PREMESSA SUL TEMA:
Il cortile dei Gentili a casa dei Nobel
di Armando Torno (Corriere della Sera, 10 settembre 2012)
Questa settimana il Cortile dei Gentili - lo spazio di incontri voluto da Benedetto XVI e organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura - riprende a Stoccolma. La capitale svedese ospiterà dibattiti sul tema «Il mondo con o senza Dio?». Sono stati chiamati «duetti», giacché sono dei faccia a faccia tra personalità contrastanti. O forse saranno scontri. E per la bisogna si è messo in campo un argomento chiave che da sempre fa riflettere filosofi e teologi.
Tutto comincerà giovedì 13 settembre all’Accademia reale svedese delle scienze, con i saluti del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e dello scrittore Georg Klein. Poi il primo duetto. Su «Cosa significa credere e non credere?» si contrapporranno Ulf Danielsson (professore di fisica all’Università di Uppsala) e Ingemar Ernberg (biologo, autore del libro Cos’è la vita?); sarà poi la volta dell’incontro «Esiste un mondo non materiale?»: il confronto avverrà tra Antje Jackelén (vescovo della Chiesa di Svezia, diocesi di Lund) e lo scrittore-medico Per Christian Jersild. Tra l’altro, venerdì 14, secondo e ultimo giorno del Cortile svedese, si discuterà «Cosa significa credere e non credere?». Anders Carlberg, scrittore e fondatore del Fryshuset, dibatterà con Linnea Jacobsson, vicepresidente dei Giovani cristiani di sinistra.
Le due giornate svedesi, oltre a evocare una questione sempre aperta, desiderano provocare per meglio far conoscere le ragioni della scienza e le speranze della fede. Inoltre, il Cortile si riunirà in due luoghi simbolo di Stoccolma: l’Accademia, che ha legato il suo nome al Premio Nobel, e il Fryshuset, centro leader di attività sociali, creato per accogliere e soccorrere ragazzi in difficoltà. E tutto questo nell’attesa di Assisi, il 5 e il 6 ottobre, con un Cortile che sarà ricco di sorprese.
A Stoccolma non mancheranno scintille parlando di Dio. Ma è bene che sia così. Il cardinale Ravasi ci ha confidato: «A volte la tensione, forse la ferita impediscono la sonnolenza, l’indifferenza, il distacco». Si parla di «ferita» morale. Che, secondo il teologo Ratzinger, genera la bellezza nell’anima.
NOTA BENE:
PIU’ CHE CONTINUARE A GIOCARE AL "DUETTO" TRUCCATO SECONDO LA TRADIZIONALE "ASTUZIA DELLA RAGIONE" CATTOLICO-IDEALISTA, NIENT’AFFATTO CRISTIANA, E’ MEGLIO RIPENSARE A CRISTINA DI SVEZIA E CARTESIO (e KANT), E RIFLETTERE DI PIU’ E MEGLIO SULLE "TRE CORONE" DELLO STEMMA DELLA SVEZIA (RIVEDI FOTO VICINO AL TITOLO):
GIORDANO BRUNO, LE "TRE CORONE" E IL VANGELO ARMATO. Nuccio Ordine rilegge la grande opera di Bruno (e fa intravedere impensate connessioni con Dante, Boccaccio, Lessing e noi, tutti e tutte). Intervista di Maria Mantello
Svezia, i preti donna superano gli uomini
Sono il 50,2% dei ministri abilitati al servizio religioso. Ma nelle gerarchie della Chiesa evangelica luterana di Stoccolma contano ancora poco e guadagnano di meno
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 22 Luglio 2020)
BERLINO - La Svezia è uno dei paesi all’avanguardia per la gender equality, la parità di diritti e opportunità tra donne e uomini. In ogni campo della vita sociale: dalla pubblica amministrazione all’economia, dalla cultura ai media, dalla polizia alle forze armate. Ora Stoccolma raggiunge un nuovo primato anche nel campo della fede: per la prima volta nella sua storia la Chiesa svedese, evangelica luterana, conta più pastori donne che non pastori uomini. Per l’esattezza il 50,2 per cento dei ministri evangelici abilitati a officiare il servizio religioso sono donne: 1.533 su un totale di 3.063 presuli. E nella rete di seminari da qualche anno ben il 70 per cento degli iscritti sono donne.
La notizia, data dalla chiesa protestante svedese stessa e anticipata dalla radio pubblica, ha però un rovescio della medaglia: gli uomini restano in maggioranza ai gradi alti della gerarchia ecclesiastica luterana del regno delle tre corone, per quanto essa sia più semplificata di quella cattolica. E non è tutto: a pari mansione, un pastore donna nella chiesa svedese resta meno retribuito di un pastore uomo. La differenza media è l’equivalente in corone di almeno 215 euro mensili.
"Nel 1990 avevamo previsto che cento anni più tardi, ovvero nel 2090, le donne-pastore sarebbero aumentate di numero fino ad arrivare alla metà del totale; la realtà si è rivelata molto piú veloce delle nostre prognosi", ha detto la portavoce ecclesiastica Christina Grenholm.
E’ dal 1958 che la chiesa protestante svedese ha accettato il sacerdozio femminile. E dal 2000, anno della totale separazione tra Chiesa e Stato, i corsi di teologia sono stati presi d’assalto dalle donne, che appunto sono attualmente circa il 70 per cento del totale degli studenti di teologia nel paese.
Un grande passo in avanti, ma appunto i problemi restano. La stessa chiesa evangelica svedese lo riconosce, notando che molte volte il servizio divino è officiato da un pastore uomo e da un pastore donna. E sottolineando che ai vertici la rappresentanza maschile resta superiore.
Come in economia, politica e forze armate la migliore metà del cielo svedese ha conseguito una vittoria importantissima anche nella fede, ma non ha ancora sfondato il tetto. E ci si può immaginare quanto sia probabilmente duro e umiliante scegliere di servire Dio e la Chiesa in nome della fede, e officiare accettando retribuzioni inferiori dei confratelli maschi. Anche la Svezia non è perfetta. Nelle chiese protestanti di molti paesi le donne sono ammesse al sacerdozio. In Germania una donna vescovo, Margot Kässmann, è stata persino presidente dei vescovi luterani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO : LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
FLS
Nobel per la letteratura. La lotta di potere
C’è del marcio in Svezia
di Daniela Marcheschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.05.2018)
L’acqua cheta rovina i ponti - dice un vecchio proverbio italiano. Visti i tempi, bisogna subito postillare che funziona benissimo anche in Svezia, dove le passioni si esprimono in genere senza sguaiataggine, senza alzare mai troppo i toni, ma non sono meno vive e dirompenti. Ad esempio, non si ricorderà mai abbastanza il gesto forte di Kerstin Ekman, autorevole scrittrice e intellettuale svedese, le cui opere sono tradotte anche in italiano: terza donna a diventare nel 1978 membro dell’Accademia, nel 1989 se ne è sospesa, perché l’istituzione non prendeva una posizione chiara nei confronti della fatwa (la condanna a morte per bestemmia), lanciata dall’Ayatollah Khomeini contro lo scrittore indiano-britannico Salman Rushdie.
Quello che, poi, accade oggi nell’Accademia svedese, celebre per la consegna dei premi Nobel, è la punta di un iceberg dalla base ampia e consolidatasi nel tempo.
Da parecchi anni si sapeva delle pessime voci che correvano sul fotografo franco-svedese Jean-Claude Arnault, marito della non eccelsa poetessa Katarina Frostenson. Quest’ultima è stata ammessa nel 1992 all’Accademia di Svezia, e non senza suscitare dubbi e sospetti di favoritismo, per la sua giovane età (allora l’autrice aveva solamente trentanove anni) e per l’appartenenza a una famiglia molto influente. Discussi anche i rapporti con la Francia intrattenuti dalla coppia e l’assegnazione di due premi alla nazione transalpina nel 2008 (Le Clézio) e nel 2014 (Modiano).
Perfino la scrittrice Maja Lundgren, nel suo romanzo Myggor och tigrar (Zanzare e tigri), pubblicato da Bonnier - il maggiore editore svedese - nel 2007, aveva bollato in rima il predatore Arnault come «Jean-Claude utan nåd», ossia «Jean-Claude senza pietà». Tali voci erano giunte anche in Accademia e già nel 1997: l’allora segretario Sture Allén era stato informato da una vittima di Arnault, per lettera, di gravi molestie subite, ma aveva lasciato cadere la cosa nel vuoto. Anzi, dal 2010 al novembre 2017 (quando lo scandalo è scoppiato senza ma e senza se), al centro culturale Forum, diretto da Arnault e dalla stessa Frostenson, l’Accademia ha elargito 126mila corone svedesi ogni anno - in tutto più di ottantamila euro circa.
La Frostenson, accusata di non aver informato i suoi colleghi del conflitto di interessi, si è autosospesa: ma possibile che a Stoccolma, dove negli ambienti della cultura si sa tutto di tutti, gli unici a non esserne al corrente fossero gli accademici che concedono i finanziamenti?
Da quel momento è cominciato un braccio di ferro interno, che ha comportato le dimissioni o, meglio, le autosospensioni di altri esponenti di rango, come lo storico Peter Englund o il poeta e studioso Kjell Espmark. Un membro è eletto a vita nell’Accademia di Svezia, e la “sedia” che egli occupa resta sua fino alla morte. Tutt’al più, se è vivente, figura come membro “non attivo”, ma non può decadere.
Ininfluente per il momento l’intervento del Re, che ha da poco introdotto la possibilità (senza valore retroattivo) di dare le dimissioni entro i primi due-tre anni dalla nomina in Accademia. La catena delle autosospensioni per protesta ha così portato i membri attivi a dieci, numero che non permette le votazioni in vista della scelta del premio Nobel per la Letteratura.
Tuttavia, dato il regolamento del premio, che impone ogni anno alla commissione ristretta per la Letteratura (4 accademici) un duro lavoro durante ben tre fasi di selezione - da un 48 autori od opere circa a 8-5, infine al vincitore proclamato in ottobre -, ci sarebbero stati dei margini per chiarire ulteriormente le questioni non letterarie e raggiungere un accordo di massima sulla rosa dei candidati e sul possibile nome del vincitore. Invece no, rapidamente si è arrivati alla decisione di non consegnare il premio Nobel per la Letteratura nel 2018. Davvero era l’unica possibile «per ripristinare la generale fiducia» verso l’istituzione, come si legge nel comunicato stampa dell’Accademia di venerdì scorso?
A un accademico è prima di tutto richiesto di lavorare per il proprio paese con onestà e senso di giustizia, e ciò non è accaduto, se si è voltato lo sguardo davanti alla barbarie delle violenze sessuali e all’uso disinvolto del denaro pubblico. In Svezia, dove si è sensibili alla moralità pubblica, non si hanno dubbi: lo studioso di letteratura Horace Engdahl e il linguista Allén - non autosospesi - sarebbero gli accademici responsabili di questo inaudito sfacelo, con la loro folle cecità e «arroganza», come ha scritto l’autorevole quotidiano «Svenska Dagbladet». Già, «arroganza». I due avrebbero ignorato i consigli dei legali, oscurando così il buon nome dell’Accademia e della nazione.
Lo «Svenska Dagbladet» ha lamentato anche come la decisione di sospendere il Nobel per la Letteratura serva in realtà a dirigere i riflettori più sulla letteratura stessa che non sulle (così minimizzate) molestie subite dalle donne, che accusano Arnault. Questi sembra aver importunato perfino la principessa Victoria; e anche aver alimentato fughe di notizie sui vincitori per loschi interessi.
Il fatto è che il rinvio della proclamazione del vincitore del Nobel per la Letteratura al 2019 indica soltanto che un gruppo, quel gruppo, di membri dell’Accademia di Svezia, dove pure è prassi discutere con fervore, continua a tenerla bloccata saldamente con il proprio potere e come centro di potere da gestire.
Ricordiamo che la commissione ristretta del premio Nobel per la Letteratura controlla in Svezia anche la distribuzione delle numerose borse per gli scrittori meritevoli che ne facciano richiesta, con inevitabili ricadute sull’editoria e altre attività culturali ed economiche di quel paese.
Il muschio svedese che ’digerisce’ l’arsenico
Rende l’acqua potabile, in un’ora calo dell’80% *
ROMA. Un muschio capace di eliminare l’80% dell’arsenico dalle acque contaminate in appena un’ora, rendendo l’acqua nuovamente potabile. A scoprirlo i ricercatori dell’Università di Stoccolma.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Environmental Pollution. Il muschio acquatico capace di questo ’miracolo’ si chiama Warnstofia fluitans e cresce nel nord della Svezia. La scoperta apre la strada a una modalità amica dell’ambiente per purificare l’acqua. Un possibile scenario futuro è quello di far crescere questo muschio in torrenti e altri corsi d’acqua che contengono alti livelli dell’inquinante.
Nel 2004, in Svezia, nei manufatti prodotti con il legno è stato vietato l’uso del minerale, ma quest’ultimo ancora raggiunge i suoli e le falde acquifere a causa dell’attività mineraria. Il terreno e il sostrato roccioso svedese contengono infatti arsenico spontaneamente, che finisce nell’acqua da bere e in quella utilizzata per l’irrigazione. Le piante lo assorbono dal suolo e lo trasmettono ai cibi. In Svezia questo succede con il grano, gli ortaggi con le radici e le verdure a foglia verde.
"Il nostro scopo - dice Maria Greger, leader del gruppo di ricerca - è che il sistema umido basato sul muschio in via di studio riesca a filtrare l’arsenico prima che l’acqua diventi potabile e utilizzabile per l’irrigazione. In questo modo, l’arsenico non ce la farà ad arrivare nel nostro cibo".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A CARTESIO, PER MANDARLO ALL’INFERNO, UN’OSTIA ALL’ARSENICO DATAGLI DA UN PADRE AGOSTINIANO.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
Eu-ropa ed Eu-angelo. Una Riforma cosmologica ...
La politica dell’impossibile
DI ANDREA STAID (WORDPRESS, 16 GENNAIO 2017)
Lui che voleva scrivere per gli affamati, si rende conto che solo chi è sazio ha la calma necessaria per accorgersi della sua esistenza Stig Dagerman, 1945
La priorità per un antropologo è dubitare, cercare la semplicità e diffidarne. Una lettura che ci aiuta senza ombra di dubbio a fare questo sono gli scritti di Stig Dagerman. Grazie alla casa editrice Iperborea di Milano mi è arrivato tra le mani La politica dell’impossibile (2016, pp. 144, € 15,00) un piccolo libro ricco di saggi inediti estremamente interessanti di questo splendido socialista libertario del Novecento.
In questo libro troviamo alcuni articoli scritti da Dagerman tra il 1943 e il 1952, dove vengono trattate differenti tematiche, dalle questioni di politica svedese al pacifismo internazionale, ma la parte che ho trovato più interessante è quella dove prova a delineare il rapporto che può esserci tra lotta politica libertaria e scrittura. -Dagerman era alla ricerca di un equilibrio tra queste due istanze per lui vitali ma si rendeva conto della difficoltà di questa ricerca. Era convinto dell’importanza della poesia e della bellezza: “La poesia deve essere l’annuncio pubblicitario del mondo nuovo, ma se il testo è abbastanza gustoso può anche parlare dei piaceri dell’estate o della pesca ai gamberi ed essere ugualmente letteratura per il popolo”; non accettava i confini, non credeva nelle etichette e rifiutava le certezze vendute dai rivoluzionari di professione. Possiamo affermare che Stig Dagerman è stato nella sua breve vita un vero libero pensatore. Da coerente pensatore libertario non separava la teoria dalla pratica e in uno degli scritti presenti ne La politica dell’impossibile troviamo il racconto delle sue lotte politiche reali; una particolarmente simpatica e interessante la troviamo nel racconto
“Passeggiando per le strade di Klara, 1952” ovvero la storia di una nottata di piccoli sabotaggi di vetrine filo naziste. Un autore capace di dubitare, auto-criticarsi, ma anche con grandi certezze su l’esigenza di un cambiamento radicale libertario e con la convinzione che: “Incuneato nel blocco dello stato, l’individuo ha costantemente la dolorosa sensazione di un’impotente incertezza, come una scaglia di corteccia in un gorgo o un pesante vagone ferroviario attaccato a una locomotrice lanciata a tutta velocità, privo di qualsiasi possibilità di comprendere i segnali mentre si avvicina rapidamente agli scambi.”
Il suo posizionamento politico è certo e va di pari passo con la sua attività di scrittore che si schiera con la frangia degli eretici: “Combattere tutte le chiese, anche le chiese letterarie, e rifugiarsi in quella terra di nessuno che «è sempre stata l’unica patria del partigiano»”.
Ma chi era Stig Dagerman? Nasce in Svezia, ad Älvkarleby, un paese della contea di Uppsala, il 5 ottobre 1923. Vive un’infanzia abbastanza difficile e povera perché viene abbandonato dalla madre poco dopo la nascita e viene ospitato ed educato dai nonni paterni nella loro fattoria. Il padre infatti, anarchico appartenente alla classe operaia, non poteva occuparsi del figlio a causa degli impegni di lavoro (minatore, impiegato in un’azienda telefonica) che lo costringevano lontano da casa. Con i nonni riesce a vivere una vita serena e all’età di undici anni si ricongiunge con la figura paterna e sarà grazie a lui che entrerà in contatto a soli tredici anni con l’anarchismo e l’anarco-sindacalismo.
Diviene da giovanissimo un militante dell’‘Unione Sindacale Giovanile (Syndikalistiska Ungdomsförbundet), viene assunto prima come redattore del giornale Storm (La tempesta) ed in seguito di Arbetaren (L’operaio), organo del gruppo anarco-sindacalista Sveriges Arbetares Centralorganisation (SAC), per il quale pubblica articoli ed editoriali a sfondo politico e di cronaca (alcuni articoli li trovate in La politica dell impossibile tradotti per l’edizione italiana da Fulvio Ferrari).
Per Dagerman le redazioni dei giornali libertari saranno luoghi stimolanti in cui intrattenere rapporti con altri giornalisti, scrittori ed intellettuali svedesi; ma arriva un momento nella sua vita di scrittore in cui non gli basta scrivere soltanto su giornali militanti e comincia a pubblicare poesie e racconti, dando immediatamente prova del suo immenso talento. Gli eventi storici non lasciano indifferente Dagerman, un uomo capace di posizionarsi con estrema criticità sugli eventi a lui contemporanei, ma saranno due momenti della sua vita privata a cambiargli la vita e a farlo cadere in una spirale di depressione: l’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e la successiva morte della nonna colpita da una emorragia cerebrale.
Riesce a riprendersi lentamente dal suo stato depressivo e si trasferisce a vivere a Stoccolma dove nel 1943 sposerà la coetanea Annemarie Götze, esule anarchica tedesca e figlia di volontari che avevano partecipato alla rivoluzione spagnola del 1936-39. La scrittura diventa una vera ossessione e nel 1945 pubblica il suo primo romanzo, Ormen (Il serpente), avente per soggetto l’ansia e il timore esistente nel periodo post-bellico.
Da questo mometo decide di dedicare tutto il suo tempo alla scrittura non giornalistica, nel 1946 pubblicherà De dömdas ö (L’isola dei condannati), uno dei suoi lavori sicuramente più complessi e originali. In quello stesso anno però, come corrispondente del periodico “Expressen”, intraprenderà un viaggio nella Germania distrutta dalla guerra e produrrà un fantastico e toccante reportage nella miseria e umiliazione che stava vivendo il popolo tedesco che sarà pubblicato l’anno seguente nel volume Tysk höst (Autunno tedesco).
Continuerà a pubblicare anche negli anni seguenti una raccolta di racconti Nattens Lekar (I giochi della notte) e Bränt barn (Bambino bruciato), il suo romanzo più dolorosamente autobiografico, in cui confessa profondamente tutta la propria disperata inadeguatezza al vivere. La pubblicazione di Bambino bruciato lo immerge sempre di più in una profonda crisi esistenziale che lo porta al continuo rifiuto delle proposte di lavoro da parte dell’editore e ad una lunga depressione che terminerà con il suo suicidio, il 5 novembre 1954 alla giovane età di 31 anni.
Andrea Staid
Enrico III il re terzista
L’opera svolta dal sovrano francese per far cessare le guerre di religione
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 28.09.2015)
Enrico III (1551-1589) fu incoronato due volte: la prima come sovrano di Polonia (1573), la seconda come re di Francia (1575). Ma sul suo stemma di corone ne figurano tre, assieme alla scritta Manet ultima caelo , «L’ultima resta (ti attende) in cielo». Perché quel terzo ornamento per il capo del re, spesso dipinto come una corona di spine? Frances Yates, la studiosa inglese che a metà del Novecento è stata animatrice dell’Istituto fondato da Aby Warburg, rispose sostenendo che era, quello, un modo per dire che Enrico III, l’ultimo dei Valois, non badava alle glorie terrene, ma soltanto alla ricompensa celeste che avrebbe premiato la sua attività di sovrano. «La terza corona», scriveva Frances Yates, «simbolizza la corona spirituale che il re si sforza di meritare guidando il suo movimento religioso». Immagine e motto sarebbero legati alla «Controriforma contemplativa e non violenta» incoraggiata da Enrico in contrasto con i metodi della Ligue e dei settori cattolici più oltranzisti.
Nuccio Ordine ha adesso scritto un libro straordinario, Tre corone per un re (Bompiani), che - come si può evincere anche da un prezioso inserto iconografico con oltre centocinquanta immagini - si spinge più in là dell’interpretazione della Yates e ci racconta la storia di un sovrano che aspirò ad agire - di concerto con Elisabetta I d’Inghilterra - per porre fine alle guerre di religione. Tutto ciò in base a un’alleanza tra moderati cattolici e protestanti contro gli estremisti dei due schieramenti.
L’ultima corona, di spine, sarebbe stata il premio al «sovrano terzista» per questa complicata impresa. Compiuta, per di più, al riparo da ingerenze pontificie. Anzi, come scrive Marc Fumaroli in una prefazione colma di elogi al libro di Ordine, sancendo «l’intrinseca sacralità della regalità francese e il legame mistico che la collega direttamente a Cristo e a Dio». Impresa arricchita dal ricorso alle categorie di Machiavelli e dall’opportunità di usare, come «ambasciatore», Giordano Bruno, che ne riferirà ne Lo spaccio de la bestia trionfante (1584). Per quel che riguarda Machiavelli, furono le sue idee a raggiungere la corte francese.
Invece Bruno si mosse in prima persona. Dopo essere entrato in contatto e poi in una qualche confidenza con Enrico III - interessato in un primo tempo ad apprendere da lui le «arti del tenere a mente» (tant’è che il filosofo gli dedicherà, a mo’ di ringraziamento, il trattato di tecniche della memoria De umbris idearum ) - ed essersi fatto apprezzare per aver intuito il suo grande disegno politico, si sarebbe incaricato, o avrebbe ricevuto l’incarico, di spiegare il tutto alla regina Elisabetta: la terza corona - è il senso del messaggio - spetterà ai monarchi che sapranno fermare le guerre di religione. Il re lo nominerà lettore al Collège Royal, di cui il Collège de France avrebbe raccolto secoli dopo l’eredità. Fondata da Francesco I, «questa nobile istituzione aveva avuto soprattutto il compito di offrire agli studiosi anticonformisti quella libertà che la Sorbona non permetteva per via del suo rigido aristotelismo», puntualizza Ordine. Di lì poi Bruno si sarebbe recato in Inghilterra.
Del passaggio di Bruno da Parigi a Londra resta traccia in una lettera dell’ambasciatore inglese in Francia, Henry Cobham, del 28 marzo 1583: «Il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, di cui non so garantire la religione, ha l’intenzione di passare in Inghilterra». Inghilterra nella quale il «Nolano» non farà fatica ad entrare nelle grazie della regina. Giordano Bruno nel De la causa, principio et uno scriverà un elogio di Elisabetta grazie alla quale, solo il Tamigi, a differenza di tutti gli altri fiumi d’Europa insanguinati dalle guerre di religione («irato il Tevere, minaccioso il Po, violento il Rodano, sanguinosa la Senna, turbida la Garonna, rabbioso l’Ebro, furibondo il Tago, travagliata la Mosa, inquieto il Danubio»), era riuscito a scorrere «sicuro e gaio».
Nuccio Ordine, come spiega Fumaroli, ci guida in una spedizione antropologica alla scoperta di un’epoca di grande intelligenza, in cui non ci si domandava se i simboli facessero effetto o meno, «ma se la loro pregnanza poliedrica e polisemica bastasse a se stessa». Comunque, in questo contesto, «la questione della terza corona investe sul piano politico soprattutto i rapporti con l’Inghilterra... Il sogno di un terzo regno, infatti, viene accarezzato già a partire dal 1572, quando, su un piano strettamente diplomatico, si avviano le trattative per sancire l’alleanza tra le due monarchie, quella francese e quella inglese, attraverso il tanto discusso matrimonio di Francesco d’Alençon, il “terzo principe”, con Elisabetta I». Ecco che la «terza corona» sarebbe la realizzazione «dell’antico sogno di vedere tre regni governati dai tre eredi di Enrico II».
Nuccio Ordine mette in grande risalto un evento che segnò profondamente la Parigi dei Valois: il 15 ottobre del 1581 nella grande sala del Petit-Bourbon, la corte assiste alla più spettacolare delle feste date in onore del matrimonio tra il duca Anne de Joyeuse e Marguerite de Vaudémont, sorella della regina di Francia Louise de Lorraine. Per questa importante occasione, Enrico III aveva affidato a Balthasar de Beaujoyeulx assieme al poeta Nicolas Filleul (signore de la Chesnaye), al compositore Lambert de Beaulieu e al pittore Jacque Patin, l’incarico di organizzare il Balet comique de la Royne. Cinque ore e mezza di spettacolo, dalle dieci di sera alle tre e mezza del mattino, con brani musicali, versi, danze, canti, scenografie d’effetto e una sezione finale in cui venivano presentate 18 imprese.
Balthasar de Beaujoyeulx è in realtà il compositore italiano Baldassarre Baltazarini di Belgioioso, grande violinista che si era trasferito in Francia a metà del Cinquecento, grazie all’appoggio di Charles de Brissac, governatore e luogotenente generale del Piemonte. Qui lo avevano notato Enrico II e Caterina de’ Medici e dopo pochi anni era stato promosso a valet de chambre del re. Status che, in seguito alla morte di Enrico II (1559), aveva mantenuto al servizio di Caterina de’ Medici e di Maria Stuarda (quest’ultima era moglie di Francesco II, succeduto a Enrico II sul trono francese, dove sedette solo per pochi mesi tra il 1559 e il 1560). E, a proposito di Maria Stuarda, va ricordato che anche lei ebbe sul suo stemma tre corone, quella di Francia, quella di Scozia e, in cielo, quella d’Inghilterra: probabilmente, come è ben argomentato da Nuccio Ordine, fu a lei e alla sua «impresa» che si sarebbe ispirato Enrico III.
Ma torniamo a Beaujoyeulx, il quale era rimasto anche a fianco di Carlo IX (che aveva dieci anni quando divenne re nel 1560, tant’è che fu la madre, Caterina, a prendere in pugno le redini del regno), poi di Enrico III che, come si è detto, sarebbe stato dal 1574 al 1589 l’ultimo sovrano dei Valois. In altre parole, è qualcosa di più di un compositore di corte, è un personaggio di prima grandezza, implicitamente autorizzato ad esprimere le idee politiche dei sovrani che si avvalgono della sua esperienza. Il suo balletto costituisce un avvenimento di grande importanza politica. Il re di Spagna ne è tenuto informato dettaglio per dettaglio e lo stesso vale per la regina Elisabetta d’Inghilterra, che si fa descrivere dall’ambasciatore Henry Cobham anche i più minuziosi particolari di quel che è andato in scena. «Non si tratta certo di una curiosità puramente mondana», precisa l’autore.
Roy Strong in Arte e potere. Le feste del Rinascimento 1450-1650 (il Saggiatore) ha mostrato come, nella Francia delle guerre di religione, le feste di corte divennero «preziose occasioni politiche per risolvere i conflitti e favorire la pace tra fazioni nemiche». E Pierre Champion ha scritto che quelle «feste erano destinate tanto a mitigare i cuori quanto a ravvicinare le opinioni discordi». «In un mondo continuamente agitato dalle guerre di religione», sottolinea Ordine, «le feste diventano l’occasione per porre in risalto le straordinarie risorse di un regno in cui si trovano in abbondanza non solo coraggiosi soldati». Ma anche «grandi e sensibili spiriti», protesi a cercare equilibri di pace.
È interessante notare come nella rappresentazione compaiano riferimenti (ancorché non espliciti) al Principe di Niccolò Machiavelli. Laddove Enrico III, presentato come il «nuovo Giove», viene spalleggiato dalla regina madre e prende il ruolo che nella mitologia greca fu di Chirone, il centauro che aveva avuto come allievi - tra gli altri - Achille, Aiace, Enea, Eracle, Giasone e Teseo. Chirone è la perfetta sintesi tra la natura umana e quella ferina, le quali devono essere in grado di temperarsi l’una con l’altra. «Alla necessità di muoversi tra i contrari», spiega Ordine, «si aggiunge l’obbligo di saper dosare i farmaci (“rimedi”) per curare le malattie che funestano lo Stato». Tra i suoi allievi, in effetti, Chirone conta, oltre a quelli di cui si è detto, anche Esculapio (Asclepio), dio della medicina. E, per Machiavelli, l’arte della politica è soprattutto un rimedio, una cura dei mali, una difesa dalla disgregazione e dalla rovina.
Dunque, un Enrico III medico e politico. «Non a caso la fabula troverà il suo lieto fine proprio nell’intervento diretto del re di Francia, valoroso vincitore degli inganni e dei misfatti perpetrati dalla maga Circe». Ed è qui che torna il tema del «nuovo Giove»: il re di Francia si batte contro Circe per far ritornare l’età dell’oro e della giustizia. L’allegoria di Circe, ha scritto Jean Seznec in La sopravvivenza degli antichi dei (Boringhieri), «sembra potersi riferire in parte a ciò che è divino e soprannaturale e in parte a ciò che è naturale e morale». La maga partecipa delle due nature che l’hanno generata, il Sole e l’Oceanide Perseide. «Il Sole», prosegue Seznec, «naturalmente è la causa efficiente della procreazione di ogni cosa quaggiù con l’aiuto dell’umidità che deriva dalle acque che sono nelle vene della terra e lo stesso Sole significa allegoricamente la chiarezza e la luce della verità e scintilla divina che brilla nelle nostre anime», mentre il mare «nutre e produce il mantenimento del piacere». Di conseguenza «non sarà del tutto irragionevole ritenere Circe il piacere in generale che regna e domina su tutto ciò che ha vita ed è unito al divino e al terreno e produce effetti molto diversi conducendo gli uni alla virtù e gli altri al vizio». All’inizio della «commedia» la maga incanta e fa suoi prigionieri Mercurio e le ninfe. Subito dopo, Giove, Minerva e le Virtù preparano la sconfitta di Circe.
È in questi momenti che il Balet mette in scena «il conflitto tra la mutazione e la permanenza, tra la ragione e le passioni, tra l’essere e l’apparire, tra i vizi e le virtù». Spetta a Giove il compito «di ristabilire un ordine naturale e politico sconvolto dagli incantesimi di Circe», la quale si rende conto di aver perso la partita quando vede intervenire il padre degli dei (Giove-Enrico III) scendere in campo personalmente per difendere la Giustizia. Di qui si passa alla missione politica.
Dal libro di Ordine emerge come Giordano Bruno intendesse assegnare al re di Francia, mai apprezzato dagli storici quanto avrebbe meritato, «proprio quella triplice corona che sulla terra il supremo rappresentante della Chiesa di Roma riteneva di poter amministrare da solo». Con una sostanziale differenza, però: «La corona spirituale doveva rimanere in cielo in quanto idea, inviando sulla terra quelle corone di cui i re sapienti (come Enrico III ed Elisabetta I) si sarebbero serviti, all’interno di un orizzonte tutto mondano, per rafforzare la pace e cementare la coesione sociale».
È sufficiente rileggere gli elogi destinati nello Spaccio a Enrico III e Elisabetta I per ritrovare tra i due sovrani una serie di punti comuni: entrambi «aspirano alla pace, promuovono una politica di equidistanza dai settarismi religiosi e manifestano apertamente il loro amore per la giustizia e per il sapere». Per Elisabetta le cose furono relativamente più semplici. Il re di Francia, invece, costretto a confrontarsi con una situazione molto più difficile e turbolenta, dovette faticare non poco per provare «con tutti i mezzi ad opporsi alle fazioni rivali, mantenendo una posizione di equidistanza tra l’estremismo cattolico della Ligue e quello protestante degli ugonotti». Adattando alle nuove esigenze una strategia già inaugurata da sua madre, Caterina de’ Medici, all’indomani della morte di Enrico II: quella Caterina che «nella più totale indifferenza religiosa, bilanciava le forze rivali accordando concessioni e riconoscimenti giuridici solo in funzione degli immediati interessi della monarchia». Lo stesso fece Enrico III. E quello della cultura era il campo ideale per diffondere la sua idea di un mondo nuovo che andasse oltre le guerre di religione e consentisse alla Francia di non esserne travolta.
L’opera di un poeta ostile alle fazioni estremiste e perciò molto amato dalla famiglia del re, Pierre de Ronsard, fu tradotta in inglese e utilizzata a Londra «per mettere in rilievo le disastrose conseguenze delle guerre civili». Certo, questo avveniva dopo che erano stati censurati i passaggi antiprotestanti. Ma ciò non ha importanza. L’importante è che le pagine di un letterato cattolico poterono essere utilizzate in un ambiente protestante «che lottava a favore di soluzioni pacifiche e contro i fanatismi religiosi». Forse il significato più recondito della corona dell’ultimo re Valois sta appunto nell’essere «terza».
Profumo: l’ora di religione cambi. Gli studenti hanno culti diversi
Il cardinale Ravasi: il Concordato prevede che resti cristiana
di M. Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 26.09.2012)
ROMA - Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, a pochi mesi dalle elezioni, lancia l’idea di «cambiare l’ora di religione». «Credo che il Paese sia cambiato, nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e Paesi diversi. Credo che si debba modificare il modo di fare scuola, che debba essere più aperto». «Ci vuole - aggiunge - una revisione dei nostri programmi in questa direzione». «Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica» aveva già affermato Profumo venerdì sera, alla festa di Sinistra, ecologia e libertà. Stessi concetti ribaditi ieri. «Un discorso - ha precisato dopo qualche ora il ministro dopo che ieri sono scattate più forti le polemiche da parte cattolica -, che vale per l’ora di religione, ma anche per quella di geografia, che, secondo Profumo, si può studiare ascoltando le testimonianze di chi viene da altri Paesi».
La parziale marcia indietro non ha però placato le proteste dei rappresentanti del mondo cattolico. E in serata dal Vaticano è arrivato lo stop del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. «Il Concordato prevede che l’ora di religione resti cristiana», ha dichiarato Ravasi. Anche perché dai microfoni di Radio Vaticana il vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio, presidente della Cei per l’educazione cattolica obietta: «L’ora di religione non è di certo una lezione di catechismo». Contrario anche il centrodestra.
D’accordo con Profumo, Hamza Piccardo, portavoce dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii): «Il ministro ha aperto una pentola che ribolle». D’accordo col ministro anche il Partito democratico, il sindacato scuola Flc-Cgil, l’Idv, Sel e i grillini, oltre ai radicali e la Rete degli studenti medi. Mentre lo Snadir (Sindacato autonomo degli insegnanti di religione) ha ricordato al ministro di aver appena firmato «due intese riguardanti l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e le indicazioni didattiche senza aver letto con attenzione ciò che ha sottoscritto».
Intanto, con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale, prende il via il concorso a posti e cattedre, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento del personale docente nelle scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado. E anche qui non sono mancate le polemiche.
Al concorso nazionale che sta per partire possono partecipare i docenti che hanno conseguito almeno un’abilitazione all’insegnamento entro quest’anno. Oppure che abbiano conseguito la laurea alla data del 22 giugno 1999. Inoltre, ma solo per le scuole primarie e dell’infanzia, «i candidati in possesso del titolo di studio comunque conseguito entro l’anno scolastico 2001-2002, ovvero al termine dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell’istituto magistrale, iniziati entro l’anno scolastico 1997-1998». L’iscrizione avverrà online, a partire dal 6 ottobre e fino alle ore 14 del 7 novembre 2012. Si tratta di un test con 50 quesiti, di logica, comprensione, lingua straniera e informatica, appunto. La seconda prova «scritto-pratica» sarà invece su base nazionale. Con quesiti a risposta aperta «finalizzati a valutare la padronanza delle competenze professionali nonché delle discipline oggetto di insegnamento». La terza prova sarà tecnico-pratica, e prevede anche una lezione prova.
Il Dio sconosciuto dei cristiani
Napolitano e Ravasi si confrontano al Cortile dei Gentili
di Armando Torno (Corriere delal Sera, 26.09.2012)
Il Cortile dei Gentili il 5 e il 6 ottobre si terrà ad Assisi. Dopo gli incontri di Stoccolma (13 settembre), si aprono ora numerosi dialoghi nella casa di Francesco, uno dei protagonisti del cristianesimo amato dai credenti di ogni confessione. E anche da chi si professa ateo o agnostico. In questo anno della fede la scelta della città umbra, luogo che è diventato sinonimo di pace, è carica di significati. D’altra parte, l’invito di papa Benedetto XVI è stato concretizzato dal Cortile dei Gentili con questi eventi: con essi si desidera «raccogliere e dare forma al grido spesso silenzioso e spezzato dell’uomo contemporaneo» verso Dio. Che, per un numero crescente di persone, rimane uno «sconosciuto».
Il presidente Giorgio Napolitano, in un confronto con il cardinale Gianfranco Ravasi condotto da Ferruccio de Bortoli, sarà il primo interlocutore di queste due giornate che hanno come tema appunto Dio, questo Sconosciuto. Un titolo che, nato nell’ambito del Pontificio consiglio della cultura, ha in sé una lieve provocazione e, al tempo stesso, riflette una problematica. Del resto, questo primo incontro avrà come protagonisti un laico, con una storia politica ricca di impegni e di ideali, e un cardinale studioso della Bibbia, che con questo Cortile sta invitando i credenti a dialogare con personalità distanti e sensibilità che si sono formate a prescindere dalla fede. Il conduttore Ferruccio de Bortoli porrà le domande sia a Napolitano che a Ravasi, portando le due esperienze in una sorta di zona franca, dove potranno parlare del loro rapporto con Dio senza preoccupazioni dei rispettivi ruoli istituzionali. Sono protagonisti che hanno molto da dire sull’argomento di apertura degli incontri, e quasi sicuramente non mancheranno sorprese.
Lo stesso Ravasi ci ha confidato: «Col tema, Dio, questo Sconosciuto, vogliamo invitare tutti ad alzare lo sguardo oltre le frontiere di quello che offre l’orizzonte quotidiano, verso quello che noi credenti chiamiamo Dio e che i non credenti possono chiamare il "mistero"». Parole che hanno in sé anche un invito, quasi una sorta di superamento di taluni luoghi comuni. Così come la nostra mente cerca di catturare conoscenza lanciando reti nervose verso ciò che ignora, allo stesso modo occorre andare al di là dei limiti delle visioni quotidiane per entrare in contatto con qualcosa che ci consenta di riflettere su Dio, indipendentemente dalla fede che ci portiamo appresso.
Prosegue Ravasi: «La figura di San Francesco è emblematica perché da un lato racchiude, nel suo stesso corpo ferito dalle stimmate, la sua unione intima con Cristo nella fede; ma, d’altro lato, il suo messaggio e la sua opera coinvolgono i temi capitali dell’esistenza e della storia, dalla povertà al creato, dalla pace al dialogo tra i popoli, dalla vicinanza alle sofferenze fino alla gioia del canto libero e sereno».
Non a caso ad Assisi ci saranno anche dibattiti su problemi contingenti (Franco Bernabè, Susanna Camusso e Mario Orfeo alle 21 del 5 ottobre parleranno di Lavoro, impresa e responsabilità) e il tutto sarà chiuso alle 17 del 6 ottobre da un dialogo tra lo stesso cardinale Ravasi e il ministro Corrado Passera. Saranno toccate anche le questioni dei giovani, della Terra, della crisi economica eccetera. E si avvicenderanno filosofi (Umberto Galimberti e Giulio Giorello, per esempio), registi (Ermanno Olmi), scienziati (Umberto Veronesi), architetti (Massimiliano Fuksas). Né mancheranno giornalisti: Monica Maggioni e Aldo Cazzullo, per esempio.
«Nel cortile di Francesco divinità e umanità s’incrociano in armonia, e forse Dio diventa meno sconosciuto», aggiunge sua eminenza alla fine. Viene alla mente, congedandoci, una frase di Robert Musil ne L’uomo senza qualità: «Se questa libertà da Dio non fosse altro che la via moderna verso Dio?».
L’elenco completo dei dibattiti e i nomi di tutti i partecipanti all’incontro di Assisi si può trovare consultando il sito: www.cortiledeigentili.com
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)
Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.
Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.
Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.
Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.
La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.
Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.
Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.
Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.
Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.
Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia
di Immanuel Kant *
Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.
L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.
Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.
Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.
Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.
Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.
Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.
Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.
Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.
Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.
Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.
Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.
Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.
Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.
*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.
Il Cortile dei gentili in Svezia, nella terra degli atei
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 9 settembre 2012)
L’esperienza del «Cortile dei Gentili» per il dialogo tra persone di fede e non credenti ha percorso in un arco di tempo piuttosto breve un itinerario molto variegato, con tappe dalle tipologie più diverse e talora persino sorprendenti e inattese. Quello che si celebrerà a Stoccolma sarà, però, un evento dai contorni del tutto inediti, e questo sostanzialmente per due ragioni. Da un lato, infatti, ufficialmente la Svezia è un Paese luterano, segnato da una tradizione religiosa rigorosa e fin rigida che ha avuto spesso ritratti severi ma intensi nella filmografia di Ingmar Bergman, il regista ’teologo’ ateo, capace di rappresentare davanti al mondo il tormentato travaglio della stessa Chiesa luterana (si pensi, tanto per esemplificare, ai film Luci d’inverno e Fanny e Alexander). Bisogna anche riconoscere che le due celebri università di Uppsala e di Lund hanno rappresentato e ancor oggi incarnano un modello alto di ricerca teologica e di dialogo.
Risulta, perciò, particolarmente significativo che - sia pure con tutte le difficoltà che il confronto ecumenico sta vivendo - un progetto della Chiesa cattolica sia stato accolto con interesse e partecipazione anche da alte personalità della stessa confessione luterana, a partire da Antje Jackelén, una professoressa dell’università di Lund che è anche vescovo di quella città. Anzi, scrivendomi una lunga lettera nei mesi scorsi, mi invitava a una collaborazione permanente con un’associazione teologica per la tutela del creato da lei presieduta.
Naturalmente non mancano anche presenze di personalità di altre comunità religiose, tenendo conto della molteplicità di etnie, culture, spiritualità che popolano la Svezia contemporanea: vorrei citare, ad esempio, Linnea Jacobsson che rappresenta una delle varie ’Chiese libere’ svedesi e la musulmana Fazeela Zaib.
D’altro lato, è ben nota la dilagante secolarizzazione che ha investito un po’ tutte le nazioni scandinave, ove la frequenza al culto è ridotta a percentuali irrisorie e lo standard di vita e le concezioni dominanti sono del tutto spoglie di rimandi religiosi o trascendenti. Per questo i due grandi momenti dell’incontro di Stoccolma, quello di giovedì 13 settembre all’Accademia Reale delle Scienze sul tema «Il mondo con o senza Dio» e il successivo del 14 settembre alla Fryshuset, sempre sullo stesso soggetto ma con un pubblico giovanile, hanno visto subito l’adesione di una serie di figure significative ’laiche’, talora anche marcatamente atee.
Devo, comunque, riconoscere che l’ex-Commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani, Thomas Hammarberg, non credente, che parteciperà all’incontro, mi esprimeva in modo netto la sua diffidenza nell’usare termini come ateo, agnostico, non credente perché «noi tutti abbiamo in qualche modo una fede».
Questo evento - che sarà certamente arduo e che mi permetterà di incontrare personalità diverse di un orizzonte piuttosto lontano dal mondo cattolico e dalla stessa cultura mediterranea (avrò anche una serie di visite alle autorità politiche svedesi, a partire dal mio omologo, la ministra della Cultura Lena Adelsohn Liljeroth) - rivela comunque una vivacità, una libertà e una creatività inaspettate e un desiderio di confronto fuori dai temi «politicamente corretti» che sono una sorta di pane quotidiano per la società svedese.
Infatti, durante una serie di interviste previe che ho rilasciato al maggior giornale di Stoccolma e alla televisione di Stato, i miei interlocutori hanno manifestato la loro sorpresa che si trattassero argomenti considerati al massimo come personali e accuratamente esclusi dall’agenda degli interessi pubblici. Eppure la cultura svedese continua a interrogarsi sulle questioni alte ed estreme dell’essere e dell’esistere.
Molti in Italia devono essere grati all’editrice milanese Iperborea che ha aperto alcuni squarci di grande qualità attraverso il suo importante catalogo di traduzioni scandinave. Io stesso, che in passato avevo visitato una sola volta la Svezia, ho ora la possibilità di non sentirmi del tutto estraneo in quell’orizzonte proprio per gli autori che venivano proposti da quell’editrice, perché essi incarnavano l’anima profonda di quel popolo, al di sotto della superficie introdotta dalla globalizzazione.
Proprio sul tema che sarà al centro del «Cortile» di Stoccolma mi sembra suggestivo evocare una trilogia di figure letterarie emblematiche. La prima è un autore di culto in Svezia, il narratore e drammaturgo Stig Halverd Dagerman. Aveva solo 31 anni, era già al culmine del successo, ma il 4 novembre 1954 si tolse la vita. Il suo primo romanzo, Il serpente (1945), si ispirava all’esperienza devastante e alienante della vita militare, capace di creare il deserto nella coscienza.
Il secondo, L’isola dei condannati (1946), aveva come simbolo centrale appunto un’isola desolata, approdo agghiacciante di sette condannati. Il filo conduttore spirituale era costante e avrebbe sempre dominato sia la sua anima sia le sue pagine: l’angoscia e la paura distruggono la vita; l’unico, misero scampo è la consapevole accettazione della loro inevitabilità, un po’ alla maniera kafkiana. Ebbene, in un altro suo libro, Il nostro bisogno di consolazione, si fa strada invece la domanda religiosa. Ecco un passaggio molto significativo. «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un Dio né un punto fermo sulla Terra da cui poter attirare un Dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose in cui io dubito e sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero anche me».
La seconda testimonianza affiora dalla storia personale di uno degli scrittori svedesi contemporanei più noti e dalla sua autobiografia alla terza persona Un’altra vita, tradotta sempre da Iperborea. Si tratta di Per Olov Enquist, il cui racconto parte dal 1934 in uno sperduto villaggio puritano della Svezia settentrionale, nel silenzio glaciale e immutabile delle nevi e del cielo stellato, e procede percorrendo l’Europa con la storia tormentata del secondo Novecento. Ebbene, una delle tappe di questo itinerario, che vede anche l’abiezione nell’alcolismo, è quella della perdita della fede, instillata dalla madre, maestra elementare, nel cuore e nella carne del figlio. Ma a un certo punto questa matrice così radicata lentamente si dissolve: non è un trauma etico o metafisico o storico a creare questa dissipazione, ma è un puro e semplice ’scivolar via’.
Scrive Enquist: «La ferma convinzione religiosa, la sua angoscia, la sua fiducia, il suo senso del peccato, tutto scivola via molto lentamente nella laicità e si confonde fin quasi a sparire. Quello che una volta era importante, ora sembra lontano. Non è una rottura drammatica, scivola solo via». È l’insensibile passaggio dalla religiosità luterana (ma è accaduto così anche a molti cattolici) all’indifferenza, un fenomeno - come sopra notavamo - dominante nella società attuale scandinava. Le parole della fede progressivamente perdono di senso e soprattutto non hanno più riscontri vitali.
Abbiamo, quindi, due tipologie di ’Gentili’: da una parte, il non credente tormentato e colmo di interrogativi; dall’altra, l’ingresso nella quiete opaca dell’indifferenza religiosa. C’è, però, un terzo personaggio, uno scrittore originale e ammirato, eletto tra gli Accademici di Svezia, Torgny Lindgren.
Di lui ho letto con grande partecipazione una trilogia di romanzi veramente affascinanti, Betsabea, che è la ripresa della celebre vicenda biblica del re Davide innamorato follemente (fino a commettere adulterio e omicidio) di questa donna, le parabole narrate dal sarto Morlin nei villaggi e raccolte nella Bellezza di Merab, e infine la contemporaneità fittizia di un mondo che ruota attorno al falso, al commercio, all’inganno con la curiosa vicenda del corniciaio intellettuale Theodor Marklund, e dell’amato dipinto La Madonna del pugnale di Nils Dardel, nel romanzo Per amore della verità.
Lindgren è credente e, per di più, cattolico e la finale della terza opera che ho citato suona così: «Avrei potuto astenermi da tutto questo scrivere, avrei potuto accontentarmi del messaggio che aveva inciso lui col suo temperino. SIA LODATO IL SIGNORE». È, dunque, la testimonianza di una fede ’cantata’ e appassionata, coi suoi segni e simboli d’arte e di spiritualità, una volta, primaria in Svezia e ora minoritaria ma ancora viva e intensa (tra l’altro la comunità cattolica ha una presenza incisiva nella società e nella cultura di quel Paese, nonostante la sua esigua presenza, soprattutto attraverso i gesuiti che hanno anche una loro università).
Questi tre personaggi che ho voluto evocare mostrano che il retroterra spirituale di quel popolo non si è inaridito e, quindi, l’esperienza del «Cortile dei Gentili» a Stoccolma - che è stata delineata e organizzata con straordinaria intelligenza e passione dall’ambasciatrice Ulla Gudmunsson, accreditata presso la Santa Sede, molto legata al dicastero che presiedo - potrà avere una sua accoglienza e fecondità. Dopo tutto, non aveva tutti i torti Nietzsche quando, nel Crepuscolo degli dei (1888), scriveva che «solo se un uomo possiede una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo».