. Nella sua polemica contro i fanatismi non c’è nessun interesse per questioni di natura teologica. Ronsard non risparmia critiche agli immorali comportamenti del clero cattolico, che hanno provocato la reazione della Riforma: vendere benefici, distribuire ruoli di responsabilità nella gerarchia ecclesiastica trascurando i meriti e la vocazione per privilegiare famiglie potenti e accordi politici. Ha significato ridurre la religione a mercimonio e corruzione. Ma Ronsard sostiene anche che non si possono correggere gli errori della Chiesa proponendo un rimedio che è peggiore del male: la conflittualità dottrinale aperta dai protestanti e la convinzione di ogni setta di possedere la verità universale hanno scatenato guerre non solo contro i diretti oppositori cattolici, ma anche all’interno dello stesso fronte riformato.
E come si inserisce Bruno in queste complesse problematiche?
Bruno arriva a Parigi vent’anni dopo l’inizio dei conflitti. E vuole immediatamente mostrare come compito della “nolana filosofia” sia anche quello di segnalare gli effetti deleteri della fede e della teologia sui diversi piani del sapere e della vita civile. Non a caso sin dal Candelaio, il Nolano distingue con chiarezza tra fede e verità, religione e filosofia. Per il nostro filosofo, i libri sacri non parlano di filosofia. I libri sacri non descrivono i fenomeni naturali, né indagano i segreti degli astri. I libri sacri hanno solo il compito di dettare delle leggi morali a chi non ha gli strumenti per indagare da solo la verità. Ecco perché il teologo (pastore di popoli) deve occuparsi delle masse ignoranti: queste ultime, oltre alle leggi civili, hanno anche bisogno di leggi divine che favoriscano la pace e la «civile conversazione».
Nello Spaccio de la bestia trionfante, Bruno considera centrale questa distinzione
Eccome! L’intero dialogo ruota sul valore civile della religione. Nella riforma celeste, Giove spiega con chiarezza che i culti sono stati istituiti dagli dei solo per far vivere gli uomini nella pace e per rafforzare le Repubbliche. Gli dei non si adirano per una bestemmia o per un’offesa a loro indirizzata: gli dei si adirano quando si compiono azioni che provocano lacerazioni nella coesione sociale, indebolendo lo Stato, la Legge, la Giustizia. Non esistono religioni vere e religioni false (e chi potrebbe stabilire in materia di fede ciò che è vero e ciò che è falso?). Esistono religioni utili e religioni dannose. E l’efficacia di una religione si può misurare solo sugli effetti positivi o negativi che essa produce nella società. Ecco perché Giove tesse l’elogio dei Romani: la gloria della Roma repubblicana sta proprio nell’aver saputo stimolare, attraverso il rispetto divino, l’amore per la patria e per le leggi. L’honos romano si configura così come praemium virtutis, come riconoscimento pubblico per ciò che si è fatto a favore della comunità sociale. Contano, insomma, solo parole ed opere in grado di produrre frutti per le istituzioni civili...
Pagine in cui è possibile ritrovare l’eco dei Discorsi di Machiavelli?
Non c’è dubbio. Sono molto eloquenti le lodi indirizzate ai Romani e le feroci critiche rivolte al cristianesimo: se i pagani hanno saputo piegare le cerimonie a fini civili, i cristiani hanno completamente sacrificato l’orizzonte mondano per privilegiare esclusivamente quello divino. Si tratta di temi che erano ampiamente discussi in Francia e in Inghilterra. Non bisogna dimenticare che Enrico III leggeva i testi del Segretario fiorentino direttamente in italiano (grazie alla collaborazione di alcuni profughi come Bartolomeo Del Bene) e che a Londra nel 1584 (anno in cui viene stampato lo Spaccio) l’editore John Wolf pubblica i Discorsi.
Bruno nello Spaccio della bestia trionfante, proprio come Ronsard, ribadisce a più riprese la radice etimologica del termine religio. Vogliamo approfondire?
La specifica funzione politica della religione, così come Giove la teorizza nella sua riforma celeste, è iscritta anche nella sua etimologia: religio deriva da religare, proprio perché il compito principale dei culti è quello di unire, di aggregare, di saldare. Ronsard usa un’immagine molto forte: la religione è un «ciment» che tiene assieme la comunità civile. Ma sia Ronsard, che Bruno tengono a sottolineare che questo “legame” non unisce l’uomo a dio, ma l’uomo all’uomo. All’interno di questa visione i principali nemici della religione sono coloro che, in nome della religione, disseminano morte e distruzione...
Sarebbero i Giganti del mito, che intraprendono la scalata verso l’Olimpo per impossessarsi del potere e far piazza pulita delle Leggi e della Giustizia?
Si tratta di un mito importante, sfuggito alla critica bruniana. Nei commenti allo Spaccio nessuno aveva spiegato perché Giove programma la sua riforma celeste nel giorno della commemorazione della vittoria sui Giganti. Proprio allo scoppio delle guerre di religione in Francia, Ronsard ed altri poeti identificano il re di Francia con Giove che fulmina i superbi Giganti-ugonotti. E Bruno riprende il mito, piegandolo al suo disegno: quello di liberare la filosofia morale dai fanatismi religiosi.
Nel suo libro è evidenziato come i fanatismi religiosi, oltre ad investire la sfera etica, finiscano anche per inasprire il dibattito sull’estetica, pretendendo di fissare limiti e prescrizioni all’uso della lingua, dei generi... degli stessi miti.
Basta rileggere un eloquente passaggio di Calvino contro i nicodemiti per ritrovare le tesi di fondo dell’estetica riformata più radicale: il vero scrittore cristiano deve respingere il falso e lascivo mondo pagano dei miti per abbracciare la verità della parola sacra. Ecco segnata la frattura tra la corrotta letteratura popolata da false divinità e la divina teologia. Frattura condivisa anche dai cattolici più ferventi che, da posizioni diverse, si associano alla battaglia contro gli “dei menzogneri”, contro una cultura classica in contrasto con i testi sacri. Non a caso gli attacchi che gli ugonotti rivolgono a Ronsard non riguardano solo la sua concezione della religione, ma si estendono anche alla sua concezione della lingua, al suo uso del serio e del comico, al suo interesse per autori “lascivi” come Boccaccio e Aretino, alla sua ammirazione per i modelli classici. Bruno, in coerenza con la sua nuova cosmologia infinitistica, opera una rivoluzione sul piano estetico ancora più eclatante: trasferisce la filosofia nella commedia (si pensi al Candelaio) e la commedia nel dialogo filosofico (si pensi alla teatralità di dialoghi come la Cena e lo stesso Spaccio). Ma c’è di più: contro i precetti dell’aristotelismo dominante, il Nolano unisce commedia e tragedia, riso e pianto, serio e comico, vocaboli colti e osceni, filosofia e letteratura...
Fermiamoci un momento sull’impresa di Enrico III (“Ultima coelo manet”) che Bruno commenta nello Spaccio. Dalla sua dettagliata ricostruzione emerge un rovesciamento radicale del significato dell’immagine delle tre corone. Al contrario di ciò che pensava Frances A. Yates, lei ipotizza che la corona celeste (che resta in cielo) sia al servizio delle due corone terrestri. E non viceversa
La questione è complessa ed è difficile riassumerla in poche righe. La Yates sostiene che la corona celeste è la corona spirituale che attenderà in cielo Enrico III dopo la sua morte. A me pare che le cose siano più complicate. Ho passato in rassegna quasi tutta la letteratura emblematica fino al Seicento e una serie di testi in cui si parla dell’impresa di Enrico III. La famosa terza corona che resta in cielo potrebbe significare due cose: una concreta e mondana (il regno d’Inghilterra) e l’altra più politica e astratta (la religione al servizio della vita civile, delle due corone terrene, della Monarchia). Da una parte, quindi, un messaggio all’Inghilterra: Enrico III non ha nessun interesse a conquistare la terza corona. Rinuncia quindi alle aspirazioni imperialistiche francesi che da decenni venivano esaltate e incoraggiate dai letterati vicini ai Valois, perché i veri nemici da battere sono la Spagna e i fanatismi religiosi. Dall’altra parte, Enrico III, nell’interpretazione di Bruno, ribadisce, in sintonia con Elisabetta d’Inghilterra, che il culto religioso ha una funzione civile e che deve essere utilizzato dalla monarchia per creare coesione sociale.
Lei sostiene (e lo ha ribadito anche nell’intervento che ha tenuto lo scorso 17 febbraio in Campo de’ Fiori) che Bruno per battere l’intolleranza dei fanatismi religiosi ricorre a un importante corollario della sua rivoluzione cosmologica: in un universo infinito non esiste più un centro assoluto.
Questo mi pare il punto di partenza su cui il Nolano costruisce il suo programma rivoluzionario. Liberare la terra dalle catene del geocentrismo è il primo movimento della “nuova filosofia”. Bruno va al di là di Copernico: non solo colloca il sole al centro, ma inserisce l’intero sistema solare all’interno di un universo infinito. E nell’universo infinito non c’è più un centro assoluto: il centro dell’universo infinito è l’individuo che guarda l’universo. Le implicazioni di questa nuova visione cambiano radicalmente il nostro modo di ragionare: si spazzano via tutte le false gerarchie (la formica più piccola e l’astro più grande sono, allo stesso titolo, il centro dell’universo e quindi godono della stessa dignità) e si distrugge, una volte per tutte, la pretesa che possa esistere un punto di vista assoluto. Nessuno insomma, può pensare di possedere la Verità (quella con la v maiuscola). Unica ed esclusiva.
Ma oggi il relativismo viene demonizzato dalle gerarchie cattoliche.
Mi pare che ci sia una fortissima contraddizione nei sermoni che Benedetto XVI tiene da qualche tempo sul relativismo. Essere relativisti, secondo una vulgata costruita ad uso e consumo dei dogmatici, vorrebbe dire mettere tutto sullo stesso piano, rinunciare alla ragione, disprezzare la scienza, coltivare l’irrazionalismo, discreditare l’universale, negare l’esistenza di ogni valore. Un identikit nel quale nessuno degli oppositori delle “chiese” e i dei loro dogmi, munito di buon senso, si riconoscerebbe. Come si può essere sostenitori della verità assoluta e poi proporre un dialogo costruttivo con le altre religioni? Come si può immaginare un autentico confronto senza la coscienza che la propria verità possa essere messa in discussione? Bruno non ha dubbi: coloro che ritengono di possedere la verità assoluta e coloro che ritengono che nessuna verità esista producono, per eccesso e per difetto, effetti disastrosi sul piano del sapere e della vita civile, aprendo la strada all’intolleranza e ai fanatismi. Riconoscere i limiti di ogni verità e di ogni certezza non significa rinunciare a battersi per dei valori: significa solo considerare ogni conquista nella sua finitudine e nella sua provvisorietà.
Ritornando alla distinzione tra fede e filosofia, di cui lei parlava all’inizio, non le pare che ancora oggi i piani rischiano di sovrapporsi?
Purtroppo spesso non si tiene conto degli errori commessi nel passato. Giudicare la validità del copernicanesimo alla luce dei testi sacri ha prodotto soltanto ingiuste torture e strazianti morti di innocenti pensatori. Lo ricordava ancora Leopardi, in una delle sue operette morali dedicata allo stesso Copernico, in cui si fa allusione al rogo di Giordano Bruno. La Chiesa ancora nell’Ottocento si ostinava ad apporsi alle scoperte scientifiche. Oggi si commettono pericolosi errori in nome di pregiudizi religiosi: non si può ricorrere alla Bibbia per spiegare la differenza tra un essere umano e una cellula fecondata. Galileo, sulla scia di Bruno, lo avevo detto bene: i libri sacri non ci insegnano come va il cielo ma come si va in cielo...
Ma anche l’elogio della molteplicità e della varietà che Bruno tesse in tante bellissime pagine dei dialoghi italiani, sembra essere in netto contrasto con alcune tendenze dei nostri giorni in cui l’incontro di culture diverse viene guardato con terrore.
Per Bruno, la molteplicità non è un ostacolo alla crescita dell’umanità, ma un’immensa ricchezza. Solo nella polifonia (non a caso sceglie il genere dialogo per illustrare a più voci la sua “nuova filosofia”); solo nell’incontro-scontro di filosofie, culture, lingue, generi, popoli diversi è possibile immaginare una continua quête in grado di mettere in discussione luoghi comuni e verità consolidate. La presunzione, anche in questo caso, di esportare con la violenza e la forza i propri valori ha provocato catastrofi enormi nella storia dell’umanità. Poche voci nel Cinquecento, assieme a quella coraggiosa di Las Casas, si levarono a sostegno degli Indios nelle Americhe: gli Spagnoli avevano sterminato popolazioni inermi con il pretesto di portare la civiltà tra i “selvaggi”, ma ci sono voluti secoli per capire che i marinai assetati di sapere erano, in fondo, solo dei pirati assetati di oro e di argento. Le pagine della Cena e dello Spaccio dovrebbero farci riflettere su alcune mistificazioni imperialistiche contemporanee: con il pretesto di esportare libertà e democrazia (ma su questo tema si vedano le acute riflessioni di Luciano Canfora), si usa la spietata forza delle armi per perseguire ben altri fini (poco nobili) legati al profitto e al petrolio
Lei ha sottolineato più volte che i miti spesso danneggiano gli autori che ne sono oggetto.
Nel caso di Bruno mi sembra ancora più vero. Mi è capitato in diverse circostante di leggere e ascoltare riflessioni deliranti sul filosofo, prive di qualsiasi conoscenza diretta delle opere. Conteso da movimenti e sette, utilizzato in riti segreti e in lotte di piazza, bisogna dire però che, per fortuna, la poliedrica immagine del filosofo è riuscita comunque a sfuggire a qualsiasi tentativo di cristallizzazione. Non a caso, nel corso dei secoli, su Bruno è stato detto tutto e il contrario di tutto: campione della magia e precursore della scienza, fautore dell’oscurantismo e anticipatore della modernità. Ma per evitare di farne un “santino”, bisogna insistere sulla lettura delle opere. Ecco perché - assieme all’avvocato Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - alla fine degli anni Ottanta pensammo che la maniera migliore di prepararsi al quarto centenario della sua morte (17 febbraio 2000) fosse proprio quella di pubblicare un’edizione critica delle sue opere: grazie al grande lavoro filologico di Giovanni Aquilecchia, alla preziosa competenza di tanti studiosi di diversi paesi europei e alla disponibilità di un grande editore di classici come Les Belles Lettres, tra il 1993 e il 1999 abbiamo stampato le sette opere italiane (ora ripubblicate dall’Utet in edizione economica), un vero monumento al pensiero bruniano. Incoraggiare le nuove generazioni a leggere le opere di Bruno: è questa la strada più diretta per onorare la memoria di questo grande filosofo e per un autentico confronto con il suo pensiero.
Maria Mantello
(11-10-2007)
Sul tema delle "tre corone" in Dante - e non solo, in rete, si cfr.:
LE TRE CORONE DELLA CELEBRATA IMPRESA DELL’INVITTISSIMO ENRICO III
Dallo Spaccio de la bestia trionfante: *
[...] Or bene dunque, disse Giove, da questo luogo si parta la Bestialità, l’Ignoranza, la Favola disutile e perniziosa; e dove è il Centauro, rimagna la Semplicità giusta, la Favola morale. Da ove è l’Altare, si parta la Superstizione, l’Infidelità, l’Impietà e vi soggiorne la non vana Religione, la non stolta Fede e la vera e sincera Pietade. -
Qua propose Apolline: - Che sarà di quella Tiara? a che è destinata quella Corona? che vogliamo far di essa? -
Questa, questa, rispose Giove, è quella corona, la quale, non senza alta disposizion del fato, non senza instinto de divino spirito e non senza merito grandissimo, aspetta l’invittissimo Enrico terzo, Re della magnanima, potente e bellicosa Francia; che dopo questa e quella di Polonia,si promette, come nelprincipio del suo regno ha testificato, ordinando quella sua tanto celebrata impresa, a cui, facendo corpo le due basse corone con un’altra piùeminente e bella, s’aggiongesse per anima il motto: Tertia coelo manet. Questo Re cristianissimo, santo, religioso e puro può securamente dire: Tertia coelo manet, perché sa molto bene che è scritto Beati li pacifici, beati li quieti, beati li mondi di cuore, perché de loro è il regno de’ cieli. Ama la pace, conserva quanto si può in tranquillitade e devozione il suo popolo diletto; non gli piaceno gli rumori, strepiti e fragori d’instrumenti marziali che administrano al cieco acquisto d’instabili tirannie e prencipati de la terra; ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto camino al regno eterno. Non sperino gli arditi, tempestosi e turbulenti spiriti di quei che sono a lui suggetti, che, mentre egli vivrà (a cui la tranquillità de l’animo non administra bellico furore), voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano a perturbar la pace de l’altrui paesi, con pretesto d’aggionger gli altri scettri ed altre corone; perché Tertia coelo manet. In vano contra sua voglia andaranno le rubelle Franche copie a sollecitar gli fini e lidi altrui; perché non sarà proposta d’instabili consegli, non sarà speranza de volubili fortune, comodità di esterne administrazioni e suffragii che vagliano con specie d’investirlo de manti ed ornarlo di corone,toglierli (altrimente che per forza di necessità) la benedetta cura della tranquillità di spirito, più tosto leberal del proprio che avido de l’altrui. Tentino, dunque, altri sopra il vacante regno Lusitano; sieno altri solleciti sopra il Belgico dominio. Perché vi beccarete la testa e vi lambiccarete il cervello, altri ed altri prencipati? perché suspettarete e temerete voi altri prencipi e regi che non vegna a domar le vostre forze, ed involarvi le proprie corone? Tertia coelo manet. Rimagna dunque (conchiuse Giove) la Corona, aspettando colui che sarà degno del suo magnifico possesso; e qua oltre abbia il suo solio la Vittoria, Remunerazione, Premio, Perfezione, Onore e Gloria; le quali, se non son virtudi, son fine di quelle. [...]
* Giordano Bruno, Spaccio dela bestia trionfante, a cura di Diego Fusaro
GiordanoBruno,Spaccio della bestia trionfante (testo integrale).
SCHEDA: “ Il testo, come tutti i dialoghi in volgare italiano pubblicati da Bruno a Londra tra il 1584 e il 1585, è stampato nell’officina tipografica di John Charlewood, pur recando sul frontespizio la falsa indicazione di Parigi come luogo di stampa. Muovendosi in una linea decisamente antiaccademica, Bruno sceglie la forma letteraria del dialogo e della lingua volgare, dando alle stampe nel breve volgere di due anni ben sei dialoghi; nel 1584: La cena de le Ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito, universo et mondi, e lo S.; nel 1585: Cabala del cavallo pegaseo. Con l’aggiunta dell’asino collerico e De gl’heroici furori.
In termini molto generali si può sostenere che nel primo gruppo di tre Bruno definisce la sua concezione dell’Universo alla luce di una radicale revisione delle dottrine cosmologiche tradizionali, negando la finitezza dell’Universo e la centralità della Terra della cosmologia aristotelico-tolemaica e costruendo sulla nozione di sostanza una e infinita la sua dottrina dell’Universo infinito, senza centro né periferia. Nel secondo gruppo di dialoghi, invece, diviene centrale l’aspetto etico della nuova onto-cosmologia e Bruno propone con urgenza la necessità di una «riformazione» dell’animo umano, dei valori e delle leggi che governano la «civile conversazione».
Dedicato a sir Philip Sidney, uno dei principali esponenti della corte elisabettiana, lo S. si compone di una Epistola esplicatoria e di tre dialoghi, suddivisi ciascuno in tre parti, in cui gli interlocutori, Sofia (elemento di mediazione tra uomini e dei), Saulino (alter ego di Bruno) e Mercurio (messaggero degli dei), discutono della riforma voluta da Giove durante un concilio con gli dei per mettere fine alla decadenza che opprime il mondo celeste.
Il cielo in cui si svolge l’azione è un firmamento fisicamente illusorio, popolato dalle 48 costellazioni descritte nell’Almagesto di Tolomeo; nella finzione dialogica esso è la metafora di un discorso morale. Lo «spaccio» (l’espulsione) dal cielo delle figure mitologiche che sin dall’antichità erano divenute simboli di specifici tratti caratteriali svela come la conquista di una rinnovata umanità comporti lo «spaccio» dei vizi/bestie che devastano l’animo umano.
Al posto delle costellazioni vanno collocate le personificazioni delle virtù, che Bruno indica come portatrici di valori positivi (Verità, Bontà, Prudenza, Fortezza, Filantropia, Magnanimità: «Nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano deve essere accettata») nel cielo allegorico e nell’orizzonte etico dell’umanità.
In questo contesto si inserisce una dura condanna per la perdita della dimensione sapienziale originaria, in cui l’uomo aveva un contatto diretto con la sfera del divino attraverso la Natura; tale perdita è causata dall’affermarsi della religione giudaico-cristiana, la cui forma deteriore è rappresentata dagli esiti recenti della Riforma (in partic. la dottrina della salvezza sola fide). Nella linea di filiazione giudaico-paolino-luterana, Bruno individua la ragione del rovesciamento delle leggi di natura, la dolenda secessio che ha portato alla frattura tra uomo e divinità; così nello S. Bruno rimpiange attraverso una traduzione rivisitata del celebre Lamento ermetico dell’Asclepius quel rapporto tra umano e divino che passa attraverso il riconoscimento della Natura come «diva madre», umiliata e vilipesa dalla posizione secondaria in cui la relegano le religioni rivelate. Il compito della «nova filosofia» è quindi il recupero delle radici della storia dell’umanità, il capovolgimento del rapporto tra cristianesimo e sapienza antica, riaffermando finalmente la perduta unità fra uomo, Natura e Dio.
La complessa struttura del dialogo e l’oscurità del titolo hanno fatto sì che lo S. fosse oggetto di numerose interpretazioni fin dai primi anni seguiti alla stampa: K. Schoppe - giovane luterano convertito, testimone oculare del rogo di Bruno in Campo dei fiori il 17 febbraio del 1600 - identificò nella «Bestia» il Pontefice romano, mentre il cosiddetto Postillatore napoletano (tra i primi e più sottili lettori del dialogo bruniano, che sulla sua copia del testo appose numerose note), ne indicò la fondamentale polemica contro la religione riformata.
A partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento si è affermata la lettura integralmente ‘ermetica’ di F.A. Yates, ormai definitivamente sostituita da una tendenza a collocare il dialogo nel contesto in cui fu scritto e nel serrato e fecondo confronto di Bruno con le fonti più disparate.” (da Treccani.it)
Nuccio Ordine, "Tre corone per un re: L’impresa di Enrico III e i suoi misteri" Bompiani - 576 pagine
FLS
GEOCENTRISMO, ELIOCENTRISMO, E COSTITUZIONE DEL "MONDO". SHAKESPEARE, IL NOME DI OFELIA, E SOLO IL SOLE IN CIELO, AL CENTRO.
L’EUROPA ANCORA NELLA CAVERNA DELL’ANDROCENTRISMO PLATONICO E PAOLINO E I POSSIBILI RIMANDI DELL’AMLETO "ELISABETTIANO" AL CONTESTO STORICO-POLITICO DELL’ EUROPA DELL’EPOCA, CARICO DI ATTESE DA PARTE DEL "POPOLO" DEI "SOLARI"...
"DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM COELESTIUM" (COPERNICO, 1543): GEOCENTRISMO O ELIOCENTRISMO?!
ACCETTANDO PER IPOTESI CHE IL NOME DI OFELIA ("O-felia" = "Peri-elio", intorno e vicino al Sole) è formalmente vicino al nome di #AFELIO ("A-felio" - lontano dal Sole), non è meglio pensare e collocare la figura dell’amletica Ofelia nell’orizzonte delle discussioni cosmologiche legate alla #centralità del #Sole nell’#Universo (sul filo del lavoro di Copernico, Keplero, e Giordano Bruno) e delle preoccupazioni teologico-politiche legate alla #consonanza con le attese apocalittiche dell’epoca (Tommaso Campanella e "la Città del Sole") e al richiamo diffuso della figura del profeta Elia)?! Se non ora, quando "lo Spaccio della Bestia trionfante" (G. Bruno, 1584)?!
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NOTE:
"AMLETO" (SHAKESPEARE) E LA LOTTA "VITTORIOSA" PER UNA RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA (IERI E OGGI).
TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
"IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA". SE SI CONSIDERA CHE NELLA "#FOLLIA" DEL PRINCIPE #AMLETO C’E’ IL #METODO (COME HA BEN INTUITO #POLONIO) CHE GLI FA CONSEGUIRE VALOROSA-MENTE LA VITTORIA SUL FALSO RE CHE HA UCCISO IL VERO RE E SPOSATO LA REGINA-MADRE E RISPETTARE IL #PATTO DEL RE-PADRE AMLETO CON IL RE-PADRE #FORTEBRACCIO, PENSARE che "Ophelia in Shakespeare’s 𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 represents a paradox about both the injustice and virtue of nothing, emptiness, poverty" (Paul Adrian Fried, cit.), NON PORTA DA NESSUNA PARTE, SOLO IN UN "O", IN UN #VICOLOCIECO, IN UNA NOTTE IN CUI TUTTE LE #VACCHE SONO NERE.
«CRITICA DELLA "RAGION PURA"» (#KANT2024) E #ANTROPOLOGIA (#KANT, 1800). Per dire in breve il senso del discorso, con le parole di #Einstein, e contro la logica della scommessa di #Pascal (e la sua "Pascalina"), Shakespeare non è né sulle posizioni epistemologiche di Thomas S. #Kuhn né su quelle di Paul K. #Feyerabend: #Hamlet sa "giocare" bene, ma il suo "Dio non gioca a #dadi".
MEMORIA STORIA E LETTERATURA: #DIVINACOMMEDIA. Forse è proprio giunto il tempo di togliere le catene linguistiche della #tragedia gettate intorno a "l’aiuola che ci fà tanto feroci" (Par. XXII, 151) e portare alla luce "della Terra, il brillante colore" (come già sollecitava #DanteAlighieri, ma anche J.-J. #Rousseau). In principio erano le parole del dia-#logos (della legge costituzionale uguale per ogni esssere umano), non del dia-#logo (di un’azienda o di un partito o di un pastore di "pecore").
Nota:
"DUE SOLI", A #GLORIA E A #MEMORIA DI #DANTE, UN "#ALBERO" SEMPRE VERDE DEL #PIANETATERRA:
#ENIGMISTICA #CRUCIVERBA, #FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA #POLITICA.
Una breve nota alla parte iniziale del primo capoverso del Libro Primo del capitolo I della #Monarchia di #Dante Alighieri:
RILEGGENDO #OGGI QUESTE CHIARISSIME PAROLE DI AVVIO DEL "DISCORSO" E, CONTEMPORANEAMENTE, GUARDANDO DAL #TEMPO IN CUI è stata scritta l’Opera, appunto, la #Monarchia, non c’è che da riferire allo stesso Autore , cioè #DanteAlighieri, la "visione profetica" incorporata nella citazione dei versi ripresi dal testo biblico: "Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, /che darà frutto a suo tempo /e le sue foglie non cadranno mai; / riusciranno tutte le sue opere" (Salmi, 1.3); RINGRAZIARLO E, POSSIBILMENTE, CERCARE DI CAPIRE MEGLIO LA SUA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA, SINTETIZZABILE NELLA #FORMULA PARADIGMATICA DEI "#DUE SOLI".
***
"DUE SOLI" IN #TERRA, E UN SOLO #SOLE IN CIELO: "#TRE SOLI". #GENERE UMANO: "I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE"! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO .
ARCHEOLOGIA, #INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899), E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937): A ONORE E GLORIA DI #SIGMUND #FREUD (1856-1939).
LA "#PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. #FREUD, 1921) E UNA LEZIONE (TEOLOGICO-POLITICA) ITALIANA. Data la interminabile lotta e #analisi portata coraggiosamente avanti da #Freud (con il suo #Mosè) fino all’arrivo a #Londra, nella città di #Shakespeare (#Amleto), e, al contempo, di #HowardCarter (1874-1939), lo scopritore della #tomba di #Tutankhamon (1922), per imparare ed insegnare a #distinguere tra l’idea della famiglia del #Faraone (secondo la #Legge) e l’idea della "famiglia" del "Faraone" (secondo la #logica zoppa e cieca dell’#incesto), forse, è utile e importante rilegger(si) l’autobiografia di un grande interprete italiano del lavoro di #Freud: Cesare #Musatti, "Il pronipote di Giulio Cesare" (#Milano 1979) e, possibilmente, anche l’#Hamlet di William Shakespeare.
#Oggi, 17 febbraio 2023, a ricordo di #GiordanoBruno (#17febbraio 1600).
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
Cosmologia, antropologia, e disagio della civiltà
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana e necessità dello "spaccio della bestia trionfante".
In memoria di Giordano Bruno (17 febbraio 1600).
"SPACCIO DELLA BESTIA TRIONFANTE. Opera (1584) di G. Bruno. Il testo, come tutti i dialoghi in volgare italiano pubblicati da Bruno a #Londra tra il 1584 e il 1585, è stampato nell’officina tipografica di John Charlewood, pur recando sul frontespizio la falsa indicazione di #Parigi come luogo di stampa.
[...] Lo «spaccio» (l’espulsione) dal cielo delle figure mitologiche che sin dall’antichità erano divenute simboli di specifici tratti caratteriali svela come la conquista di una rinnovata umanità comporti lo «spaccio» dei vizi/bestie che devastano l’animo umano.
Al posto delle costellazioni vanno collocate le personificazioni delle virtù, che Bruno indica come portatrici di valori positivi (Verità, Bontà, Prudenza, Fortezza, Filantropia, Magnanimità: «Nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano deve essere accettata») nel cielo allegorico e nell’orizzonte etico dell’umanità.
In questo contesto si inserisce una dura condanna per la perdita della dimensione sapienziale originaria, in cui l’uomo aveva un contatto diretto con la sfera del divino attraverso la Natura; tale perdita è causata dall’affermarsi della religione giudaico-cristiana, la cui forma deteriore è rappresentata dagli esiti recenti della Riforma (in partic. la dottrina della salvezza sola fide).
Nella linea di filiazione giudaico-paolino-luterana, Bruno individua la ragione del rovesciamento delle leggi di natura, la dolenda secessio che ha portato alla frattura tra uomo e divinità; così nello S. Bruno rimpiange attraverso una traduzione rivisitata del celebre Lamento ermetico dell’Asclepius quel rapporto tra umano e divino che passa attraverso il #riconoscimento della Natura come «diva madre», umiliata e vilipesa dalla posizione secondaria in cui la relegano le religioni rivelate. Il compito della «nova filosofia» è quindi il recupero delle radici della storia dell’umanità, il capovolgimento del rapporto tra cristianesimo e sapienza antica, riaffermando finalmente la perduta unità fra uomo, Natura e Dio. [...]". ( cit. da: Dizionario di Filosofia - Treccani).
FLS
"GIORDANO BRUNO, 007 AL SERVIZIO": L’INGHILTERRA DI ELISABETTA I, SHAKESPEARE, E LA BIOGRAFIA DI INGRID D. ROWLAND.
Giordano Bruno, 007 al servizio
Il filosofo a Londra fu una spia lo rivela una biografia americana
La nuova biografia di Ingrid D. Rowland Giordano Bruno - Filosofo Eretico (Farrar, Strauss & Giroux, New York 2009, 27 dollari) ricostruisce in modo assai intrigante, attraverso i suoi scritti, la peripatetica vita del Nolano - scomunicato sia a Roma sia a Ginevra - fino al martirio sul rogo il 17 febbraio 1600. La professoressa Rowland, un’americana che insegna a Roma, riconosce che il soggiorno di Bruno in Inghilterra gettò i semi della sua filosofia ma minimizza la sua straordinaria influenza sull’Inghilterra elisabettiana.
Giordano Bruno non si sentì mai così felicemente a casa come nei due anni (1583-1585) trascorsi in Inghilterra, dove ebbe grande successo come guru e in quanto tale fu sbeffeggiato da Shakespeare in Pene d’amor perdute nella figura di Berowne: «Andiamo allora, io giuro di studiare per sapere quello che mi è proibito sapere» (Atto I, Scena III, 59-60). I suoi tentativi di insegnare a Oxford fallirono, le sue lezioni sull’astronomia e l’immortalità dell’anima non piacquero: perché era un seguace di Copernico e perché, con la sua memoria fotografica, aveva plagiato Marsilio Ficino.
A quel punto decise che il suo mercato sarebbe stato Londra con la sua Corte e non Oxford, dove «non c’erano più dottori in filosofia ma dottori in grammatica. Un’intera costellazione di costoro regna su questa campagna felice e la loro ostinata ignoranza, la loro gelosia e presunzione si combinano con una rustica inciviltà di maniere che avrebbe provocato la pazienza di Giobbe. Ciechi somari che non si preoccupano di cercare la verità ma solo di studiare e giocare con le parole».
Bruno fu un catalizzatore del Nuovo Teatro e della Nuova Scienza: in quel momento una miscela alchemica di magia e matematica, di astronomia e astrologia, di empirismo e mito, si fondevano nella scienza moderna. Il Nolano ispirò la controcultura anti-aristotelica e «ateistica» della «Scuola della notte» di Sir Walter Raleigh, il cui esperimento pratico fu la colonia in Virginia - la loro personale isola di Prospero della Tempesta - e l’esperimento creativo del Dr Faustus di Kit Marlowe - «un Bruno sassone». Faustus, come Bruno, aveva studiato a Wittenberg. E così avevano fatto non solo Amleto, che mette sottosopra una corte aristotelica (e le tre unità aristoteliche del dramma) come avviene nella Renovatio mundi di Bruno, ma anche il suo amico Orazio «spirito calmo» e le spie Rosencrantz e Guildenstern. «Oh Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e credermi re di uno spazio infinito - se non fosse che faccio brutti sogni», dice Amleto, alludendo agli universi multipli di Bruno.
Amleto, come Bruno, rifiuta un universo culturale, politico, cosmologico. Se Amleto in «Essere o non essere» ha difficoltà nel passare dal pensiero all’azione, non è perché pensa troppo ma perché le sue idee implicano una «renovatio» totale che nessuna singola azione o «vendetta» può determinare. «Il tempo è fuori dai cardini / ed è un dannato scherzo della sorte / che io sia nato per riportarlo in sesto». La «renovatio» è nell’arrivo di un nuovo e incorrotto principe Fortinbras. L’uomo, per Amleto, è «quintessenza di polvere», il che rispecchia l’idea di Bruno che la morte è mutazione e trasformazione continua. «Se adesso è la mia ora, vuol dire che non è più da venire; se non è da venire, sarà adesso; se non è adesso, dovrà pur venire. L’importante è tenersi pronti». (VII 216-218). Tutto questo lo troviamo nello Spaccio de la bestia trionfante di Bruno. Il padre di Amleto era stato assassinato, come anche le contemporanee teste coronate di Scozia, Olanda e Francia (due). La fatwa incluse nel 1570 la scomunica contro la regina vergine, richiesta perché aveva assassinato, prendendone poi il posto, la cattolica Maria Stuarda, regina di Scozia. Il fatto che a Elisabetta fosse stata risparmiata analoga sorte è in larga parte dovuto a Bruno la Spia, che lavorava per l’uomo che aveva organizzato la rete di agenti segreti della regina, Sir Francis Walsingham, un genio in un’altra arte occulta.
Enrico III spedì il suo lettore domenicano rinnegato a fare il cappellano, il confessore e l’elemosiniere di Michel de Castelnau, l’ambasciatore francese a Londra nel momento in cui era caduta l’ipotesi di matrimonio tra Elisabetta e suo fratello, il duca d’Alençon poi d’Angiò. Ufficialmente Castelnau negoziava un esilio in Francia di Maria Stuarda ma ufficiosamente tramava, aiutato dall’ambasciatore spagnolo Mendoza e dai cospiratori cattolici in Inghilterra e all’estero, per portarla - lei che era vedova del re di Francia Francesco di Valois, deposta regina di Scozia e legittima regina d’Inghilterra - sul trono di Elisabetta, liberato da un provvido assassinio.
Lo 007 Bruno ebbe una parte cruciale nel contrastare queste trame. Detestava in egual misura il papato e la dottrina protestante della predestinazione ma sosteneva la politica estera protestante di Elisabetta in quanto era la più antipapista. Come vediamo nella Cena de le Ceneri scritta per l’amico Smitho e ambientata a Londra, Bruno ammirava Leicester, Walsingham ed Elisabetta. Il suo Spaccio de la bestia trionfante, scritto nel 1584 e dedicato al poeta soldato Sir Philip Sidney, è un peana in onore della sua Astrea (Elisabetta) e del suo nuovo ordine di giustizia, tolleranza e armonia.
Bruno era già «sotto copertura» presso l’ambasciata francese come segreto prete cattolico. Con lo pseudonimo di Henry Fagot (in inglese: «fascine per il rogo») scrive a Walsingham e direttamente anche a Elisabetta. Corrompe il segretario dell’ambasciatore, il signore di Courcelles, per poter accedere a tutta la corrispondenza segreta tra Maria e la Francia e intanto ottiene da quell’ubriacone dell’ambasciatore spagnolo Mendoza la conferma che la Francia stava progettando per la regina di Scozia un matrimonio spagnolo e un’alleanza anti-inglese. Viene a sapere anche che Fowler, la spia di Walsingham, faceva il doppio gioco e, soprattutto, procura l’unica prova lampante del complotto di Francis Throckmorton per invadere l’Inghilterra con truppe francesi e spagnole, assassinare Elisabetta e incoronare Maria. Il complotto ovviamente fallisce, Throckmorton viene arrestato, processato e giustiziato, Mendoza espulso e Castelanu rischia la stessa fine.
Bruno sventa così la più seria minaccia a Elisabetta fino all’Invincibile Armata del 1588. Poi, confessando la spia di Mendoza Pedro de Zubiaur, viene a conoscere i piani per avvelenare i profumi e la biancheria di Elisabetta. E’ sempre Bruno a scoprire il complotto di Thomas Babington e a fornire l’unica prova inconfutabile dell’attiva connivenza di Maria, che la portò al processo e all’esecuzione.
Bruno era una spia eccellente - coraggioso, brillante, solido, attento e senza scrupoli morali nei confronti di amici e nemici. In Spaccio c’è una giustificazione cifrata: «La semplicità pedissequa de la Veritade non deve lungi perregrinare dalla sua regina, benché talvolta la dea Necessitade la costringa di declinare verso la Dissimulazione, a fine che non vegna inculcata la Simplicità o Veritade, o per evitar altro inconveniente. Questo facendosi da lei non senza modo ed ordine, facilmente potrà essere fatto ancora senza errore e vizio».
* Fonte: La Stampa, Tuttolibri, 09 Aprile 2009. Ultima modifica 16 Luglio 2019
NOTA - "A Bari la prova definitiva che Bruno è Amleto padre, figlio e nonno santo" (Enrico Terrinoni):
LUNGOMARE ARALDO DI CROLLALANZA E LARGO GIORDANO BRUNO.
Così D’Annunzio ad Araldo di Collalanza, in una lettera del 1° Maggio 1930: "[...] io amo italianizzare i nomi stranieri [...] feci del nome di Will Shakespeare (shake = scuotere, scrollare; spear = lancia) Guglielmo Scotilancia. Ecco che il Vostro Nome, o Araldo, mi dà una parola sonora più italica e arcaica: Crollalanza".
E così di Crollalanza (il 24 Maggio 1930) a Gabriele D’Annunzio: "[...] La traduzione di Will Shakespeare lessi era vista e ascrivibile alle origini del mio cognome, comparsata in varie pubblicazioni araldiche di cui mio nonno e mio padre furono appassionati e ineguagliabili compilatori. Il mio capostipite Giovanni Alboino seguì Corrado III alle Crociate. Per la sua impareggiabile destrezza d’armi fu soprannominato spezzalance. La virtù del capitano di decreto sovrano finì con il diventare glorioso cognome Crollalance e successivamente per altro decreto di Carlo V Crollalanza. I discendenti e modestamente il sottoscritto, non immemori delle origini, cercano di tener vive e di tendere mano al cognome" (Cfr. Nicola Fanizza, "Araldo di Crollalanza. Un ministro all’ombra del duce", Progedit, Bari 2021, pp. 164-166).
Federico La Sala
Categoria: Il filosofo e la città
Il Discorso del Re
Con l’Enrico V Shakespeare completa il ritratto del nuovo principe machiavellico (non senza sottolineare le sue contraddizioni) e si prepara per i grandi drammi successivi.
di Maurizio Morini *
Enrico V viene annoverato tra i grandi re d’Inghilterra, colui che ha impresso lo slancio decisivo per la nascita dello Stato moderno inglese. Al centro della sua azione la teoria medievale del doppio corpo del re: quello naturale, soggetto alla morte, e quello mistico che non può morire. Una teoria che garantisce la continuità del sovrano riassunta in uno slogan che avrà fortuna: The king is dead, long live the King.
Nel dramma storico, questa retorica è rappresentata dal coro che, ad ogni atto, anticipando in modo solenne gli eventi, proclama le gesta e le virtù del re. Cosa che garantisce popolarità alla sua azione (Enrico è il sovrano che raccoglie i frutti di una piena legittimità) ma non l’autenticità di fronte al tribunale della storia: dopo ogni intervento del coro, Shakespeare colloca delle scene che, facendo da contrappunto a quanto raccontato, finiscono di fatto per rendere meno credibili gli eventi.
Nel primo atto «la Musa di fuoco che si eleva al cielo più fulgido dell’immaginazione», è frustrata dai sotterfugi dei due vescovi che, per interessi economici, spingono il sovrano alla guerra; nel secondo, il racconto che tutta la gioventù d’Inghilterra è a fuoco e che l’ambizione dell’onore regna esclusiva nell’animo di ogni uomo, è contraddetto con un alterco da osteria; nel terzo, le vele spiegate della Marina inglese a Southampton in direzione della Francia, incontrano i desideri di alcune voci dell’equipaggio di tornare piuttosto in un’osteria a Londra; nel quarto, il regale capitano che passa in rassegna le sue truppe per infondere coraggio, le visita in incognito finendo pure per essere contestato; nel quinto, all’immagine di Enrico che torna trionfante in Inghilterra accolto dalle folle assiepate a Dover, si contrappone la realtà di un sovrano che finisce al capezzale di Caterina di Borgogna per chiederle la mano, riunire i regni e chiudere le ostilità.
Una continua giustapposizione, tipica peraltro del filosofo inglese, tesa a marcare la differenza tra retorica e realtà, ideologia e verità effettuale, dover essere ed essere. Sicché, «ciò che è in questione non è la trasformazione del corpo politico bensì una serie di effetti politici, forse una serie di illusioni, operate attraverso mezzi politici mondani, in particolare attraverso la continua manipolazione retorica di Enrico» (Lake, 2016)
L’irresponsabilità del sovrano e il fucile di legno
Al centro di questa manipolazione si colloca il dialogo che il re conduce in incognito con i suoi soldati e il successivo monologo sull’essenza del potere regale. Enrico V è un re che ha qualità che lo rendono particolarmente popolare, come l’abitudine di visitare i suoi soldati chiamandoli fratelli, amici e compatrioti. Ma si tratta di qualcosa di studiato, una parodia dice lo stesso coro, se il re sente il bisogno di visitare i suoi sudditi, mascherato da semplice soldato, per avere conoscenza dei suoi veri umori. Così, nel dialogo notturno che precede la battaglia, Enrico si aggira nel campo militare esibendo la vecchia giustificazione secondo la quale il re non è altro che un uomo, lamentando di non poter vivere una vita tranquilla. Sembra improvvisamente di assistere al dialogo di Senofonte tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone sulla natura della tirannia. Ma, evidentemente, quello del re solitario non è argomento adatto per rincuorare dei soldati che, all’addiaccio, rischiano la propria vita mentre il re se ne sta nelle retrovie o nel caldo del suo palazzo.
Ecco allora che il discorso si sposta sulle cause della guerra. Ma anche in questo caso i soldati rispondono picche. A parte il fatto che il problema delle cause è qualcosa che va oltre quello che essi devono sapere, dimostrandosi più realisti del re nell’attenersi (in quanto sudditi) alla dottrina degli arcana imperii; il punto, come afferma uno di loro, è che «se la causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re cancella in noi la macchia di qualsiasi colpa». Infatti, prosegue un altro, «se la causa non è onesta, il re stesso sarà chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte quelle gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si riuniranno il giorno del giudizio (...) Ora, se questi uomini non fanno una buona morte, sarà un brutto affare per il re che li ha portati a quel passo, e disobbedire al quale sarebbe contrario a tutti i giusti doveri della sudditanza».
Ma il re respinge gli argomenti in merito alle responsabilità del sovrano: «Il re non è tenuto a rispondere della fine che fanno i suoi singoli soldati, né il padre del figlio, né il padrone del servitore», in quanto «solo la guerra è il suo ufficiale fustigatore, la guerra è l’esecutore della sua vendetta; sicché gli uomini vengono puniti ora, per la causa del re, perché hanno violato anteriormente le leggi del re. (...) Se dunque muoiono impreparati, il re non è colpevole della loro dannazione». Per cui, conclude Enrico, «l’obbedienza d’ogni suddito appartiene al re, ma l’anima appartiene al suddito».
Da un punto di vista teologico si tratta di un principio ineccepibile che segna tuttavia l’assoluta irresponsabilità dei reggitori dello Stato per le proprie azioni. Viene così anticipato il principio di Hobbes secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi (Leviatano, cap.XVIII).
I soldati sono quasi convinti dalle argomentazioni retoriche del re. Uno di loro però insiste con il suo scetticismo e finisce per innervosire il re mascherato il quale, rispondendo in modo goffo e ingenuo, non riesce di meglio che suscitare lo scherno dell’interlocutore. Così, una volta usciti, ecco un monologo del re in cui vi è una vera e propria difesa dei sovrani le cui ansie non sono nemmeno da paragonare alla tranquillità dei cittadini: di fatto, protesta Enrico, la pace che egli acquista per il contadino è pagato a prezzo di dolorose veglie notturne. Torna il Gerone di Senofonte ma questa volta con una differenza: il denaro che Enrico offre, volendo ricompensare il soldato per la coraggiosa franchezza della notte, viene rifiutato con uno sdegnato «non so che farmene». -Shakespeare è filosofo per il quale le esigenze dell’individuo vengono prima di quelle dello Stato; non disconosce quest’ultimo (perché sa che i rimproveri di un individuo contro un monarca sono pericolosi «quanto lo sparo di un fucile di legno») ma lo tiene costantemente sotto il controllo critico.
«We few, happy few, band of brothers» uniti dall’azione criminale
Secondo il giudizio di Churchill (ma non solo), la battaglia di Agincourt dell’ottobre del 1415 contro il ben più numeroso esercito francese, è la più eroica delle battaglie combattute dall’Inghilterra nella storia. Tuttavia, ricorda lo statista, quella vittoria (che pure fece di Enrico V il sovrano più celebre d’Europa) fu seguita da una delle più sanguinose guerre civili che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e tale da controbilanciare gli apparenti successi. Il tentativo di trasferire all’estero i conflitti interni è risultato fallimentare, addirittura controproducente.
Shakespeare rappresenta questa verità attraverso la drammatizzazione. Nel quarto atto, il re chiama a raccolta i sudditi nel celebre discorso di San Crispino nel quale incoraggia allo scontro imminente attraverso la classica mozione degli affetti. «Noi pochi, pochi e felici eletti, banda di fratelli...» Ma anche in questo caso i fatti che seguono gettano discredito sulle parole. I soldati, piuttosto che combattere per la gloria, cercano non solo di assicurarsi un riscatto in denaro per i futuri prigionieri, ma pianificano la vita civile successiva al ritorno in Patria al pari di criminali dediti al furto. Il sovrano, piuttosto che dare prova di virtù e generosità, ordina di far sgozzare a freddo tutti i prigionieri francesi contravvenendo ad una consolidata regola morale e di diritto internazionale. È a questo punto che un soldato equipara il re ad Alessandro il grande: peccato però che (con abile stratagemma) la persona in questione ha un difetto di pronuncia (scambia la b con la p) e il re viene ribattezzato Alexander the pig, Alessandro il maiale.
Che cosa voleva comunicare Shakespeare con questa strategia drammaturgica? Prendendo a prestito Strauss, diremmo che la sua opera è impregnata di retorica socratica, strumento indispensabile per fronteggiare, da un parte, la minaccia della società e dei governanti, e, dall’altra, mezzo per condurre chi ne è capace alla filosofia. La retorica politica si combatte con la retorica filosofica: la cautela non è mai troppa. Diventa interessante a questo punto sapere o immaginare che cosa abbia potuto pensare il competente pubblico che assisteva ai drammi di Shakespeare e che ne decretò subito il più grande successo.
Lo specchio deformato dei re cristiani e il passaggio a quelli pagani
Enrico si crede lo specchio dei re cristiani. Prima di ogni sua azione, tanto privatamente quanto pubblicamente, egli invoca l’aiuto e la protezione di Dio come mai nessun re che lo aveva preceduto aveva fatto. Ma dopo la rottura dello specchio del principe, avvenuta con la fine del regno di Riccardo II, lo specchio di Enrico è completamente deformato: si tratta di un’altra contraddizione posta nel cuore di un regno per sua natura machiavellico che sa fare uso della religione per i suoi fini e finanche di addossare la colpa della guerra allo stesso clero se l’arcivescovo risponde al re che essa può ricadere sul suo capo. Agire senza portarne la responsabilità è il capolavoro politico più volte ripetuto da Enrico.
L’astro di Inghilterra (Star of England), come lo chiama il coro alla fine dell’opera, esce però presto di scena a causa della morte prematura. Il novello Cesare, come lo aveva definito Shakespeare, lascia spazio al vero Giulio Cesare la cui opera (siamo ormai nel 1599) comincia ad essere scritta proprio nel momento in cui si chiude quella dedicata al mitico quanto controverso sovrano inglese.
* Fonte: Ritiri Filosofici, 2 Gennaio 2022
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NOTA: LA TEORIA MEDIEVALE DEL "DOPPIO CORPO DEL RE", LA "MONARCHIA" DI DANTE, E IL PROGETTO INGLESE DI PRENDERE LA FIACCOLA DELL’IMPERO DALLE MANI DELLA SPAGNA. Appunti per un’analisi dei drammi storici di Shakespeare:
a) Enrico V è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1598 ed il 1599. Il dramma prende spunto dalle vicende di Enrico V d’Inghilterra, re che si distinse per aver conquistato la Francia ed aver vinto la battaglia di Azincourt. È l’opera conclusiva della tetralogia shakespeariana enrieide (o tetralogia maggiore); iniziata con Riccardo II e proseguita con Enrico IV, parte 1 e Enrico IV, parte 2.
b) La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi) si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.
c) Giarrettiera, ordine della(ingl. Order of the Garter) Supremo ordine cavalleresco inglese, istituito da Edoardo III nel 1349. [...] Come lo stesso nome suggerisce, lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto Honi soit qui mal y pense (fr.: "Sia vituperato chi ne pensa male"), presente inoltre sul rovescio delle sterline in oro (sovereign) della serie 1817-1820 recanti sul dritto l’effigie di re Giorgio III. La Giarrettiera è indossata dai membri dell’Ordine durante le occasioni formali. Il motto Honi soit qui mal y pense è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in Tirant lo Blanch, un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. Nel romanzo si trova un intero capitolo dedicato alla leggenda della fondazione dell’Ordine. [...] Il primo straniero a essere insignito della Giarrettiera fu il duca di Urbino Federico da Montefeltro nel 1474 [...].
d)STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
e) RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Giordano Bruno, Grand tour e ritorno di un vecchissimo mercuriale serpente
Biografie del pensiero. Della sintesi aristotelico-tomistica in cui si riconoscevano tutte le Chiese, il filosofo domenicano non lasciò in piedi nulla: «Il sapiente furore» di Michele Ciliberto, da Adelphi
di Gilberto Sacerdoti (il manifesto, Alias Domenica, 05.07.2020)
«Se si vogliono comprendere i grandi pensatori dell’Umanesimo e del Rinascimento è essenziale collegare in modo organico filosofia e biografia, e valorizzare, di conseguenza, specialmente le fonti e i testi - in particolare quelli di carattere autobiografico». Questa la «persuasione teorica» da cui muove Il sapiente furore Vita di Giordano Bruno di Michele Ciliberto (Adelphi, pp. 812, € 22,00). Che funzioni in pratica lo si vede già in ciò che scrive di sé Bruno nel Sigillus sigillorum. Mentre Giordano era ancora in fasce un «grandissimo e vecchissimo serpente» comparve di fronte alla culla. Con «parole articolate» l’infante chiama, i familiari accorrono gridando, e intanto egli ne capisce i discorsi «con la stessa chiarezza con cui credo di poterli intendere adesso». Anni dopo racconta tutto ai genitori, «suscitando la loro meraviglia».
Nascita di un Mercurio
L’incontro col Serpente, sulla scia di Ercole, è presentato come «segno» della nascita di un «Mercurio», uno di quegli individui «eroici» che nella ruota del tempo compaiono in momenti di somma crisi, determinando svolte epocali. Analoga «autoconsapevolezza mercuriale», nota Ciliberto, è tipica di alcuni dei più grandi autori del Rinascimento (Cardano, Campanella, lo stesso Machiavelli), e la sua rilevanza in Bruno è fondante.
In quanto vero Mercurio, egli si sente destinato a combattere il falso Mercurio che ha dato inizio a un ciclo di tenebre culminato nelle guerre di religione devastatrici dell’Europa; ma se la notte è giunta al fondo, si prospetta il giorno. La filosofia post-cristiana di Bruno, basata su un cosmo in cui la divinità non è separata da natura e materia, e dove il copernicanesimo si fonde con l’universo infinito di Epicuro e Lucrezio, è il ritorno di un «vecchissimo serpente».
Nella Cena de le ceneri Copernico è «l’aurora» di quel «sole de l’antiqua vera filosofia» che, «per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza», è ora destinata, con Bruno, al fulgore meridiano. E nella stessa Cena si presenta come reincarnazione del titanico Epicuro celebrato da Lucrezio nel De rerum natura. Come un tempo il greco con i flammantia moenia mundi, così ora l’italiano abbatte le «fantastiche muraglia» che serravano il mondo fisico nel «fittizio carcere» del vecchio universo finito, solca l’immensità dello spazio e torna in terra a liberare l’umanità da una falsa religione fondata su una falsa fisica.
Se Epicuro era per Lucrezio un salvatore, tale si sente Bruno. Ma poiché il cielo era diventato cristiano, si trattava di salvare l’umanità dal Salvatore. Una missione pericolosa, in un’Europa ancora pre-post-cristiana. Fin dall’inizio, scrive Ciliberto, «ci fu una sorta di corpo a corpo tra Bruno e Cristo. Perfino il modo in cui morì sul rogo sembra una voluta, consapevole contrapposizione al modo in cui morì Cristo».
Tessendo organicamente biografia e filosofia, Ciliberto, autore di studi fondamentali su Bruno e curatore dell’edizione adelphiana delle Opere latine, traccia la peregrinatio paneuropea che porterà il Mercurio dal convento di Napoli alla pira di Roma, passando per Ginevra, Tolosa, Parigi, Oxford, Londra, Marburgo, Wittenberg, Praga, Helmstedt, Francoforte e Venezia. Durato sedici anni, questo grand tour a rovescio ha inizio con la fuga a Roma dal convento di San Domenico, dove Bruno aveva messo in dubbio l’Incarnazione e la Trinità, difendendo Ario. Che le sue disavventure abbiano inizio con un autore le cui opere, all’alba del ciclo cristiano, erano state condannate al fuoco da Costantino nel primo atto ostile del braccio secolare contro un’opera dello spirito per motivi di eterodossia è un altro «segno».
Con il Padre (se inteso come infinita potenza che non può non esplicarsi in un infinito effetto) e con lo Spirito Santo (se inteso come anima mundi inerente alla materia) Bruno poteva convivere; ma il Figlio come incarnazione mediatrice tra finito e infinito gli era inammissibile. L’unica incarnazione della divinità infinita era per lui l’universo infinito: la «unigenita natura» che nel De la causa prende il posto del Figlio unigenito di Dio. Come scrive Ciliberto «fu tramite la critica antitrinitaria di Ario che Bruno si incontrò con il concetto di infinito», alla cui «scoperta» egli giunse «per via teologica» prima che astronomica.
Prima di fuggire a Roma nel 1576 Bruno aveva gettato «nel necessario» ciò che leggeva: le edizioni di Girolamo e Giovanni Crisostomo con gli scolii di Erasmo, le cui opere erano state condannate all’Indice. Ma quando a Roma giunsero lettere da Napoli dove un frate amico lo informava che un frate nemico aveva rovistato nel «necessario» scoprendo ciò che vi aveva gettato, Bruno dismise l’abito e prese la via del Nord, dove scrisse e pubblicò tutte le sue opere.
Il racconto degli anni precedenti il ritorno in Italia nel 1591 è angoscioso. Per quanto a volte trovi brevi sistemazioni, in realtà, quando decide di scendere a Venezia, dove invece che una cattedra a Padova troverà un carcere dell’Inquisizione da cui sarà estradato a Roma, Bruno ha ormai esaurito le possibilità di un’esistenza dignitosa nelle accademie europee. Più di una volta si trova a ricevere denaro purché se ne vada. Come stupirsi che non vi siano cattedre per Mercuri furiosi?
Della vastità del corpus di Bruno il lettore potrà farsi un’idea mentre segue le peregrinazioni dell’autore, ma i dialoghi pubblicati in italiano durante il soggiorno inglese (1583-1585) hanno uno statuto particolare. Per la prima e ultima volta Bruno osa presentare in una lingua vernacola allora internazionalmente nota «un universo completo, alternativo al vecchio». È difficile recuperare il senso della magnitudine della sua rivoluzione.
La terra è una delle innumerevoli stelle degli innumerevoli sistemi solari di un universo privo di limiti e centro. La materia è animata da un’energia che assieme al moto produce un’infinita varietà di mutevoli forme di vita. Della sintesi aristotelico-tomistica in cui si riconoscevano tutte le Chiese non restava in piedi nulla.
Morire da martire
La quarta di copertina afferma che il libro prende le distanze dal «mito di un Bruno pronto a immolarsi quale martire del libero pensiero», mito su cui, dopo Frances A. Yates, si è molto ironizzato. Nel libro, però, si parla di una «consapevolissima scelta di morire ‘martire’ e ‘volentieri’». E nel principale documento sulla sua morte, la lettera in cui Kaspar Schoppe, convertito al cattolicesimo, racconta all’amico luterano Rittershausen il supplizio di cui era stato testimone, la dovizia di dettagli che egli infligge al destinatario, descrivendogli come si tratta a Roma un «mostro» che ha sostenuto «tutti gli errori dei filosofi pagani», ha lo scopo di porre il luterano di fronte a un aut aut finale: «E adesso vorrei sapere se approvate questo modo di agire, o se vorreste che fosse permesso a chiunque di credere e di dire tutto ciò che gli piace (an vero velis licere unicuique quidvis et credere et profiteri)». Anche se l’idea che la morte di Bruno abbia a che fare con la libertà di «credere et profiteri» fosse un mito, i liberali ottocenteschi non ne sarebbero i soli inventori.
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”.... *
Un piccolo grande passo
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 6 marzo 2019)
«Solo un piccolo passo per un uomo, ma un passo da gigante per l’umanità!». Si avvicina il cinquantenario di uno dei più grandi trionfi umani: lo sbarco sulla Luna. Mentre avveniva compivo diciassette anni: non male come regalo di compleanno.
La frase che sarebbe rimasta leggendaria di Neil Armstrong mi commosse, come commosse il mondo, ma confesso che non la compresi bene. La seconda parte chiara: evidente che quel momento siglava un passo enorme per l’umanità, che dalla sua nascita scruta e interroga il nostro satellite notturno, custode e ispiratore del sogno. Ma non comprendevo perché definire "piccolo", per un uomo, quel primo passo sulla nuova terra sognata.
Ora credo di avere capito. Per immedesimazione, mettendomi nei panni di Armstrong, come fa un attore.
La terra vista dall’alto... E la mia gamba, che piccola cosa! Il mio piedino, dopo questo viaggio nello spazio immenso... Che esserino io sono, qui nell’infinità dell’universo. Il mio passo è piccolo perché io sono piccolo. Ma io non sono solo io, io sono l’umanità. Io sono parte del coro e degli atomi di tutti gli uomini, dal primo apparso sulla terra a tutti quelli che si susseguono, in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Il mio piccolo passo è un grande passo dell’umanità, a cui appartengo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Vicisti, Galileae" (Keplero, 1611).
UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. Che farà l’Italia? Galileo di nuovo al confino!?!
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
La filosofia rivoluzionaria di Giordano Bruno Pubblicato dalla casa editrice Sedizioni un saggio inedito di Antonello Gerbi sul filosofo. Un’opera brillante e coinvolgente, frutto del dialogo continuo dell’autore con il pensiero di Giordano Bruno, che Gerbi attraversa con la leggerezza di chi ne penetra i significati, ricostruendo il percorso della filosofia della praxis bruniana, che chiama alla liberazione da ogni soggezione.
di Maria Mantello *
Antonello Gerbi coltivò lo studio di Giordano Bruno fin da giovane. E sul filosofo scrisse il suo Centone Bruniano nel 1941, in Perù, dove si era rifugiato per scampare alle persecuzioni delle leggi razziali.
Oggi questo saggio esce dal cassetto, pubblicato dalla casa editrice Sedizioni col titolo che l’autore gli diede.
Un’opera brillante e coinvolgente, frutto del dialogo continuo dell’autore con il pensiero di Giordano Bruno, che Gerbi attraversa con la leggerezza di chi ne penetra i significati, ricostruendo il percorso della filosofia della praxis bruniana, che chiama alla liberazione da ogni soggezione.
Gerbi spazia tra i testi italiani di Bruno che apre su una sorta di palcoscenici dialettici con scrittori e filosofi antecedenti, coevi, successivi al Nolano, in una dinamica di interrelazioni, che sarebbe stata molto congeniale al Risvegliator di dormienti. E che per Gerbi è scelta di affabulazione filosofica per far meglio comprendere grandezza e incidenza culturale di Giordano Bruno, che è nel tempo, lo vive, lo percorre, lo travalica.
Il Centone vede la sua luce editoriale oggi, e sembra scritto oggi, grazie alla chiarezza di linguaggio che accomuna il suo autore a Bruno, di cui Gerbi non a caso rileva la dichiarazione programmatica: «parlerò per l’ordinario e per volgare» per liberare la filosofia dalla «iattura dei pedanti che hanno voluto essere filosofi».
Gerbi ci presenta un Bruno a tutto tondo: «Fermo in pugno il timone postogli dalla filosofia [...] con la sua vita e con la sua morte».
Una «filosofia virile e impaziente - la definisce - tutta piena di ‘furor eroico’ per la ricerca del vero, e di ‘fastidio’ per i perditori di tempo».
Una filosofia - spiega Gerbi - che scompagina ogni tradizione e consuetudine mettendo al centro l’individualità di ogni singolo elemento. Riportando ogni più piccola cosa (minuzzaria) alla concretezza della Materia «generatrice e madre di cose naturali, anzi la natura tutta in sustanza».
La materia è il principio, la verità dell’essere-tutto, nel pluralismo delle sue infinite possibilità di esistenza. Essere-Materia-Natura. Sostanza e Struttura del Tutto. Composizione e scomposizione continua di aggregati di atomi.
Così Bruno - scrive Gerbi - liquidava le metafisiche della rivelazione che vorrebbero anche l’essere umano ingabbiato nella sottomissione a un superiore Dio, sognando il ritorno a un mitico cielo, da dove sarebbe stato scacciato e condannato al peso della «colpa primordiale», «il peccato originale».
Quel mito, da cui prende le mosse la storia del cristianesimo con le sue promesse di Grazia e Redenzione funzionali alla subalterna obbedienza, come quando «Adamo ed Eva eran nella grazia di Dio quando eran «asini», ignoranti del bene e del male». Bruno lo ribalta nel riscatto - spiega Gerbi - di «una volontà indipendente da quella divina [...] felice inizio della storia, della disobbedienza a Dio come inizio dialettico del più alto destino dell’uomo».
Anche contro quei pedanti-iattura a lui coevi, che ne fanno con le loro esaltazioni della mitica età dell’oro il surrogato speculare a quello religioso nella negazione dell’autonomia dell’azione umana nella storia. Per la quale occorre «sollecitudine», «fatica», «industria». Centrali nella filosofia della praxis di Bruno che è «stimolo di progresso e suprema dignità del genere umano.
La grande polemica anticristiana di Giordano Bruno, Gerbi si guarda bene dal censurarla, e pone l’accento come proprio attraverso la sconfessione di altari di ogni tempo e luogo, Bruno veda la possibilità di nascita e sviluppo di un’umanità nuova, dove ognuno sia dio a se stesso consapevole che «l’attualità, il presente questo mondo è il vero. Il futuro, il trascendente per definizione, non è che un’ombra». E soffermandosi sui versi del poeta Luigi Tansillo che Bruno fa propri: «Lasciate l’ombre ed abbracciate il vero. Non cangiate il presente col futuro», esclama: «Formula più anticristiana non sappiamo immaginare».
Il percorso di liberazione bruniana è presentato al lettore sottolineandone la necessaria irriverenza e sconsacrazione che raggiunge nel Candelaio, la commedia di Bruno che Carducci aveva liquidato come volgare e sconcia, ma che Gerbi ingloba appieno titolo nella Nolana filosofia per l’implacabile condanna degli schemi accademici cristallizzati, la sua feroce critica dell’ipocrisia, della vanità, e soprattutto per rivendicare la centralità di quella materia vita, che qui è anche elogio della sessualità, che da isfogata libidine, Bruno eleva ad atto consapevole e responsabile di appagamento. Scrive Gerbi: «non la fame è dilettevole, e triste addirittura ‘il stato dell’insfogata libidine’; ma quel che ne appaga è passar dall’uno all’altro. il ‘peccato carnale’. Gli atti fisiologici elmentari son spiegati e redenti come ‘atti’, appunto».
Sono passaggi sintetici ed efficacissimi, stilema nel Centone, che rifugge dalla trattazione accademica per offrire al lettore ricorrenti lampi di basilari citazioni del filosofo.
L’efficacia comunicativa è davvero mirabile. Il lettore non si deve annoiare. Non si deve distrarre. Gerbi vuole coinvolgerlo nello scuotimento etico-politico a cui Bruno puntava con la sua filosofia della praxis, che rimette al centro l’individuo storico concreto con i suoi limiti e bisogni concreti, contro l’apologia della innaturale idea di supposta identità umana.
La concretezza dell’agire umano nella sua fisicità storico-biologica diventa imperativo categorico come affermerà poi Kant. E le interrelazioni tra Bruno e Kant in questo saggio non mancano.
Come quando Gerbi, evidenzia come Bruno rompa ogni sogno metafisico ricorrendo alla sua «sferzante ironia», come analogamente fa Kant contro i costruttori di castelli in aria del suo Sogni di un visionario spiegati con i sogni della Metafisica.
Se Kant era stato svegliato da Hume dal suo sonno dogmatico, per il più irrequieto Bruno basta planare sulle ali della libertà che sempre ha ricercato.
Ed eccolo trovare il suo trampolino di lancio sulla rivoluzione copernicana, ma anche nell’ampliarsi dell’universo geografico: «Le scoperte geografiche e astronomiche, che allargavano i limiti del conosciuto - scrive Gerbi - erano mere scoperte naturali, aumento fisico di cognizioni, e rovine di schemi cosmografici e cronologici, fin che Bruno non ne faceva il trampolino per la sua conquista speculativa dello spazio, pregiudiziale di ogni filosofia che voglia intendere e giustificare il molteplice senza ricorrere al Dio trascendente».
Così, la conquista dello spazio cosmico diventa conquista dello spazio morale: «dallo spazio uniforme, omogeneo, senza centro, che era la vera scoperta di Copernico, - prosegue Gerbi - lui deduceva un universo di materia “plastica”, creativa, irresistibile e illimitata nella sua azione» (p.39). E questo «ampliamento dei limiti spaziali sino all’annullamento speculativo dello spazio accompagna e guida l’ampliamento dei limiti etici».
Scoperte e rivoluzioni che davano molto da fare a chi aveva il cervello ingessato in discettazioni su dogmatici universali che, come efficacemente scrive Gerbi: «comprimendo e stritolando le cose e gli uomini, i casi e i volti del mondo», lo trasformava «in concetti incolori» vincolandolo a «leggi di cogente uniformità».
Contro tutto questo, Gerbi evidenzia come Bruno sia il primo ad affermare il senso e il colore della Storia che è totalità del tempo storico.
Ecco allora che il tempo diviene pater veritatis perché gli eventi non sono predeterminati in supposti misteriosi disegni provvidenziali, ma risultato della fisicità di rapporti causali che nella loro verifica oggettiva spodestano la verità assoluta per fare spazio alla veritas filia temporis, che quindi «si forma, cresce, si sviluppa, e non è data intera e completa ab initio».
E Gerbi, col suo procedere di affermazioni serrate, sottolinea questo nuovo procedere storico, dove si staglia il lampo bruniano che ne è la sintesi: «I veri antichi siamo noi».
I veri antichi siamo noi - spiega Gerbi - significa per Bruno, fare della Storia un osservatorio, distinguendo tra accumulo (tempus) e giudizio (veritatis). Insomma: «utilizzare il passato come raccolta di materiali, come oggetto e come base, e col giudizio andar oltre e più alto. Fondare il nostro giudizio sulle ‘molte e diverse verificazioni’».
È quello che oggi si chiama analisi e critica storica. Ovvero capacità di giudizio storico, che ci pone nel mezzo della Storia per conoscerla e interpretarla, come Bruno aveva ben chiaro, quando parlava di «molte e diverse verificazioni».
Ecco allora che «i veri antichi siamo noi»- scrive Gerbi - significa che nella storia ogni giorno comincia la nostra storia: «la Genesi è la nostra storia d’ogni giorno. Ad ogni attimo comincia la storia universale. Ogni mattino avviene la creazione del mondo». Un mondo dove noi siamo gli infaticabili operai di quella ricerca della verità, che per Bruno «È un nuovo lume che, dopo lunga notte, spunta all’orizzonte.» .
Ed ecco allora che Gerli “anarchico-costituzionalista”, come (con apparente ossimoro) si era definito vede nel culmine politico dell’infinito divenire bruniano la spinta a realizzare quel regno di libertà e giustizia che è in fondo la verità più pura dell’agire degli individui nella storia.
La filosofia della praxis di Bruno è approdo politico, nella consapevolezza, che se anche la vittoria al momento sembra lontana per realizzare un mondo di libertà giustizia, conta il merito individuale di combattere per essa. E quindi se anche al momento non vinci, l’importanza è essere meritevole di poterlo essere.
La filosofia della praxis di Bruno continua!
Morire allegramente da filosofi: Giulio Cesare Vanini (1619), un Giordano Bruno (1600) salentino ...*
1619-2019
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
Il 9 febbraio di quattrocento anni fa finiva la straordinaria avventura intellettuale e umana di Giulio Cesare Vanini: la lingua strappata, poi strangolato, poi arso sul rogo
di Matteo Trevisani (Corriere della Sera, La Lettura, 03.02.2019)
«Andiamo a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto, l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio, di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima.
A Padova si consuma il primo dei molti strappi che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri, ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito: la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina. All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura, niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo. Antispecista, preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio. Morire da filosofi significa morire da vivi.
GIORDANO BRUNO, LE "TRE CORONE" E IL VANGELO ARMATO. Nuccio Ordine rilegge la grande opera di Bruno (e fa intravedere impensate connessioni con Dante, Boccaccio, Lessing e noi, tutti e tutte). Intervista di Maria Mantello
CIELO PURO E LIBERO MARE....
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Federico La Sala
Pensatori
Giordano Bruno, l’universo infinito
Allargò i confini dello spazio e insegnò il gusto della libertà: un saggio inedito di Antonello Gerbisul filosofo curato da Francesco Rognoni e Silvia Berna (Sedizioni)
di Mario Andrea Rigoni (Corriere della Sera, 03.01.2019)
La grandiosa figura di Giordano Bruno è nota a tutti se non altro per la sua tragica fine di eretico arso vivo nell’anno 1600 dall’Inquisizione cattolica nel Campo de’ Fiori a Roma, dove tuttora si erge la sua statua. Ma è difficile farsi un’idea abbastanza attendibile e univoca della sua opera, in parte scritta anche in latino, straordinariamente complessa, labirintica e rivoluzionaria, soggetta ad una varietà di interpretazioni, al di là di quella vulgata del libero pensatore moderno caro a certo ingenuo laicismo.
A questo proposito sarà sufficiente ricordare che le ricerche di un’eccellente quanto insospettabile studiosa inglese del Warburg Institute di Londra, Frances Yates, condussero non solo alla smentita, ma addirittura al rovesciamento di quella rappresentazione, documentando che molti aspetti del pensiero di Bruno, dal suo antiaristotelismo al suo anticristianesimo, si inquadravano nella tradizione dell’ermetismo rinascimentale e nella prospettiva di un recupero dell’antica religione magica degli Egizi, come risulta dal celebre libro Giordano Bruno e la tradizione ermetica (1964).
Alcuni dati senza i quali non si spiegherebbe il pensiero di Bruno sono tuttavia tanto vistosi quanto certi, a incominciare dagli eventi che nel Rinascimento sovvertirono una millenaria concezione del mondo: la rivoluzione spaziale conseguente all’impresa di Cristoforo Colombo, la rivoluzione cosmologica e astronomica operata dalla teoria eliocentrica di Niccolò Copernico e dalle scoperte scientifiche di Galileo Galilei spalancarono letteralmente agli occhi degli uomini una «nuova terra» e un «nuovo cielo», con ripercussioni decisive nella filosofia, nella letteratura, nella poetica e nell’arte visibili già nell’età barocca.
Da questa cornice generale muove inevitabilmente anche un saggio inedito su Giordano Bruno di Antonello Gerbi (1904-1976), adesso recuperato, per merito di Francesco Rognoni, in un’accuratissima ed esemplare edizione, sotto un titolo evidentemente dettato dall’understatement dell’autore (Centone bruniano, a cura di Francesco Rognoni e Silvia Berna, con uno scritto di Sandro Mancini, Sedizioni editore).
Gerbi è stato una rilevante figura della storia culturale e civile italiana. Laureato con una tesi su La politica del Settecento (1928) pubblicata con il patrocinio di Benedetto Croce, allievo in Germania di Friedrich Meinecke, antifascista, intimo dei fratelli Rosselli, amico di Raffaele Mattioli dal quale venne nominato capo dell’Ufficio studi della Banca commerciale italiana, fu autore di varie opere (La politica del Romanticismo, 1932; Il peccato di Adamo ed Eva, 1933) fra le quali un capolavoro storiografico, La disputa del Nuovo Mondo, incentrato sul pregiudizio nei confronti dell’America che andò formandosi nella cultura europea a incominciare dalla metà del Settecento (Ricciardi 1955; Adelphi 2000).
Costretto dalle leggi antiebraiche all’emigrazione in Perù, nel corso degli anni Quaranta Gerbi da un lato pubblicò una prima versione spagnola della Disputa (1943) e trattò in La natura delle Indie Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo F. De Oviedo (apparso solo nel 1975 da Ricciardi) il tema dei primi viaggiatori in America e delle questioni connesse alla conquista del nuovo continente; dall’altro si dedicò all’opera di Bruno, componendo un saggio che fonde le qualità del grande storico delle idee con quelle del brillante scrittore.
Costretto dalle leggi antiebraiche all’emigrazione in Perù, nel corso degli anni Quaranta Gerbi da un lato pubblicò una prima versione spagnola della Disputa (1943) e trattò in La natura delle Indie Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo F. De Oviedo (apparso solo nel 1975 da Ricciardi) il tema dei primi viaggiatori in America e delle questioni connesse alla conquista del nuovo continente; dall’altro si dedicò all’opera di Bruno, componendo un saggio che fonde le qualità del grande storico delle idee con quelle del brillante scrittore.
Il Centone bruniano mostra come il cosmo delimitato e chiuso della tradizione esploda nel pensiero di Bruno in un universo infinito, immanente e omogeneo, senza più centro, inesauribilmente vivo, fecondo e proliferante, popolato da mondi abitati al di fuori della Terra. In tale modo Bruno accoglie e, nel contempo, supera e trasvaluta l’eliocentrismo di Copernico, nel quale si conservava ancora l’idea della finitezza del cosmo e della sua struttura gerarchica.
Ma la particolarità del dottissimo quanto godibile lavoro di Gerbi consiste nella tesi dell’aspetto «politico» della riflessione di Bruno, animata da una ribellione e da un dinamismo morale che già preludono, insieme col gusto dell’individualità, della diversità e del mutamento, allo storicismo romantico. In questo senso l’autore considera Bruno «il maggior “filosofo politico” tra Machiavelli e Vico». Più che al pensatore metafisico Antonello Gerbi guarda infatti al filosofo avverso alla trascendenza, alla Rivelazione e all’ascesi, insofferente di ogni autorità e di ogni limite fino al libertinismo speculativo e linguistico, credente nel «valore assoluto dell’azione».
Si avverte nelle pagine del libro un tale consenso e una tale partecipazione all’avventura tragica di Bruno che l’autore considera il martirio del filosofo non come la morte di un qualsiasi eretico, ma come «la morte trasfigurante di Socrate, di Gesù e di Boezio».
Medioevo. Sviluppi e prospettive nelle tradizioni araba, ebraica e latina
La scienza magica non conosce confini
di Tullio Gregory (Il Sole-24 Ore. Domenica, 22.07.2018)
Nella Micrologus Library della SISMEL (Società Italiana per lo Studio del Medioevo Latino) - una delle collezioni di medievistica più prestigiose in Europa, diretta da Agostino Paravicini Bagliani - compare un importante volume su La magia naturale tra Medioevo e prima età moderna, raccolta di studi curata da Lorenzo Bianchi e Antonella Sannino. Non si tratta di una storia continua ma di una serie di contributi che illuminano momenti e personaggi particolarmente significativi per comprendere i problemi, gli sviluppi, le prospettive della scienza magica della natura nelle tradizioni araba, ebraica e latina dal X al XVII secolo.
La fondamentale importanza, anche in questo campo del sapere, della cultura araba emerge qui in rapporto a due opere classiche: l’Enciclopedia dei Fratelli della purezza e un altro testo, destinato a larghissima fortuna fino al Rinascimento, noto in Occidente con il titolo enigmatico Picatrix, tradotto dall’arabo in castigliano e di qui in latino alla corte di Alfonso X il saggio, re di Castiglia e di Léon, attorno al 1256 - 1258.
Nell’Enciclopedia dei Fratelli della purezza è dedicata alla magia l’epistola finale, la 52 (sulla cui autenticità ha sollevato dubbi Alessandro Bausani): Carmela Baffioni, che ha portato molti contributi allo studio dell’opera (nel 2013 ha anche pubblicato il testo arabo con traduzione inglese delle epistole 15-21), ne mette in luce la complessa struttura e i nessi da un lato con l’astrologia e la medicina, dall’altro con la generale concezione del mondo come retto da un intelletto agente e da un’anima universale, ipostasi della tradizione neoplatonica che costituisce la trama di fondo di tutta l’opera.
Platonismo che regge anche l’altro testo, capitale per la magia naturale, Picatrix (cui è dedicato il saggio di Daniel De Smet) ove anche la scienza dei talismani - artefatti destinati a raccogliere e orientare le influenze celesti - si inserisce in una concezione dell’universo retta - come in ogni sistema magico - dal gioco delle simpatie e antipatie, forze che si richiamano e si respingono e con le quali il mago - il sapiente per eccellenza - opera, conoscendole, secondo tecniche sue proprie: non a caso nella scienza magica il sapere teorico si congiunge sempre all’operare pratico, secondo una connessione sapere-fare che offrirà suggestioni significative agli ideali della scienza moderna, legata al tema dell’uomo come «ministro e interprete della natura».
Non possiamo seguire tutti i percorsi proposti nei vari saggi, alcuni dei quali accompagnati da utilissime raccolte di testi tradotti in italiano, come per Guglielmo di Alvernia, a cura di Antonella Sannino, per l’averroista bolognese Taddeo da Parma studiato da Valeria Sorge, per L’unguento delle armi di Charles Sorel nel saggio di Mariassunta Picardi; ma non possiamo non segnalare - oltre al saggio sulla magia nel medioevo ebraico di Marienza Benedetto, i sondaggi su ermetismo e magia in Cusano proposti da Pasquale Arfé e il suggestivo percorso sulle trasformazioni della maga Circe seguite di Simonetta Bassi - i capitoli dedicati a due personaggi niente affatto marginali nelle polemiche sulla magia naturale: Lazare Meyssonnier e Charles Sorel.
Medico e influente personaggio alla metà del Seicento a Lione il primo, studiato qui da Oreste Trabucco: nella sua attività di scrittore e di editore Meyssonier accumula le discipline più varie e spesso ambigue all’interno di una concezione onnivora della magia (dal giovanile Pentagonum del 1639 a La Belle Magie ou science de l’esprit del 1669); uomo dalle sconfinate letture e insieme «pecuniae amantissimus», «famae cupientissimus», avido dunque di fama e di ricchezze, ma anche editore di testi importanti e fortunati (dagli Aforismi di Ippocrate alla traduzione francese della Pharmacopaea di Joseph du Chesne); attento alle novità del suo tempo e pronto a farle proprie e celebrarle, come per la dottrina della circolazione del sangue di Harvey o il cannocchiale di Galilei. Calvinista, convertitosi al cattolicesimo, «invecchia di anno in anno senza diventare saggio» annotava Guy Patin.
Vorremmo altresì ricordare lo studio su un’importante figura del Seicento francese, Charles Sorel, qui forse per la prima volta studiato da Mariassunta Picardi sul tema della magia naturale, non solo nella celebre Science universelle ma nella polemica contro la dottrina paracelsiana sull’unguento delle armi, che proponeva una «cura magnetica delle ferite» (come si intitola uno scritto di Rudolph Göckel del 1608) consistente nella guarigione a distanza di una ferita da arma da taglio ungendo, con opportuno «unguento armario», l’arma che aveva inferto il colpo, oppure indumenti macchiati dal sangue del ferito. Al problema è dedicato un interessante opuscolo polemico di Sorel (L’unguento delle armi, 1636) del quale è data qui la traduzione completa.
Questa attenzione ai testi è caratteristica di tutti gli studi raccolti nel volume, che permette anche di cogliere ambienti culturali attenti ai problemi della magia naturale, pur con esiti diversi: come emerge dal saggio di Lorenzo Bianchi su Campanella, soprattutto per i suoi giudizi e rapporti con Giovanni Battista Della Porta, Ferrante Imperato e altri autori operanti nel Regno di Napoli, presenti nel testo campanelliano Del senso delle cose e della magia, messo di nuovo a disposizione degli studiosi da Germana Ernst nel 2007, presso l’editore Laterza.
Filosofia
Umano, troppo umano era l’asino di Giordano Bruno
L’universo, l’infinito e la conoscenza del pensatore nel saggio di Nuccio Ordine (La nave di Teseo)
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 19.01.2018)
«Chi desidera filosofare, dubitando all’inizio di tutte le cose, non assuma alcuna posizione prima di aver ascoltato le parti in dibattito... e decida non per sentito dire, secondo l’opinione dei più, ma sulla base della persuasività di una dottrina organica e aderente alla realtà, nonché di una verità che si comprenda alla luce della ragione». Così Giordano Bruno da Nola in uno dei suoi dialoghi latini, Il triplice minimo e la misura (1590). L’atteggiamento scettico - questo dubitare senza dogmi e pregiudizi - è per così dire il chiarore che illumina la luce della ragione: all’inizio può sembrare puramente distruttiva, ma l’opera di progressivo rischiaramento riesce a portarci più vicini a una migliore comprensione delle cose del mondo.
È questa duplicità di tutto l’approccio bruniano che Nuccio Ordine mette a fuoco nel suo La cabala dell’asino (La nave di Teseo), frutto di un decennale lavoro di ripensamento di una tesi che gli è stata a lungo cara.
Come ha osservato Ilya Prigogine nella sua appassionata premessa, l’autore riesce a collegare cosmologia e letteratura: «La concezione bruniana dell’infinito distrugge ogni gerarchia sul piano cosmologico», poiché ciascun aggregato di atomi ha la stessa importanza su ogni scala, «entro un universo il cui centro può essere ovunque». Analogamente Bruno, nella questione della lingua, «va al di là di una sintassi e di un vocabolario fondati sul formalismo di grammatici e pedanti... per ricondurre la letteratura alla varietà e alla ricchezza che dominano la natura». È una mossa antiautoritaria contro chi vorrebbe imporre come leggere i «caratteruzzi» (per dirla con Galileo) che compongono il grande libro del mondo o quelli che formano il nostro linguaggio.
Solo apparentemente è paradossale che a guidare Ordine in questa sua «caccia irresistibile» sia la figura dell’asino. Rappresentante di una «santa asinità» incurante della struttura del cosmo e desiderosa di rimanere «con mani giunte e in ginocchio», o forse custode di enigmi che non vuole o non può rivelare ai più? Quella che Bruno vedeva incarnarsi nell’asino è la tensione essenziale fra il mistero e una laica rivelazione, anch’essa umana, anzi fin troppo umana: risultato delle molteplici operazioni di cui è capace il nostro intelletto. Come notava Eugenio Garin a proposito della vasta e approfondita ricerca di Ordine sulle icone e le idee utilizzate dal Nolano, conoscenza e asinità si compensano a vicenda, senza mai dimenticare «l’altra faccia della condizione terrena: la dolorosa ma feconda fatica del lavoro fisico, l’urlo disperato ma terrificante che mette in fuga anche i giganti».
Cercando asine, racconta la Bibbia (1 Samuele 9,2-20), Saul figlio di Cis trovò il regno d’Israele: è questa l’immagine della duplicità asinina che Giordano Bruno ci consegna nella Cena de le Ceneri (1584). Un’ambivalenza - suggerisce Ordine, chiudendo il libro - che percorre l’opera e la vita del Nolano, implacabile cercatore di verità. «Far conoscere che cosa sia veramente il cielo, che cosa siano i pianeti e astri tutti, come non sia impossibile ma necessario un infinito spazio; come convenga tal infinito effetto all’infinita causa», era l’ambizione di Bruno in De l’infinito, universo e mondi (1584). Rinnovamento letterario e cosmologico sono due facce di una medaglia che a lui, il 17 febbraio del 1600, sarebbe costata particolarmente cara, su quel rogo in Campo dei Fiori a Roma.
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA *
Roberto Celada Ballanti
La parabola dei tre anelli
Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente
Dalla più antica redazione conosciuta, la parabola della perla caduta nella notte, contenuta in un dialogo tra Timoteo I e al-Mahdī nella Baghdad del secolo VIII, alla terza novella della prima giornata del Decameron, fino al dramma teatrale illuminista Nathan il Saggio di Lessing, i racconti degli anelli, migrando tra Oriente e Occidente, trasformandosi, varcando confini identitari, ridisegnando mappe geopolitiche, schiudono nelle religioni del Libro - Ebraismo, Cristianesimo, Islam - un elemento di perturbante problematicità.
Si tratta della ‘lacuna’ segnata dall’anello autentico confuso tra copie fatte forgiare da un buon padre - così nella versione di Boccaccio - per non mortificare nessuno dei tre figli, ugualmente amati, il cui esito è l’indistinguibilità del gioiello originale, il dubbio su chi lo possegga e sul luogo in cui rinvenirlo. È il ‘vuoto’ che, sospendendo la pretesa di un’origine esclusiva, ricorda alle religioni la vanità di ogni chiusura e intolleranza.
Recensioni:
l’Osservatore Romano, 16 giugno 2017, L’assenza luogo di rivelazione, di Marco Vannini;
L’Espresso blog, 20 giugno 2017, Boccaccio maestro di rispetto tra religioni, di Angiola Codacci Pisanelli.
* Edizioni di Storia e Letteratura (RIPRESA PARZIALE).
L’assenza luogo di rivelazione
di Marco Vannini (l’Osservatore Romano, 16 giugno 2017)
Per le romane Edizioni di Storia e Letteratura è appena uscito un prezioso volume La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente (Roma, 2017, pagine 254, euro 18). Ne è autore Roberto Celada Ballanti, professore di filosofia della religione e filosofia del dialogo interreligioso presso l’università di Genova, al quale si devono, tra l’altro, importanti studi su Leibniz, su Jaspers, sul pensiero religioso liberale.
Al lettore italiano quella che giustamente viene qui definita “parabola” è nota attraverso la versione del Decamerone, dove compare come Novella di tre anelli. Che essa avesse già nel Boccaccio il carattere religioso di parabola, è però chiaro anche dalla sua collocazione, terza della prima giornata, dopo le due altrettanto “religiose” novelle di ser Ciappelletto e di Abraham giudeo.
Il primo, per salvare da sicura rovina i compatrioti che lo ospitano, non fa conto della sorte dell’anima sua, nella certezza che, avendo «tante ingiurie fatte a Domenedio, per farnegli io una ora in su la mia morte, ne più né meno ne farà», ovvero non gli aggraverà il conto dei peccati, giacché giudica secondo lo spirito e non secondo le misure umane. Il secondo, vedendo la corruzione della corte papale e la Chiesa come una «fucina di diaboliche operazioni piuttosto che di divine», deduce che lo Spirito santo deve davvero esser fondamento e sostegno della religione cristiana, che sarebbe altrimenti scomparsa.
Questo messaggio di una religiosità vera, non legata alla lettera ma allo spirito, si conferma e si esplicita proprio nella Novella dei tre anelli, ove “Melchisedech giudeo”, interrogato a tranello dal Saladino su quale fosse la religione vera, «la giudaica, la saracina o la cristiana», racconta di quel padre che, avendo tre figli ugualmente amati e un anello prezioso, ne fa fare due copie identiche all’originale, dando a ciascuno dei figli un anello, ragion per cui, alla sua morte, ciascuno di essi pretende di essere in possesso dell’anello vero, ma senza che la questione possa essere risolta.
E così è, conclude Melchisedek, per le tre religioni: ciascuna pretende che la sua legge sia la vera, data da Dio Padre, «ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione». Melchisedek è un nome scelto non a caso: rimanda al biblico re di Salem, «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita [...] sacerdote in eterno» (Ebrei 7), figura di Cristo e di un cristianesimo ancora precedente all’ebraismo. V’è infatti nella novella del Decameron qualcosa di ben più importante di un generico appello a una tolleranza religiosa frutto del relativismo e dell’agnosticismo, - la tolleranza in versione mercantile, quella sostenuta ad esempio da Voltaire, che invita a entrare nella Borsa di Londra nella quale «l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e danno il nome di infedeli solo a quelli che fanno bancarotta».
No, v’è qui il rimando a una verità che trascende le pretese dogmatiche dei singoli, una veritas che può esprimersi nella varietas, e che chiama non solo alla tolleranza, ma anche alla fratellanza, all’amicizia tra gli uomini. «La tolleranza dovrebbe in verità essere solo un sentimento provvisorio: essa deve portare al riconoscimento. Tollerare significa offendere”» scriveva non caso Goethe. Questo riconoscimento, con l’amicizia, appunto, che finisce per legare Saladino e Melchisedek, è la cifra anche dell’ultimo testo analizzato nel libro in oggetto, quello in cui più scopertamente il messaggio implicito nella novella viene alla luce: il dramma di Lessing Nathan il saggio.
Nato esplicitamente nell’ambito di una polemica che oppose l’illuminista tedesco a un pastore protestante geloso custode del letteralismo biblico, l’opera di Lessing ( 1779 ) ripropone la storia dei tre anelli riallacciandosi al Decamerone. L’ ebreo Nathan (nome del profeta che rimprovera a David il suo omicidio e adulterio) la racconta anch’egli al Saladino, e ne fa scaturire un messaggio di amore, ove ciascuno dei tre fratelli deve fare a gara per dimostrare il possesso dell’anello vero «con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio».
La versione di Lessing è solo l’ultimo esito delle “migrazioni e metamorfosi” di un racconto la cui storia l’autore descrive, con straordinaria erudizione e capacità di coinvolgimento, a partire da un testo siriaco cristiano dell’viii secolo, per passare attraverso la cultura medievale ebraica veronese, quella multietnica della Andalusia musulmana, tornando infine nel mondo cristiano, ai repertori dei predicatori e alle redazioni apologetiche della novella, le cui diverse versioni presentano variazioni anche significative, ma che ne lasciano comunque intatta la sostanza.
Oltre all’insegnamento più evidente di questa affascinante storia, Celada Ballanti ne mostra però un altro, religiosamente ancora più profondo. Prendendo lo spunto dalle parole di Clarisse ne L’uomo senza qualità di Musil : - «l’anello nel centro non ha nulla, eppure sembra che per lui sia proprio il centro che contà!» - si può rilevare infatti come la parabola inviti a volgere lo sguardo non tanto a un’essenza, quanto a un’ assenza.
L’anello è infatti un cerchio che racchiude un vuoto, e proprio un vuoto, un’assenza, può essere il più autentico locus revelationis, il “luogo” ove si rivela il Dio nascosto. Allora il non-sapere dei tre fratelli, e di tutti gli uomini insieme, passa dalla condizione di mera ignoranza a quella di docta ignorantia, nel senso mistico che fu di Agostino e di Niccolò Cusano.
La politica dell’impossibile
DI ANDREA STAID (WORDPRESS, 16 GENNAIO 2017)
Lui che voleva scrivere per gli affamati, si rende conto che solo chi è sazio ha la calma necessaria per accorgersi della sua esistenza Stig Dagerman, 1945, 1945
La priorità per un antropologo è dubitare, cercare la semplicità e diffidarne. Una lettura che ci aiuta senza ombra di dubbio a fare questo sono gli scritti di Stig Dagerman. Grazie alla casa editrice Iperborea di Milano mi è arrivato tra le mani La politica dell’impossibile (2016, pp. 144, € 15,00) un piccolo libro ricco di saggi inediti estremamente interessanti di questo splendido socialista libertario del Novecento.
In questo libro troviamo alcuni articoli scritti da Dagerman tra il 1943 e il 1952, dove vengono trattate differenti tematiche, dalle questioni di politica svedese al pacifismo internazionale, ma la parte che ho trovato più interessante è quella dove prova a delineare il rapporto che può esserci tra lotta politica libertaria e scrittura. -Dagerman era alla ricerca di un equilibrio tra queste due istanze per lui vitali ma si rendeva conto della difficoltà di questa ricerca. Era convinto dell’importanza della poesia e della bellezza: “La poesia deve essere l’annuncio pubblicitario del mondo nuovo, ma se il testo è abbastanza gustoso può anche parlare dei piaceri dell’estate o della pesca ai gamberi ed essere ugualmente letteratura per il popolo”; non accettava i confini, non credeva nelle etichette e rifiutava le certezze vendute dai rivoluzionari di professione. Possiamo affermare che Stig Dagerman è stato nella sua breve vita un vero libero pensatore. Da coerente pensatore libertario non separava la teoria dalla pratica e in uno degli scritti presenti ne La politica dell’impossibile troviamo il racconto delle sue lotte politiche reali; una particolarmente simpatica e interessante la troviamo nel racconto
“Passeggiando per le strade di Klara, 1952” ovvero la storia di una nottata di piccoli sabotaggi di vetrine filo naziste. Un autore capace di dubitare, auto-criticarsi, ma anche con grandi certezze su l’esigenza di un cambiamento radicale libertario e con la convinzione che: “Incuneato nel blocco dello stato, l’individuo ha costantemente la dolorosa sensazione di un’impotente incertezza, come una scaglia di corteccia in un gorgo o un pesante vagone ferroviario attaccato a una locomotrice lanciata a tutta velocità, privo di qualsiasi possibilità di comprendere i segnali mentre si avvicina rapidamente agli scambi.”
Il suo posizionamento politico è certo e va di pari passo con la sua attività di scrittore che si schiera con la frangia degli eretici: “Combattere tutte le chiese, anche le chiese letterarie, e rifugiarsi in quella terra di nessuno che «è sempre stata l’unica patria del partigiano»”.
Ma chi era Stig Dagerman? Nasce in Svezia, ad Älvkarleby, un paese della contea di Uppsala, il 5 ottobre 1923. Vive un’infanzia abbastanza difficile e povera perché viene abbandonato dalla madre poco dopo la nascita e viene ospitato ed educato dai nonni paterni nella loro fattoria. Il padre infatti, anarchico appartenente alla classe operaia, non poteva occuparsi del figlio a causa degli impegni di lavoro (minatore, impiegato in un’azienda telefonica) che lo costringevano lontano da casa. Con i nonni riesce a vivere una vita serena e all’età di undici anni si ricongiunge con la figura paterna e sarà grazie a lui che entrerà in contatto a soli tredici anni con l’anarchismo e l’anarco-sindacalismo.
Diviene da giovanissimo un militante dell’‘Unione Sindacale Giovanile (Syndikalistiska Ungdomsförbundet), viene assunto prima come redattore del giornale Storm (La tempesta) ed in seguito di Arbetaren (L’operaio), organo del gruppo anarco-sindacalista Sveriges Arbetares Centralorganisation (SAC), per il quale pubblica articoli ed editoriali a sfondo politico e di cronaca (alcuni articoli li trovate in La politica dell impossibile tradotti per l’edizione italiana da Fulvio Ferrari).
Per Dagerman le redazioni dei giornali libertari saranno luoghi stimolanti in cui intrattenere rapporti con altri giornalisti, scrittori ed intellettuali svedesi; ma arriva un momento nella sua vita di scrittore in cui non gli basta scrivere soltanto su giornali militanti e comincia a pubblicare poesie e racconti, dando immediatamente prova del suo immenso talento. Gli eventi storici non lasciano indifferente Dagerman, un uomo capace di posizionarsi con estrema criticità sugli eventi a lui contemporanei, ma saranno due momenti della sua vita privata a cambiargli la vita e a farlo cadere in una spirale di depressione: l’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e la successiva morte della nonna colpita da una emorragia cerebrale.
Riesce a riprendersi lentamente dal suo stato depressivo e si trasferisce a vivere a Stoccolma dove nel 1943 sposerà la coetanea Annemarie Götze, esule anarchica tedesca e figlia di volontari che avevano partecipato alla rivoluzione spagnola del 1936-39. La scrittura diventa una vera ossessione e nel 1945 pubblica il suo primo romanzo, Ormen (Il serpente), avente per soggetto l’ansia e il timore esistente nel periodo post-bellico.
Da questo mometo decide di dedicare tutto il suo tempo alla scrittura non giornalistica, nel 1946 pubblicherà De dömdas ö (L’isola dei condannati), uno dei suoi lavori sicuramente più complessi e originali. In quello stesso anno però, come corrispondente del periodico “Expressen”, intraprenderà un viaggio nella Germania distrutta dalla guerra e produrrà un fantastico e toccante reportage nella miseria e umiliazione che stava vivendo il popolo tedesco che sarà pubblicato l’anno seguente nel volume Tysk höst (Autunno tedesco).
Continuerà a pubblicare anche negli anni seguenti una raccolta di racconti Nattens Lekar (I giochi della notte) e Bränt barn (Bambino bruciato), il suo romanzo più dolorosamente autobiografico, in cui confessa profondamente tutta la propria disperata inadeguatezza al vivere. La pubblicazione di Bambino bruciato lo immerge sempre di più in una profonda crisi esistenziale che lo porta al continuo rifiuto delle proposte di lavoro da parte dell’editore e ad una lunga depressione che terminerà con il suo suicidio, il 5 novembre 1954 alla giovane età di 31 anni.
Andrea Staid
Giordano Bruno, a firma di Aldo Masullo. Nessun capo è assoluto, solo la diversità ci salva
di Salvatore Balasco (Agenzia Radicale, 17 Febbraio 2016)
Giordano Bruno ci avvia alla grande riflessione etica della modernità, che poi con Emanuele Kant si compie. L’inaudita idea cosmologica bruniana della pari dignità di tutti i centri porta in sé implicita l’idea kantiana del nesso emancipazione-responsabilità.
A rimarcarlo è il filosofo Aldo Masullo, nel libro ’Giordano Bruno maestro di anarchia’, oggi in libreria per le Edizioni Saletta dell’Uva (Caserta, pp. 120, euro 10.
Il volume, che esce proprio nell’anniversario del rogo di Campo dei Fiori (17 febbraio 1600), è pubblicato nella Collana ’Le uova del Drago’ diretta da Gerardo Picardo, e presenta quattro approfondimenti sul pensiero inquieto del Nolano: ’Il confusissimo secolo’, ’Il mondo rinversato’, ’Convertiamoci alla giustizia’ e ’Il Bruno di Gentile e una critica di Sasso’.
In queste pagine di grande intensità, Masullo indaga il pensiero di un filosofo che gli ha fatto sempre compagnia. Ragione e fondamento della responsabilità non è il passato ma il futuro: il pensiero che dalla nostra decisione dipende il futuro non solo nostro ma di altri, o addirittura dell’umanità intera.
Scrive il professore emerito di Filosofia morale all’Università di Napoli: "La filosofia di Bruno, secondo cui ogni luogo dell’infinito universo è centro, e ogni uomo, in quanto vita di ragione, dunque libero, ha pari dignità con ogni altro, è la base speculativa dell’idea politica della democrazia. Tutti liberi in forza della ragione, che li caratterizza come uomini, gli individui sono costitutivamente comunicanti ossia, come scrive Bruno nello Spaccio della bestia trionfante, partecipi del «campo del Convitto, Concordia, Communione». Insomma l’umano è contrassegnato dalla non separatezza degl’individui, dalla loro relazione".
Il Nolano pensa insieme l’idea cosmologica e il principio etico, che fondano la modernità politica, la forma democratica dell’ordine civile. Per lui ogni individuo umano, in quanto centro irriducibile tra infiniti centri irriducibili, con cui non può non essere sempre aperto a comunicare, è portatore di responsabilità piena. Ma proprio perciò nessun capo è assoluto. L’ordine umano è anarchico.
C’è ordine in una società, solo quando tutte le diversità sono ugualmente rispettate. La dignità umana comporta il rifiuto dell’unità e la ricerca dell’unione.
Capire Bruno è capire il suo tempo espresso nei suoi pensieri. Ma, poiché nel capire noi pensiamo secondo il nostro tempo, così com’esso nei nostri pensieri si esprime, una ed una sola criticamente legittima ‘attualizzazione’ di Bruno si può concepire, ovvero il confronto tra i suoi pensieri del suo tempo e i nostri pensieri del nostro tempo.
Allora, dato che il tempo di Bruno è la «crisi radicale», in cui nacque la modernità, e il nostro tempo la «crisi radicale», in cui la modernità agonizza, va attentamente considerato se possano cogliersi strutture problematiche di fondo, comuni - non certo per identità ma per analogia - all’uno e all’altro tempo, di volta in volta espresse nei pensieri di Bruno e nei nostri pensieri.
Nel caso in cui tali strutture effettivamente si presentassero, Bruno per noi non più soltanto rappresenterebbe un forte personaggio storico - pensatore geniale, strenuo polemista, radicale innovatore, raro carattere d’intellettuale fermezza (eroico, o forse patetico in un mondo di accomodante nicodemismo) - ma si rivelerebbe, nel suo tempo, il compagno di tutti noi, nel nostro tempo.
Il pensiero di Bruno è il canto della ragione, la quale non può rinunciare alla prospettiva in cui la sua essenza consiste. Se non pensiamo la questione dei ‘diritti umani’ come centrale struttura problematica del presente, non possiamo comprendere il nostro tempo nei nostri pensieri.
Tra la struttura problematica del tempo di Bruno, in cui egli pensa la ragione intendendola come paritaria dignità degl’infiniti centri di soggettività, e la struttura problematica del tema dei ‘diritti umani’, in cui noi oggi pensiamo il nostro tempo, l’analogia è evidente. È questo uno dei motivi per cui Bruno, nel suo tempo, ci è compagno, nel nostro tempo.
Salvatore Balasco
SCHEDA:*
Giuseppe Cantillo & Mariapaola Fimiani, Il fondamento nascosto. L’etica attiva di Aldo Masullo
Nell’immaginato Dialogo di Giordano Bruno e un Procuratore di Stato Aldo Masullo fa dire al Nolano: «Il generale buon senso non sempre è buono. Può essere bonario, accomodante, ma non perciò buono, ossia vero. La filosofia non è che l’esercizio della libertà del pensiero. Non pretende di possedere il vero, ma non si stanca di smascherare e denunciare il falso, e così rendere più libero l’uomo. Ma questo la rende invisa al potere».
In queste proposizioni affiorano già alcuni dei principi cardine della filosofia di Masullo esposti in questo libro: la filosofia come pensiero critico, irriducibile a strumento del potere, il nesso profondo di verità e bene, vale a dire una concezione «esistenziale», «non teoreticistica» della verità, intesa come la ricerca sempre aperta del «fondamento nascosto», della «relazionalità originaria», su cui poggia la dimensione etica, la responsabilità del soggetto di corrispondere all’appello dell’altro. Mantenendo vivo il fuoco del fondamento la filosofia si fa «etica attiva», il cui compito è sottrarre l’uomo all’angustia delle regole e dell’abitudine, per riaprire lo spazio al novum e alla «dialettica [che] è Eros, amoroso desiderio dell’originario, del vivo comunicare, e lotta contro ogni forza che tenta di corromperlo e di soffocarlo»: sfida estrema per difendere la libertà dinanzi al pericolo dello smisurato dominio della tecnica.
Giuseppe Cantillo & Mariapaola Fimiani, Il fondamento nascosto. L’etica attiva di Aldo Masullo, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2016, 120 pp., 15 euro (collana: Ethica)
Revival Bruno martire del pensiero
La libertà di ricerca rivendicata anche se si contrappone all’insegnamento biblico
di Corrado Augias (la Repubblica, 08.03.2016)
Per lungo tempo un equivoco ha circondato la figura del filosofo Giordano Bruno quasi che il bagliore delle fiamme che lo bruciarono vivo in Campo dei Fiori, abbia fatto impallidire i suoi meriti di filosofo e scienziato. Quando morì (17 febbraio 1600, anno santo) Roma e l’Italia si trovavano sotto la cappa della Controriforma che stava spegnendo la ricerca; la stessa abiura di Galileo, trentatré anni dopo, può essere considerata indiretta conseguenza di quel rogo. Oggi gli studi bruniani sono invece ripresi come dimostra una grande opera da poco pubblicata dalle Edizioni della Normale di Pisa a cura di Michele Ciliberto in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Titolo: Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, tre volumi, 2.400 pagine, 1.200 lemmi (180 euro il prezzo). Al di là del valore scientifico assicurato dai quaranta collaboratori impegnati in quest’opera monumentale, conta l’intenzione: dare finalmente a Bruno il peso scientifico che la sua incessante, irrequieta ricerca merita. In un paese spesso distratto verso i suoi grandi meriti storici, ecco un’iniziativa di respiro e di portata internazionale.
Bruno era nato a Nola, provincia di Napoli, nel 1548; venuto al mondo in una famiglia modesta che, per risparmiare, lo mandò a studiare dai preti. Brillante, irrequieto, a sedici anni è ammesso all’Università di Napoli; studia Lettere, Logica, Dialettica. Entra poi in convento, a 25 anni è consacrato sacerdote. Ha scelto di farsi domenicano non perché senta una particolare vocazione ma, come confesserà, perché la condizione di prete, gli consente di studiare l’amata filosofia con una certa tranquillità pratica. In realtà avrà vita movimenta, con spostamenti incessanti: Roma, Savona, Torino, Venezia, Padova, Brescia, Bergamo, Chambéry, Genève, Lyon, Toulouse, Parigi, Oxford, Londra, Magonza, Wiesbaden, Praga.
Dopo tante peripezie ancora Italia: Padova, Venezia, dove comincerà la sua fine per la vendetta di un piccolo nobile, tal Giovanni Mocenigo, che si ritiene offeso da lui. A Ginevra, fattosi calvinista, era diventato professore di teologia. La verità è che aderisce a questa o a quella confessione purché non pregiudichi le sue idee filosofiche e la libertà di professarle. Scrive moltissimo, ovunque si trovi, quasi una grafomania. Scrive di teatro, di morale, di fisica, di astronomia oltre che di filosofia.
Vede che la terra, pianeta eletto da Dio come sua sede, altro non è che un granello perso in un cosmo di cui nessuno conosce (allora e oggi) l’estensione. Sa che scrivendo certe cose, si contrappone all’insegnamento delle scritture. A chi gli fa notare il rischio, con ostinato orgoglio ribatte: «Il filosofo dev’essere libero dalle imposizioni delle autorità e delle stesse tradizioni; il suo solo orizzonte è quello che la forza della ragione gli permette di intravedere; infatti, alle libere are della filosofia cerca riparo dai flutti fortunosi desiderando la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli occhi, ma di aprirli. A me non piace dissimulare la verità, né ho timore di professarla apertamente».
È un uomo che appare pensieroso, crucciato, quasi cupo. Ne è consapevole, in una specie di amaro autoritratto dice di sé: «Par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’Inferno, un che ride solo per far come fan gli altri, perlopiù lo vedrete fastidito, restio e bizzarro; non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio di ottant’anni, fantastico come un cane che ha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla ».
Senza nemmeno un cannocchiale, per sola forza di speculazione, nel suo De l’infinito universo et mondi scrive: «Esistono innumerevoli soli e innumerevoli Terre ruotano attorno a questi ». Una verità nota da tempo ormai, ma che alla fine del XVI secolo suona sconvolgente. La teoria in sostanza rende eterno l’Universo, esclude l’idea di un Dio creatore. Insomma, Bruno è uscito dalla dottrina cristiana ufficiale - lo pagherà caro.
Su delazione del Mocenigo, viene arrestato dal santo Uffizio veneziano. Poco si cava dagli interrogatori e dalle confuse testimonianze contro di lui, il frate respinge le accuse più grossolane, discute ostinatamente la congruenza delle altre. L’istruttoria si arricchisce solo di carte inutili.
Nel 1599, il Cardinale Roberto Bellarmino s’interessa al caso. La Chiesa di Roma è una cittadella assediata dalla riforma luterana che ha spaccato la cristianità. Bellarmino è un uomo di grande ingegno; intuisce che l’imputato, con la sua visione di un infinito aperto ad una pluralità di mondi, ha spalancato un’era nuova per la libertà di pensiero; che, se si mette in discussione l’edificio costruito sull’interpretazione canonica delle Scritture, molte cose rischiano di precipitare. Avoca il processo alla santa Inquisizione romana sotto la sua diretta giurisdizione, ne afferra con decisione le redini.
Il resto è noto: le torture, la frase storica quando gli viene letta la sentenza di morte che deve ascoltare in ginocchio: «Forse con più timore pronunciate voi la sentenza contro di me, di quanto ne provi io nell’accoglierla ». Anche i suoi libri, giudicati «heretici et erronei et continenti molte heresie et errori» sono condannati al rogo che si consuma sul sagrato di San Pietro. Roberto Bellarmino sarà poi proclamato santo e dottore della chiesa un-con il motto: «La mia spada ha sottomesso gli spiriti superbi».
Nell’attuale revival bruniano, ai tre volumi cui accennavo sopra si deve aggiungere un’altra operina di notevole pregio: Giordano Bruno maestro di anarchia di Aldo Masullo, pubblicata da un piccolo editore campano La saletta dell’uva. Ne cito le righe d’apertura che danno un’idea del contenuto, in armonia col pensiero del filosofo: «Bruno ci avvia alla grande riflessione etica della modernità, che poi con Emanuele Kant si compie. In un fondamentale saggio Kant infatti chiarisce che “illuminismo” significa uscita dalla minore età, il cessar d’essere sotto tutela, il diventare padroni delle proprie decisioni». Sapere aude, dirà Kant. Giordano Bruno è tra coloro che hanno aperto la strada.
Aldo Masullo: "La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo"
Il docente di filosofia teoretica e di filosofia morale: "A chi mi chiede se ci credo, rispondo che non sono fatti suoi. Dopo Kant Dio non è più un problema della ragione. Dovremmo incominciare a viaggiare più leggeri"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 10 aprile 2016)
La prima cosa che Aldo Masullo dice - alla tenera età di 93 anni che compirà martedì - è di sentirsi un istrione. La maschera del filosofo che pare ereditata dagli ozi campani dell’antica Roma è avvolta da una diafana incorruttibilità. Usa la parola "istrione" con la stessa disinvoltura con cui direbbe "buono" o "interessante" o magari "perfido". Nell’antica Roma l’istrione era l’attore. Col tempo, si sa, è prevalsa la platealità del mestiere. Petrolini che recitava Nerone era istrione e piacione. Istrione, sommo, fu Carmelo Bene e anche Gassman, il mattatore. Su versante letterario istrione fu D’Annunzio con la sua impresa di Fiume.
Masullo è un po’ filosofo e un po’ mattatore; gli piace piacere. Sedurre con la parola. Dal quartiere Vomero dove vive da quasi cinquant’anni - la Napoli degli abbienti, quella perlopiù ignorata dal teatro popolare - si alza un sottofondo di umori commerciali e di traffici collinari. "Qui, a poca distanza, Eduardo Scarpetta si fece costruire un palazzetto in Liberty napoletano: "Villa la Santarella" che poi di santo aveva poco. Ci confinò la moglie e ci scrisse pure una bella frase "Qui rido io"".
Il riso è importante in filosofia?
"Lo è, come ci ha insegnato Bergson. Ma ancora più importante è il gioco. Qualunque cosa si faccia ha alla sua base il gioco simbolico. Lo appresi da Eugen Fink, negli anni in cui studiai a Friburgo. Ai suoi occhi il gioco era l’immagine stessa del mondo, il modello del Tutto. Fink non aveva fatto altro che mettersi nelle mani di un celebre passo di Eraclito: "Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo". Ne diede una traduzione un po’ diversa, ma il senso era che costruire e distruggere hanno in sé il tratto dell’assoluto e anche dell’innocenza".
Fu un aspetto che incuriosì Nietzsche.
"Al punto da farne uno dei pilastri della sua visione del mondo. Tutto lo stile nicciano, al di là di ogni trattazione seria, richiama il giocoso, il bisogno di "giocare con la filosofia" ".
Il filosofo è una sintesi tra l’artista e il fanciullo.
"Esattamente. Così come l’uomo è di volta in volta giocattolo e giocatore".
Ha mai pensato che siamo nella patria del gioco?
"Intende Napoli?"
Una risposta al fanciullo che gioca a dadi è l’adulto che gioca al lotto.
"Il gioco del lotto è l’enciclopedia del modo in cui il napoletano vive se stesso. Per secoli siamo stati un popolo sottoposto alla dominazione straniera; incapace di riscattarsi e di raggiungere traguardi più degni. Per il napoletano che non accede al regno degli eroi e dei potenti, il lotto è il solo spazio nel quale potersi rifugiare. È destino, caso, fortuna, speranza e trascendenza".
Il suo destino come se lo era immaginato?
"Fuori dalla rassegnazione. Sono nato ad Avellino e con i miei ci trasferimmo a Torino. Mio padre impiegato alle ferrovie. Si pensionò in anticipo e tornammo al Sud, nel 1939. Precisamente a Nola. Scelsero Nola non perché fosse la patria di Giordano Bruno, ma perché c’era un ramo della famiglia, composto da piccoli industriali del vetro".
Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra.
"Appresi la notizia mentre svolgevo il compito di italiano per la maturità classica. Immaginai la guerra come uno scontro epico, dove tutto si sarebbe rigenerato. Il suo volto terribile lo scoprii in seguito. Ho vissuto le privazioni. Ho visto la ritirata dei tedeschi. Ho assistito all’eccidio di Nola".
Se ne sa poco.
"Fu cruento e coinvolse una guarnigione di militari che resistette alla divisione corazzata "Hermann Göring". La superiorità tedesca ebbe la meglio. Per rappresaglia furono fucilati dieci ufficiali italiani. Tra questi c’era un tenente, Enrico Forzati, che si offrì al posto di un altro ufficiale. Motivò quel sacrificio così: tu hai figli e moglie, io sono solo. La mia morte non provocherà altre morti".
Che anno era?
"Era settembre del 1943. L’anno dopo presi la prima laurea, in filosofia. Ma non ero certo che avrei fatto il filosofo".
Cosa lo impediva?
"Avevo iniziato a fare pratica nello studio di un avvocato. Ero attratto dalle dinamiche del processo penale. Mi iscrissi perciò a Giurisprudenza e presi la seconda laurea nel 1947. In quegli anni conobbi Alfredo De Marsico, il grande penalista le cui arringhe a braccio incantavano l’uditorio. Questo monarchico liberale poteva parlare per ore, senza un’incertezza, una sbavatura".
Un modello di istrionismo.
"Incarnava la grande tradizione giuridica meridionale. La sua abilità retorica ricordava l’oratoria di Demostene".
In tarda età difese, con la sua oratoria, uno degli imputati del delitto del Circeo.
"Aveva più di novant’anni quando difese Angelo Izzo, avrebbe fatto meglio a godersi la pensione. Le arringhe sono tecniche di persuasione. Prescindono dall’aspetto etico. Diventano sfide: parole lanciate per sedurre". A volte per confondere. "Indubbiamente. Fu Platone che condannò la sofistica".
Alla fine perché abbandonò il mondo della giurisprudenza?
"Divenni assistente ordinario. Mi ero laureato su Julien Benda, con una tesi discussa con Emilia Nobile, crociana e studiosa dei mistici tedeschi".
Benda era famoso per il libello sul "Tradimento dei chierici".
"Tema a quanto pare ancora oggi attuale".
In quegli anni Croce era la più alta autorità filosofica.
"Il culto di Croce fu un fenomeno che si sviluppò nel dopoguerra. Ricordo quest’uomo dall’aria bonaria che andai a trovare a Palazzo Filomarino. Mi ricevette un po’ distrattamente. Mi disse occupati della storia, la storia è la sola cosa che non morirà mai. C’era come un cerchio magico intorno a lui. Persone che lo proteggevano: i crociani".
Lei non era crociano?
"Mai stato. Allora le mie tendenze - dopo le letture di Boutroux, Blondel, Bergson - erano spiritualiste. E poi c’era il marxismo che cominciava a far presa nel mondo napoletano. Mi trasferii a Napoli nel 1950. Una città che ribolliva di iniziative culturali. A parte l’interesse per Marx - di cui si fecero fautori Napolitano, Amendola e lo stesso Alicata - c’era la Società filosofica che a Napoli era coordinata da Cleto Carbonara, un uomo di notevole ingegno teorico che tentò di ibridare Gentile e Croce, correggendone i formalismi astratti con un’apertura all’empirismo".
Lei era all’università?
"Sì, come assistente ordinario. In quel periodo alla cattedra di teoretica fu chiamato Paolo Filiasi Carcano, allievo di Antonio Aliotta. Paolo era una personalità complessa. Studioso di matematica, interessato alla psicoanalisi. Fu lui a introdurre all’università di Napoli la fenomenologia di Husserl".
Accennava al suo periodo in Germania.
"Fu dopo che conseguii la libera docenza, nel 1957, che ottenni una borsa di studio per Friburgo. Vi avevano insegnato prima Husserl e poi Heidegger. Ci insegnava ancora l’ultimo allievo di Husserl: Eugen Fink. Era un uomo simpaticissimo. Un grande seduttore. Non so quale demoniaca inclinazione possedesse, ma aveva la capacità di inchiodarti con le parole e lo sguardo. Le sue riflessioni filosofiche sugli aspetti simbolici del gioco sono state fondamentali".
Che Germania aveva sotto gli occhi?
"Un paese che stentava a rinascere dopo la sconfitta. La società civile non aveva ancora assorbito il trauma della guerra. Meglio andava la società culturale che oscillava tra la grande tradizione goethiana e il rinnovamento letterario, in particolare promosso dal "Gruppo 47". Noi italiani, sparsi nelle università, eravamo interessati alla loro filologia e alla filosofia. Perfino a Nietzsche, considerato in quegli anni un autore pericoloso. Ricordo certe sere in cui Ferruccio Masini, che sarebbe diventato un eccellente germanista, mi leggeva in tedesco Così parlò Zarathustra".
Un libro per tutti e per nessuno, come recitava il sottotitolo.
"Un poema vertiginoso, beffardo, profetico. Dove tutta la modernità è chiamata al cospetto di quest’uomo che l’accusa degli scempi peggiori. E lo fa con la tranquillità di chi descrive qualcosa di ineluttabile. No, non è un libro per tutti, come scrisse ironicamente. È un libro per coloro che amano tramontare".
Che cosa è per lei il tramonto? Condizione nella quale mi pare versiamo ampiamente.
"Tramontiamo da sempre come da sempre il nichilismo pervade l’Occidente. Fu Eraclito a ricordarci che di ogni ente mortale non si può disporre due volte. E che la cosa mentre è non è. Contro il nichilismo si sono costruite macchine ideologiche e religiose oggi inutilizzabili. Anche perché è mutato il senso che noi attribuiamo al nichilismo".
Viviamo in un’epoca nichilista?
"Vi siamo pienamente immersi. Ma con questa differenza rispetto al passato: oggi non è più interessante il nichilismo teorico, quello che affermava, da Nietzsche a Dostoevskij, che siccome non c’è più verità allora tutto è possibile. Oggi la gente ha rovesciato questa sentenza e dice che siccome tutto è possibile allora non c’è più verità".
Con quali conseguenze?
"Che al nichilismo non ci si oppone con la filosofia, con la teoria. Il problema è diventato politico. E purtroppo la politica non nasce astrattamente. Non può essere un gesto di buona volontà. Occorre un processo storico che tenga conto delle nostre vite concrete. Del punto in cui si collocano".
Dove esattamente?
"Il nostro tempo storico ci mostra qualcosa di paradossale: nel massimo della connessione informatica, l’uomo sta vivendo il massimo della sconnessione civile. Il compito della politica - al di là delle esigenze amministrative - dovrebbe essere quello di ricreare una tensione verso l’unità, la connessione appunto. Non virtuale, ma dei corpi. Ma ho paura di parlare invano".
Paura perché?
"Ho l’impressione che stiamo vivendo ciò che io chiamo la "razionalità idiota". Idiota non tanto delle scarse capacità intellettive, ma come suggerivano i greci dell’attenzione dedicata al proprio particolare. Siamo come i topi di una nave che affonda, ciascuno cerca la sua via di salvezza. Ma non è così che ci si salva".
In quale modo, allora?
"Una delle chiavi della modernità civile è il rispetto. Che non vuol dire devozione, ma consapevolezza della relazione. Tutto ciò che io penso ha un senso solo se si confronta con quello che pensano gli altri. Il rispetto significa non interferire con la vita mentale dell’altro, ma confrontarsi con essa".
Il che non impedisce incertezze, equivoci, prevaricazioni.
"Tutto questo rientra nel sentire della vita. Ho elaborato in modo diverso la categoria della paticità. Il pathos non significa, come comunemente era stato inteso dopo le deformazioni romantiche, soffrire. Pathos è provare. Provare la vita". E Dio? "A chi mi chiede se ci credo, rispondo che non sono fatti suoi. Dopo Kant Dio non è più un problema della filosofia".
Lei dice "provare la vita", tutti la provano, meglio ci sono immersi.
"Ciò che intendo dire è che la mia vita appartiene a una realtà sempre in movimento. Non posso esiliarmi da essa. Ma devo comprendere come starci. Siamo semplici particelle di energia, secondo la visione democritea, che si muovono a caso o esprimiamo un’energia vitale e unitaria come pensarono gli stoici e in seguito Giordano Bruno?"
Che risposta dà?
"Oggi viviamo più la prima. Ma dovremmo richiamarci a quel maestro di anarchia che è stato Giordano Bruno, per il quale l’unica conversione possibile era alla giustizia".
Si sente un uomo realizzato?
"Non lo sono. Più vado avanti negli anni e più o la sensazione di aver perduto tempo. Un tempo ormai irrecuperabile. Le confesso però che non mi pento di nessuna delle cose che ho fatto, mentre mi pento per tutto quello che non ho fatto".
Ancora una punta di istrionismo.
"Torniamo alla teatralità e al gioco".
Torniamo a una certa idea di Napoli.
"Questa città è solo rappresentazione. Ci innamoriamo del nostro apparire belli e singolari agli occhi del mondo. Una forma di narcisismo che spinge una società urbana alla propria decadenza. Ma non possiamo vivere di solo fascino. Perfino la malinconia napoletana è diventata qualcosa di pittoresco".
Forse di necessario.
"Chi lo sa. In un verso Empedocle dice: "La grazia odia l’intollerabile necessità". Il nostro popolo non ha mai amato la necessità. Semmai l’ha vissuta, o aggirata con estro e fantasia. Ma oggi queste ultime sono armi inservibili. Oggi bisogna ritrovare la nostra destinazione che non è la morte, che pure arriverà e in me non è lontana, ma la vita. L’umanità sta uscendo sconfitta dal troppo. C’è troppo di tutto. Almeno qui, in Occidente. Cominciamo a viaggiare più leggeri".
La rivolta di Giordano Bruno
di Maria Mapelli (Psychiatryonline, 25 ottobre, 2012)
"Liberazione dello spirito" (2). Giulio Giorello nella presentazione all’ultimo libro di Nuccio Ordine ci ricorda come "un insolito Moritz Schlick, anima del positivismo logico viennese, coglieva (1917) la radicalità della sovversione operata da Bruno commentando uno dei sonetti che aprono il De l’infinito universo e mondi come una vera e propria liberazione dello spirito"(3).
Ben oltre Copernico - quel Copernico che già aveva "varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo (4)" - Bruno "straccia definitivamente i limiti e i confini dell’universo"(5) . Il Nolano pensa l’universo come universo infinito in atto, omogeneo e abitato da infiniti mondi (6): nella teoria bruniana è all’opera - per continuare ad usare un’espressione di Schlick -una "forza liberatrice" che vince i pregiudizi della cosmologia precedente.
Quel che Bruno farà, sarà trarre dalla nuova cosmologia le dovute conseguenze.
Liquidato il mondo chiuso e finito della tradizione aristotelico-tolemaica, Bruno "spezza tutte le antiche gerarchie geocentriche, facendo piazza pulita di una scala di valori priva di senso" (7).
Bruno non si ferma alla cosmologia ma, in sintonia con una cultura umanistico- rinascimentale che riusciva ancora - spesso molto meglio di noi contemporanei - a leggere i nessi tra le cose e ad elaborare un pensiero olistico, riparte dalla filosofia della natura per allargare, poi, la forza sovversiva del "pensare l’infinito" anche sul piano gnoseologico, etico, estetico, politico e religioso.
La sua rivolta è radicale e il pensiero cui approda potrebbe essere visto come uno dei capitoli di quello che Michel Foucault, in un testo folgorante(8), definisce il "differenziale platonico": conversione, sovversione e perversione del platonismo e del suo impianto irrimediabilmente dualistico(9).
A leggere Foucault, viene in mente proprio Bruno.
Viene in mente la sua difesa dell’uso del volgare(10) di contro all’impaludato latino delle Università, il suo infrangere generi e stili mediante il trapassare dal comico al tragico, il suo sapiente uso del paradosso, la sua battaglia contro le regole dei pedanti che riducono "il sapere a culto della parola e a sterile esercizio etimologico" (11); ed ancora: il suo appassionato discorso sulla forza generativa e creatrice della materia, sull’incessante vicissitudine (12) che segna irrimediabilmente i processi trasformativi e il divenire di ogni cosa, sull’insaziabile e infinito desiderio - il principio dell’Orco (13) - che muove l’universo e al tempo stesso l’intelletto umano verso un limite che mai viene raggiunto.
Ma viene in mente anche il discorso, in parte di matrice cusaniana (14), sulla nuova, diversa e riconquistata dignità e centralità: non più l’uomo come centro perché abita un luogo privilegiato di un cosmo finito, ma l’uomo - in un universo infinito e perciò senza più centro alcuno - che diventa di nuovo centro solo perché qualsivoglia punto può ridiventare centro (15); centro, insomma, allo stesso titolo di ogni quantosivolgia vilissima minuzzaria (16); allo stesso titolo anche del più infimo tra gli enti, sia esso perfino una pulce (17). Si può davvero pensare a Bruno leggendo queste parole di Foucault:
"Pervertire il platonismo, significa sfilarlo sin nei minimi particolari, discendere (secondo la gravitazione propria dell’ humour) sino al capello, al sudiciume sotto l’unghia che non meritano per niente l’onore di un’idea" (18).
Uno dei punti di forza della linea di indagine proposta da Nuccio Ordine è quella, nell’ambito della vasta letteratura critica (19) dedicata al filosofo di Nola, di leggere i dialoghi italiani come discorso omogeneo, come articolazioni di un preciso progetto che, a partire dalla nuova filosofia della natura (Cena, De la causa, De l’infinito) rifonda la filosofia morale (Spaccio e Cabala) e infine la filosofia contemplativa (Furori):
"Getta prima le basi della sua cosmologia infinitistica. E dopo aver liberato l’universo dalle catene del geocentrismo, cerca di liberare con movimenti successivi e consequenziali, la materia, l’etica, l’estetica e la conoscenza" (20)
L’approdo del Nolano sarà quello di articolare una nuova filosofia che cercherà di mantenere ferma la conquista dell’infinito, di non tradire la relativizzazione dei punti di vista ma, anzi, di ripartire dalla spinta vitale che ogni ente possiede. Bruno lucidamente riuscirà a far manifestare, all’interno della molteplicità del divenire, la singolarità e la irripetibilità di ogni evento, di ogni metamorfosi e al tempo stesso cercherà di rintracciare le trame che rinviano da ogni piega dell’incessante divenire a quell’unica materia sostanziale, infinita e autogenerantesi. Un pensiero del molteplice radicato nel "dominio della mutazione e della coincidentia oppositorum" (21)o, come dice Saulino nello Spaccio, riferendosi - ancora una volta - a Cusano:
"Però se fisica e matematica moralmente si considera: vedesi che non ha trovato poco quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de contrarii; e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove ella consiste" (22)
Ecco che l’intera filosofia del Nolano è segnata dal primato delle mani, "organo degli organi" (23), della vita attiva su quella contemplativa, dell’inscindibile nesso tra azione e contemplazione che è alla base dell’esaltazione della magia naturale: vero mago (24) è colui che saprà leggere il labirinto del divenire, seguirne le trasformazioni e vincolare senza essere a sua volta vincolato; vero filosofo è colui che agisce, usando assieme mani ed intelletto, che si "abbandona ad un inseguimento senza fine"(25), ad una quête faticosa ed infinita.
Di qui il metodo utilizzato da Nuccio Ordine in Contro il Vangelo armato: un saggio che rompe i confini tra discipline e specialismi, che in un certo senso sdogana il pensiero di Bruno dalle ristrettezze e dalle chiuse di una lineare storia delle idee. Ordine piega l’analisi delle fonti e le ricostruzioni filologiche ad una interpretazione che intende ritessere in modo spregiudicato e innovativo la trama concettuale della filosofia nolana declinata come filosofia morale e politica.
In questa direzione Ordine apre i testi del filosofo a continui rinvii sincronici e orizzontali verso un ampio contesto europeo: temi, miti, immagini e metafore bruniane diventano così più intelligibili e a loro volta gettano nuova luce su autori e testi della stessa epoca.
Filo conduttore di Contro il Vangelo armato diventa, quindi, il tentativo di riconsegnare i testi bruniani - i dialoghi italiani e in particolare il dialogo satirico lo Spaccio - ad un ampio contesto che ha come punto di partenza il soggiorno in Inghilterra del Nolano [1583-1585] in cui Bruno è ospite, a Londra, dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau (26).
E qui, subito, il primo rinvio: rileggere i Mémoires (27), l’unica opera del Castelnau a noi pervenuta, in parallelo allo Spaccio. Mentre l’ambasciatore scriveva le sue memorie, Bruno infatti lavorava al dialogo satirico. Un primo punto di partenza che, quindi, si allarga a disegnare i possibili rinvii contestuali, oltre la Manica, al milieu accademico di Enrico III (28), ipotizzando che Bruno da Londra non abbia mai interrotto i rapporti con quella corte parigina in cui nel biennio precedente [1581-82] era stato ben accolto. Proprio a Parigi, d’altra parte, aveva pubblicato le sue prime opere: De umbris idearum, Cantus Circaeus, Ars memoriae, De compendiosa architectura et complemento artis Lullii.
Importanza del milieu francese, quindi.
Di qui il parallelo tra molti spunti della riflessione bruniana e le tematiche del poeta della Pléiade, Pierre de Ronsard, autore dei Discours des Misères de ce temps(1567, 1578): il poeta che "imbraccia le armi della sua professione - "le papier et la plume" (29) - per combattere la coraggiosa battaglia contro l’arroganza e la vana eloquenza dei protestanti" (30).
Una battaglia contro la Riforma, tuttavia, intrapresa non tanto a difesa dei cattolici quanto a sostegno di una ragion di stato - tutta politica - che vede nella religione - in linea di continuità con il dibattito che va da Bodin (31) a Machiavelli - un instrumentum regni, lo strumento per tenere coeso e unito un popolo. Ronsard si fa "difensore del re e della nazione francese che nell’autorità si incarna" (32).
Qual è allora l’utilità della religione? L’etimo della parola religione - come ripeterà Bruno - viene fatto risalire al latino religare (33) e la religione, con i suoi riti e i suoi culti, ha quindi la funzione di creare legami e connessioni, di garantire l’unione. La connessione garantita dalla religione non dovrà essere quella tra uomo e Dio - come vorrebbero i protestanti - ma tra uomo e uomo, tra singolo e comunità di appartenenza. La religione di un popolo, inoltre, fa parte della sua storia: è legame perciò in quanto ha radici profonde e non può per questo essere - come sostiene anche Machiavelli - estirpato improvvisamente.
Ma in terra francese, nell’Accademia di Enrico III, si discute anche di vizi e di virtù e, circa queste ultime, se siano più rilevanti le virtù intellettuali o le virtù morali. Ronsard si schiera decisamente per le seconde: per le virtù che hanno per oggetto le realtà instabili, le cose incerte - come, ad esempio, il governo delle città.
E vale davvero la pena tornare a sottolineare la presa di posizione di questo poeta, utile per rileggere e ripensare molti passaggi bruniani: la scelta è per la vita attiva, per le virtù morali.
Su questo fronte ci si deve impegnare perché si tratta di virtù che implicano, per essere ben esercitate, molta più abilità che non l’esercizio delle virtù intellettuali che si limitano a "guardare e meditare ciò che è costante e che non può né venirvi meno né deludervi" (34).
Tra la vita contemplativa e la vita attiva, il poeta militante francese e il filosofo eretico sceglieranno, entrambi, l’azione.
Il filosofo non può che diventare, quindi, uomo politico. Facile riconoscere ancora una volta il debito bruniano verso Platone e al tempo stesso la distanza che li separa. Laddove il filosofo greco dichiarava l’illusione e i margini di errore derivati da una visione legata alle sole ombre e bandiva dalla sua Repubblica (35) poeti, pittori e fabbricatori di specchi, Giordano Bruno troverà proprio nella dimensione umbratile la via d’accesso per un riscatto del pensiero facendo dell’ombra, del vestigium, del sigillum, dell’immagine dipinta e dell’immagine riflessa altrettante leve per scardinare l’universo chiuso dei saperi costituiti.
Il lettore poi - oltre il testo di Ordine - potrà senza difficoltà rintracciare altri nodi che arrivano fino ai giorni nostri: la riflessione sui fondamentalismi attuali potrà di certo arricchirsi nell’intessere un dialogo con le ragioni che sono alla base del rifiuto, da parte del filosofo Giordano Bruno e del poeta Pierre de Ronsard, di ogni fanatismo religioso.
*Nuccio Ordine, Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione, Cortina editore, Milano 2007. Il libro riprende temi del ciclo di seminari che Ordine ha tenuto nel 1998 al Warburg Institute di Londra, rielaborati nell’introduzione allo Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno, edito a Parigi nella collana Les Oeuvres complètes di Belles Lettres diretta da Yves Hersant e Nuccio Ordine. Rispetto al saggio pubblicato in Francia Giordano Bruno, Ronsard et la réligion, Albin Michel, Paris 2004, l’edizione italiana risulta ampliata, aggiornata e arricchita da un’appendice dedicata al confronto tra la Mandragola di Machiavelli e il Candelaio di Bruno
NOTE
2 Giulio Giorello, Presentazione, in Nuccio Ordine, Il Vangelo armato, cit., p. XVIII. Il riferimento è a Moritz Schlick, Spazio e tempo nella fisica contemporanea, Bibliopolis, Napoli 1979, pp. 77-78
3 Ibidem
4 Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Opere italiane, Utet, Torino, vol II p.179
5 Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra, Marsilio, Venezia 2006, p. 74
6 Sul concetto di infinito in Bruno la letteratura è vasta; si veda per l’interpretazione qui sostenuta: Michel Angel Granada, Introduction, in De l’infinito universo e mondi, Oeuvres complètes, cit., 2006, vol IV; Antonella Del Prete, Infinito, in Enciclopedia bruniana e campanelliana, vol I Giornate di studi 2001-2004, diretta da E. Canone e G. Ernst, Pisa-Roma, 2006 , pp.47-60.
7 Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra, cit., p.75
8 Michel Foucault, Theatrum Philosophicum, introduzione a Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p VIII-XXIV
9 Ibidem
10 Giovanni Acquilecchia, L’adozione del volgare nei dialoghi londinesi di Giordano Bruno [1953], in Schede bruniane [1590-1991] Manziana, Vecchiarelli 1993, pp. 41-63
11 Nuccio Ordine, Contro il Vangelo armato, cit. p. 155.
12 Cfr. per un’introduzione al tema: Michel Angel Granata, Vicissitudine, in Enciclopedia bruniana e campanelliana, vol I, cit., pp. 179-191
13 Giordano Bruno, Lampas triginta statuarum, in Opere Magiche, edizione diretta da Michele Ciliberto, Adelphi, Milano 2000, pp. 958-964 [21-29].
14 Per un’introduzione al tema di Cusano come fonte di Bruno si veda Pietro Secchi, Cusano, in Enciclopedia bruniana e campanelliana, vol I, cit., p. 19.
15 Ibidem
16 Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Oeuvres complètes de Giordano Bruno, collection dirigée par Yves Hersant, Nuccio Ordine, Les belles lettres, Paris 1999, V pp. 161-165
17 Ibidem. Si veda anche il commento di Ordine in La soglia dell’ombra, cit, p. 76: "I capelli di Vesta, le pulci di Costantino, la gonna di mastro Danese, il molare della vecchia di Fiurulo occupano un posto importante nel destino cosmico".
18 Michel Foucault, Theatrum Philosophicum, op. cit.
19 Sulla stessa linea di Ordine si vedano: Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti, Aragno editore, Torino 2000, p.324; Miguel Angel Granata in Introduction a Giordano Bruno Degli eroici furori, Oeuvres complètes, cit, 1999, VII pp. XXXIX-LVI; Alfondo Ingegno, Regia pazzia. Bruno lettore di Calvino, Quattro venti, Urbino, 1987, pp. 143-148.
20 Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra, cit., p. 42
21 Nuccio Ordine, Contro il Vangelo armato, cit., pp. 177-182
22 Ivi p. 181
23 p. 78
24 Opera di riferimento sul tema dei vincoli connessi alla magia è il De Vinculis in genere. Si veda Giordano Bruno, Opere magiche, cit. pp. 413-584
25 Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra, op. cit., p. 225.
26 A Michel de Castelnau, Bruno dedica, in segno di riconoscenza, i primi tre dialoghi italiani: La cena del le Ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito, universo e mondi e l’opera latina sulla mnemotecnica Explicatio triginta sigillorum.
27 I Mémoires, pubblicati postumi nel 1621, sono l’unica opera di Michel de Castelnau a noi pervenuta. Nuccio Ordine dimostra che i Mémoires sono ancora in fase di stesura nel biennio in cui Bruno è ospite di Castelnau e sicuramente l’ambasciatore vi sta lavorando mentre Bruno scrive lo Spaccio de la bestia trionfante il dialogo satirico, pubblicato a Londra nel 1584 presso Charlewood. Cfr. Contro il Vangelo armato, op. cit., pp.1-4.
28 Nuccio Ordine fa riferimento ai lavori che Francis Yates negli anni Quaranta dedica allo studio delle accademie francesi e che rimarranno poi privi di seguito. In particolare si veda, Francis Yates, The French Academies of Sixteenth Century, Warburg Institute, London 1947.
29 Carta e penna.
30 Ordine, Contro il Vangelo Armato, cit, p. 11
31 Ivi p. 29. Ordine si sofferma sull’analisi di alcuni passaggi dei Six Livres de la Republique (1576) di Jean Bodin, amico dell’ambasciato francese Castelnau e legato alla corte del re di Francia Enrico III.
32 Ivi p.13
33 L’ipotesi di Ronsard è la stessa di Bruno: entrambi seguono l’etimo che collega religio a religare e non a relegere [religire]
34 Ordine, Contro il Vangelo Armato, cit, p. 26-27.
35 Platone, La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Bur 2006, Libro X, 596c - 598b.
Un rogo che ha illuminato la Storia
Saggi. «Giordano Bruno» di Anna Foa per il Mulino. La libertà dei moderni contro l’arbitrio della Chiesa Una vicenda che attraversa i secoli fino all’edificazione della statua del Nolano
di Andrea Comincini (il manifesto, 28.01.2016)
È il 9 giugno 1889 quando un grande telo bianco viene rimosso, e la statua di Giordano Bruno, il filosofo nolano bruciato in Campo de’ fiori il 17 febbraio del 1600, viene accolta da una platea numerosissima e festante.
Alla base della scultura, otto effigi, raffiguranti altri «martiri del libero pensiero»: Hus, Wycliff, Serveto, Aonio Paleario, Vanini, Ramus, Campanella e P. Sarpi.
Una scritta riassume non solo la tragica vicenda, ma diventa sintomatica del clima di quegli anni, e sarà premonitrice del futuro: «A Bruno, il secolo da lui divinato».
In Giordano Bruno, edito dal Mulino (pp. 110, euro 9), Anna Foa racconta la vita in pellegrinaggio del pensatore, le disavventure processuali, e definisce in maniera limpida la grande questione che lo vide suo malgrado fare da spartiacque: tracciare il confine ideale tra la libertà dei moderni e l’autorità della Chiesa.
Il testo si apre con il resoconto delle vicende che riguardano l’erezione di una delle statue più famose d’Italia, e dimostra come la fiamma che si elevò nel 1600 non era stata ancora dimenticata, da entrambe le parti. Da un lato il Vaticano, dall’altra liberali, massoni, socialisti, e anticlericali. I giornali cattolici definirono «orgia satanica» il grande raduno inaugurale, e il soglio pontificio intero si scatenò con una collera di rara intensità.
Il Papa, ci racconta la studiosa, non solo temette per la sua persona, ma si ritirò l’intero giorno in digiuno, prostrato davanti la statua di San Pietro. L’aristocrazia nera abbandonò la città: i giornali parlarono di pericolo rivoluzionario, condannando senza appello l’evento, come fece pochi anni prima Mons. Pietro Balan, in uno scritto commissionato dai Comitati Cattolici, in cui esprimeva il proprio disgusto per la propaganda bruniana, bollata perché espressione di «atei, ebrei, stranieri e massoni». Questo attacco così frontale, ricorda la Foa, arrivò a picchi esilaranti, tragicomici, quando si iniziò a sostenere che l’inaugurazione aveva portato inondazioni, frane e uragani.
Un testo particolare dunque, dove si raccontano aspetti meno noti ma altrettanto significativi. La risposta del mondo anticlericale fu fortissima, e visti i risultati, vincente: la statua venne collocata a Campo de’ fiori e non nel cortile della Sapienza, (alcuni moderati avrebbero preferito cedere al compromesso), e le manifestazioni nelle piazze forgiarono un clima in cui nessuno avrebbe osato veramente sfidare il mondo laico. Un mondo che vide la raccolta di firme prestigiose, sia italiane sia internazionali, «divinatrici» anch’esse del secolo a venire. Una epoca di scontri, non risolti nemmeno successivamente. È Antonio Labriola, in una introduzione scritta nel 1910 a proposito del Nolano, a affermare: «Noi non abbiamo ancora vendicato il martirio di Bruno perché non abbiamo ancora condotta la saggezza in mezzo al popolo, e per esso può sembrare ancora necessaria la morale ecclesiastica».
Anna Foa approfondisce l’aspetto sociologico della figura di Bruno partendo da questo insanabile conflitto, e spiega come la sua immagine simbolica sia servita a sostenere una battaglia politica e culturale, nell’Italia appena unita e appesa a un filo.
Anche grazie a Bruno sorge una tradizione (il procedimento ricorda quanto Benedict Anderson, nel famoso Comunità immaginate, segnala a proposito della nascita delle Nazioni), una storia del libero pensiero, di cui il Nolano fu uno dei grandi protagonisti. Filosofo, certamente, ma non solo. Mago e ribelle parimenti, e per questo costretto a un continuo peregrinare per le corti d’Europa, per insegnare e concentrarsi sulla «eroica» dottrina.
Nella parte centrale del libro, ovviamente, si riflette intorno le cause del processo, e le accuse. La ricostruzione precisa e coinvolgente accompagna la lettura e restituisce una visione d’insieme delle vicende di rara sistematicità.
Giordano Bruno, al di là delle interpretazioni o del ruolo storico, e della sua volontà, si trova a rappresentare lo scontro fra le istanze della modernità ed un potere, la Chiesa, tenacemente opposto: un contrasto, viste ancora oggi le continue tensioni in ambito politico e sociale, non ancora sanato o concluso.
di MARIA MANTELLO *
Un ragazzo fuori dalla classe con tanto di sedia e di banco dove possa stanziare durante l’orario di lezione lontano dai compagni: in uno spazio di solitudine... perché gay dichiarato.
Una umiliazione nella violazione della sua dignità di essere umano che si consuma a Monza nell’ “Ente Cattolico Formazione Professionale” (E.C.Fo.P) di Via Manara 34.
La ghettizzazione inizia giovedì 24 settembre e ha termine il lunedì successivo di fronte all’intervento dei carabinieri a cui la madre del ragazzo si rivolge per denunciare quanto stava accadendo al figlio.
Il Centro di formazione professionale di Via Manara 34 è annesso alla chiesa di S. Biagio, il cui parroco, don Marco Oneta è anche il presidente dell’Ecfop, che in Lombardia ha diverse altre sedi.
I centri di formazione professionale non fanno capo al Ministero dell’Istruzione, ma alle Regioni che in base all’art. 117 della Costituzione si occupano di “istruzione artigiana e professionale”. Le Regioni riconoscono gli enti privati di formazione professionale, a cui affidano la gestione dei corsi, coprendone ogni spesa: stipendi del personale, attrezzature di servizio, materiali didattici, ecc. Insomma, nel settore della formazione professionale, le Regioni hanno esclusivamente un ruolo sussidiario, ovvero di erogatrici di pubblico denaro. Un modello - per inciso- che la “buona scuola” renziana sta esportando nei cicli ordinari del sistema scolastico (dalla scuola d’infanzia ai licei).
Ma torniamo al caso dell’ Ecfop di Monza.
A far conoscere l’umiliazione inflitta al ragazzo gay è stata la stampa locale, che ha riportato nel dettaglio l’accaduto, comprese le incredibili dichiarazioni rilasciate in interviste e comunicati dal direttore Adriano Corioni, che dice di aver separato l’alunno gay perché «influenza negativamente gli altri ragazzini». Ovviamente - quanta cura! - lo avrebbe fatto anche per il bene del ragazzo stesso. Tanto bene, che il ragazzino gay è tornato a casa in lacrime, e fermamente intenzionato a non tornare più in quella scuola. Di qui l’intervento della famiglia di cui abbiamo detto prima.
Quando la vicenda ha cominciato a rimbalzare sui media, il direttore Corioni ha cercato di tutelarsi affermando: «Vi assicuriamo che non facciamo discriminazioni sessuali né razziali. La nostra attenzione è alla formazione professionale dei giovani, seguendo il dettame della pastorale della Chiesa cattolica».
Ecco il punto. Per una scuola cattolica il faro non è la Costituzione, ma la dogmatica curiale e il suo catechismo, che stigmatizza l’omosessualità come «oggettivo disordine morale», (canone 2357) e condanna gli omosessuali all’espiazione del “peccato” vivendo nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358).
Così, il direttore del centro professionale cattolico, si deve essere sentito un novello S. Giorgio (come non pensare al corto di Fellini “Le tentazioni del dott. Antonio”!) nel perseguire in quel suo alunno adolescente una doppia “colpa”: essere gay e per giunta dichiarato.
La dirigenza dell’Ecfop di Monza si deve essere sentita come investita da spirito militante alla diffusione della dottrina curiale cattolica. Un baluardo per non incrinare la pregiudiziale omofoba.
Di qui la crociata per mettere all’indice il ragazzino gay, gettando sulle fragili spalle di quell’adolescente la croce a cui inchiodarlo: quel banco d’isolamento.
Una vergogna per ogni più elementare concezione di umana educazione, che deve porre l’attenzione sul singolo, nel diritto dovere al riconoscimento della sua dignità.
Ma la direzione Ecfop preferisce la veste del medievale inquisitore per annichilire un ragazzo coraggioso. Un ragazzo che vuole essere riconosciuto per quello che è, e che sta combattendo la battaglia per il fondamentale diritto umano ad essere proprietario della sua vita.
Allora, vale appena ricordare che “formazione integrale della persona” - di cui si parla in ogni statuto di qualsivoglia scuola cattolica - non vuol dire omologazione ai precetti cattolici.
Si dismettano i sogni medievali teocratici. La libertà e la democrazia sono state conquistate con lacrime e sangue... Oltre i roghi e le gogne di Santa Romana Chiesa!
Sopra al catechismo e alle gerarchie vaticane c’è la Costituzione con i suoi principi fondamentali: anche contro i razzismi sessisti.
Ecco allora un buon esercizio che in un banco da solo potrebbe fare quel direttore: scrivere almeno cento volte l’art. 3 della Costituzione che vincola alla rimozione degli ostacoli - discriminazioni sessuali comprese - per promuovere la formazione del Cittadino.
Del cittadino democratico, caro direttore, non del credente cattolicista!
Maria Mantello
L’opera svolta dal sovrano francese per far cessare le guerre di religione
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 28.09.2015)
Enrico III (1551-1589) fu incoronato due volte: la prima come sovrano di Polonia (1573), la seconda come re di Francia (1575). Ma sul suo stemma di corone ne figurano tre, assieme alla scritta Manet ultima caelo , «L’ultima resta (ti attende) in cielo». Perché quel terzo ornamento per il capo del re, spesso dipinto come una corona di spine? Frances Yates, la studiosa inglese che a metà del Novecento è stata animatrice dell’Istituto fondato da Aby Warburg, rispose sostenendo che era, quello, un modo per dire che Enrico III, l’ultimo dei Valois, non badava alle glorie terrene, ma soltanto alla ricompensa celeste che avrebbe premiato la sua attività di sovrano. «La terza corona», scriveva Frances Yates, «simbolizza la corona spirituale che il re si sforza di meritare guidando il suo movimento religioso». Immagine e motto sarebbero legati alla «Controriforma contemplativa e non violenta» incoraggiata da Enrico in contrasto con i metodi della Ligue e dei settori cattolici più oltranzisti.
Nuccio Ordine ha adesso scritto un libro straordinario, Tre corone per un re (Bompiani), che - come si può evincere anche da un prezioso inserto iconografico con oltre centocinquanta immagini - si spinge più in là dell’interpretazione della Yates e ci racconta la storia di un sovrano che aspirò ad agire - di concerto con Elisabetta I d’Inghilterra - per porre fine alle guerre di religione. Tutto ciò in base a un’alleanza tra moderati cattolici e protestanti contro gli estremisti dei due schieramenti.
L’ultima corona, di spine, sarebbe stata il premio al «sovrano terzista» per questa complicata impresa. Compiuta, per di più, al riparo da ingerenze pontificie. Anzi, come scrive Marc Fumaroli in una prefazione colma di elogi al libro di Ordine, sancendo «l’intrinseca sacralità della regalità francese e il legame mistico che la collega direttamente a Cristo e a Dio». Impresa arricchita dal ricorso alle categorie di Machiavelli e dall’opportunità di usare, come «ambasciatore», Giordano Bruno, che ne riferirà ne Lo spaccio de la bestia trionfante (1584). Per quel che riguarda Machiavelli, furono le sue idee a raggiungere la corte francese.
Invece Bruno si mosse in prima persona. Dopo essere entrato in contatto e poi in una qualche confidenza con Enrico III - interessato in un primo tempo ad apprendere da lui le «arti del tenere a mente» (tant’è che il filosofo gli dedicherà, a mo’ di ringraziamento, il trattato di tecniche della memoria De umbris idearum ) - ed essersi fatto apprezzare per aver intuito il suo grande disegno politico, si sarebbe incaricato, o avrebbe ricevuto l’incarico, di spiegare il tutto alla regina Elisabetta: la terza corona - è il senso del messaggio - spetterà ai monarchi che sapranno fermare le guerre di religione. Il re lo nominerà lettore al Collège Royal, di cui il Collège de France avrebbe raccolto secoli dopo l’eredità. Fondata da Francesco I, «questa nobile istituzione aveva avuto soprattutto il compito di offrire agli studiosi anticonformisti quella libertà che la Sorbona non permetteva per via del suo rigido aristotelismo», puntualizza Ordine. Di lì poi Bruno si sarebbe recato in Inghilterra.
Del passaggio di Bruno da Parigi a Londra resta traccia in una lettera dell’ambasciatore inglese in Francia, Henry Cobham, del 28 marzo 1583: «Il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, di cui non so garantire la religione, ha l’intenzione di passare in Inghilterra». Inghilterra nella quale il «Nolano» non farà fatica ad entrare nelle grazie della regina. Giordano Bruno nel De la causa, principio et uno scriverà un elogio di Elisabetta grazie alla quale, solo il Tamigi, a differenza di tutti gli altri fiumi d’Europa insanguinati dalle guerre di religione («irato il Tevere, minaccioso il Po, violento il Rodano, sanguinosa la Senna, turbida la Garonna, rabbioso l’Ebro, furibondo il Tago, travagliata la Mosa, inquieto il Danubio»), era riuscito a scorrere «sicuro e gaio».
Nuccio Ordine, come spiega Fumaroli, ci guida in una spedizione antropologica alla scoperta di un’epoca di grande intelligenza, in cui non ci si domandava se i simboli facessero effetto o meno, «ma se la loro pregnanza poliedrica e polisemica bastasse a se stessa». Comunque, in questo contesto, «la questione della terza corona investe sul piano politico soprattutto i rapporti con l’Inghilterra... Il sogno di un terzo regno, infatti, viene accarezzato già a partire dal 1572, quando, su un piano strettamente diplomatico, si avviano le trattative per sancire l’alleanza tra le due monarchie, quella francese e quella inglese, attraverso il tanto discusso matrimonio di Francesco d’Alençon, il “terzo principe”, con Elisabetta I». Ecco che la «terza corona» sarebbe la realizzazione «dell’antico sogno di vedere tre regni governati dai tre eredi di Enrico II».
Nuccio Ordine mette in grande risalto un evento che segnò profondamente la Parigi dei Valois: il 15 ottobre del 1581 nella grande sala del Petit-Bourbon, la corte assiste alla più spettacolare delle feste date in onore del matrimonio tra il duca Anne de Joyeuse e Marguerite de Vaudémont, sorella della regina di Francia Louise de Lorraine. Per questa importante occasione, Enrico III aveva affidato a Balthasar de Beaujoyeulx assieme al poeta Nicolas Filleul (signore de la Chesnaye), al compositore Lambert de Beaulieu e al pittore Jacque Patin, l’incarico di organizzare il Balet comique de la Royne. Cinque ore e mezza di spettacolo, dalle dieci di sera alle tre e mezza del mattino, con brani musicali, versi, danze, canti, scenografie d’effetto e una sezione finale in cui venivano presentate 18 imprese.
Balthasar de Beaujoyeulx è in realtà il compositore italiano Baldassarre Baltazarini di Belgioioso, grande violinista che si era trasferito in Francia a metà del Cinquecento, grazie all’appoggio di Charles de Brissac, governatore e luogotenente generale del Piemonte. Qui lo avevano notato Enrico II e Caterina de’ Medici e dopo pochi anni era stato promosso a valet de chambre del re. Status che, in seguito alla morte di Enrico II (1559), aveva mantenuto al servizio di Caterina de’ Medici e di Maria Stuarda (quest’ultima era moglie di Francesco II, succeduto a Enrico II sul trono francese, dove sedette solo per pochi mesi tra il 1559 e il 1560). E, a proposito di Maria Stuarda, va ricordato che anche lei ebbe sul suo stemma tre corone, quella di Francia, quella di Scozia e, in cielo, quella d’Inghilterra: probabilmente, come è ben argomentato da Nuccio Ordine, fu a lei e alla sua «impresa» che si sarebbe ispirato Enrico III.
Ma torniamo a Beaujoyeulx, il quale era rimasto anche a fianco di Carlo IX (che aveva dieci anni quando divenne re nel 1560, tant’è che fu la madre, Caterina, a prendere in pugno le redini del regno), poi di Enrico III che, come si è detto, sarebbe stato dal 1574 al 1589 l’ultimo sovrano dei Valois. In altre parole, è qualcosa di più di un compositore di corte, è un personaggio di prima grandezza, implicitamente autorizzato ad esprimere le idee politiche dei sovrani che si avvalgono della sua esperienza. Il suo balletto costituisce un avvenimento di grande importanza politica. Il re di Spagna ne è tenuto informato dettaglio per dettaglio e lo stesso vale per la regina Elisabetta d’Inghilterra, che si fa descrivere dall’ambasciatore Henry Cobham anche i più minuziosi particolari di quel che è andato in scena. «Non si tratta certo di una curiosità puramente mondana», precisa l’autore.
Roy Strong in Arte e potere. Le feste del Rinascimento 1450-1650 (il Saggiatore) ha mostrato come, nella Francia delle guerre di religione, le feste di corte divennero «preziose occasioni politiche per risolvere i conflitti e favorire la pace tra fazioni nemiche». E Pierre Champion ha scritto che quelle «feste erano destinate tanto a mitigare i cuori quanto a ravvicinare le opinioni discordi». «In un mondo continuamente agitato dalle guerre di religione», sottolinea Ordine, «le feste diventano l’occasione per porre in risalto le straordinarie risorse di un regno in cui si trovano in abbondanza non solo coraggiosi soldati». Ma anche «grandi e sensibili spiriti», protesi a cercare equilibri di pace.
È interessante notare come nella rappresentazione compaiano riferimenti (ancorché non espliciti) al Principe di Niccolò Machiavelli. Laddove Enrico III, presentato come il «nuovo Giove», viene spalleggiato dalla regina madre e prende il ruolo che nella mitologia greca fu di Chirone, il centauro che aveva avuto come allievi - tra gli altri - Achille, Aiace, Enea, Eracle, Giasone e Teseo. Chirone è la perfetta sintesi tra la natura umana e quella ferina, le quali devono essere in grado di temperarsi l’una con l’altra. «Alla necessità di muoversi tra i contrari», spiega Ordine, «si aggiunge l’obbligo di saper dosare i farmaci (“rimedi”) per curare le malattie che funestano lo Stato». Tra i suoi allievi, in effetti, Chirone conta, oltre a quelli di cui si è detto, anche Esculapio (Asclepio), dio della medicina. E, per Machiavelli, l’arte della politica è soprattutto un rimedio, una cura dei mali, una difesa dalla disgregazione e dalla rovina.
Dunque, un Enrico III medico e politico. «Non a caso la fabula troverà il suo lieto fine proprio nell’intervento diretto del re di Francia, valoroso vincitore degli inganni e dei misfatti perpetrati dalla maga Circe». Ed è qui che torna il tema del «nuovo Giove»: il re di Francia si batte contro Circe per far ritornare l’età dell’oro e della giustizia. L’allegoria di Circe, ha scritto Jean Seznec in La sopravvivenza degli antichi dei (Boringhieri), «sembra potersi riferire in parte a ciò che è divino e soprannaturale e in parte a ciò che è naturale e morale». La maga partecipa delle due nature che l’hanno generata, il Sole e l’Oceanide Perseide. «Il Sole», prosegue Seznec, «naturalmente è la causa efficiente della procreazione di ogni cosa quaggiù con l’aiuto dell’umidità che deriva dalle acque che sono nelle vene della terra e lo stesso Sole significa allegoricamente la chiarezza e la luce della verità e scintilla divina che brilla nelle nostre anime», mentre il mare «nutre e produce il mantenimento del piacere». Di conseguenza «non sarà del tutto irragionevole ritenere Circe il piacere in generale che regna e domina su tutto ciò che ha vita ed è unito al divino e al terreno e produce effetti molto diversi conducendo gli uni alla virtù e gli altri al vizio». All’inizio della «commedia» la maga incanta e fa suoi prigionieri Mercurio e le ninfe. Subito dopo, Giove, Minerva e le Virtù preparano la sconfitta di Circe.
È in questi momenti che il Balet mette in scena «il conflitto tra la mutazione e la permanenza, tra la ragione e le passioni, tra l’essere e l’apparire, tra i vizi e le virtù». Spetta a Giove il compito «di ristabilire un ordine naturale e politico sconvolto dagli incantesimi di Circe», la quale si rende conto di aver perso la partita quando vede intervenire il padre degli dei (Giove-Enrico III) scendere in campo personalmente per difendere la Giustizia. Di qui si passa alla missione politica.
Dal libro di Ordine emerge come Giordano Bruno intendesse assegnare al re di Francia, mai apprezzato dagli storici quanto avrebbe meritato, «proprio quella triplice corona che sulla terra il supremo rappresentante della Chiesa di Roma riteneva di poter amministrare da solo». Con una sostanziale differenza, però: «La corona spirituale doveva rimanere in cielo in quanto idea, inviando sulla terra quelle corone di cui i re sapienti (come Enrico III ed Elisabetta I) si sarebbero serviti, all’interno di un orizzonte tutto mondano, per rafforzare la pace e cementare la coesione sociale».
È sufficiente rileggere gli elogi destinati nello Spaccio a Enrico III e Elisabetta I per ritrovare tra i due sovrani una serie di punti comuni: entrambi «aspirano alla pace, promuovono una politica di equidistanza dai settarismi religiosi e manifestano apertamente il loro amore per la giustizia e per il sapere». Per Elisabetta le cose furono relativamente più semplici. Il re di Francia, invece, costretto a confrontarsi con una situazione molto più difficile e turbolenta, dovette faticare non poco per provare «con tutti i mezzi ad opporsi alle fazioni rivali, mantenendo una posizione di equidistanza tra l’estremismo cattolico della Ligue e quello protestante degli ugonotti». Adattando alle nuove esigenze una strategia già inaugurata da sua madre, Caterina de’ Medici, all’indomani della morte di Enrico II: quella Caterina che «nella più totale indifferenza religiosa, bilanciava le forze rivali accordando concessioni e riconoscimenti giuridici solo in funzione degli immediati interessi della monarchia». Lo stesso fece Enrico III. E quello della cultura era il campo ideale per diffondere la sua idea di un mondo nuovo che andasse oltre le guerre di religione e consentisse alla Francia di non esserne travolta.
L’opera di un poeta ostile alle fazioni estremiste e perciò molto amato dalla famiglia del re, Pierre de Ronsard, fu tradotta in inglese e utilizzata a Londra «per mettere in rilievo le disastrose conseguenze delle guerre civili». Certo, questo avveniva dopo che erano stati censurati i passaggi antiprotestanti. Ma ciò non ha importanza. L’importante è che le pagine di un letterato cattolico poterono essere utilizzate in un ambiente protestante «che lottava a favore di soluzioni pacifiche e contro i fanatismi religiosi». Forse il significato più recondito della corona dell’ultimo re Valois sta appunto nell’essere «terza».
Fedi e mondo
A proposito dell’Enciclica di papa Francesco
Curare la casa comune
di Michele Salvati (Il Mulino, 28 settembre 2015)
È difficile sopravvalutare l’importanza dell’Enciclica “Laudato si’”. Non perché essa arrechi nuove conoscenze sul tema del riscaldamento climatico, sulle sue cause e sulla minaccia che i dissesti ambientali arrecano al benessere e alla stessa sopravvivenza della nostra e di altre specie.Né pretende di farlo: i confini tra scienza e prescrizioni etico-religiose sono tracciati con chiarezza. Ma perché traduce nel linguaggio della più grande religione cristiana le preoccupazioni che gli stessi scienziati hanno tratto dalle loro ricerche. E perché le connette e le giustifica con una visione d’insieme di che cosa non funziona, per la Chiesa, nelle nostre società: il fondamentalismo di mercato, l’individualismo estremo, il consumismo e il materialismo dominanti, l’indifferenza verso i poveri e verso le condizioni in cui si verranno a trovare i nostri figli e nipoti.
L’antico antimodernismo della Chiesa cattolica ancora riecheggia nell’Enciclica, seppure in forme più moderate che in passato e consapevoli dei valori che la modernità ha consentito di affermare: la critica è rivolta agli eccessi più che alla natura di una società capitalistica e liberale. E un non credente di orientamento liberale, ma consapevole dei rischi che il nostro ecosistema sta correndo, deve riconoscere che la Chiesa di Francesco gli sta fornendo un grande aiuto. La Chiesa cattolica è una potenza ideologica mondiale e se i cattolici, anche in piccola parte, presteranno ascolto alle indicazioni e alle prescrizioni dell’Enciclica, il fronte di coloro che intendono affrontare seriamente il problema del riscaldamento climatico sarà molto rafforzato.
Credente o non credente che sia il lettore dell’Enciclica, se è anche uno studioso dei processi effettivi che determinano le decisioni individuali e collettive - se dunque è un realista - non trarrà dalla lettura della “Laudato si’” nè una rassegna degli ostacoli che si frappongono all’attuazione degli orientamenti in essa prescritti, nè alcuna indicazione precisa su come superarli: com’è inevitabile in una Enciclica, l’argomentazione si svolge esclusivamente su un piano normativo, del dover essere, e non su quello positivo, di una analisi degli effettivi processi in atto, o su quello politico di come modificarli, del che cosa e come fare.
Come ha affermato Marco Vitale in una bella lettura dell’Enciclica per il Fai (Fondo ambiente italiano), l’Enciclica non è contro la scienza e la tecnica, né contro la libertà d’impresa, né contro il mercato. È invece contro l’estensione abnorme, a tutte le attività umane, del calcolo economico-finanziario. Insomma, è per un capitalismo moderato, consapevole che non tutte le attività umane possono essere regolate dal conto profitti e perdite risultante dalle leggi di mercato. Tre enormi ostacoli, però, si ergono contro questo auspicio.
Il capitalismo moderato e regolato che l’Enciclica auspica non è forse, al momento, un ossimoro incomponibile? Non è forse, il capitalismo, spinto in avanti da una enorme forza espansiva, alimentata dalla ricerca del profitto? E per tenerlo sotto controllo non è forse necessaria una forza politica almeno altrettanto potente, un potere egemone mondiale che condivida, almeno in parte, i valori e gli obiettivi dell’Enciclica? Così è avvenuto - in parte, ripeto - nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, sotto la guida dell’élite liberal-democratica che allora prevaleva negli Stati Uniti. Ma dopo di allora le forze espansive del capitalismo sregolato si sono riasserite a livello planetario e la distruzione creatrice - carattere essenziale del capitalismo - ora prevale ovunque. E prevale con conseguenze non soltanto negative: centinaia di milioni di persone sono di fatto uscite negli ultimi trent’anni dalla miseria abietta in cui si trovavano.
Il secondo ostacolo proviene dall’interazione tra il capitalismo e le aspirazioni al benessere materiale dei singoli individui: il capitalismo spinge a vendere per profitto, e sicuramente plasma e distorce la spinta ad acquistare e possedere, ma questa spinta ha una diversa origine ed è dovuta a una ricerca incessante di benessere materiale e di autonomia individuale. Ed è vero che il capitalismo produce diseguaglianze e frustrazioni. Ma per molti produce benessere e imporre politicamente sobrietà, austerità e moderazione - com’è necessario se si vuole aver “cura della casa comune” - non è un’impresa facile.
L’individualismo e il consumismo sono forze potenti, specie nella metà del mondo che sta appena uscendo dalla miseria, e fortissima è la speranza di cavarsela a livello personale, nell’esercizio della propria libertà, grazie ai propri sforzi e alle capacità di cui si dispone. Questa speranza sarà delusa in molti casi, ma i casi di successo sono abbastanza numerosi da giustificare il tentativo di perseguirla. E di opporsi agli impedimenti che comporta una programmazione imposta da forze politiche.
Il terzo grande ostacolo proviene da forze che con gli eccessi del capitalismo sregolato o del consumismo individualistico non hanno molto a che fare, e sorprende un poco che ad esse l’Enciclica non attribuisca un’attenzione adeguata. Contrastare le tendenze spontanee al profitto da parte degli imprenditori e al benessere materiale da parte dei consumatori esige un grado di legittimità e una fiducia nella lungimiranza delle decisioni dell’autorità politica - da ultimo di una capacità di coercizione - che oggi sono difficilmente raggiunte anche in comunità piccole, molto colte e coese, come i mitici Paesi del Nord Europa: anche in questi il conflitto è inevitabile.
Ancor più è inevitabile nelle centinaia di Stati in cui è frammentata l’autorità politica a livello mondiale, anche ammettendo che ogni Stato assomigli alle piccole comunità di cui dicevo: superando i confini tra Stato e Stato il grado di fiducia nelle decisioni della politica cala drasticamente. E drasticamente aumenta il grado di coercizione ed egemonia che gli Stati più grandi e potenti debbono esercitare se vogliono raggiungere decisioni vincolanti per tutti, ciò che è necessario nelle materie di cui stiamo discutendo: la nostra casa comune, il nostro pianeta, non riconosce i confini tra Stati. Così stando le cose, si entra nel campo della Realpolitik, un campo totalmente alieno dalle esortazioni di Francesco.
Chi voglia rendersi conto dei problemi che si incontrano quando si esce dal campo delle esortazioni e si entra in quello dell’analisi realistica la lettura consigliata non è la “Laudato si’” ma un ottimo libro di sintesi che è pervaso dalle stesse preoccupazioni per il benessere della nostra casa comune che animano l’Enciclica: il recente libro di Anthony Giddens La politica del cambiamento climatico, edito dal Saggiatore.
Francesco non è voce isolata. Ma il suo grande merito non è quello di averci fatto capire le difficoltà che si frappongono a una politica efficace e suggerito rimedi realistici per superarle, ma di aver ricollegato la dottrina della Chiesa alle grandi preoccupazioni contemporanee e di aver preso nettamente posizione, una posizione animata da spirito evangelico che personalmente condivido e che non sempre la Chiesa ha preso in passato di fronte ai dilemmi che si è trovata di fronte.
I destini incrociati di Bruno e Turing
Una tragica fine accomuna due eretici, uniti dal fascino delle immagini simboliche, il filosofo cinquecentesco e il matematico che aprì la via al digitale
di Marc Fumaroli (la Repubblica, 01.10.2015)
Pochi studiosi hanno avuto una generazione di allievi così numerosa e brillante come Frances Yates, una delle principali personalità scientifiche inglesi che hanno saputo preservare lo spirito dell’Istituto fondato da Aby Warburg e trasferito giusto in tempo, prima del 1939, da Amburgo a Londra. L’aura leggendaria che emanava dal fondatore e dai suoi discepoli tedeschi, Gertrude Byng, Edgar Wind, Erwin Panofsky, si è estesa a Frances Yates e alla sua opera.
Frances Yates non fu la sola a beneficiare di tale ispirazione. Il suo collega inglese D.P. Walker aprì un nuovo campo di ricerche con il saggio Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella (1958), in cui metteva in evidenza la rinascita nel XVI secolo, con il neoplatonismo di Giamblico, della fede nei poteri angelici e magici di entità intermedie, di cui le arti, e in modo particolare la musica, potevano farsi veicolo.
È allo spirito Warburg che dobbiamo anche la summa bibliografica, fonte di innumerevoli lavori successivi, dedicata dal grande anglista italiano Mario Praz alle raccolte di emblemi e imprese dei secoli XVI e XVII. La grande tesi di André Chastel, Arte e umanesimo a Firenze ai tempi di Lorenzo il magnifico, e la tesi annessa, Marsilio Ficino e l’arte (1954), sono debitrici dei contatti che l’autore aveva allacciato, prima della guerra, con il Warburg Institute di Londra. Questi lavori furono il punto di partenza di una nuova era nella storia dell’arte in Francia.
Dame Frances Yates non viaggiò molto, ma nel suo caso è possibile affermare che ogni suo libro ha aperto un campo internazionale di ricerche, e fondato persino una nuova disciplina. (...) Quello su Giordano Bruno e la tradizione ermetica (1964) ha attirato sul Nolano un rinnovato interesse mondiale; tre generazioni di storici delle idee hanno finito poi per restituire a Bruno il posto che Frances Yates reclamava per lui nella storia della filosofia. Vale la pena osservare che ciò che caratterizza lo spirito Warburg - e in questo Frances Yates è perfettamente in linea col suo fondatore - è la serietà con cui, per comprendere e interpretare il mondo, vengono affrontati i testi e le opere d’arte detti “pre-moderni”, le scienze su cui quel mondo si fondava, a dispetto del fatto che siano state poi “smentite” dalla scienza galileiana, secondo la quale il mondo è scritto in linguaggio matematico e non in corrispondenze e metafore. Aby Warburg (che fu anche antropologo sul campo) ha reclamato la stessa attenzione, ricettiva e simpatetica, nei confronti dei sistemi di pensiero simbolici, alchemici e magici dell’Europa pre-moderna, che Claude Lévi-Strauss ha richiesto in seguito per il “pensiero selvaggio” e l’ingegnoso “bricolage” dei cosiddetti popoli “primitivi”.
Merita attenzione il fatto che lo straordinario centro di riscoperta del mondo delle immagini simboliche e della dimensione magica della parola che fu il Warburg Institute trasferito, alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel paese di Francis Bacon, della Royal Society e di John Locke, è esattamente contemporaneo di Alan Turing. Fu, questi, il matematico di genio che a Bletchey Park, durante la guerra, decodificò i cifrari dell’esercito e della marina tedeschi e che, fin dal 1937-1939, aveva posto le basi delle procedure algebriche, se non dei tours de force tecnologici, che hanno reso possibile in seguito il mondo dell’informatica e del digitale. Si ha la percezione di due poli rivali dell’intelligenza umana, antitetici, incompatibili, e tuttavia stranamente vicini per il loro ricorso a forme simboliche e alle loro operazioni.
Frances Yates era diventata a tal punto esperta di pensiero magico da suscitare sospetti ed essere rimproverata di eccessiva simpatia per i suoi eroi del Cinquecento, neoplatonici e aristotelici. Cosa che non ha impedito al governo di Sua Maestà di nobilitarla col titolo di Dame Commander nel 1977. Alan Turing, il cui genio matematico estese la scienza di Galileo dal mondo fisico al mondo sociale e alla formalizzazione algoritmica dei problemi di comunicazione e gestione, fu trattato meno bene dallo Stato inglese che pure gli doveva una vittoria decisiva. Condannato alla castrazione chimica per devianze sessuali, si suicidò il 7 giugno 1954, dopo aver morso, a quanto pare, una mela impregnata di cianuro. È questa mela che Steve Jobs ha scelto per emblema della Apple. La malinconica fine di Turing vale, in orrore, il supplizio per eresia capitale di Giordano Bruno, arso sul rogo innalzato in Campo de’ Fiori.
La nuova religione di Giordano Bruno
Il suo pensiero è nel punto di giuntura tra il sapere rinascimentale e la modernità
In un volume parole e concetti del filosofo di cui ricorre oggi l’anniversario del rogo
di Roberto Esposito (la Repubblica, 17.02.2015)
IL 17 febbraio del 1600, per ordine del tribunale dell’Inquisizione, Giordano Bruno veniva arso vivo in Campo de’ Fiori. Ciò che nella sua persona bruciava era un frammento decisivo della filosofia europea e un simbolo della libertà del pensiero nei confronti di costrizioni e di dogmi.
A lui è dedicata, per le Edizioni della Scuola Normale Superiore, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, un lessico di singolare rilievo scientifico, diretto da Michele Ciliberto, con il contributo di una serie di studiosi. Configurato come una costellazione, esso è costituito da un numero imponente di voci sulla vita, il contesto storico, l’opera, la fortuna di Bruno. Accanto ai nomi più consueti di Keplero, Spinoza, Leibniz, compaiono, a sorpresa, quelli di Nietzsche e di Joyce, di Gadda e di Calvino, quasi come raggi di una stella che nel corso dei secoli non ha mai smesso di brillare.
Come suggerisce il curatore, la grande influenza di Bruno sulla cultura moderna si deve da un lato al suo martirio, che ne ha fatto un mito celebrato dovunque si è voluto difendere la libertà di pensiero; dall’altro alla collocazione della sua opera alla giuntura tra il sapere rinascimentale, aperto ai linguaggi dell’ermetismo, della mnemotecnica, dell’alchimia, e quello moderno, rivolto a protocolli di tipo scientifico. Situato troppo in fretta dalla tradizione illuministica all’origine della cultura moderna, Bruno è stato poi spinto fuori dai suoi confini, in un “mondo di maghi” immaturo ed esaurito, incapace di rapportarsi a paradigmi filosofici e scientifici adeguati.
Solo recentemente il pendolo dell’interpretazione si è stabilizzato, restituendo a Bruno la straordinaria originalità del suo pensiero. La difficoltà a riconoscerne i lineamenti sta nell’inadeguatezza di un approccio strettamente concettuale rispetto ad un autore che, adoperando la lingua delle immagini, ha allargato i confini del lessico filosofico, aprendolo a una dimensione inedita in cui elementi diversi, e anche contrari, interagiscono tra loro.
Al centro di questa complessa trama, che sembra collegare quanto precede il sapere il moderno a ciò che lo segue, vi è la figura, insieme immaginifica e concettuale, della Vita infinita. In essa si radica quella rete di differenze che restituiscono il senso profondo della realtà, articolando tra loro il mondo della natura e le varie specie viventi, compresa quella umana. L’unica capace di attingere il sapere dell’intero attraverso quell’itinerario ascendente mirabilmente percorso nel dialogo degli Eroici furori. In esso l’uomo sperimenta il limite che lo vincola a una misura di finitezza e l’impulso continuamente rinascente a forzarlo fin quasi ad oltrepassarsi, entrando così in rapporto con il movimento in cui ciascun mondo viene a contatto con altri, collegati nel principio vibrante della materia vivente.
C’è qualcosa, in questo straordinario disegno che sporge non solo verso i vertici del pensiero moderno - in particolare di Spinoza e di Leibniz - ma anche verso quella svolta della filosofia contemporanea che ha posto la riflessione sulla vita, cosmologica, antropologica, politica, al centro del dibattito. La battaglia di Bruno a favore di una nuova religione, libera dalle catene della superstizione e della violenza, acquista rilievo. Soltanto se connessa a un sapere complessivo della vita, intesa in tutta la sua potenza, materiale e spirituale, la filosofia può acquisire una valenza che va al di là dei propri confini, per farsi liberazione del corpo, sviluppo della mente, fondazione di civiltà.
Il sogno Bruno dell’Italia laica
Massimo Bucciantini ha scritto la storia del monumento di Campo dei Fiori dedicato al filosofo bruciato in quella piazza nel 1600. L’inaugurazione, nel 1889, fu la prima vera uscita della nazione senza timori verso la Chiesa
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.02.2015)
Di fotoreporter ce n’erano parecchi, quel giorno in Campo dei Fiori, anche se i loro nomi hanno poi faticato a entrare negli annali della grande fotografia: Carlo Rocchi, M.C. Sirani, T. Fabbri... La manifestazione popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno - Roma, 9 giugno 1889 - è una delle primissime nella storia d’Italia che sia fotograficamente documentata, come nell’«istantanea» del «corteggio in via Nazionale» pubblicata di lì a poco dall’«Illustrazione italiana». In quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo dei Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come Italia laica. Per contestare al Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa non più soltanto il potere temporale, ormai cancellato da Porta Pia, ma anche il potere spirituale.
Treni speciali trasportano a Roma pellegrini laici a migliaia, da Pisa, da Napoli, dai quattro angoli di un Paese che è andato scoprendo negli anni precedenti - per effetto di un’insistita campagna d’opinione - la figura stessa di Giordano Bruno: il frate domenicano che la Chiesa della Controriforma aveva perseguitato come apostata, condannato come eretico e infine, il 17 febbraio 1600, bruciato vivo in Campo dei Fiori. Ventimila, nei calcoli della Questura, i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo disegnata da Ettore Ferrari (ma sembrano di meno, a dire il vero, nel colpo d’occhio delle fotografie). Cui va aggiunta la gente affacciata alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza, romani benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai popolani residenti nel Campo.
Invano il cardinale Rampolla, segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni d’Italia - consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari - sfilano in corteo dalla stazione Termini a Campo dei Fiori.
Il tutto in un clima di festosa animazione descritto l’indomani dal cronista del «Messaggero»: «Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie». «La folla sparpagliata dovunque si fa sempre piu fitta», e «tutte le classi sociali vi sono rappresentate». «Moltissime le donne» (ma anche di queste, nelle fotografie scattate quel giorno, non se ne riconoscono poi tante).
Era un sospirato punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno. Coronava un progetto - vendicare il rogo inquisitoriale del 1600 con il più parlante dei simboli, la statua della vittima eretta nel luogo stesso del martirio - che risaliva a una dozzina d’anni prima. Nel 1876 una manciata di studenti dell’università di Roma, intraprendenti giovanotti originari delle province dell’ex Stato pontificio, si erano visti regalare l’idea da un loro amico straniero: un rivoluzionario francese per nascita e cosmopolita per vocazione, un esule della Comune di Parigi che di nome faceva Armand Lévy. Progetto abbracciato con entusiasmo da Giuseppe Garibaldi («possa il monumento da voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del Tevere»), ma poi arenatosi fra le secche della politica politicante, quali davvero non mancavano lungo entrambi i versanti dell’Isola Tiberina.
Secondo Massimo Bucciantini, che della statua di Campo dei Fiori ha scritto adesso la fascinosa storia, il progetto sarebbe definitivamente fallito senza l’intervento di un professore universitario di filosofia destinato a contare nella vicenda del socialismo italiano: Antonio Labriola. Nel 1885, fu grazie al prestigio di Labriola che una rinnovata conventicola di studenti romani poté rilanciare l’idea della statua raccogliendo adesioni - e sottoscrizioni, cioè soldi - da tutta Europa e perfino dalle Americhe. Allora il progetto perse il suo carattere più provinciale e striminzito, di goliardata anticlericale, e assunse la cifra di un omaggio internazionale alla libertà di pensiero. Quelli di Victor Hugo, Ernest Renan, Henrik Ibsen, Walt Whitman, furono soltanto alcuni tra i bei nomi che accettarono di figurare nel Comitato d’onore dell’erigendo monumento a Giordano Bruno.
Una «brunomania» - come fu sdegnosamente qualificata dai gesuiti della «Civiltà cattolica» - percorse la cultura democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio 1888-89. A Roma, un Consiglio comunale politicamente moderato mantenne a lungo un atteggiamento ostruzionistico. Ma a partire dal 1887, quando alla presidenza del Consiglio dei ministri assurse un ex garibaldino del peso politico di Francesco Crispi, la bilancia prese a pendere in favore degli ammiratori di Bruno. E nell’autunno del 1888, quando gli elettori della capitale elessero al Campidoglio una maggioranza liberale, le condizioni furono riunite perché il bronzo della statua potesse finalmente essere fuso.
Cammin facendo, i promotori del monumento avevano dovuto rinunciare a raffigurare Bruno - come in un primo bozzetto di Ferrari - alla stregua di un profeta trascinante, o addirittura di un avatar capitolino della Statua della Libertà montata in quegli anni tra Parigi e New York. Pur di realizzare il progetto, avevano dovuto contentarsi di un Bruno statico e riflessivo, meno apostolo che filosofo. Ma che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i cattolici d’Italia, Sommo Pontefice in testa. Il 30 giugno, in un’allocuzione davanti al Concistoro, Leone XIII tenne a ribadire come Giordano Bruno fosse stato «doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». «Così dunque le straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro, essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo».
Punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno non riuscì a costituire un punto di partenza. Nei decenni successivi al 1889, l’Italia laica avrebbe perso più battaglie (sul divorzio, sul riposo domenicale, sulle opere pie, sull’insegnamento religioso nelle scuole) di quante ne avrebbe vinte. E la storia d’Italia avrebbe evidenziato - sottolinea Bucciantini - tutti i limiti di un radicalismo astratto, da salotto borghese o da cattedra universitaria, che inneggiava alla poesia della scienza e della filosofia più di quanto praticasse la prosa della riforma politica e sociale.
Alla lunga, il monumento di Campo dei Fiori rischierà di sembrare niente più che il simbolo di un’inutile fuga in avanti: il bronzeo giocattolo di un pugno di vincitori perdenti. E quarant’anni dopo il 1889, nell’Italia dei Patti lateranensi, Benito Mussolini sarà costretto a smentire pubblicamente - nel suo discorso di ratifica del Concordato, il 13 maggio 1929 - le voci secondo cui lo Stato aveva promesso alla Chiesa la demolizione del monumento di Campo dei Fiori: «Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è». Non avrà bisogno, il Duce, di abbattere la statua dell’eretico. Perché a quel punto l’Italia laica sarà già in macerie, sarà già crollata sotto i colpi di mazza del clerico-fascismo.
Enciclopedia del filosofo
«Monumenti» di carta a Bruno
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.2.15
«Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nel subirla», aveva detto ai suoi giudici Giordano Bruno dopo averne ascoltato la lettura l’8 febbraio 1600, proprio all’aprirsi di un nuovo secolo. In virtù di essa dieci giorni dopo egli fu condotto a Campo dei Fiori con la bocca chiusa dalla mordacchia perché non potesse più dire nulla, denudato e arso vivo sul rogo. Un monumento di clamorosa ispirazione massonica inaugurato nella piazza romana il 9 giugno 1889 dal sindaco di Roma Ernesto Nathan, con l’approvazione dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi, destò l’indignazione del Vaticano, dove papa Leone XIII volle trascorrere l’intera giornata in preghiera. «A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse», recita la lapide sottostante, che celebra il frate nolano come martire del libero pensiero, simbolo dell’oppressione clericale, precursore di verità troppo profonde e rivoluzionarie per i tempi in cui gli accadde di vivere, cercando di farne partecipe l’Europa tutta, dall’Inghilterra della grande Elisabetta alla Praga di Rodolfo II d’Asburgo, da Tolosa a Venezia, dalla Svizzera calvinista alla Germania luterana, sempre lasciando dietro di sé una scia di libri provocatorii, di intuizioni geniali, di idee eversive, di aspre polemiche, di sospetti e di accuse.
Molto, moltissimo si è scritto di Bruno negli ultimi decenni, scavando sempre più in profondità e in molteplici direzioni nel magma incandescente della sua vita, della sua cultura, del suo pensiero, dei suoi scritti, e presentandolo anche in prospettive alquanto diverse: come potente filosofo dell’infinito, della pluralità dei mondi e dell’inesauribile creatività e vitalità della natura, o come mago ermetico e maestro di mnemotecnica e ars combinatoria, o ancora come vittima della sua tenace difesa della libertas philosophandi. Per orientarsi nel labirinto storico e storiografico dell’opera bruniana è oggi disponibile questa poderosa opera di sintesi in tre volumi, di cui uno di indici e apparati, strutturata come una sorta di enciclopedia che in circa 1.200 lemmi e oltre 2.000 fitte pagine su due colonne offre uno strumento prezioso per conoscere, comprendere, approfondire dottrine, parole, immagini, idee, concetti, uomini e luoghi in qualche modo collegati a Bruno, e solo in quanto a lui più o meno strettamente riferibili.
Basti qualche esempio tratto dalla sola lettera A, limitandomi ad alcune parole di uso poco comune: Abstrahere, Acrotismus, Adiectum, Agglutinare, Anima mundi, Annihilazione, Apparenza, Appiscentia, Appulso, Ars deformationum, Ars memoriae, Ascenso, Asinità e Asino, auriculatus, auritus e via dicendo. A ciò si aggiungano i nomi di personaggi come Valens Acidalius, Agrippa di Nettesheim, Petrus Albinus (e cioè Peter von Weisse, professore di poesia a Wittenberg), di antichi filosofi greci come Anassimene e Anassimandro, o arabi come Al Gazali, Averroé, Avicebron e Avicenna, di letterati antichi e moderni come Apuleio, Pietro Aretino e Ludovico Ariosto, di figure mitologiche come Apollo o Atteone, di studiosi moderni come Romano Amerio o Giovanni Aquilecchia.
Non v’è dubbio che la prospettiva prevalente in queste pagine sia quella filosofica, tanto da includere in essa anche un grande giurista e pensatore politico come Jean Bodin o un filologo come Ludovico Castelvetro o un genio enciclopedico come Pierre Bayle. Ed è anzitutto il Bruno filosofo (com’è giusto che sia) a emergere da queste dense pagine, ma un filosofo talora inatteso, di cui si mette in evidenza anzitutto la potenza immaginativa, il vero e proprio pensare per immagini, la creatività intellettuale, il prodigioso sforzo di confrontarsi con tutta la cultura del passato e del presente.
È di qui, del resto, che scaturisce la prospettiva unitaria e quindi la grande coerenza complessiva di questa enciclopedia bruniana, che si potrebbe dire “fatta in casa” (una casa molto attrezzata, a dire il vero, piena di risorse e ricca di porte e finestre), scaturito cioè dal lavoro collettivo di una scuola, quella di Michele Ciliberto fra l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e la Scuola Normale Superiore di Pisa, in grado quindi di offrire un’interpretazione unitaria del pensiero bruniano e della sua contestualizzazione storica. Il che facilita l’orientarsi nel labirinto delle voci, abbassa fortemente il rischio di contraddizioni, agevola la comprensione dei problemi. In tal modo la frammentazione delle voci (ineliminabile da una enciclopedia) e la pluralità a volte divergente dei punti di vista sono compensate dalla coerenza complessiva della prospettiva ermeneutica.
Non entrerò nel merito del problema della modernità di Bruno e del Rinascimento sul quale Ciliberto si sofferma nell’Introduzione, perché sono d’accordo con lui nel ritenere sostanzialmente esaurita la prospettiva burkhardtiana o gentiliana del Rinascimento come nodale punto di svolta nella nascita del mondo moderno (anche se proprio allora fu coniata la parola moderno). Il che libera Bruno dal suo ruolo paradigmatico e simbolico di vittima dell’oscurantismo papale, la cui vita si chiude profeticamente con l’aprirsi di un nuovo secolo, e agevola il compito di storicizzarlo, di collocarlo nel suo tempo, di capire il senso delle sue peregrinazioni e delle sue polemiche, del suo coraggio e dei suoi «eroici furori», del suo straordinario sincretismo culturale, del suo febbrile scrutare tra «le ombre delle idee» alla ricerca della «causa, principio et uno» e dell’«infinito, universo et mondi». Titoli di alcuni suoi libri che rivelano la potenza intellettuale del filosofo nolano, nella cui opera talora oscura e visionaria quest’opera monumentale aiuta lettori e studiosi a orientarsi e capire.
Il Papa riceve Frei Betto
Per Giordano Bruno forse una riabilitazione
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 10.04.2014)
Intorno a San Pietro passa inosservato, quell’uomo dai capelli grigi in giubbotto di pelle non fa pensare a un frate predicatore né si direbbe abbia quasi settant’anni. Frei Betto, celebre teologo della liberazione brasiliano che nel 1969 patì le torture del regime militare, ha appena parlato con papa Francesco, qualche minuto al termine dell’udienza del mercoledì, tra i fedeli ammessi al cosiddetto «baciamano».
Racconta: «Sono un domenicano e gli ho detto: Santo Padre, le chiedo e pongo nelle sue mani la riabilitazione di Giordano Bruno e Meister Eckhart, due domenicani come me...».
E Francesco che cosa le ha risposto? «Mi ha sorriso e ha detto: “Prega per questo!”». Bruno, il filosofo degli «infiniti mondi», venne condannato come eretico e, «spogliato nudo e legato a un palo», arso vivo in Campo de’ Fiori, a Roma, la mattina del 17 febbraio 1600.
Nel 1998 il cardinale Carlo Maria Martini, durante la «Cattedra dei non credenti» su scienza e fede, invitò a riconsiderarne la figura: «Potrebbe essere oggetto di uno di quei ripensamenti critici che la Chiesa intende fare per la fine di questo millennio».
Di rado si parla invece della riabilitazione di Meister Eckhart, grande filosofo e mistico che ha avuto un’influenza enorme nel pensiero tedesco, da Hegel a Schopenhauer, e fu condannato da una bolla papale nel 1329, un anno dopo la morte.
Frei Betto allarga le braccia: «Giovanni Paolo II chiese perdono per Galileo, la Chiesa può farlo anche con loro, del resto ogni teologo e pensatore va compreso e considerato nel suo contesto storico, distinto dal nostro...».
È la seconda volta che Francesco incontra un teologo della liberazione. Resta memorabile la messa che il Pontefice ha celebrato l’11 settembre 2013 con Gustavo Gutiérrez, padre della Teología de la liberación, accompagnato dall’amico Gerhard Müller, il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio. «L’atteggiamento della Chiesa nei nostri confronti è molto cambiato. Avevo visto il Papa l’anno scorso, durante la Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro, ma non avevo avuto occasione di parlargli. Così ora ho ringraziato Francesco della lettera che ha mandato al tredicesimo incontro delle comunità di base, a gennaio in Brasile. È la prima volta di un Papa. E gli ho spiegato che non ci definiamo un movimento, come ha scritto: per noi le comunità sono la presenza della Chiesa alla base e la base della Chiesa», prosegue Frei Betto. «Gli ho chiesto anche che, come padre amorevole, abbia sempre un dialogo con quella figlia amorosa che è la teologia della liberazione, una figlia fedele che vuole bene alla Chiesa».
E le deviazioni marxiste? Lui, amico di Fidel Castro, scuote la testa: «Sciocchezze. A parte che non esiste una teologia chimicamente pura, il problema è che c’era un contesto di rivoluzioni popolari, come in Nicaragua o in Salvador, ma la teologia della liberazione non è mai stata manipolata né ha mai provocato uno scisma. Tutti gli scismi nella Chiesa sono arrivati da destra, pensi a Lefebvre...».
L’ultimo suo libro in italiano è il romanzo Quell’uomo chiamato Gesù (edizioni Emi, pagine 414, e 16) . Come Gutiérrez, Frei Betto cita una battuta dell’arcivescovo brasiliano Hélder Câmara: «Se do un pane a una persona affamata, la gente dice che sono un santo. Se chiedo perché questa persona ha fame, mi dicono che sono un comunista». Alla fine, conclude il teologo brasiliano, «ho salutato Francesco dicendo: extra pauperes nulla salus!, non c’è salvezza lontano dai poveri... E lui ha annuito: “Sono d’accordo”».
Il Papa tentato dal teologo ribelle “Riabilitare Giordano Bruno”
L’incontro col domenicano Frei Betto
“Gli ho chiesto del frate finito al rogo e lui mi ha risposto: pregherò per lui”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 10.04.2014)
CITTÀ DEL VATICANO. Frei Betto, religioso brasiliano domenicano, fra i teologi della liberazione più famosi al mondo, autore di un celebre libro intervista con Fidel Castro di cui è amico, già assessore del programma Fome Zero (Fame Zero) del primo Governo Lula (autore di “Quell’uomo chiamato Gesù” Emi), è stato ricevuto ieri da Papa Francesco a casa Santa Marta.
Di cosa avete parlato?
«Da teologo domenicano gli ho chiesto di riabilitare ufficialmente Giordano Bruno, condannato al rogo dall’Inquisizione cattolica, e Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, condannato anch’egli dalla Chiesa per eresia. La Chiesa può finalmente ridare loro la dignità perduta, può riabilitarli. E fare giustizia. Ho chiesto questo a papa Francesco perché ritengo che il tempo sia finalmente propizio in questo senso. Sono convinto infatti che, come Tommaso d’Aquino, i loro scritti superino i secoli e siano un contributo fondamentale alla teologia mistica. Giordano Bruno aveva una visione panteistica del mondo, era un umanista importante ma i suoi scritti sono un contributo da valorizzare. La Chiesa era spaventata da lui e non viceversa. Fu un martire e occorre riconoscerlo».
Papa Francesco cosa le ha risposto?
«Che ci pregherà. E ha chiesto anche a noi di pregarci sopra. E così faremo, sperando che una riabilitazione arrivipresto. Sono contentissimo di non aver ricevuto una risposta negativa. È davvero un Papa capace di ascoltare le istanze di tutti, senza chiusure né pregiudizi. Per questo non posso che ringraziarlo».
Ha parlato col Papa della teologia della liberazione?
«Certo, prima però gli ho detto che ho letto la sua lettera recentemente inviata alle comunità di base. Il Papa diceva che le comunità di base, a lungo bistrattate dalle gerarchie, sono un movimento nella Chiesa cattolica. Io gli ho detto che non sono un movimento, ma sono la Chiesa, un modo d’essere all’interno della stessa Chiesa, una realtà radicata internamente e non a essa esterna, non un corpo estraneo. E che loro per prime non desiderano essere considerate un movimento estraneo. Quanto alla teologia della liberazione, gli ho detto che il Papa deve essere per tutta questa teologia un padre amoroso, come di fatto egli già è. Noi teologi della liberazione siamo figli della Chiesa. Per troppo tempo ci hanno considerato corpi estranei. Invece siamo parte della Chiesa».
Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires era sempre dalla parte dei poveri e degli ultimi. Avete parlato del suo passato, del tempo trascorso a Buenos Aires da arcivescovo?
«Certamente. Francesco ha a cuore i poveri da sempre. Gli ho citato una frase in latino: “Extra pauperum nulla salus (senza poveri non c’è salvezza)”. E lui mi ha detto di essere del tutto d’accordo, annuendo soddisfatto. Sono i poveri e gli ultimi la forza della Chiesa, la luce del mondo. Insieme abbiamo parlato delle sofferenze degli indigeni, delle popolazioni locali. Francesco ritiene che in America Latina gli indigeni siano sfruttati e non amati. Egli soffre per e con loro. Il Papa ha detto di volere una Chiesa dei poveri e per i poveri. E per lui queste non sono parole ma vita vissuta».
Quel “perché” fa la differenza
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 12.04.2014)
Gentile Augias, ho letto giorni fa in questa rubrica la lettera sulle differenze tra cristianesimo e marxismo a proposito della povertà e la sua appropriata risposta. La mia opinione al riguardo è che al di là delle conclusioni, la differenza fondamentale, sostanziale e assolutamente inconciliabile tra le due posizioni, sta in una parolina magica (così la definiva una mia grande maestra alle elementari), vale a dire “perché”.
Tra il pensiero religioso che si basa sul dogma, che ha solo certezze e nessun dubbio, e il pensiero laico, la differenza è proprio quella del “cercare le cause” di un fenomeno tentare di darsi una risposta, non limitandosi alla “volontà inconoscibile” di Dio.
Come lei ha scritto Marx non guardava ai poveri, ma agli sfruttati e si chiedeva il perché, cercava di individuare l’origine della disuguaglianza, nel tentativo di eliminarne le cause. Il cristianesimo si limita a prenderne atto cercando solo di alleviarne il peso. Non mi sembra differenza da poco. Forse potrei estendere il principio per applicarlo all’intero atteggiamento intellettuale che riassumiamo sotto la formula “illuminismo”. Franca Rosselli
Per una di quelle combinazioni che a volte felicemente accadono, le osservazioni della signora Rosselli sulla parolina “perché”, coincidono con le parole che lo scrittore e teologo brasiliano (appartiene all’ordine dei domenicani) Frei Betto ha pronunciato durante il recente colloquio con papa Francesco. Citando una battuta dell’arcivescovo Hélder Camara, Betto ha ricordato al Papa: «Se do un pane a una persona affamata, la gente dice che sono un santo. Se chiedo perché questa persona ha fame, mi dicono che sono un comunista».
Frei Betto è considerato uno degli esponenti di punta della teologia della liberazione che papa Wojtyla aveva nettamente escluso dal suo orizzonte pontificale. Papa Francesco sembra al contrario molto interessato e se ne possono capire le ragioni considerata in particolare la sua provenienza e le dure esperienze fatte a Buenos Aires. Il timore del papa polacco era tra l’altro che la teologia della liberazione, diffusa soprattutto nell’America Latina, potesse provocare uno scisma della chiesa cattolica. Betto ha ribattuto che questo pericolo in realtà non esiste dal momento che “gli scismi della Chiesa” sono arrivati per lo più da destra come dimostra il caso del vescovo Lefebvre.
Di particolare interesse la richiesta avanzata da Betto di riabilitare finalmente due grandi figure di pensatori. Il filosofo Giordano Bruno, che il cardinale Bellarmino volle bruciato vivo a Roma (17 febbraio 1600), e il grande maestro di mistica Meister Eckhart condannato da una bolla papale nel 1329. Francesco non ha respinto la richiesta; potrebbe essere un buon segno.
“Francesco ormai è di sinistra come noi teologi ribelli”
Parla il frate domenicano, imprigionato dalla dittatura brasiliana, che è stato consigliere di Fidel Castro e del presidente Lula
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto 29.01.2019)
Frei Betto è uno dei massimi esponenti della “teologia della liberazione”, che a partire dagli anni 70 ha cercato di coniugare la religione cattolica con l’impegno politico a favore dei deboli e degli oppressi, e di invertire le storiche alleanze della Chiesa con i regimi militari, dittatoriali e reazionari del Sudamerica. Abbiamo colto l’occasione della sua ultima visita in Italia per farci raccontare la sua avventurosa vita.
Quando è nata la combinazione dei suoi impegni religioso e politico?
Da quando, negli anni 50 della mia adolescenza, mi sono iscritto all’Azione Cattolica. Al contrario di ciò che succedeva in Italia con Luigi Gedda, che l’aveva indirizzata verso il centrodestra, in Brasile l’Azione Cattolica era vicina al Partito comunista. Fui poi influenzato dal pensiero e dall’esempio del guerrigliero Carlos Marighella, uno dei principali oppositori della dittatura militare negli anni 60.
Lei fu poi imprigionato dal regime.
Sì, per due volte: nel 1964, per quindici giorni, e tra il 1969 e il 1973, per quattro anni. La prima volta fui torturato, e la seconda cercarono di farmi fuori mettendomi per due anni tra i detenuti comuni. Avevo paura, ma poi mi accorsi che io e i miei tre confratelli eravamo rispettati e temuti dai carcerati: ci credevano dei terroristi, e qualcuno venne addirittura a dirci che voleva ‘arruolarsi nel nostro commando’, una volta uscito.
Ha scritto qualcosa, sulla sua esperienza in carcere?
Certo, due libri che hanno iniziato la mia carriera di giornalista e scrittore, con i proventi della quale ho sempre potuto mantenermi. Il primo è la raccolta di lettere dal carcere Dai sotterranei della storia (1971), che fu un successo. E il secondo è Battesimo di sangue (1983), la cui edizione italiana ha una prefazione di monsignor Luigi Bettazzi, e dal quale è stato tratto nel 2006 un omonimo film.
A parte monsignor Bettazzi, che era noto per le sue aperture a sinistra, quale fu la reazione del resto della Chiesa?
Nel 1970 il cardinale di San Paolo, il conservatore Agnelo Rossi, venne a trovarci in carcere, e noi gli mostrammo i segni delle percosse: lui uscì e disse alla stampa che stavamo bene, anche se qualcuno di noi si era ferito cadendo dalle scale. Paolo VI lo convocò a Roma, e al suo ritorno lui scoprì di essere stato ‘promosso e rimosso’: divenne prefetto di Propaganda Fide, e fu sostituito dal cardinale progressista Paulo Evaristo Arns.
Paolo VI non era dunque così male.
Era un uomo travagliato e indeciso, ma abbastanza aperto. Aveva letto il mio libro Dai sotterranei della storia e mi mandò in carcere un biglietto di incoraggiamento, accompagnato da un rosario realizzato con grani di ulivo della Terra Santa. La sua enciclica Populorum progressio (1967) mostra che non era contrario alla teologia della liberazione.
Al contrario di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Insieme, loro, hanno combattuto la teologia della liberazione per 36 anni. Basta ricordare l’episodio di Managua nel 1983, quando Wojtyla svillaneggiò in pubblico all’aeroporto Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura, che fu poi sospeso a divinis insieme agli altri preti del governo sandinista. Da confrontare con la sua stretta di mano al dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1987. Per non parlare della sua alleanza con il presidente Ronald Reagan e dei suoi incontri con il capo della Cia William Casey, testimoniati da Carl Bernstein e Marco Politi nel loro boicottato libro Sua santità (1996).
E Ratzinger?
Di lui basta ricordare il processo al teologo Leonardo Boff, che pure era stato un suo allievo all’Università di Monaco. Un nuovo caso Galileo, che nel 1984 mise a tacere per anni la voce di uno dei maggiori teologi della liberazione. Nel 1992, dopo ulteriori minacce di reprimende, Boff decise di abbandonare il saio francescano: amica Ecclesia, sed magis amica Veritas.
Immagino le piacerà papa Francesco, nonostante l’ormai diffusa percezione che sia “molto fumo e poco arrosto”?
Il cardinal Bergoglio non era progressista, ma da papa Francesco è diventato un fautore della teologia della liberazione. Nella sua enciclica socioambientale Laudato si’ (2015) indaga le cause della devastazione della Natura. E le sue posizioni sulla comunione ai divorziati e sul battesimo ai figli di coppie omosessuali sono grandi passi avanti, anche se deve barcamenarsi tra tutti gli ostacoli che gli vengono messi di fronte.
Castro regalò a Francesco a Cuba “Fidel e la religione” (1985), la famosa intervista rilasciata a lei.
Spero che sia stata l’edizione in spagnolo, e non quella in italiano, che fu manipolata. So che Giovanni Paolo II lesse quel libro, in preparazione per il loro incontro del 1998. Io ho seguito dal vivo a Cuba tutte le visite dei tre pontefici, in qualità non solo di confidente di Castro, ma anche di suo consulente teologico. E so che il papa e il Comandante diventarono amici, e si incontrarono più volte in privato in nunziatura, durante la settimana di visita del 1998.
Quando conobbe Fidel?
Nel 1980 a Managua, alla festa per il primo anniversario del nuovo governo sandinista. Fui invitato insieme a Lula, che all’epoca era il capo dei sindacati brasiliani. Una sera il ministro degli Esteri, il sacerdote Miguel d’Escoto, fautore della teologia della liberazione, ci invitò a un incontro tra Castro e gli industriali. Quando questi se ne andarono noi rimanemmo a parlare fino all’alba: discussi con lui del modo in cui il regime trattava i religiosi, e di come l’atteggiamento ateo non fosse meno fondamentalista di quello religioso. Da quel momento egli mi considerò informalmente il suo consigliere per gli affari religiosi.
Quante volte l’ha incontrato?
Decine, ogni volta che andavo a Cuba: le ultime due nell’anno in cui morì. Mi invitava ad andarlo a trovare tardi a casa sua e parlavamo per ore di tutto. Anche di scienza, soprattutto dopo che gli diedi il mio libro con Marcelo Gleiser Conversazione su fede e scienza (2011). Una volta gli ho chiesto se era ateo, visto che molti se lo domandavano, ma lui rispose che preferiva essere definito agnostico.
Di Lula che mi dice?
Lo conosco da sempre, e so che non è personalmente corrotto: il processo che gli hanno fatto è una farsa politica, senza prove fattuali. Il suo governo è stato il migliore che il Brasile abbia mai avuto, ma purtroppo ha fatto molti errori, e molti esponenti del suo partito erano effettivamente corrotti.
E di Bolsonaro?
Le cose indecenti che dice sugli indigeni, sulle donne e sugli omosessuali lo qualificano come un fascista. E la sua ascesa democratica al potere mi ricorda quella di Hitler nel 1933. Spero di sbagliarmi, ma temo di no.
STATO, CHIESA, E COSTITUZIONE:
IL GRANDE COMANDAMENTO, L’AMORE ("CHARITAS"), E IL "TRUCCO" DI SAN PAOLO. “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Co 11,1):
di Raymond Gravel
in “www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 20 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
XXX Domenica del tempo ordinario A: Esodo 22, 20-26; Matteo 22, 34-40.
Dopo una prima controversia con i farisei a proposito dell’imposta dovuta all’imperatore di domenica scorsa, eccone un’altra con uno dei farisei, un dottore della legge, a proposito del grande comandamento della Legge, non un comandamento tra i 613 (248 prescrizioni e 365 proibizioni), che dovrebbe essere considerato più importante degli altri, ma un comandamento che riassuma tutti gli altri. Non ci sono 36 comandamenti, risponde Gesù al dottoere della legge, ce n’è uno solo, quello dell’Amore, ma che ha due destinatari: Dio e il prossimo. Non l’uno senza l’altro. Tutti e due insieme... Cosa vuol dire?
1. L’Amore: una sorgente e due fiumi. Il teologo francese Patrick Jacquemont scrive: “La Parola di Dio acquista tutto il suo senso: amerai il Signore Dio tuo... amerai il prossimo tuo. Il secondo comandamento è simile al primo, ma non c’è un solo amore. C’è una sorgente unica, e due fiumi differenti”. È perché ci si sa amati da Dio che possiamo amarlo... ma possiamo amarlo solo amando l’altro, gli altri. È l’essenza dell’amore che fa sì che si ami. Non per niente, san Giovanni nella prima lettera dirà: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). In fondo, ciò che san Giovanni vuol dire, è che amare Dio significa partecipare del suo amore, amando gli altri. Quindi, amando gli altri, si ama Dio.
Alla domanda del dottore della Legge: “Maestro, nella Legge, qual è il più grande dei comandamenti?” (Mt 22,36), cioè il comandamento nel quale sono compresi tutti gli altri? Gesù, che è lui stesso principio di unità, dà la risposta. Riunisce le due parti della Legge, i comandamenti riguardanti l’amore di Dio e quelli riguardanti l’amore del prossimo; li fonde ed unifica la loro espressione, che formula in termini identici, presi dalle Scritture: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5), e “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lev 19,18b). Si tratta di un amore senza restrizioni, che impegna tutta la persona, cuore, anima e mente.
2. L’Amore cristiano: due principi di unità. Unificando l’amore di Dio e del prossimo, il Cristo del Vangelo ci dà due principi di unità:
1) La parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46). Cristo si identifica con il prossimo: “Ciò che avete fatto ad uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). E più di così: si identifica con i suoi fratelli, con i cristiani che sono poveri, sprovvisti di tutto, emarginati, perché le loro situazioni di povertà danno l’occasione agli altri, ai non cristiani di incontrare Cristo e di riconoscerlo.
Già nell’Antico Testamento, il Dio dell’Alleanza aveva un debole per i poveri. Nel brano del libro dell’Esodo che abbiamo oggi, i poveri sono l’immigrato, in ebreo ger, cioè lo straniero residente, quel gruppo di persone che aveva uno statuto sociale intermediario tra i cittadini israeliti e gli schiavi. Quelle persone non potevano possedere terre; dovevano solamente offrire il loro servizio agli altri. Erano quindi economicamente deboli: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Es 22,20). La vedova e l’orfano sono un’altra categoria di deboli nelle società ebrea di allora; senza risorse, vivevano spesso in miseria: “Non maltratterai la vedova e l’orfano” (Es 22, 21). E che cosa fare per non sfruttare i poveri? Prestare loro del denaro senza interessi e lasciare loro la loro dignità: “Se prendi in pegno il mantello del tuoprossimo, glielo renderai al tramonto del sole” (Es. 22,25).
2) “Seguitemi” (Mt 4,19). La legge dell’amore di Cristo non si riduce ad un codice o a un registro; è Gesù stesso che è la nostra legge, una legge viva, una persona con cui siamo in comunione, il cui Spirito ci abita e di cui noi siamo il corpo. Cosa che san Paolo traduce così: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Co 11,1). Come cristiani, siamo dei cristi viventi, ed è a questo titolo che dobbiamo amare come lui.
Allora, se attualizzo la Parola oggi, le leggi, i precetti della religione, non possono applicarsi che in riferimento alla Legge dell’Amore proposta dal Cristo del Vangelo. Dipende dalla nostra fedeltà a Cristo il fatto che l’Amore sia l’essenziale, non solo nella nostra relazione con Dio, ma soprattutto nella nostra relazione con gli altri; altrimenti, anche l’amore di Dio è impossibile. E il prossimo, non sono solo le persone che la pensano come noi e che ci sono vicine; sono anche e soprattutto coloro che sono diversi da noi e talvolta anche difficili da amare.
Terminando, vorrei leggervi questa breve riflessione del francese Éric Julien: “Perché è così difficile amare Dio? Perché questo vuol dire amare il prossimo. E perché è così difficile amare il prossimo? Perché bisogna amarlo come se stessi, e pochissime persone sanno amarsi al loro giusto valore. E come si fa per amare se stessi? Si cerca di guardarsi come ci guarda Cristo. Con rispetto, tenerezza e... pazienza infiniti”.
E il notaio «fotografò» Giordano Bruno sul rogo
In un disegno la prima immagine del filosofo
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 17.04.2011)
Un nuovo documento sul rogo di Giordano Bruno offre per la prima volta una testimonianza visiva del tragico evento del 17 febbraio 1600: si tratta di un disegno, eseguito dal notaio Giuseppe De Angelis, in cui si vede il filosofo avvolto dalle fiamme. Collocato accanto alla descrizione del trasferimento dell’ «eretico» dal carcere di Tor di Nona alla piazza di Campo de’ Fiori, lo schizzo mostra Bruno di tre quarti, con addosso una tunica, e con le braccia dietro il corpo, probabilmente legate a un palo come spesso accadeva. Il volto presenta dettagli interessanti: un filo di barba sembra marcare i contorni del viso, mentre il tratto molto accentuato degli occhi e delle sopracciglia potrebbe far pensare a uno sguardo marcato, quasi minaccioso.
Questo prezioso inedito è stato rinvenuto nell’Archivio di Stato di Roma da Michele Di Sivo e Orietta Verdi nel corso del restauro di alcuni documenti in occasione della mostra dedicata a Caravaggio a Roma (fino al 15 maggio), in cui sono esposte testimonianze sconosciute sul soggiorno nell’Urbe del grande pittore. Si tratta del registro che raccoglie gli avvenimenti accaduti tra il 1 ° gennaio e il 31 marzo 1600.
L’intervento dei restauratori ha permesso di recuperare quasi il settanta per cento del testo in latino. Ma già una prima trascrizione, effettuata da Di Sivo e dalla Verdi, presenta, nonostante alcune evidenti lacune, interessanti informazioni finora rimaste sconosciute agli specialisti. Il notaio De Angelis, come era nella prassi, registra che Bruno, trovandosi detenuto presso il governatore di Roma (che all’epoca era Ferrante Taverna) viene affidato al giudice Giovanni Battista Gottarello per far eseguire la condanna comminata dal Tribunale dell’Inquisizione. Il nome di Gottarello non era mai apparso prima in nessun documento: spetta a lui dare il via al corteo che accompagna Bruno in Campo de’ Fiori. L’Inquisizione, infatti, affidava al braccio secolare l’esecuzione della pena capitale. Tra i testimoni del rogo, figurano il cardinale Giulio Antonio Santori di Santa Severina e lo stesso notaio De Angelis.
L’unico importante resoconto del supplizio del Nolano, in cui si descrive l’atteggiamento sdegnato di Bruno che reagisce con ferocia quando gli presentano un crocifisso, è conservato in una lettera spedita da Roma, proprio il 17 febbraio 1600, da Kaspar Schoppe al suo maestro Konrad Rittershausen. Da quest’ultimo, probabilmente, il grande Keplero avrebbe potuto attingere le informazioni che hanno ispirato la sua famosa missiva del 1607 in cui si accenna alla tragica fine dell’ «infelice» filosofo. In assenza degli atti processuali e di fronte alla carenza di documenti che riguardano la vita di Bruno, questa nuova scoperta aggiunge una piccola tessera alla ricostruzione degli avvenimenti.
Ma l’elemento più prezioso riguarda il disegno del notaio. Si tratta di uno schizzo, è vero. Si tratta di un manoscritto purtroppo deteriorato dall’umidità, senza dubbio. Ma l’abbozzo dell’unica testimonianza visiva del rogo potrebbe fornire, se studiata a fondo e con strumenti che possono permettere di distinguere con maggiore chiarezza il tratto della mano dalle sbavature dell’inchiostro, qualche dettaglio utile a rispondere ad alcuni interrogativi. Bruno aveva veramente la mordacchia, il morso collocato in bocca? Solo un documento la menziona, senza altri riscontri.
E ancora: Bruno viene bruciato nudo, come è ricordato soltanto in una nota della Confraternita di San Giovanni Decollato? A una prima analisi del disegno sembrerebbe che Bruno indossasse una tunica, mentre resta difficile confermare o smentire la presenza della mordacchia (il tratto della bocca resta non abbozzato: per distinguere i limiti della barba o per voler marcare la bocca chiusa?). Altre interessanti indicazioni potrebbero chiarire dettagli del volto del Nolano. Lars Berggren ha mostrato che tutti i ritratti del filosofo finora conosciuti sono stati eseguiti molto tempo dopo la sua morte.
Dagli interrogatori degli atti veneziani ricaviamo l’unico racconto, molto vago, di un testimone che descrive Bruno come «un homo piccolo, scarmo, con un pocco di barba nera» . Del resto, anche nel Candelaio il pittore Gioan Bernardo (le iniziali, G. B., rafforzano nella commedia il suo ruolo di alter ego dell’autore) viene rappresentato con una «negra-barba» . E in effetti il disegno del notaio De Angelis sembrerebbe confermare la presenza della barba che correrebbe lungo tutto il volto.
Ma questo schizzo- che, lo ripetiamo, merita indagini più approfondite - non può essere considerato un caso isolato. Esistono, infatti, diversi esempi in cui ai margini dei registri venivano offerte immagini dei condannati a morte con una serie di importanti dettagli. Michele Di Sivo, in un suo articolo, ne segnala due: Andrea Pacini, bruciato a Roma per sodomia il 10 maggio 1614, viene raffigurato nudo con un volto effeminato e addirittura con due seni abbozzati, mentre Giovanni Mancini (condannato il 23 ottobre 1623 per aver celebrato messa senza essere prete) viene rappresentato nelle fiamme, vestito, e con i tratti del volto e dei capelli ben evidenziati.
Quanti altri documenti importanti per la memoria del nostro grande patrimonio intellettuale e artistico potrebbero venir fuori dai nostri archivi? A Roma se non fosse stato per l’eccellente idea dei dirigenti dell’Archivio di Stato di rivolgersi a sponsor privati, per il restauro degli importanti documenti su Caravaggio, non avremmo mai avuto occasione di aggiungere nuove tessere alla vita del famoso pittore e adesso anche a quella di Giordano Bruno. Ma perché lo Stato si disimpegna sempre più e non difende i suoi tesori? L’alibi della crisi viene smentito dai fatti: i miliardi di euro stanziati per coprire le furberie di pochi allevatori non avrebbero potuto essere degnamente e fruttuosamente investiti nella scuola e nella cultura?
La Biennale di studi su Giordano Bruno: astrofisica e filosofia alla ricerca dei modi di penetrare i segreti dell’universo
Elogio dell’incertezza, prima Biennale di studi bruniani.
Studi bruniani e libero pensiero
Continua a Nola fino al 19 aprile
Elogio dell’incertezza: è l’insoddisfazione che muove la scienza
Ogni teoria è provvisoria e passibile di smentita perciò è vitale che le tesi eretiche si facciano avanti
L’intervento di Giulio Giorello anticipato in questa pagina è previsto per oggi alle 18 nell’Aula Magna del Seminario arcivescovile, dove, sul tema «Liberi di scegliere. Lo Stato tra ragione e religione», interverrà anche Edoardo Boncinelli. I relatori saranno introdotti da Nuccio Ordine, presidente della fondazione Giordano Bruno. Per informazioni: www.fondazionegiordanobruno.org.
È uscito il secondo tomo di Opere mnemotecniche di Giordano Bruno (Adelphi, pp. LXXVI-992, e 80), edizione diretta da Michele Ciliberto e curata da Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi.
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 17.04.2009)
«Vorrei proprio sapere quale sia la legge o il compito di queste stelle e di questi globi», dotati di «moto incessante» come delle «palle erranti», le quali «emettono e ricevono l’una nei confronti dell’altra raggi di luce e influenze benefiche». Verso il 1617 così scriveva il copernicano Mark Ridley. Pochi anni dopo, nel Saggiatore (1623) Galileo Galilei, di fronte al proliferare di «sistemi» che pretendevano tutti di spiegare «come vanno i cieli » (Tolomeo, Copernico, Tycho Brahe, ecc.) rivendica il diritto a «desiderare la vera costituzione dell’universo», con un tono che assomiglia al linguaggio dell’eros. L’amore per la conoscenza doveva portarlo davanti al Sant’Uffizio, che l’avrebbe costretto all’abiura (1633). Più di trent’anni prima, con maggiore coerenza filosofica, Giordano Bruno aveva affrontato il rogo (1600). Era stato proprio lui a smantellare la distinzione aristotelica tra fisica terrestre e celeste, a teorizzare la relatività del movimento, a sostenere, prima di Galileo, la rotazione del sole attorno al proprio asse.
Certo, anche se esortava a fondare «il principio della scienza sulla considerazione dei rapporti intercorrenti tra gli oggetti e sulla concordante testimonianza dei sensi», il Nolano non era uno scienziato nell’accezione moderna del termine e neanche un filosofo della natura come Galileo: niente apparati sperimentali, niente strumenti tecnologici come il telescopio e la sua matematica (diversamente da quella galileiana) era piuttosto una «matemagica » (per dirla... con Paperino).
Il Dio di Bruno, «infinito nell’infinito», è «dovunque in tutte le cose». Ecco perché il desiderio è insieme mancanza e tensione: come si legge in una pagina del De immenso (1591), «l’indagine e la ricerca non si appagano nel conseguimento di una verità limitata e di un bene definito». Non c’è essere umano che non voglia abbracciare la totalità: ma come Narciso rischia di affogare nell’acqua cercando invano di afferrare la propria immagine. I dogmatici di tutte le risme si accontentano della parte per il tutto e troppo spesso si compiacciono della ristrettezza delle loro idee. I veri filosofi, invece, sanno che ogni conquista è provvisoria. Questa perpetua insoddisfazione è il nucleo della loro libertà, per la quale possono anche rinunciare alla vita.
Karl Popper, teorico del carattere sempre rivedibile della conoscenza scientifica e dell’apertura al nuovo per qualsiasi società libera, ha dichiarato una volta che la filosofia è in fondo cosmologia. Il filosofo novecentesco non aveva in mente solo la lezione della scienza galileiana, ma anche le scoperte che, nel XX secolo, avevano indicato come il cosmo abbia una storia. Ha scritto l’astrofisico Martin Rees in Prima dell’inizio (Raffaello Cortina, pp. 382, e 25): «Possiamo risalire nell’evoluzione dell’universo fino al suo primo secondo di vita... io, personalmente, sarei disposto a scommettere dieci contro uno che ogni cosa che osserviamo ha avuto il suo inizio in una palla di fuoco estremamente compressa, assai più calda del sole». Questa teoria, detta del Big Bang, era eresia nella prima metà del secolo scorso e oggi costituisce invece l’ortodossia scientifica; anche se, come aggiunge Rees, «c’è ancora una minoranza che non sarebbe tanto d’accordo».
Intervistando Popper, nell’estate 1986 (il testo è stato poi pubblicato sul numero 15 della rivista Panta, 1987) gli chiesi cosa pensasse di tutta quanta la vicenda. Negli anni Venti del Novecento non pochi astronomi si erano dedicati all’analisi della luce proveniente dalle galassie. Attraverso un prisma, questa poteva venire scomposta in uno spettro di vari colori e l’americano Edwin Hubble constatò che le lunghezze d’onda erano più lunghe, cioè spostate verso il rosso, a paragone di quelle misurate in laboratorio o in spettri di stelle della nostra galassia (la Via Lattea). Congetturò pure che tale spostamento verso il rosso (o redshift) dovesse essere proporzionale alla distanza delle galassie e formulò infine l’ipotesi che esse dovessero allontanarsi da noi (e ciascuna da ogni altra) con velocità proporzionale alla distanza. E qui stava, per Popper, il nocciolo della questione. «Come sappiamo che tali galassie sono tanto distanti? Lo sappiamo attraverso lo spostamento verso il rosso. Come calcoliamo la velocità di espansione dell’universo? La ricaviamo calcolando la distanza e vedendo poi quale sia la relazione tra la distanza e lo spostamento verso il rosso... Hubble aveva introdotto metodi di misurazione della distanza di galassie non molto lontane che erano indipendenti da tale redshift. Ma se si estende il metodo di calcolo da queste galassie alle altre si cade in un ragionamento circolare». Se l’ortodossia versa in queste condizioni, perché non ridare voce all’eresia? Per Popper chi era convinto della teoria del Big Bang doveva continuare a utilizzarla; ma era importante che altri cosmologi si facessero avanti con teorie alternative.
Halton Arp, astronomo americano, che a suo tempo è stato discepolo di Hubble e ora è «esule» in Europa, ha fatto sua, per così dire, l’esortazione del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte: «È aperto a tutti quanti. Viva la libertà». Popper approvava. La comunità degli «esperti» no. Arp ha davvero «visto rosso», come recita il titolo della sua ultima fatica ( Seeing red, ora edito in Italia da Jaca Book, pp. 387, e 40,80). Lungi dal mostrare che l’universo si espande, gli spostamenti verso il rosso per Arp rifletterebbero invece l’età degli oggetti cosmici, come le galassie che hanno ormai preso nel dibattito il posto delle palle erranti di Ridley. Riprendendo idee alternative al Big Bang, Arp sostiene che i mattoni dell’Universo, le particelle elementari, variano nel tempo. In breve, redshift elevato vuol dire semplicemente giovinezza dell’oggetto cosmico pertinente.
Non entro in merito alla validità delle tesi di Arp. Ovviamente, nessuno ha mai visto un atomo crescere o un elettrone acquistare massa nel tempo! Penso però che la provocazione di Arp sfidi quell’abitudine intellettuale per cui «la nostra minuscola porzione di spazio e di tempo sarebbe rappresentativa del tutto». Ma non è questa la radice del narcisismo di cui parlava Bruno quattro secoli fa? Nel presentare il volume di Arp al pubblico italiano, Enrico Biava invoca uno «spirito di tolleranza per chi nutre opinioni diverse». Di mio, aggiungo che ciò deve valere anche e soprattutto se l’opinione «emarginata» ci sembra erronea e le ragioni militano a favore dell’ortodossia! È solo così che possiamo riconoscere nel conflitto delle opinioni un’occasione per andar oltre il vecchio pessimismo biblico: «Nulla di nuovo sotto il sole». Come hanno mostrato l’astronomia dei tempi di Bruno e di Galileo o il dibattito cosmologico dopo Hubble, molte novità sono comparse, per così dire, sia sopra che sotto la nostra stella.
la Repubblica, 17.02.2009
Pensando oggi al rogo di Giordano Bruno
Corrado Augias risponde a una lettera di Paolo Izzo
Caro Augias,
mai come quest’anno va celebrato il ricordo di Giordano Bruno, che il 17 febbraio 1600 fu arso vivo a Campo de’ Fiori, condannato da una combutta micidiale tra potere ecclesiastico e potere temporale. Era reo di aver detto che l’uomo nasce libero dal peccato originale e che l’inferno non esiste, che la natura infinita va amata senza credere che in essa si annidi il Male e che l’infinitezza stessa dell’universo va contro l’idea della trascendenza, va contro la religione stessa, le religioni tutte... Aveva bestemmiato così: "Stolti del mondo voi che avete formata la religione, gli maggiori asini del mondo siete voi che per grazia del cielo avete riformata la corrotta fede? Vedete se sono o furon giammai solleciti circa le cause secrete de le cose; se mai pensano al dissolvimento qualunque dei regni, dispersione de’ popoli, incendii, sangui, ruine ed esterminii; se curano che perisca il mondo tutto? purché la povera anima sia salva, purché si faccia l’edificio in cielo, purché si ripona il tesoro in quella beata patria, niente curando della fama, comodità e gloria di questa fragile e incerta vita: tutto per quell’altra certissima ed eterna vita". Oggi è la rivoluzione di Giordano Bruno a dover essere tenuta a mente, contro chi vuole anteporre quella remota "beata patria" alla nostra concreta realtà umana.
Paolo Izzo Roma paolo@paoloizzo.net
Nel 2000 il pontefice regnante inviò il Segretario di Stato cardinale Angelo Sodano con un messaggio per il convegno che si teneva a Napoli per il quattrocentesimo anniversario del martirio di Giordano Bruno. Vi si affermava tra l’altro che quel "triste episodio della storia cristiana ci invita a rileggere anche questo evento con spirito aperto alla piena verità storica". Il Cardinale ricordò che il pensiero del filosofo era maturato nel secolo XVI, quando la cristianità era divisa perché Lutero, Calvino, Enrico VIII avevano staccato da Roma intere nazioni. Aggiunse che le sue "scelte intellettuali" rimanevano "incompatibili con la dottrina cristiana"; concludeva affermando che "aspetti delle procedure" seguite dai tribunali dell’Inquisizione di Venezia e di Roma, per giudicare il frate accusato di "eresia", ed "il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa motivo di rammarico".
Il contenuto del messaggio era assolutamente lodevole compreso il fatto che le dottrine rimanevano ’incompatibili’ anche se dal XVI secolo a oggi la dottrina della Chiesa ha fatto parecchi passi proprio in direzione del pensiero bruniano. Un dettaglio mi parve non all’altezza del resto. Là dove il testo affermava che ’l’esito violento’ cioè l’essere bruciato vivo era da addossarsi al "potere civile". Certo fu il Governatore di Roma a organizzare il rogo. Ma era solo la mano che dava fuoco alle fascine; i tribunali ecclesiastici sapevano benissimo quali conseguenze avevano le sentenze da loro emesse.
Quando si riconosce un errore criminale come fu quello, sarebbe bene ammetterlo fino in fondo.
Filosofia e religione non possono rinunciare alla ricerca della verità: ma in democrazia nessuno può vantarsi di possederla
Un libro del credente Antiseri e dell’ateo Giorello
Relativismo, una maschera del nulla
Oggi l’«incultura dell’optional» mette tutto sullo stesso piano, dalla pornografia alla fede
di Claudio Magris (Corriere della Sera 12.12.2008)
In una delle sue ultime interviste, Horkheimer - fondatore, con Adorno, di quella Scuola di Francoforte che, col suo marxismo critico e autocritico, è tuttora fondamentale per capire la nostra realtà - dice che il mondo finito e contingente in cui viviamo è l’unico di cui possiamo parlare, ma non è necessariamente l’unico esistente e comunque non basta. Esso è l’unico oggetto di una onesta conoscenza razionale, ma la sua finitezza evoca quell’inattingibile altrove, quell’irriducibile Altro che danno senso al nostro confronto con esso, con le sue mancanze che chiedono di essere colmate, con le sue ferite che domandano di essere sanate, con le sue esigenze di giustizia e di felicità sempre deluse eppur mai cancellate.
Per la tradizione ebraica, che nutre il pensiero di Horkheimer, il Messia non è ancora venuto, ma anche chi ritiene che non verrà non può comprendere veramente la realtà umana senza fare i conti con il senso e con l’esigenza di quell’attesa, di quella promessa di redenzione. Ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario; d’altronde un pensiero che pretenda di essersi impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica menzognera.
Di Dio, dicono tutti i grandi mistici, non si può dire nulla, perché lo si degraderebbe a misura umana, bestemmiando la sua assolutezza; si può solo sentirsi avvolti dalla sua oscurità, mentre ci si occupa onestamente delle singole cose che si possono vedere.
Quelle parole di Horkheimer, alieno da qualsiasi fede positiva, indicano come la fede, contrariamente a ciò che spesso si dice, non sia un ombrello che ripara da dubbi e incertezze, bensì un violento squarcio del consueto sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le convenzioni passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti. Gesù o Buddha non sono venuti a fondare una religione, perché già allora ce n’erano troppe, bensì a cambiare la vita, con tutto il rischio e lo smarrimento che ciò comporta e che Gesù ha provato nel Getsemani; secondo le sue parole, solo chi è disposto a perdere la propria vita la salverà e perdere la vita - ossia tutto il suo corredo di convinzioni, abitudini, valori, legami, buoni sentimenti e comportamenti assennati - significa non sapere a cosa si va incontro.
Nel suo dialogo con Giulio Giorello - Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti - Dario Antiseri ha sottolineato come la fede, proprio perché afferma di credere in una verità e non di sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell’assoluto. Inoltre la fede, a differenza di tante ideologie, impedisce di innalzare falsamente ad assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, morale, religiosa, ecclesiastica; essa è una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un (falso) assoluto, un idolo che esige cieca obbedienza e magari sacrifici di sangue.
Come Giorello, ammiro più la preghiera a schiena diritta che quella in ginocchio, ma inginocchiarsi solo dinanzi all’assolutamente Altro aiuta a non inginocchiarsi davanti a ogni potere che pretende di essere Dio o il suo unico autorizzato rappresentante e di parlare a suo nome. I fondamentalismi di ogni genere - anche e soprattutto quelli religiosi, di ogni religione e di ogni Chiesa, nessuna esclusa - sono spesso i primi a commettere questo peccato di blasfema e violenta idolatria.
Il dialogo fra Giorello e Antiseri è nato anche dalle ripetute condanne del relativismo pronunciate da Benedetto XVI e dalle polemiche da esse provocate.
Un intenso approfondimento di questa tematica, inteso a sfatare da posizioni laiche la fallace identificazione del relativismo col pluralismo e con la libertà, è costituito dal volume Verità relativismo relatività (ed. Quodlibet), curato da Tito Perlini, autore dell’affascinante saggio che lo apre.
Interprete e seguace del marxismo critico della Scuola di Francoforte, sulla quale ha scritto pagine fondamentali, figura intellettuale di rilievo nella sinistra minoritaria italiana e aperto a quell’«assolutamente Altro» di cui parlava Horkheimer, Perlini è una delle intelligenze che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi decenni.
Pago di capire, pronto a prendere atto con tranquillo disincanto del fallimento di molte sue aspettative politiche, riluttante ad apparire (non per sdegnosa o schiva riservatezza, bensì piuttosto per sana ancorché esagerata pigrizia), Perlini è stato sempre restio a ridurre i suoi acutissimi e torrenziali saggi, sin dalla sua voluminosa tesi di laurea sul Doktor Faustus, che ben più di mezzo secolo fa sfondò lo zaino in cui l’aveva messa il suo maestro Guido Devescovi, l’amico e compagno di classe di Scipio Slataper, per portarsela a leggere in montagna.
Nel suo saggio, Perlini combatte il rifiuto dell’idea di verità e della sua ricerca, che da Nietzsche in poi domina il pensiero occidentale. Benedetto XVI, condannando il relativismo sul piano etico e teoretico, ne riconosce la validità sul piano politico quale fondamento della democrazia, basata sul presupposto che nessuno possa pretendere di conoscere e tanto meno di imporre la strada giusta. Certamente più democratico di Benedetto XVI, Perlini è tuttavia ben più radicale nella critica non della democrazia, in cui crede, bensì della sua attuale degenerazione: una politica che ha abdicato a ogni visione del mondo e si è ridotta a mera gestione - talora a indebita appropriazione - dell’esistente, declassando la democrazia a «dittatura dell’opinione pubblica manipolata che legittima ogni forma di demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e finanziario».
È un ritratto perfetto dell’Italia di oggi. Alle classi tradizionali è subentrato un gelatinoso «ceto medio» che non ha nulla della classica borghesia e che produce e consuma - scrive Perlini riprendendo un’osservazione di Goffredo Fofi - una colloidale «cultura media» che avviluppa come un chewing gum i giornali, l’università, la televisione, l’editoria, il dibattito intellettuale, livellando ed equiparando tutti i valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente digeribile, che smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di mettere realmente in discussione l’ordine imperante - ogni scandalo e follia della croce, per citare il Vangelo.
Questa medietà non è la modesta e onesta tappa in cui quasi tutti noi mediocri siamo ovviamente costretti a fermarci nel cammino verso l’alto, ma è la totalitaria eliminazione di ogni tensione fra l’alto e il basso, l’ordine e il caos, la vita e la morte, il senso e il nulla. Il relativismo è il presupposto di questa (in) cultura dell’optional, che ammannisce un po’ di tutto mettendo tutto insieme sullo stesso piano e sullo stesso piatto, pornografia e prediche sui valori familiari, fumisterie esoteriche e pacchiane superstizioni, un etto di cristianesimo e un assaggio di buddhismo, volgarità plebea e volgarità pseudoaristocratica di spregiatori delle masse graditi a quest’ultime, Madonne di gesso che piangono e veline che discutono con filosofi, abbronzature di famosi su belle isole e pii cadaveri dissotterrati e messi impudicamente in mostra.
Questo relativismo, in cui tutto è interscambiabile, non ha niente a che vedere col rispetto laico dei diversi valori altrui accompagnato dal fermo proposito di contestarli rispettosamente ma duramente in nome dei propri; è il trionfo dell’indifferenza, collante di una solidale e inscalfibile egemonia. Così il relativista, scrive Perlini, è intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l’esercizio della ragione.
L’autentico illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello espresso da Lessing nella sua famosa parabola dei tre anelli: nessuno sa quale sia quello vero, perché l’occhio umano non può distinguerlo, ma si sa che uno è vero, che c’è la verità e che vivere significa cercarla pur sapendo di non poter mai esser certi di averla raggiunta. Il relativismo - scrive Perlini - è uno stimolo salutare all’interno della ricerca della verità, per impedire che essa si snaturi, come è avvenuto e avviene spesso, nell’intollerante dogmatismo.
Altrimenti il relativismo è l’altra faccia del fondamentalismo sicuro di sé, poca importa se trionfalmente ateistico o trionfalmente bigotto, muro di supponenza che un io debole e timoroso della vita si costruisce per tenerla lontana. Finché c’è il muro, il timore dei fantasmi è forte. Ma come dice la vecchia storia? «La paura bussa alla porta. La fede va ad aprire. Fuori non c’è nessuno».
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«Verità relativismo relatività» (Quodlibet, pp. 224, e 18) è il titolo dell’ultimo fascicolo, curato da Tito Perlini, dell’«Ospite ingrato», rivista del Centro studi Franco Fortini.
Il libro di Dario Antiseri e Giulio Giorello «Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti» (pp. 180, e 17) è edito da Bompiani.
RIFLESSIONE. SAVERIO ANSALDI: LUCREZIO, BRUNO E LA "POLITICA DELL’AMORE" *
Scrive Giordano Bruno nel De Immenso, mentre il XVI secolo volge ormai al termine: "Quando, in estate, cadono dall’aere gocce di pioggia sulla Terra infuocata, battuta dall’Apulo e dal Libico, dalla polvere incotta nasce repentinamente la rana e uguaglia il numero delle gocce, tanto che tu potresti credere, mirando al suolo, che tante rane siano cadute dal cielo (...). Tale e’ l’origine del serpente, del pesce, del topo, della rana gracidante, tale quella del cervo, della volpe, dell’orso, del leone, del mulo e dell’uomo". Di qui una visione del progresso dell’umanita’ fondato sull’attivita’ pratica e sulla conoscenza naturale, che Bruno e Lucrezio, poeti-filosofi, condividono. La civilta’ e’ sempre il risultato di una lotta e di una conquista, dal momento che l’uomo non gode di alcun privilegio metafisico e morale in un universo infinito in perenne trasformazione.
Lucrezio e’ una fonte e un punto di riferimento filosofico costante del pensiero di Bruno. Il De rerum natura e’ citato sia nei dialoghi italiani che nelle opere latine. Gli aspetti principali del pensiero di Lucrezio presenti in Giodano Bruno possono essere chiaramente identificati. In primo luogo troviamo una teoria dell’atomo e del "minimo" come parti originarie e costituenti della materia. Questa teoria si innesta su una concezione dell’infinito fisico e cosmologico che implica a sua volta una critica del cosmo finito di derivazione aristotelica. Un altro punto essenziale riguarda la teoria di un’antropogenesi spontanea, vale a dire la nascita del genere umano a partire dai processi di aggregazione naturale degli atomi. Per Bruno, come per Lucrezio, l’umanita’ costituisce una forma di vita fra le altre, sorta per effetto dei fenomeni naturali.
L’infinito materiale della vita
Dei molti temi che caratterizzano l’uso bruniano del De rerum natura, tuttavia, uno merita di essere messo in luce con particolare attenzione. Si tratta della concezione dell’amore, che prende forma in Bruno a partire da un doppio movimento filosofico: da una parte, la tradizione platonica e neoplatonica (Marsilio Ficino e Leone Ebreo), dall’altra Lucrezio. Vale a dire che Bruno riunisce, in una sintesi originale, una visione puramente materialistica dell’amore, come quella lucreziana, e una visione animistica, quale si riscontra nei grandi autori neoplatonici del Rinascimento italiano.
Il risultato di questa sintesi teorica e’ cio’ che potremmo definire una "politica dell’amore", che Bruno sviluppa in una delle sue ultime opere, il De vinculis del 1591. Qui, Bruno scrive che "tutti i vincoli si riconducono al vincolo d’amore, ne dipendono, riposano in esso (...) E’ infatti manifesto che l’amore costituisce il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama niente non ha di che temere, sperare, gloriarsi, insuperbirsi, osare, disprezzare, accusare, scusare, umiliarsi, emulare, adirarsi e aprire la porta ad altri esempi del genere. La materia ha dunque ampio campo; (...) e questa riflessione non si deve giudicare troppo lontana dalle norme della vita civile, dal momento che e’ straordinariamente piu’ estesa di quanto attiene alla mera norma della vita civile".
Nel quadro della filosofia politica del Rinascimento, quella di Machiavelli s’intende, le affermazioni di Bruno sembrano prive di senso: l’orizzonte della politica e’ quello dell’interesse, del conflitto e della guerra, dell’uso della forza e dello scontro. Potremmo quasi dire che Bruno non coglie i fondamenti reali della politica e che probabilmente intende parlare d’altro. Ma in realta’ si tratta di comprendere il senso esatto della sua nozione: che cos’e’ e su cosa si fonda una "politica dell’amore"? Quali i suoi principi e i suoi presupposti? L’azione politica, per Bruno, poggia innanzitutto sulla materia vivente che costituisce la trama dell’universo infinito. Il "modello" della vita politica e’ rappresentato dall’universo infinito materiale, attraversato dalla potenza inesauribile della vita. E la vita cosmica non e’ altro che amore, poiche’ tutte le cose che vivono nell’universo infinito sono "vincolate" e strette le une alle altre dalla forza dell’amore. L’amore e’ la potenza cosmica che connette tutti gli esseri dell’universo, dai pianeti alle stelle, dai vegetali all’uomo. Per Bruno, che riprende qui Marsilio Ficino, la potenza dell’amore e’ una vera e propria possibilita’ permanente di trasformazione e di metamorfosi: l’amore e’ una forza che rigenera e rinnova, e’ la resurrezione immanente della natura infinita. Perche’, allora, la materia vivente e "amorosa" diventa il modello della vita politica? Perche’ si tratta per Bruno di riprodurre, nella politica e nella vita civile, i vincoli d’amore che legano gli esseri nell’universo infinito.
Questo il significato straordinario della sua tesi, per cui la finalita’ della politica consiste nel perfezionare in modo esponenziale la potenza della natura umana, pratica e teorica, definita dai vincoli d’amore. Quei vincoli, cioe’, che costituiscono le metamorfosi "sociali" e che permettono le trasfomazioni incessanti della natura umana, secondo i ritmi e le variazioni della natura infinita. Il fine della politica si trova proprio nella necessita’ e nell’imperativo di favorire al massimo le possibilita’ di metamorfosi e di trasformazione dell’uomo e della sua natura. Ecco perche’ il "vincolo sociale" non puo’ essere altro che un vincolo d’amore, vale a dire un processo di cambiamento fondato sulla rigenerazione permanente delle forme della vita umana: affettive, economiche, giuridiche.
La politica non deve difendere un ordine naturale originario e normativo o promuovere un vitalismo primitivistico cosi’ come elaborato dal filosofo conservatore Oswald Spengler; essa deve piuttosto costruire un "mondo" all’interno del quale la natura umana possa vivere affermando ed esprimendo tutte le sue possibilita’ e tutte le sue potenzialita’. Le metamorfosi della natura umana costituiscono in tal senso la sola e unica "utilita’" della vita politica: la potenza umana e’ "utile" quando vive e si nutre dei vincoli d’amore. L’"uso" della vita umana - ed e’ questo probabilmente l’aspetto piu’ sovversivo del pensiero di Bruno - non rimanda all’ordine trascendente dell’agostiniana "citta’ di Dio" o all’ordine legale del "dio mortale" di Hobbes. Si radica invece nel ritmo incessante delle metamorfosi infinite della materia vivente, con le sue variazioni e le sue vicissitudini. L’uso comune della vita umana e’ l’amore della metamorfosi, e in questo amore la politica rivela la sua piu’ profonda e legittima utilita’.
La politica deve quindi essere all’origine di una "vita nuova", di un uso della vita umana come resurrezione materialistica dei corpi e delle menti, attraverso l’amore dei vincoli comuni che ci legano gli uni con gli altri.
Vincoli che non sono propri dei soli esseri umani. Tutti gli esseri naturali sono uniti dall’amore cosmico. L’utilita’ della politica deve quindi coinvolgere la "natura" nel suo complesso. Si potrebbe affermare che la politica umana, per Bruno, deve essere un effetto necessario della potenza infinita della natura; la natura non e’ "oggetto" della politica (non si tratta, con Heidegger, di prendersi "cura" della natura, o di "difenderla", con Jonas e il suo principio di responsabilita’) ma e’ piuttosto la politica a essere prodotta dalla natura infinita come infinito processo di metamorfosi.
Una luce sulla vita errante
La politica e’ solo un aspetto o un’"ombra", per utilizzare una terminologia bruniana, dell’amore infinito e della vita che si rinnova costantemente nella materia dell’universo. La vita nuova dell’amore e dei suoi vincoli e’ la legge che ogni politica dovrebbe poter applicare, poiche’ tale legge e’ l’unica forma di vita adeguata all’uso comune e giusto della natura infinita. Entro un universo ormai privo di gerarchie e di ordini trascendenti, Bruno scopre le regole di una vita nuova, "vincolata" all’utilita’ comune che non rimanda ne’ al concetto d’interesse ne’ a quello di profitto. Facendo del vincolo d’amore il solo e unico imperativo categorico della politica, Bruno mette in luce il rapporto di "cooperazione" fra la natura umana e finita da un lato e la materia infinita dall’altro, che l’azione politica deve costantemente costruire e inventare, contro ogni forma di ingerenza e di dominio, ideologico, culturale, economico o teologico.
La filosofia politica di Giordano Bruno rappresenta cosi’, all’interno della tradizione del pensiero moderno, una vera e propria "utopia", una sorta di non-luogo, estraneo tanto al nascente realismo dello Stato assoluto di Bodin e di Hobbes, quanto all’universalismo cattolico di Campanella o al progressismo scientifico di Bacon. Essa occupa una zona d’ombra, dalla quale si irradia la luce di una vita nomade ed errante, impegnata nella ricerca dei vincoli d’amore, nelle metamorfosi incessanti del mondo.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 431 del 20 aprile 2008
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 dicembre 2007, col titolo "Metamorfosi amorosa della natura umana" e il sommario "Da oggi a Milano un convegno internazionale su ’Lucrezio nella Modernita’’. La teoria dell’atomo del filosofo e poeta latino come base di una ’politica dell’amore’, dove l’infinita potenza della vita e’ fonte di una pratica della trasformazione sociale" riprendiamo uno stralcio della relazione di Saverio Ansaldi al convegno "Lucrezio nella modernita’" svoltosi il 13 e 14 dicembre 2007 all’Universita’ di Milano-Bicocca (convegno cosi’ presentato in una nota di Nicola Marcucci dal titolo "Lucrezio, l’incontro alla Bicocca di Milano" apparsa sullo stesso foglio: "Le diverse interpretazioni moderne di Lucrezio, seppur nella loro pluralita’, sono legate da una comune condanna o, al contrario, dalla rivendicazione di una comune appartenenza, sotterranea ed eccentrica rispetto ai canoni della storiografia filosofica ufficiale. Spinoza ne ha tracciato con forza i confini: ’L’autorita’ di Platone, di Aristotele e di Socrate - scrive a un suo superstizioso corrispondente - non ha per me gran valore. Sarei stato molto sorpreso se mi aveste citato Democrito, Epicuro, Lucrezio o qualche altro atomista o sostenitore dell’atomismo’. In una altra modernita’, ma entro i medesimi confini perimetrati da Spinoza, Marx ’traduceva’ Lucrezio, nel primo libro del Capitale, sottolineando come il valore, non potendo esser creato dal nulla, fosse piuttosto trasformazione di forza lavoro e come questa fosse ’anzitutto un complesso di sostanze naturali trasformate in organismo umano’. E’ alla tante modernita’ lucreziane e alla problematica definizione di questa comune appartenenza - caratterizzata dall’antifinalismo, dalla critica alle superstizioni religiose e all’antropomorfismo, dal rifiuto della filosofia come mera meditazione della morte - che sara’ dedicato il convegno ’Lucrezio nella modernita’’...").
Saverio Ansaldi e’ docente e saggista; dalla medesima fonte riprendiamo la seguente scheda: "Saverio Ansaldi e’ professore associato di Filosofia politica all’Universita’ di Montpellier III - Paul Valery. Si e’ occupato di filosofia tedesca (Schelling), di filosofia moderna (Spinoza) e lavora attualmente sulla filosofia politica del Rinascimento italiano (Machiavelli, Bruno, Campanella). Ha pubblicato articolo e saggi su Spinoza e Giordano Bruno (Spinoza et le baroque. Infini, desir, multitude, Kime’, 2001; Nature et puissance. Giordano Bruno et Spinoza, Kime’, 2006). Ha curato l’edizione francese dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Vrin, 2006) e tradotto in italiano Spinoza e il problema dell’espressione di Gilles Deleuze (Quodlibet, 1999). E’ membro del comitato di redazione della rivista ’Multitudes’"]
polemiche
E i laicisti stravolgono pure Giordano Bruno
Un buon saggio di Nuccio Ordine sul filosofo nolano diventa, nelle mani dell’attuale polemica anticlericale, un’arma contro la Chiesa. Ma che senso ha, storicamente, identificare l’oggi con il ’500?
di MARIO A. IANNACCONE (Avvenire, 07.03.2008)
Giordano Bruno considerava la religione uno spettacolo pirotecnico grazie al quale il popolo viene asservito, e le negava ogni potere salvifico, ma non ne chiedeva l’abolizione o il silenzio; progettava la sua riduzione all’utilità sociale, per farne una forza capace di creare concordia. Nella sua visione, essa poteva esprimersi in cerimonie e riti, a patto che non limitasse la libertà di filosofare.
Al tempo in cui il nolano visse, però, questo quadro era ancora impensabile, la religione interveniva in ogni aspetto della vita civile e sociale. L’aspra polemica anticristiana di Bruno aveva un senso quando la Chiesa aveva un potere notevole, che non sempre usava bene; quando le confessioni protestanti producevano teocrazie e le guerre di religione infiammavano l’Europa. Ma è possibile e lecito usare quelle polemiche, e il messaggio del nolano, per rafforzare attuali posizioni laiciste? Come è noto, la tentazione è continua e si rinnova ad ogni tappa degli studi bruniani. Nel dibattito su religione e laicità si è inserito negli ultimi mesi il libro di Nuccio Ordine Contro il Vangelo armato (Raffaello Cortina, pagine 380, euro 28,00), che scopre nessi interessanti fra questo pensatore e l’ambiente letterario dei suoi anni ma non interviene nell’oggi, al contrario di quanto hanno lasciato intendere certi recensori più per la suggestione operata dal titolo che per i suoi contenuti, i quali sono scientifici e non polemici.
Alcune recensioni, appunto, hanno stabilito paragoni fra l’ingerenza massiccia della Chiesa nella vita politica del Cinquecento e quella della Chiesa italiana ai giorni nostri. Nei mesi scorsi, lo stesso Ordine si è prestato volentieri a queste interpretazioni nelle occasioni di presentazione della sua opera. Si tratta di un paragone assurdo e per nulla fondato. Del resto, il cattolicesimo moderno non può essere accusato di propugnare ’vangeli armati’, né è impegnato in lotte di religione. Durante l’ultimo secolo tutti i pontefici, sino a Benedetto XVI, hanno parlato molto chiaro sulle ’inutili stragi’. Altra cosa è la difesa del contenuto non negozionabile del cristianesimo, che è il suo messaggio centrale.
È però strano che gli stessi che celebrano le idee di Bruno sulla religione civile non si rendano conto della contraddizione cui vanno incontro: se una religione dev’essere cemento della società, come si augurava il nolano, allora deve essere visibile, combattiva. Una religione civile si fa con cerimonie e battaglie d’idee.
Essa deve far conoscere la propria opinione ed entrare anche nel campo dell’etica, luogo in cui la ’civile conversazione’ - il termine è di Bruno - si esprime al massimo. Quale concordia sociale potrebbe derivare da una società nella quale l’etica non sia al centro delle discussioni? Per questo l’idea di religione civile di Giordano Bruno pare del tutto inapplicabile alle ragioni del laicismo contemporaneo a meno di non ricorrere ai sofismi che, per lo stesso filosofo, sono manifestazioni di ’asininità’.
L’eterna paura, da Atteone ai lupi di Freud
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 04.03.2012)
Molte e varie sono le notizie funeste che in questo periodo turbano l’opinione pubblica ma due avvenimenti si distaccano dallo scenario generale. Nel giro di pochi giorni due uomini, senza alcun motivo, sono stati sbranati da un branco di cani randagi, non in luoghi inospitali e selvaggi, ma ai margini di civili periferie urbane. L’imprevedibilità rende questi avvenimenti particolarmente minacciosi e inquietanti, quasi un presagio della catastrofe economica incombente, del malessere diffuso, dell’aggressività che, dilagando, richiama il famoso aforisma di Hobbes: homo homini lupus.
Questa risonanza va ben al di là delle considerazioni razionali e coscienti perché la paura di essere sbranati dai cani, o dai lupi che ne rappresentano la natura inaddomesticata, è antica come il mondo. La ritroviamo nel mito di Atteone, il dio allevato dal centauro Chirone nell’arte della caccia, che sarà tramutato da cacciatore in preda. Reo di aver scorto, inavvertitamente, le divine nudità di Diana, il giovane viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. La scena è drammaticamente rappresentata nel gruppo marmoreo che adorna il parco della Reggia di Caserta (nella foto). E, con suggestioni alchemiche, nei dipinti del giovane Perugino che decorano una misteriosa saletta della Rocca di Fontanellato.
Giordano Bruno, in «Degli eroici furori», scorge invece nella metamorfosi di Atteone un progresso dell’umanità: da una conoscenza sensuale, cieca e fantastica a un sapere razionale, prossimo alla bellezza e alla sapienza divine. Ma la paura del lupo, che non ci ha mai abbandonato, si ripete costantemente nella prima favola che si racconta ai bambini, quella di Cappuccetto Rosso, dove la piccina e la nonna vengono sì sbranate dal lupo, ma per essere prontamente salvate dal cacciatore, che fa giustizia della mala bestia.
Queste figure dell’immaginario collettivo si ritrovano anche nell’inconscio individuale: nei giochi, nelle fantasie, nei sogni. Freud, analizzando a più riprese i sogni del cosiddetto «Uomo dei lupi», percorre uno dei sentieri più ricchi e complessi della sua ricerca. Una interpretazione che si rivela interminabile, anche per il perenne rinnovarsi delle nostre angosce.