Dag Hammarskjold |
Dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sulle croci in aula, quale visibilità per le religioni nello spazio pubblico?
Due intellettuali riscoprono una proposta «spirituale» del politico (cristiano) Hammarskjöld
Ossola: «Luoghi dell’anima» contro il deserto religioso
«Per superare il vuoto spirituale sancito dalla Corte europea, istituiamo negli ambienti pubblici - per concorso - una stanza per le fedi, impreziosita dalla bellezza dell’arte»
DI CARLO OSSOLA (Avvenire, 30.12.2009)
In luogo di abolire il Crocifisso, occorrerebbe moltiplicare i luoghi di raccoglimento. Conosco almeno due luoghi - ma altri esistono certamente - nei quali questo convergere al centro di noi stessi nel raccoglimento e nella meditazione ha spazio proprio.
Uno, il più emblematico, è nel palazzo delle Nazioni Unite a New York; lo volle il segretario generale Dag Hammarskjöld (uomo di alta spiritualità: le sue Tracce di cammino edite in Italia da Qiqajon, tradotte in tutte le lingue, sono una summa della sapienza del cuore) e lo inaugurò con queste parole:
«Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio.
Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera.
Qui si incontreranno persone di fedi diverse, e per questo motivo non si potrà usare nessuno dei simboli cui siamo abituati nella nostra meditazione. Esistono però cose semplici, che parlano a tutti noi nella stessa lingua. Abbiamo cercato questo tipo di cose, e crediamo di averle trovate nel raggio di luce che colpisce la superficie scintillante della roccia massiccia.[...]
La luce del cielo dà la vita alla terra su cui tutti ci troviamo: un simbolo, per molti di noi, di come la luce dello spirito dà vita alla materia. Ma la roccia al centro della sala ci dice anche altro. Possiamo vederla come un altare, vuoto non perché non vi sia un Dio, non perchè si tratti di un altare ad un dio sconosciuto, ma perché è dedicata al Dio che l’uomo adora dandogli molti diversi nomi e molte diverse forme.[...]
Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete».
L’altro, di simile natura, è la Sala de Reflexió, 1996, di Antoni Tàpies nel cuore della Universitat Pompeu Fabra, Campus de la Ciutadella, Barcelona.
Sarebbe necessario che in ogni «luogo plurale » (aeroporti, ospedali, tribunali, eccetera, come già in parte avviene) ci fossero queste sale di raccoglimento - proprio per evitare che la cancellazione di ogni simbolo porti appunto ai «non-luoghi » nei quali viviamo, denunciati da Marc Augé.
Vigerebbe, tra l’altro, per l’Italia, la Legge 29 Luglio 1949, n. 717 [e DM applicativo 23 marzo 2006]: «Norme per l’arte negli edifici pubblici»; essa prevede all’art.
1: «Le Amministrazioni dello Stato [...], nonché le Regioni, le Province, i Comuni e tutti gli altri Enti pubblici, che provvedano all’esecuzione di nuove costruzioni di edifici, pubblici ed alla ricostruzione di edifici pubblici, distrutti per cause di guerra, devono destinare all’abbellimento di essi mediante opere d’arte una quota non inferiore al 2%, della spesa totale prevista nel progetto».
La Legge è disattesa. Sarebbe semplice applicarla ed aprire, per ogni nuovo edificio pubblico - scuole comprese - un concorso tra artisti perché progettino un «Luogo dell’anima»; ognuno vi potrà portare la propria speranza, la propria angoscia, la propria domanda di senso. Il bello e la dignità dell’umano unirebbero la loro crescita; altrimenti vale l’adagio antico, riconoscibile nella sentenza di Strasburgo: ubi desertum faciunt pacem appellant.
Cardia: ma la gente cerca i simboli del proprio credere
«Positive le ’sale dello spirito’ nei palazzi internazionali. Mentre negli spazi del vivere comune è meglio non dare spazio a generici afflati spiritualistici»
DI CARLO CARDIA (Avvenire, 30.12.2009)
L a proposta di Carlo Ossola è senz’altro originale e suggestiva, e potrebbe trovare positiva applicazione soprattutto nei grandi complessi internazionali dove sono presenti e lavorano continuativamente uomini e donne di tutte le fedi, e nei quali il bisogno di un luogo di raccoglimento può essere avvertito, e appunto soddisfatto positivamente. Non a caso, la citazione più importante il prof. Ossola la riserva al palazzo delle Nazioni Unite, dove la sala di meditazione è stata realizzata per impulso di Dag Hammarskjöld.
Più difficile, e non esente da qualche rischio, l’ipotesi di estendere l’esperienza un po’ in generale ad « aeroporti, ospedali, tribunali, eccetera. » per due ragioni. In ospedali e tribunali è assai dubbia l’utilità di una struttura del genere, dal momento che i degenti se hanno bisogno di un conforto, questo è il conforto della propria religione, non di un luogo astrattamente dedicato alla meditazione, mentre nei tribunali la maggior parte delle persone sono di passaggio (un passaggio molto differenziato, avvocati, giudici, imputati, eccetera.).
Più in genere, però, occorre tener presente che nelle diverse nazioni, nelle strutture ordinarie della vita sociale, l’esigenza di cui parla Ossola è radicata nella propria religione di appartenenza (di quella maggioritaria, e delle altre di minoranze) e ciascuna di esse è incarnata (se così può dirsi) nei luoghi, nelle immagini, nei simboli specifici che le sono propri.
Pensare che in una scuola di un paese cattolico, o di uno buddista, o di uno islamico, le persone accettino di inverare il legame personale con la propria chiesa in un luogo vuoto di simboli e segni, nel quale il vuoto stesso voglia rappresentare ciò che non può dire, mi sembra collida con alcuni profili della psicologia elementare religiosa.
Incidentalmente, si può rilevare che il riferimento alla legge del 1949 che prevede la destinazione del 2% delle spese per l’abbellimento con opere d’arte degli edifici pubblici non sembra afferente alla proposta di cui si parla. Giustamente, Carlo Ossola precisa in apertura del suo intervento che non bisogna abolire il Crocifisso. Ed in effetti la sua proposta non è alternativa alla presenza del Crocifisso (o ad altro simbolo religioso), ma si presenta come aggiuntiva in un mondo nel quale la complessità, e la velocità, della vita quotidiana toglie spazio e tempo a quel bisogno di intimità spirituale che gli uomini avvertono in diversa maniera.
Occorre, quindi, riflettere sulla sua « fattibilità » soprattutto nei luoghi e negli spazi nei quali può essere utile, tenendo presente comunque l’esigenza che non venga utilizzata o strumentalizzata (oggi tutto è possibile) per altre finalità, come quella di diluire il bisogno religioso in un più generico afflato spiritualista proprio delle filosofie moderne di più vago tenore teista o trascendentalista. Non è questo, certamente, lo spirito della proposta che ho commentato, però è bene coglierne tutti gli aspetti positivi, insieme ad eventuali sia pure ipotetici rischi di utilizzazione strumentale.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Pensiero e azione pubblica /
Hammarskjöld: la Buona politica
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 ottobre 2021).
Il 18 settembre del 1961, in un incidente aereo molto sospetto e mai chiarito, vicino all’aeroporto della città di Ndola, dove si stava recando per cercare una soluzione alla crisi provocata dall’insurrezione indipendentista del Katanga dopo la dichiarazione d’indipendenza del Congo, morì l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Sull’incidente non è stata ancora fatta chiarezza, nonostante la pubblicazione in anni recenti di un’accurata ricerca (cfr.Susan Williams, Who Killed Hammarskjöld? The UN, the Cold War and White Supremacy in Africa, 2011) abbia spinto l’ONU ad aprire una nuova indagine.
Negli anni Sessanta, d’altra parte, non ci si facevano molti scrupoli ad eliminare personaggi scomodi, come ad esempio il monaco trappista Thomas Merton, grande e influente oppositore della guerra nel Vietnam, morto nel 1968 in un inspiegabile incidente ancora avvolto nel mistero. Un mistero che ancora avvolge la morte di Enrico Mattei nel 1962 e gli assassinii tutt’altro che chiariti dei due Kennedy (1963 e 1968), di Martin Luther King (1968) e di Malcom X (1965), per citarne alcuni. Capitava allora che, col pretesto di difendere dei grandi ideali, organizzazioni segrete appoggiate dai vari Stati procedessero senza molti scrupoli morali alla soppressione degli avversari economici o politici, o alla destabilizzazione di interi Paesi... ma certo oggi non accade più.
E, comunque, esiste un modo diverso d’intendere la politica internazionale, perché c’è un codice etico a cui si deve e si può informare ogni azione politica e ci sono uomini politici che ancora concepiscono la loro attività come una responsabilità e un servizio da rendere all’umanità. Tra questi va annoverato Dag Hammarskjöld. Di lui e del suo modo d’intendere la politica tratta il saggio di Roger Linsey, Hammarskjöld: etica e politica uscito presso l’editore Qiqajon che già ne aveva pubblicato diversi anni fa il diario personale (Tracce di cammino, a cura di Guido Dotti). L’autore, studioso e biografo di Hammarskjöld, in questo libro vuole evidenziare il legame che emerge - nei suoi discorsi e negli scritti, sia pubblici che privati, qui citati ampiamente - tra la vita interiore di Hammarskjöld e la sua azione politica. Ma vuole anche, come appare più chiaramente nel titolo in lingua originale del libro, Politics and Conscience. Dag Hammarskjöld on the Art of Ethical Leadership, presentare ai lettori la visione di Hammarskjöld, lungimirante e ancora molto attuale, riguardo alle caratteristiche personali e umane necessarie a un leader che voglia agire seguendo principi etici e non soltanto interessi di parte.
In quanto capo di un’organizzazione internazionale volta ad evitare che si ripetessero tragedie come quelle delle due guerre mondiali, trovandosi ad agire in un’epoca di grandi incertezze, in piena Guerra Fredda, sotto la minaccia incombente di una catastrofe nucleare, Dag Hammarskjöld riteneva suo compito assoluto promuovere il dialogo tra le nazioni e la pace.
Perseguiva questi obiettivi, sottolinea Lipsey, con i tradizionali strumenti dell’azione diplomatica - pazienza, perseveranza, astuzia - aggiungendovi, come elemento non secondario e strumentale, ma come parte sostanziale dell’attività legata al suo ruolo politico internazionale, una serie di attitudini e atteggiamenti che nell’insieme venivano a delineare un vero e proprio codice etico al quale riteneva dovesse conformarsi ogni azione politica. E le radici di questo codice dovevano trovare il proprio fondamento nella qualità della vita interiore della persona, perché una buona politica non può prescindere dalle qualità morali dei leader.
Coraggio e prudenza, ma anche maturità intellettuale e psicologica, conoscenza di se stessi e consapevolezza delle proprie debolezze e delle proprie forze, riteneva fossero tutte caratteristiche ugualmente necessarie a chi si voleva impegnare nel vischioso campo della politica. «Il nostro lavoro per la pace - affermava in un discorso del 1953 - deve iniziare dal mondo privato di ciascuno di noi. Per costruire per l’uomo un mondo senza paura, non dobbiamo avere paura noi. Per costruire un mondo di giustizia, noi dobbiamo essere giusti. E come possiamo batterci per la libertà se non siamo liberi nella nostra mente? Come possiamo chiedere agli altri di sacrificarsi se noi non siamo pronti a farlo?».
Una buona politica deve essere etica e non può limitarsi a difendere qualche interesse, né può essere garantita «in un mondo dove il valore di mercato di un politico alla borsa dell’opinione pubblica sale e scende in base all’effetto che fa ogni giorno attraverso i titoli dei giornali» o, diremmo oggi, dei like che accumula sui social. Per una buona politica occorre conoscere e comprendere l’uomo e la sua psiche, perché solo così «saremo in grado di diminuire i pericoli della paura e del sospetto e del comportamento irrazionale che ne deriva». Alcuni nella società hanno una responsabilità per la quale è necessario molto di più dell’intelligenza, bisogna avere a cuore il bene degli altri, volere prendersi cura del mondo, ognuno nel suo ambito, piccolo o grande che sia: «Chi è chiamato a essere insegnante o leader può trarre profitto dall’intelligenza, ma può solo giustificare la sua posizione con l’integrità».
C’è un codice morale a cui attenersi. Ogni epoca, ogni civiltà ha il suo, ma chiunque comprende senza difficoltà che vi sono anche valori e atteggiamenti che stanno alla base di ogni codice, che travalicano tempo e culture. Perché altrimenti ci sembrerebbero ancora importanti i discorsi di Pericle sulla democrazia? O come ci potrebbero sembrare ancora significativi gli scritti di Marco Aurelio, il cui spirito riecheggia nella risposta data da Hammarskjöld a un giornalista che gli domandava quali fossero, secondo lui, le principali qualità di un funzionario internazionale: «Dovrebbe darmi un po’ di tempo per pensarci. Di primo acchito, però, direi che tra queste qualità ci sia una consapevolezza acuta e una quiete interiore. E anche una certa umiltà...».
Dag Hammarskjöld si era formato, come persona e come uomo politico, leggendo «un insieme di testi formidabili, che plasmarono il suo approccio all’identità umana e gli insegnarono a vivere la sua vita pubblica a partire dalla sua interiorità»: la Bibbia, i mistici medievali, i testi religiosi classici dell’india e della Cina, i saggi di Albert Camus e di Martin Buber, il filosofo del dialogo e suo grande amico. Uomo d’azione ed esperto di dottrine politiche, Hammarskjöld ricorda quei grandi politici, rari nel passato e forse ormai scomparsi, per i quali pensiero e azione pubblica erano tutt’uno; o, meglio, la cui azione era ispirata e diretta da profonde convinzioni interiori e da obiettivi che andavano ben al di là dell’immediato, non di rado al di là del limite della loro vita.
Un’apertura sul futuro, tipica di chi ama i grandi orizzonti dello spirito, che gli fece intuire, ben prima della globalizzazione, l’interdipendenza degli uomini e delle nazioni. Le Nazioni Unite, sosteneva, «dovranno capire - e sfidare - la paura che motiva gran parte dell’azione umana, la paura che è il nostro peggior nemico, ma che, per qualche ragione, sembra contaminare qualche angolo del cuore di ogni uomo». Che pessima consigliera si sta dimostrando anche nei nostri anni la paura! E tuttavia il mondo può cambiare, piano piano; in fondo bastano pochi giusti in ogni generazione per provocare un contagio dell’eccellenza che faccia da contraltare al contagio della corruzione, un contagio della ragione che argini l’irrazionalità, della fiducia che sconfigga la paura. «Coloro che non osano affrontare i fatti fondamentali dell’interdipendenza internazionale si perdono. Coloro che permettono alle sconfitte di spaventarli sino a farli tornare a un punto di partenza di stretto nazionalismo si perdono. Si perdono, infine, coloro che sono così spaventati da una sconfitta da disperare per il futuro. Per tutti questi possono essere giustificate le buie profezie». Ma non per noi.
"ADAMO", "ABRAMO", I TRE MONOTEISMI, L’ONU, E LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE ... *
Aquarius: se io fossi Papa, scomunicherei Matteo Salvini
di Paolo Farinella, sacerdoye (Il Fatto quotidiano, 12 giugno 2018)
Finita la civiltà occidentale, è iniziata l’inciviltà di Salvini Matteo, segretario della Lega non più secessionista ma a vocazione planetaria, (vice)Presidente del Consiglio dei ministri in atto e cattolico «coerente» (l’ha detto lui medesimo in persona!), in risposta al cardinal Gianfranco Ravasi che twittava il Vangelo di Matteo al capitolo 25,43: «Ero straniero e non mi avete accolto». La motivazione della coerenza cristiana di Matteo Salvini: «Ho il rosario in tasca, io coerente con gl’insegnamenti del Vangelo».
È il capovolgimento di ogni ordine e principio. Se avere un oggetto in tasca è segno di coerenza, chi porta le «Madonne ripiene» di Lourdes, le immagini dei Padri Pii e armamentari di questo genere, cosa è? Un padre/madre eterno in terra?
Se io fossi Papa, lo scomunicherei in forza delle sue stesse parole che sono un insulto a tutto l’insegnamento evangelico, tenuto conto che per un ministro della Repubblica Italiana, fresco di giuramento «di servire con disciplina e onore», dovrebbe essere ininfluente l’aspetto, finto o vero che sia, della religione perché bastano e avanzano i principi della Costituzione che anche Salvini difese nel referendum del 2016, le leggi e i trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia e la legge della coscienza che su tutto fa prevalere l’umanità e il pericolo imminente di vita.
Nella creazione, «Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Gen 1,4-5), ora le tenebre prendono il posto del giorno come se niente fosse.
Mi ribello a questa ignominia che, come scrive Lucia Annunziata su Huffington Post, ci riporta indietro di 72 anni minimo alla vergogna della nave ebraica «Exodus». In questi giorni, nella mia parrocchia, abbiamo pubblicato tutti i bilanci e gli aiuti che diamo a oltre un centinaio di persone/famiglie (50% italiani e 50% di origine non italiana), provengono unicamente da contribuzioni volontarie di circa 150 persone.
Non un soldo pubblico, non un contributo politico che non vogliamo perché abbiamo un senso di dignità che esige la compartecipazione e il sentimento umano. La «pacchia» la rimandiamo indietro al mittente perché è lui che lucra elettoralmente e politicamente dalla disgrazia dei migranti.
A Salvini e a Di Maio che ho votato per scardinare l’immondo sodalizio «Renzi/Berlusconi» e non per trovarmi i fascisti al governo, nonostante la Costituzione, dedico queste parole nelle quali mi riconosco io e il meglio del popolo italiano:
Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu. Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran1203-1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, «Adamo» non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa «Umanità - Genere Umano», senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale.
L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di «civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
La nostra civiltà sta regredendo verso la preistoria, verso il nulla. Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: -***«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova il Comune ha deciso di restaurare la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova, in Italia, in Europa e nel Mondo si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa, gusci vuoti d’ideali, ma pieni di interessi miopi. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz.
Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti. Se non ci si chiede la ragione per cui i poveri aumentano, i senza casa aumentano, gli sbandati crescono esponenzialmente e i migranti africani chiedono il conto, siamo colpevoli di assassinio della civiltà, non salveremo noi, ma ci votiamo destiniamo alla distruzione.
Berthold Brecht (1898-1956), poeta e drammaturgo, nelle Poesie di Svendborg (1933-1938), 1937 (traduzione di E. Castellani-R. Fertonani) ne ha una col titolo «Germania», atto di accusa al sopruso del forte sul debole, all’arroganza del sistema sulla persona. A sessant’anni della sua morte, Germania è nome simbolico, sostituibile con Italia, Ungheria, Polonia, Austria, Olanda, Genova, Torino Milano, Roma, Io, Tu, Egli, Noi, Voi e Loro: -***«Parlino altri della propria vergogna, / io parlo della mia. /O Germania, pallida madre! / come insozzata siedi / fra i popoli! / Fra i segnati d’infamia /tu spicchi. / Dai tuoi figli il più povero/ è ucciso. / Quando la fame sua fu grande / gli altri tuoi figli / hanno levato la mano su lui. / ... Perché ti pregiano gli oppressori, tutt’intorno, ma / ti accusano gli oppressi? / Gli sfruttati / ti mostrano a dito, ma / gli sfruttatori lodano il sistema / che in casa tua è stato escogitato! / E invece tutti ti vedono / celare l’orlo della veste, insanguinato / dal sangue del migliore / dei tuoi figli. / O Germania, pallida madre! / Come t’hanno ridotta i tuoi figli, / che tu in mezzo ai popoli sia / o derisione o spavento!» (Berthold Brecht).
Possano la Poesia e la Memoria rinsavire Ragione e Dignità. Salvini, la Lega, Di Maio e l’illusione passeranno, l’umanità sopravvivrà e i poveri porteranno fiori sulle loro tombe. È la Storia, bellezza! È la Storia!
*
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
[...] The room was re-opened in 1957.
Dag Hammarskjöld wrote the following text to be distributed to the visitors of the room:
"We all have within us a center of stillness surrounded by silence.
This house, dedicated to work and debate in the service of peace, should have one room dedicated to silence in the outward sense and stillness in the inner sense.
It has been the aim to create in this small room a place where the doors may be open to the infinite lands of thought and prayer.
People of many faiths will meet here, and for that reason none of the symbols to which we are accustomed in our meditation could be used.
However, there are simple things which speak to us all with the same language. We have sought for such things and we believe that we have found them in the shaft of light striking the shimmering surface of solid rock.
So, in the middle of the room we see a symbol of how, daily, the light of the skies gives life to the earth on which we stand, a symbol to many of us of how the light of the spirit gives life to matter.
But the stone in the middle of the room has more to tell us. We may see it as an altar, empty not because there is no God, not because it is an altar to an unknown god, but because it is dedicated to the God whom man worships under many names and in many forms.
The stone in the middle of the room reminds us also of the firm and permanent in a world of movement and change. The block of iron ore has the weight and solidity of the everlasting. It is a reminder of that cornerstone of endurance and faith on which all human endeavour must be based.
The material of the stone leads our thoughts to the necessity for choice between destruction and construction, between war and peace. Of iron man has forged his swords, of iron he has also made his ploughshares. Of iron he has constructed tanks, but of iron he has likewise built homes for man. The block of iron ore is part of the wealth we have inherited on this earth of ours. How are we to use it?
The shaft of light strikes the stone in a room of utter simplicity. There are no other symbols, there is nothing to distract our attention or to break in on the stillness within ourselves. When our eyes travel from these symbols to the front wall, they meet a simple pattern opening up the room to the harmony, freedom and balance of space.
There is an ancient saying that the sense of a vessel is not in its shell but in the void. So it is with this room. It is for those who come here to fill the void with what they find in their center of stillness." *
* DAG HAMMARSKJOLD - "A Room of Quiet". The Meditation Room, United Nations Headquarters
Onu, l’ultimo giallo della Guerra fredda
“Ecco chi uccise il leader più amato”
L’aereo di Dag Hammarskjöld precipitò sul Congo nel ’61
Ora le prove che dietro allo schianto ci fu un attentato
di Pietro Veronese (la Repubblica, 15.04.2015)
ERA la notte tra il 17 e il 18 settembre 1961. Il rumore dei 4 motori a pistone del DC-6 era calato: l’aereo stava perdendo quota. Il tempo era buono, la mezza luna che andava declinando verso l’orizzonte facilmente visibile. Sotto era buio pesto, come è sempre l’Africa nel pieno della notte, l’illuminazione dell’aeroporto di destinazione per questo ancor più distinguibile. «Vedo le vostre luci, Ndola, scendiamo », comunicò il pilota alla torre di controllo, 10 minuti dopo la mezzanotte.
A bordo, silenzio, tensione. Oltre ai 6 membri d’equipaggio, tutti svedesi, su quel volo c’erano solo 10 passeggeri: il segretario generale delle Nazioni Unite con una manciata di stretti collaboratori. A Ndola, nell’allora Rhodesia del Nord, oggi Zambia, l’aspettava un incontro decisivo con il capo della secessione del Katanga, ricchissima regione mineraria del Congo. La guerra civile infuriava in Congo, ma Moise Ciombe, legato a doppio filo alle compagnie minerarie europee e americane, aveva fatto sapere di essere disposto a negoziare. Il segretario generale vedeva una speranza di pace. Imbarcandosi a Léopoldville, la capitale congolese (oggi Kinshasa), parlando a un suo braccio destro che restava a terra, aveva accennato ancora una volta alla sua grande passione per i mistici medievali: «L’amore, per loro - gli aveva detto - era quel sovrappiù di energia di cui si sentivano ricolmi quando sceglievano di vivere dimenticando se stessi».
Il DC-6 non raggiunse mai Ndola né altri messaggi arrivarono dalla cabina alla torre di controllo. Un poliziotto disse d’aver visto un bagliore nel cielo, ma il direttore dell’aeroporto lo rintuzzò affermando che «gli aerei dei vip non precipitano». Il relitto fu avvistato dopo le tre del pomeriggio del 18, a meno di 15 chilometri dalla pista.
Così morì Dag Hammarskjöld, svedese, il più grande segretario generale che le Nazioni Unite abbiano mai avuto. Un intellettuale, un credente, un asceta, un vero eroe civile, colui che accennando in una lettera all’esplodere dell’ennesima crisi internazionale, aveva scritto: «Qui o si diventa cinici, o si diventa seri». E allo scrittore John Steinbeck aveva così spiegato il suo lavoro: «Sedersi per terra e parlare con le persone. È questa la cosa più importante». Un uomo capace, nel mondo spaccato in due dalla Guerra Fredda, di tenere testa alle grandi potenze nucleari in nome dell’ideale della pace - e di morirne.
Sono passati 54 anni e quella che sembrava destinata a rimanere una nota a piè di pagina nei libri di storia è tornata ad essere di nuovo una notizia. Confermandosi il più grande giallo ancora irrisolto della Guerra Fredda. L’Onu ha deciso di aprire un’inchiesta ufficiale sull’incidente aereo. Ce ne sono state, negli anni, almeno altre due. La prima condotta dalle autorità coloniali britanniche, perché la Rhodesia era, all’epoca, un possedimento di Sua Maestà. Errore del pilota, conclusero nel 1962, senza però addurre alcuna prova. L’altra delle stesse Nazioni Unite, terminata con un verdetto molto più aperto. Non si può escludere nessuna ipotesi, disse la commissione internazionale, ma nemmeno confermarne alcuna, perché mancano le prove.
Fin dall’inizio, si erano rincorse voci ed ipotesi di complotto. Quello che non mancava, infatti, era un movente per uccidere Dag Hammarskjöld. Nessuno ha incarnato meglio di lui, nei 70 anni di vita delle Nazioni Unite, l’ideale di un potere indipendente e sovranazionale, che tenta di imporsi tanto agli staterelli quanto alle grandi potenze. Hammarskjöld non era l’uomo di nessuno, né di una donna, né di un governo. Lo odiavano i sovietici, che orchestrarono una campagna internazionale di calunnie sostenendo che fosse omosessuale (all’epoca un’accusa imperdonabile per un uomo pubblico). Ma nella crisi congolese Dag aveva schierato l’Onu dalla parte del governo legittimo, che era sostenuto dal blocco comunista; ed era perciò odiato dagli sponsor della secessione katanghese: la Cia ed altri servizi segreti occidentali, il Belgio, le compagnie minerarie, i mercenari europei.
Negli ultimi anni ricercatori indipendenti hanno scoperto molte cose. È ormai certo che la Cia e la National Security Agency americane e i servizi britannici possiedono informazioni secretate. Gli americani avevano a Cipro un centro d’ascolto radio che copriva buona parte dello spazio aereo africano e in più, quella notte, due DC-3 parcheggiati sulla pista di Ndola con i motori accesi, evidentemente all’unico scopo di generare energia elettrica e poter ascoltare le comunicazioni radio.
Gli americani sanno. C’era un altro aereo in volo sopra Ndola quella notte, a quanto pare. E molti movimenti a terra, avvistati da testimoni. Militari, mercenari, le forze più oscure del morente colonialismo europeo. La nuova inchiesta disporrà di molte informazioni inedite per confermare se il segretario generale delle Nazioni Unite non stesse in realtà scendendo in una trappola. Lui, in ogni caso, era pronto. In una poesia composta nella primavera precedente aveva scritto: «A chi chiede se ho il coraggio/di andare fino alla fine/la mia risposta/è irreversibile ».
50 ANNI FA
Dag Hammarskjöld il Marc’Aurelio del ’900
di Carlo Ossola (Avvenire, 12 settembre 2011)
«Il viaggio più lungo / è il viaggio verso l’interno»: non esiste politica senza coscienza; e queste sono le parole di Dag Hammarskjöld (1905-1961), segretario generale dell’Onu per due mandati (1953-1961), svedese, morto in una missione in Katanga e premio Nobel per la Pace, conferito in memoria, nel 1961. Il suo diario, Linea della vita, è una testimonianza di impegno, di dignità, di speranza sui destini dell’essere umano: «esistere attraverso il futuro degli altri». E di coscienza della plenitudine divina in noi: «Io sono il recipiente. La bevanda è di Dio. E Dio è l’assetato». Fu descritto come un mistico; fu piuttosto fedele al silenzio della responsabilità: «L’“esperienza mistica”. Sempre: qui e ora, nella libertà che si accompagna al distacco, nel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’agire, questa quiete è una quiete in mezzo agli uomini, [...] nell’attenzione ricettiva del dire di sì».
Sono passati cinquant’anni da allora: il suo diario è tradotto in moltissime lingue, ma circola oggi quasi in clandestinità: rispetto agli editori che lo pubblicarono negli anni Sessanta (Random, Plon, Rizzoli, etc.) dimora oggi ai margini dell’editoria e della lettura (Qiqajon, Éditions du Félin, Trotta); eppure venne definito - ed è - «il Marc’Aurelio del XX secolo» per l’intensità della meditazione e la raffinata cultura che innerva il libro.
Pochi mesi dopo, moriva Franz Fanon, il cui libro, appena edito, I dannati della terra (tradotto da Einaudi nel 1962 con prefazione di Jean-Paul Sartre) non solo toccava al vivo il problema - di cui era stato vittima lo stesso Hammarskjöld - della decolonizzazione, da lui vissuta in Algeria, ma guardava ai compiti di una nuova società mondialmente meno iniqua. Fu un libro che Giovanni Giudici poneva ad extra sul piano ch’egli viveva ad intra meditando Gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.
E dunque ricordo anch’io insieme Hammarskjöld e Fanon, perché ciò che è in questione, non è la memoria ma il presente: il nostro presente non è più in grado di contenere (e perciò di “comprendere”) quell’ordine di grandezze. Non si tratta tanto di imbarbarimento - che pure è vistoso e doloroso - della vita politica, ma del suo rimpicciolimento. Eugenio Montale fu profetico, applicando a sé le misure del proprio tempo: «Lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose» (Per finire, poesia che suggella il Diario del 1971 e del 1972). Al “massimalismo” ideologico è seguito, nella politica e negli ideali, il “minimalismo” del farsi continuamente lo sconto, sicché il “vivere al cinque per cento” è, oggi, già un traguardo.
L’errore sarebbe perdere il poco tempo che rimane cercando le colpe, inseguendo le tracce della corruzione, della disgregazione; il gesto dev’essere più risoluto, quale troviamo in testa al diario di Hammarskjöld: «solo la mano che cancella, può scrivere ciò che è giusto». Cancellare senza esitazioni lo sgorbio d’oggi, cancellare non correggere, invischiandosi così nei cunicoli del miasma; ma per scrivere che cosa, nella vita, nei costumi, nella politica? Una delle risposte è nell’aula silenziosa che vi accoglie al Palazzo di Vetro, a New York, e che Dag Hammarskjöld volle progettare. Inaugurandola ne additò la finalità: «Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio.
Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera. Qui si incontreranno persone di fedi diverse, e per questo motivo non si potrà usare nessuno dei simboli cui siamo abituati nella nostra meditazione. Esistono però cose semplici, che parlano a tutti noi nella stessa lingua. Abbiamo cercato questo tipo di cose, e crediamo di averle trovate nel raggio di luce che colpisce la superficie scintillante della roccia massiccia.[...] La luce del cielo dà la vita alla terra su cui tutti ci troviamo: un simbolo, per molti di noi, di come la luce dello spirito dà vita alla materia».
Occorre riprendere alla lettera, per i nostri figli e per i nostri nipoti, l’allenamento a misurarsi con ciò che è grande: «Nel tuo vento. Nella tua luce. / Quanto è piccolo tutto il resto, quanto siamo piccoli noi; e felici in ciò che solo è grande» (nota del 24 dicembre 1957). Ma in quel “grande” non dobbiamo “installarci”, men che mai pensare di “esserci”: riprendendo un’immagine del Salmo CXXVII: «Sicut sagittae in manu bellatoris, Hammarskjöld annoterà: «Mi hai afferrato una volta, o Lanciatore. Ora nella tua tempesta. Ora verso la tua meta» (nota del 26 settembre 1957); questo rimane, anche per noi, il punto: limare in noi il peso, acuminare l’attenzione al mondo, pronti a essere scagliati.
Carlo Ossola
A chi l’esclusiva dei diritti umani?
di Roberta De Monticelli (Saturno, 4 marzo 2011)
Nel momento in cui ci interroghiamo sul senso e sul futuro delle rivoluzioni in Nordafrica, non c’è forse un testo migliore su cui meditare che la grandiosa Antologia mondiale della libertà, già disponibile on line in tre lingue sul sito dell’Unesco, alla cui versione italiana si sta in questi mesi lavorando. Cos’è, come nasce, questa raccolta di testi che coprono l’arco di due millenni, racchiusi in quasi seicento pagine?
È una splendida avventura del pensiero umano, e vale la pena di raccontare come nacque. Immaginate di trovarvi nel giardino della sede storica dell’Unesco, a Parigi. Là c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste: «Tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo... creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro ... tutto il resto era orientato verso questo vuoto». Le scrisse Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937). Teniamole in mente, perché sono quasi certamente all’origine invisibile di questa avventura.
Per l’origine visibile, dobbiamo di nuovo darci appuntamento a Parigi, ma nel 1968. Si festeggia il ventennale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Jeanne Hersch - professoressa di filosofia a Ginevra, allieva di Jaspers, compagna di studi di Hannah Arendt e per un paio d’anni in carica all’Unesco, dove dirige la sezione di filosofia - decide di impegnare le risorse di quell’organizzazione in un audace esperimento storico ed etnografico. Chiede ai rappresentanti di tutti i Paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, anteriori al 1948, «in cui si manifestasse, secondo loro, in qualunque forma, un senso dei diritti dell’uomo». Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, arrivavano a Parigi pensieri espressi in una babele di lingue, morte e vive: come offerte «con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e altri luoghi». Così fu impostata una sorta di verifica sul campo della vexata quaestio: è o non è un concetto puramente «occidentale» quello dei «diritti dell’uomo»?
Peccato che molti continuino a ignorare questa preziosa documentazione, costituita dal libro sorprendente e magnifico di Jeanne Hersch, Le droit d’être un homme, la cui edizione francese porta il sottotitolo Anthologie mondiale de la liberté. Fu la base empirica della sua riflessione sul fondamento dei diritti umani, proseguita fino alla morte, nel 2000, ora disponibile anche in italiano a cura di Francesca De Vecchi (I diritti umani da un punto di vista filosofico, Mondadori). E qual è il risultato di questa riflessione, che passa attraverso le culture religiose dei popoli antichi e moderni, ma anche gli autori fondamentali del pensiero occidentale, da Montesquieu, Beccaria e Tocqueville fino a Maritain e Roosevelt? A differenza dei giuspositivisti come Norberto Bobbio, non si accontenta di ritenere la Dichiarazione espressione di un ethos fra gli altri, incapace di giustificazione universale; a differenza dei giusnaturalisti, constata che in natura la legge del più forte ha la meglio. Tuttavia, la prima questione che i diritti umani pongono è quella della loro ragion d’essere, del loro fondamento.
Qui il passaggio attraverso «le offerte» delle culture religiose e arcaiche si rivela non vano: è proprio là - ci dice Hersch, rovesciando tutti i luoghi comuni - che il fondamento si disvela. Questo è, in ogni cultura, l’esigenza degli esseri umani di essere riconosciuti in ciò che hanno di propriamente umano: la libertà, intesa nella sua radice “selvaggia”, assoluta. Essere liberi è essere capaci d’accettare volontariamente la morte, purché sia salvo ciò che è più importante della vita stessa. Come Antigone, o come Socrate. Non c’è libertà fuori da questo impegno assoluto, da questa pericolosa posta in gioco. Ecco perché è vano, spiega Hersch, il tentativo di ridurre il rispetto dei diritti umani al rigetto di ogni impegno verso l’assoluto, a una neutralità ragionevole e pragmatica.
Certo, un impegno verso l’assoluto è sempre pericoloso: attraverso l’integralismo, rischia di ispirare e giustificare le peggiori violazioni dei diritti umani. E allora? Ecco l’intuizione profonda: la possibilità di riconoscere che anche l’altro sta «di fronte all’assoluto» e che nessuno lo possiede è intrinseca a ogni religione in quanto apertura alla trascendenza. Ogni cultura teologica sa chel’idolatria è il più grande dei peccati: non è parlare «di fronte all’assoluto», ma in nome dell’assoluto, come se lo si possedesse. Occorre «conoscere Dio come ignoto». Jeanne Hersch ha scoperto la via che libera potenzialmente ogni cultura teologica dal rischio della teopolitica, e l’apre alla speranza cosmopolitica.
IDEE. Il desiderio di comunicare con l’invisibile è una delle ragioni della rinnovata attenzione da parte di molti per i testi dei grandi mistici
Come parlare con Dio faccia a faccia
Da Eckhart a Teresa d’Avila, la testimonianza di una fede vissuta come rapporto spirituale e «carnale» col divino
DI VITTORIO POSSENTI (Avvenire, 03.07.2010)
«Dio non morirà il giorno in cui noi non crederemo più in una divinità personale, ma saremo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del miracolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione ». Così Dag Hammarskjöld nel 1950 quando in un Occidente che camminava spedito verso il deserto del secolarismo, si diffondeva l’idea che Dio e la religione fossero cose del passato, inesorabilmente travolte dalla modernità.
Era allora l’epoca in cui una parte della cultura, che si autopromuoveva ad avanguardia, teneva fermo che l’ateismo fosse il destino più certo della modernità. Diventava allora difficile pensare ad un atrio dei gentili, perché la notitia Dei pericolava, ben più grave che altrove era l’eclissi di Dio, e l’invocazione al Dio ignoto della coscienza più flebile. Mezzo secolo più tardi si è iniziato a parlare di epoca postsecolare, mentre indietreggia nel passato la tesi di un cammino verso un tempo postreligioso. Il declino o almeno la privatizzazione della religione non sono più certi, ma alta risuona la domanda su come ricominciare a parlare di Dio. L’eclissi di Dio non terminerà se non inizieremo di nuovo ad annunciarlo: come farlo?
Questo è il punto centrale in cui ogni equivoco si paga caro, in specie per noi occidentali che abbiamo introiettato i metodi delle scienze, oggettivanti e neutri, che reificano tutto ciò che toccano. Ma Dio non è un oggetto che possa essere misurato da strumenti, né cade sotto la presa di una gnoseologia scientistica. Dio non può farsi noto attraverso la gabbia di acciaio della razionalità strumentale ed i nuovi atei sono troppo convinti di aver ragione per averla veramente: hanno adottato uno schema di conoscenza talmente ristretto da perdere quasi tutta la realtà. Bisogna ripartire dall’esperienza umana basale che nelle sue luci e nelle sue ombre porta significati trascendenti, per riprendere a parlare di lui: esperienza della vita e della morte, dell’amore e degli affetti, del bene e del male, della paternità e della figliolanza.
Per ricominciare a parlare di Dio abbiamo bisogno di testimoni affidabili che liberino la nostra anima dal carcere in cui si trova rinchiusa, dall’affanno dell’azione, dallo stordimento dell’inessenziale. Questi testimoni sono i mistici che sulla scorta dell’amicizia con Dio, ce lo fanno sentire vicino. I mistici cristiani vissuti nell’epoca moderna non sono inferiori a quelli fioriti in epoca medievale. Nonostante questa considerazione, non è facile allontanare il sospetto che la cultura e la teologia cristiane, tinte in vario modo di razionalismo o subendone la pressione, non abbiano fatto dall’epoca del Concilio di Trento il dovuto spazio alla mistica e ne abbiano lasciato in sordina il problema per un lungo periodo. L’insistenza della Chiesa e della teologia moderne su quanto era considerato strettamente necessario alla salvezza, in particolare l’elemento etico e i doveri, distinguendolo da quanto veniva ritenuto facoltativo e supererogatorio, ha lasciato un poco in disparte la contemplazione e la via mistica. Sembrava ovvio che bastasse adempiere gli obblighi morali e che la via della sopramorale e della mistica evangelica fossero riservate a pochissimi, e così il richiamo alla perfezione e alla santità. La Chiesa del XX secolo e il Concilio hanno messo fine a questi equivoci, eppure un notevole cammino resta da compiere.
L’uomo desidera conoscere Dio, chiamandolo per nome. Nessun desiderio umano è tanto grande come questo e nessuno è più difficile per l’uomo. Dio è uno, nessuno e centomila, una realtà sfuggente e misteriosissima: forse il Nome assoluto, il Nome autentico di Dio lo conosce solo Lui, noi conosciamo i suoi molti nomi e da millenni continuiamo a chiedere come si articoli il suo Vero e Unico Nome.
Vi sono certo dei linguaggi non verbali che possono aiutare a ’dire Dio’, e tra questi la musica con la sua capacità di alludere all’invisibile e allo spirituale. Parlo della grande musica, non della musica prevalente nel contemporaneo, spesso semplice prodotto di consumo, segnata in senso materialistico, in quanto portata ad esprimere solo l’immediatezza delle pulsioni umane più basali. Ma meglio ancora è l’esperienza mistica di Dio che non nasce dallo sforzo dell’uomo ma dalla grazia dello Spirito santo infusa nei nostri cuori. È un’unione d’amore tra l’amato e l’amante, in cui il soggetto umano esperisce le profondità di Dio e ce ne comunica qualcosa, aiutandoci a ricominciare a parlare di Dio. Le scoperte dei mistici su Dio e la vita spirituale non hanno perso il loro significato.
Dag Hammarskjöld attingeva ispirazione ai mistici medievali (Eckhart, Taulero, Suso, Caterina da Siena, Giuliana di Norwich), a san Giovanni della Croce, a santa Teresa d’Avila, a L’imitazione di Cristo. Egli tendeva a dimenticare il proprio io e agire come uno strumento di Dio. Scrisse di sé: «La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso, l’ho trovata negli scritti di quei grandi mistici medievali per i quali ’la sottomissione’ è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’’onestà della mente’ e nell’ ’interiorità’ la forza di dire di sì a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire sì a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro». Nel 1954, l’anno dopo quello in cui divenne segretario generale dell’Onu, vergò queste righe: «Possa tutto il mio essere volgersi a tua gloria/ e possa io non disperare mai/ Perché io sono sotto la tua mano/ E in te è ogni forza e bontà». Proprio di questo Dio, vicino e affidabile, si deve ricominciare a parlare.
LA GRATUITA’, L’AMORE GRATUITO ("CHARITAS"), E "L’AVVENIRE" DEI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA - SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA FUTURO.
L’economia e la teologia del dio Mammona ("Deus caritas est") è finita!!! .... Ma la gerarchia della Chiesa cattolica continua con il suo "latinorum"!!!:
(Federico La Sala)
L’AMORE GRATUITO ("CHARITAS") DI SUOR EMMANUELLE.
In tempo di economia debole, torna d’attualità la sfida del dono: come provocazione e occasione per lanciare proposte Soprattutto per i giovani
Ossola: leggere san Francesco contro la logica del «balconing»
Gratis. La risposta alla crisi
Il critico: «Oggi dilaga la cultura del rischio come ’beau geste’, però è dispendio di sé e non generosità»
DI PAOLO L AMBRUSCHI (Avvenire, 21.09.2010)
La letteratura pare viaggiare su rotte assolutamente slegate dalla gratuità. A «Torino Spiritualità » sarà Carlo Ossola, uno dei massimi critici letterari e filologi italiani, autore del recente saggio Il continente interiore, a indicare i percorsi per ritrovare la virtù del dono attraverso la parola scritta. Che non deve essere necessariamente merce, perché a volte non ha prezzo.
Professore, che senso attribuisce a gratuità e dono in questi tempi?
«Un senso molto ristretto: la ’gratuità’ oggi dilaga come beau geste pericolosamente esibito, sino alla tragica novità del balconing, che ha fatto molte vittime quest’estate a Ibiza; la ’gratuità’ non è la dépense, il dispendio di sé, bensì - all’opposto - il riconoscere che ciò che ci è più prezioso (la vita, in primis) l’abbiamo ricevuto gratis. La gratuità ’la si vede dopo’ averla riconosciuta (da ciò la riconoscenza), tanto essa passa naturalmente silente, discreta, impercettibile. Come a Emmaus».
È possibile incontrare tali valori in questa società e nella letteratura che esprime?
«La letteratura è della stessa natura dell’acqua: serve ’a scavar pietre, a nutrire arcobaleni. /... Quanto è leggero tutto questo in una goccia di pioggia. / Con che delicatezza il mondo mi tocca» dicono i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Il gratuito non è un dono, ma quello sguardo che fa del mondo una goccia di rugiada, si lascia contemplare «in piccole eternità», sempre Szymborska, La gioia di scrivere. Il gratuito, come la poesia, non conosce la parola ’cosa’».
Ma allora quali autori e letture suggerisce per accompagnare la ricerca della gratuità?
«Per la luminosa profondità della testimonianza, il diario del segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld (1905-1961), Tracce di cammino: è il continuo ricercare, nella rettitudine dell’agire, la comunione con l’offerta. Porrei accanto la raccolta dei Fioretti di san Francesco, perché non c’è gratuità senza povertà: in essa dono e contro-dono cessano, perché non c’è nulla da dare: si è ’a mani vuote’. Infine Tarabas di Joseph Roth: una lezione e una parabola verso l’abbandono. E anche, per chi volesse vederne applicazioni nel viver quotidiano, il Comment vivre ensemble di Roland Barthes, un piccolo trattato di delicatezza contro l’arroganza. Poiché non c’è gratuità senza effacement, senza il ’non lasciar traccia’, nell’anonimato».
La lettura di un testo letterario è senz’altro un gesto che arricchisce l’anima. Può restare slegato oggi dall’aspetto commerciale?
«La domanda comincia a prender forma quando il libro diventa merce. Ciò che ci ha formati sono i versi che abbiamo imparato a memoria, quelli che abbiamo cantato, i libri presi a prestito in biblioteca, i racconti d’infanzia che ci hanno accompagnato, la sera, verso il sonno (uno su tutti: Il piccolo principe ). I libri che abbiamo regalato perché parlassero, all’altra, all’altro, a nome nostro. Questa memoria non avrà mai prezzo. I veri libri sono ’impagabili’».
Come proporre la gratuità ai più giovani?
«’Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento’ (Mt 10, 8-10). La grazia è un dono, ma la giustizia nella sobrietà è un esercizio che va insegnato, praticato, va ogni giorno riappreso, perché questa società chiede, anzi impone l’oblio della giustizia. La gratuità non mira a un equilibrio tra dato e avuto, ma alla remissione nella pace. Insegnare la pace pacificando, il perdono perdonando, la gratuità rendendo grazie».
PERSONAGGIO
Un mistico all’Onu
Svedese di nascita e di religione evangelica, Dag Hammarskjöld (1905-1961) è stato segretario generale delle Nazioni Unite per due mandati consecutivi, dal 1953 alla morte, avvenuta in un oscuro incidente aereo nell’Africa del sud.
Economista di formazione (fu anche presidente della Banca di Svezia), Hammarskjöld era uomo di profonda religiosità: dopo la scomparsa, tra le sue carte venne ritrovato un diario non destinato alla pubblicazione nel quale l’uomo politico indicava le sue «Tracce di cammino», ispirate a varie figure della mistica medievale.
Hammarskjöld - unico caso nella storia finora - ha ricevuto il Nobel per la pace postumo, nel 1961.
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Il critico letterario Carlo Ossola e il regista Gabriele Vacis partecipano domani alle 21 presso il Circolo dei Lettori a un incontro di «Torino Spiritualità», il dialogo su «Gratuità, la sola moneta dell’arte»; li intervistiamo in questa pagina. La manifestazione torinese, intitolata quest’anno «Gratis. Il fascino delle nostre mani vuote, prosegue poi fino a domenica 26 settembre. Tra gli altri ospiti: il monaco buddhista francese Matthieu Ricard, ex biologo molecolare, e padre Stefano Roze dell’Abbazia di Sant’Antimo, assistente spirituale del movimento «Goum».