L’ARTE, LA FEDE E I POVERI: UN INEDITO DI SUOR EMMANUELLE
L’Annunciazione per i non credenti
Una tela come quella del Beato Angelico, con la rappresentazione dell’invisibile attraverso il gioco dei colori, sembra fatta per colpire profondamente chi non ha fede.
Ma alla vera bellezza, come spiega il filosofo Pascal, si arriva attraverso la condivisione con chi non ha nulla
«Mi ricordo la prima volta in cui sono entrata in una bidonville. Nelle viuzze si trovavano ammucchiati i rifiuti dei bei quartieri del Cairo. In quel momento mi sentii ’aspirata’. Aspirata è la parola giusta. Non ce n’è un’altra. Avevo 62 anni. E il mio destino è cambiato per sempre»
di Suor Emmanuelle del Cairo (Avvenire, 22.09.200) *
L’arte del Beato Angelico si iscrive nell’antica pratica degli artisti di icone. Anzitutto questi pittori dovevano mettersi loro stessi in preghiera prima di dipingere. Perché l’icona rappresenta l’impronta dell’invisibile contemplato attraverso forme e colori visibili. Le due icone che preferisco sono quelle della Trinità e della Vergine con il Bambino. Rublev, l’artista russo che ha realizzato l’opera della Trinità, aveva coltivato uno stato contemplativo così profondo che poteva accogliere in sé lo spirito di Dio e così oltrepassare il visibile. Egli continuava a rifinire, animato dal soffio dell’invisibile.
Beato Angelico, il pittore dell’Annunciazione, era un monaco che viveva di Dio. La sua arte è una preghiera di lode e di adorazione alla gloria di Dio. Sulla sua pietra tombale ha chiesto che venissero impresse queste parole, che riassumono la sua opera come la sua arte, visto che l’una e l’altra erano indissociabilmente legate: «Tutti i miei successi li ho donato a Cristo. Certo, una parte della mia opera si trova sulla terra, ma un’altra è nel cielo».
Un non credente, davanti alle tele del Beato Angelico, potrebbe ricevere una chiamata, un’ispirazione. È possibile, posso immaginarlo. Ma non è sicuro. Il non credente è perseguitato da un’insoddisfazione innata. Io ho incontrato persone che hanno condiviso con me la loro sofferenza davanti all’assurdità della condizione umana. Esse non sopportavano l’idea che l’uomo sia solo di passaggio sulla terra e poi scompaia. Abbiamo tutti, in noi stessi, un desiderio molto forte di immortalità, in gran parte non razionale.
Quando pensiamo che, in fondo, noi siamo molto più che animali, quando capiamo che una volta morti e messi sottoterra, non resterà di noi nient’altro che qualche ossa, veniamo presi dalla disperazione. Niente ci soddisfa più. Ci diventa impossibile riempire la nostra anima, come se essa fosse vuota, afflitta da una sofferenza che la scava dall’interno. Questa mancanza dà le vertigini. È una sensazione contemporaneamente insondabile e insostenibile.
Certi non credenti, che percepiscono questo con forza, potrebbero forse avere uno choc contemplando una tela del Beato Angelico. Davanti alla rappresentazione dell’invisibile messa in scena dall’artista si sentirebbero chiamati dal mondo spirituale. È anche possibile che vi si avvicinino. Corpi belli che conducono a pensieri positivi: ci sono differenti tappe da percorrere. Il punto di partenza è la bellezza materiale. In questa progressione si ritrovano i tre ordini di Pascal. Il primo ordine è quello della materia che è anche quello del corpo.
Ora, la materia è bella, è «potente», ci dice Pascal. Non si tratta né di negarla né di disprezzarla. Il secondo ordine è quello dello spirito, perché l’essere umano è anche spirito. L’intelligenza è una facoltà prodigiosa di comprensione e ragionamento. La sua capacità di percepire le leggi della natura permette applicazioni tecnologiche di cui si vede tutti i giorni lo sviluppo senza fine. Per realizzare la nostra umanità dobbiamo arrivare al terzo ordine. È quello di Dio e della carità che si esprime in un amore disinteressato per i nostri fratelli e sorelle in umanità.
Senza il terzo ordine, ovvero senza l’amore, l’essere umano è privato di una dimensione essenziale. Secondo Pascal, infatti, «tutta la materia insieme non fa un solo pensiero». Egli ammira la grandezza del primo ordine della materia e del secondo, quello dell’intelligenza. Ma «tutti i pensieri insieme non fanno un solo atto di amore gratuito».
Dove trovare la sorgente dell’amore? Dove trovare la forza di amare? Ciascuno di noi ha una storia più o meno triste, più o meno drammatica. Come certuni trovano la forza dell’amore che resta nascosta ad altri? Si trova la sorgente dell’amore lasciandosi ’aspirare’ dalla sofferenza. Mi ricordo la prima volta in cui sono entrata in una bidonville. Nelle viuzze si trovavano ammucchiati i rifiuti dei bei quartieri del Cairo. Gli straccivendoli li portavano su piccole autovetture, poi li gettavano nelle vie in mezzo ai maiali per sceglierli. Il sudiciume e gli odori erano asfissianti. I bambini cercavano il loro cibo tra l’immondizia.
Mi ricordo che in quel momento mi sentii ’aspirata’. Aspirata è la parola giusta. Non ce n’è un’altra. Avevo 62 anni. Potevo andare tranquillamente in pensione e ripartire per la Francia. Questa chiamata della sofferenza ha cambiato il corso del mio destino. Ha riempito la mia vita. (traduzione di Lorenzo Fazzini)
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PROFILO
E l’«angelo degli straccivendoli» meditò su Marco Aurelio e Bergson
È morta alla soglia del secolo di vita dopo essere stata definita la donna più conosciuta di Francia. Madeleine Cinqui, conosciuta da tutti come Suor Emmanuelle del Cairo, è morta il 19 ottobre scorso nella casa di riposo di Callian, nel sud della Francia, dove da metà degli anni Novanta era in pensione dopo una vita dedicata all’insegnamento e al servizio degli ultimi, impegno che gli è valso la Legion d’onore attribuitale nel 2002.
La filosofia e la carità sono state le grandi passioni di questa suora: laureata alla Sorbona, ha insegnato a Istanbul, Tunisi e Il Cairo. Nel suo libro Mon testament spirituel, edito di recente da Presses de la Renaissance (da cui pubblichiamo il brano qui presentato) Suor Emmanuelle fa riecheggiare la sua formazione filosofica con frequenti riferimenti a pensatori del passato come Marco Aurelio, Pascal e Bergson. Nel 1971 l’incontro con la povertà delle bidonville del Cairo l’ha portata a diventare «l’angelo degli straccivendoli» della metropoli egiziana, aiutati adesso dall’Operation Orange, che continua oggi l’impegno della «Madre Teresa del Cairo». (L.Fazz.)
Sul tema dell’amore gratuito ("charitas"), nel sito, si cfr.:
L’aiuto può essere soltanto disinteressato
Condividendo le responsabilità si difende la dignità umana
di CARLO MARIA CARD. MARTINI (La Stampa, 5/7/2009)
Sono stato in Africa per la prima volta nel 1980. Si trattava di una visita in Zambia, che mi fece conoscere le bellezze di quel Paese e il suo lento ma sicuro procedere per la via della stabilità economica e finanziaria. In seguito fui in molti altri Paesi. Mi impressionò favorevolmente soprattutto lo stato di benessere raggiunto da molte parti del Kenya, che visitai nel 1985. Si aveva l’impressione di una continua e solida crescita nella qualità della vita.
Poi tutto questo cammino si fermò, e ogni volta ritrovai un’Africa più povera e diseredata. Molte ragioni furono addotte per questo cambiamento in peggio. Lo scatenarsi di lotte tribali, il ripiegarsi sul proprio clan, la corruzione di non pochi funzionari pubblici, ecc. ecc. L’Africa ha certamente molte debolezze, come la molteplicità eccessiva delle lingue, la carenza cronica di acqua in certe regioni, la difficoltà dei collegamenti ecc. Ma ha anche grandi risorse, un clima che permette in particolare molte coltivazioni di frutta, dei paesaggi stupendi e soprattutto una umanità, una cordialità e una solidarietà parentale che non si dimenticano anche dopo molti anni.
L’Africa in questo momento ha grande bisogno di aiuto disinteressato, che le permetta di ricostruire le istituzioni venute meno e la provveda di uomini politici attenti al benessere del continente e del loro Paese, al di là degli interessi puramente tribali. Ci si augura che il prossimo G8 sia attento anche a queste realtà, come lo sarà per tante altre in difficoltà, in particolare per la città e la regione dell’Aquila. Un mondo che proceda in unità e corresponsabilità è un mondo che può preparare ai futuri cittadini un modo di vivere più conforme alla dignità umana, con tutte le conseguenze che seguono da tale situazione.
Beato Angelico
Lo splendore della sua luce
A 550 anni dalla morte, una rassegna in Campidoglio esalta il legame del "santo frate" con l’umanesimo rinascimentale
di Antonio Pinelli (la Repubblica, 27.04.2009)
ROMA. Promossa dal Comitato nazionale per i 550 anni della morte dell’Angelico, la mostra che si è inaugurata in Campidoglio giunge con quattro anni di ritardo («Beato Angelico. L’alba del Rinascimento», Palazzo Caffarelli, a cura di A. Zuccari, G. Morello e G. De Simone, fino al 5 luglio). Ma puntualità a parte, va dato atto ai promotori di aver realizzato la maggiore esposizione dedicata all’Angelico in Italia, dopo quella ormai mitica che si tenne in Vaticano e a Firenze nel 1955, in occasione del V centenario della morte del grande frate pittore.
Soprattutto va riconosciuto al Comitato di aver concepito questa rassegna come il punto di approdo di un percorso pluriennale costellato di iniziative meritorie, quali il Convegno di studi tenutosi a Roma nel 2006, il finanziamento di restauri condotti su opere presenti in mostra (il Trittico della Galleria Corsini di Roma e la predella della Pala di Bosco ai Frati) ed infine la campagna di indagini riflettografiche effettuate dal Laboratorio della Normale di Pisa su un significativo campione di opere dell’Angelico, che rivelandone la preparazione grafica soggiacente alla superficie dipinta (il cosiddetto underdrawing) apportano nuove conoscenze sulle modalità operative del pittore, confermandone quella nitida sicurezza di disegno (rarissimi i pentimenti) di cui già tessevano le lodi gli scrittori d’arte suoi contemporanei.
Guido di Piero - questo al secolo il nome dell’Angelico - nacque a Vicchio nel Mugello tra il 1395 e il 1400, e si avviò precocemente alla pittura, tanto che già nel 1418 è documentato con la qualifica di magister. Poco dopo prese i voti ed assunse il nome di Fra’ Giovanni da Fiesole, pur continuando ad esercitare infaticabilmente quella professione di pittore e miniatore, che lo impose ben presto come uno dei massimi protagonisti della scena artistica del primo Rinascimento. Egli fu attivo soprattutto a Firenze, dove il convento domenicano di San Marco custodisce un così gran numero di sue testimonianze figurative da esser divenuto una sorta di suo Museo personale, e nella Roma dei papi Eugenio IV e Niccolò V, dove si recò a più riprese per dipingere in Vaticano, e passò a miglior vita nel 1455, mentre era intento ad affrescare il chiostro di S. Maria sopra Minerva, la chiesa domenicana dove fu sepolto con tutti gli onori.
Fu una monografia di Argan, anch’essa del 1955, a dare l’ultima spallata al mito romantico e ottocentesco del «santo frate» che dipingeva visioni paradisiache in preda ad estasi mistica. Un mito duro a morire, tanto che una ventina d’anni fa il pittore ha beneficiato dell’inflazione promossa da Giovanni Paolo II, ottenendo il crisma dell’ufficialità vaticana a quel titolo di Beato di cui l’aveva gratificato l’Ottocento nazareno e preraffaellita.
Il succo del pensiero di Argan sull’argomento è che non si tratta di mettere in dubbio la profonda religiosità del frate pittore, ma di diradare quell’alone abbagliante di misticismo, che a partire dall’appellativo di Angelico (come il domenicano San Tommaso, «doctor angelicus») donatogli da un confratello poco dopo la sua morte e dalla definizione di pittore «al ben ardente» coniata da Giovanni Santi, padre di Raffaello, in un crescendo che passa attraverso il ritrattino vasariano di un Fra’ Giovanni che dipingeva solo dopo aver pregato e si commuoveva davanti ai propri Crocifissi dipinti, per culminare negli «sfoghi del cuore di un monaco» di Wackenroder o alle beatificazioni preraffaellite di Rio e John Ruskin, finiva per ottenebrare la sostanza rinascimentale dell’arte angelichiana, ed in particolare la sua perfetta dimestichezza con i teoremi della prospettiva.
Quello del frate - sosteneva Argan - è un umanesimo cristiano, un rinascimento in chiave tomista, che non ignora la rivoluzione prospettica e attraversa anche la sua fase «antiquaria», come dimostrano gli affreschi di quel gioiello rinascimentale che è la Cappella Niccolina in Vaticano, in cui tra citazioni classiche e solenni cerimoniali liturgici ambientati in scenari architettonici che evocano le mura aureliane e le basiliche paleocristiane, Fra’ Giovanni pronuncia la sua più alta ed eloquente «orazione latina».
Oggi, pur avendo fatto tesoro di questa decisiva «apertura» arganiana, gli studi di cui questa mostra vuol essere il compendio espositivo puntano giustamente a valorizzare più che il legame di Angelico con la «rivoluzione» umanistica di Masaccio e Donatello, quello con il «riformismo» umanistico di Masolino e Ghiberti. Un riformismo che non ignora l’Antico né la prospettiva, ma nemmeno taglia del tutto i ponti con il Medioevo. Studi che valorizzano gli scambi reciproci tra la pittura angelichiana e quella fiamminga di Van der Weyden e di Jean Fouquet. E che nel peculiare luminismo del frate pittore, in quello splendore metafisico di una luce che non si limita a modellare le forme dall’esterno, ma ne accende misticamente i colori gemmei dall’interno, individua uno dei fondamenti della «pittura di luce» del Rinascimento, quella tendenza che passa attraverso Angelico e Domenico Veneziano, per approdare nella metafisica sacralità prospettica dell’arte di Piero della Francesca.
Roma
Cinque secoli e mezzo fa moriva il frate di Fiesole oggi beato. Dopo oltre cinquant’anni dall’ultima esposizione dedicata all’artista rinascimentale martedì si inaugura una grande rassegna che ne celebra il genio
Saranno esposte tutte opere di attribuzione certa, anche quelle meno note al pubblico, tra cui la predella di Zagabria, l’Annunciazione di Dresda, il San Giovanni di Lipsia e il trittico dei «Beati e Dannati» che arriva da Oltreoceano
Angelico è il pittore del Paradiso
DI GIOVANNI MORELLO (Avvenire, 03.03,2009).
«Il beato propagandista del Paradiso», così Elsa Morante titolava una appassionata prefazione al primo catalogo moderno delle opere dell’Angelico, redatto da Umberto Baldini, apparso nella benemerita collana dei «Classici dell’Arte Rizzoli», nel 1970. Ed effettivamente nessuno meglio di fra’ Giovanni da Fiesole è riuscito a presentare agli occhi meravigliati di noi comuni mortali le atmosfere mistiche e le realtà soprannaturali della fede cristiana.
I suoi angeli eterei e carnali, rivestiti da preziose vesti colorate, sembrano sempre in procinto di spiccare il volo dispiegando le loro surrealistiche ali multicolori. Le sue Madonne, giovani e delicate, costituiscono non solo un inno terreno alla dolcezza della maternità, ma anche, o forse soprattutto, dell’umile e convita accettazione della volontà di Dio. Il suo Paradiso, a cui si accede danzando, condotti per mano dagli angeli, come nel Giudizio Finale degli Uffizi o in quello di Berlino, raffigurano il momento culminante di quella «Storia della Salvezza» che ha costituito il leit-motiv dell’opera pittorica del frate domenicano a cui ora viene dedicata una grande mostra a Roma, nei Musei Capitolini, sotto l’egida del Comitato Nazionale per le celebrazioni del 550° anniversario della morte del Beato Angelico.
Sono esattamente cinquantaquattro anni, dal lontano 1955, che all’Angelico pittore non viene dedicata una grande mostra monografica, e anche nel mondo il panorama non è molto affollato in questo senso, se si esclude la grande mostra al Metropolitan Museum of Art di New York del 2004. Senza voler essere maliziosi e ritenere che ciò possa derivare da un inconscio tentativo di rimozione da parte di una certa cultura egemone, ancora impregnata di dogmi laici e certezze terrene, c’è da dire che a differenza di quasi tutti gli altri grandi artisti l’esistenza di un Museo, nel convento di San Marco a Firenze, quasi ad personam interamente dedicato all’opera dell’Angelico, ha garantito al pittore domenicano una sorta di «esposizione permanente» della gran parte dei suoi capolavori rendendo così meno pressante la realizzazione di mostre monografiche.
Il 24 febbraio 1955 Pio XII, con un ispirato discorso, aveva inaugurato in Vaticano, nelle sale adiacenti alla splendida Cappella Niccolina, mirabilmente affrescata con le storie dei diaconi Lorenzo e Stefano da fra’ Giovanni da Fiesole, una grande mostra dedicata alle opere del frate domenicano, sintetizzava la valenza culturale dell’arte angelichiana, collocata lungo le vie maestre della cultura occidentale, come pilastro insostituibile, «sia come interprete della sua epoca, sia come effigie promotore dell’avanzamento di quella». Da quel discorso prendeva il via un com- plesso processo culturale ed ecclesiale, concluso il 3 ottobre 1982 con il motu proprio di Giovanni Paolo II che riconosceva ufficialmente il culto liturgico, con il titolo di ’beato’, a fra’ Giovanni da Fiesole.
Nella mostra capitolina «Beato Angelico. L’alba del Rinascimento», che aprirà i battenti il prossimo 7 aprile, per continuare fino al 5 luglio, sarà possibile seguire, il percorso artistico del frate pittore, attraverso tavole, disegni e manoscritti miniati, dalle prime opere giovanili, come la Tebaide degli Uffizi o la Madonna di Ceri del Museo Nazionale di Pisa, alle ultime della sua maturità romana, come la Madonna con il Bambino di Santa Maria sopra Minerva, già ritenuta opera del suo discepolo Benozzo Gozzoli, o la predella della Pala di Bosco ai Frati, dell’omonimo Museo fiorentino, restaurato per l’occasione, così come il trittico con Giudizio finale, Ascensione e Pentecoste, della Galleria Corsini. Roma fu infatti la città dove per circa dieci anni egli realizzò importanti cicli pittorici, purtroppo quasi tutti perduti, tranne quello della vaticana Cappella Niccolina. Roma fu anche la città dove egli chiuse gli occhi sul mondo, per riaprirli in quel Paradiso da lui dipinto e sempre agognato. Roma è la città che ne conserva, alla venerazione dei fedeli, la tomba nella domenicana basilica di Santa Maria sopra Minerva.
La scelta delle opere è stata compiuta tenendo presente due direttrici: da un lato ha osservato criteri di qualità ed autografia, con una significativa campionatura delle varie fasi della produzione dell’Angelico (tra i dipinti figurano un capolavoro assoluto come il Paradiso degli Uffizi, il grande trittico di Cortona completo della sua predella, la luminosa e policroma Annunciazione di San Giovanni Valdarno, e due dei quattro straordinari pannelli dell’Armadio degli Argenti del Museo di San Marco), dall’altro ha mirato a far conoscere opere meno note, o mai esposte, per offrire agli studiosi e al grande pubblico una occasione privilegiata di approccio al mondo artistico e spirituale del Beato Angelico. Saranno così visibili per la prima volta la notevole e complessa predella di Zagabria ( Stimmate di san Francesco e Martirio di san Pietro), la problematica Annunciazione di Dresda (riassemblata nel XVI secolo), il pregevole frammento con San Giovanni Battista di Lipsia (forse collegabile alla pala di San Marco), i due raffinati laterali di trittico con i Beati e i Dannati (1430 c.) oggi in collezione privata americana.
Proprio quest’ultima emozionante opera, probabili pannelli laterali di un trittico che doveva avere al centro un Giudizio Finale perduto, ci riporta al Paradiso dell’Angelico. I due pannelli mostrano su un lato i beati che ascendono festosi nelle loro bianche vesti verso il cielo, dall’altro i dannati che precipitano disperati nelle fiamme dell’Inferno. Questo moto, ascensionale da un lato e discendente dall’altro, non doveva essere ignoto a Michelangelo per il suo Giudizio della Cappella Sistina. D’altro canto il Buonarroti era un fervente ammiratore dell’Angelico, di cui conservava gelosamente nella sua casa romana un resto di affresco con la Vergine, proveniente dalla distrutta cappella in San Pietro, opera del pittore del Mugello.
TESTIMONIANZE. MARINO PARODI INTERVISTA SUOR EMMANUELLE (2008) [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa su "Club3", anno XX, n. 11, novembre 2008 col titolo "Una vita accanto ai piu’ poveri"] *
L’hanno ribattezzata la "Madre Teresa del Cairo", figura alla quale viene sovente accostata. In effetti, suor Emmanuelle e’ per tanti Paesi in via di sviluppo, a cominciare dall’Egitto, cio’ che Madre Teresa e’ stata per l’India.
Francese di origine, anche se la madre e’ belga, suor Emmanuelle Cinquin e’ una straordinaria figura di religiosa e di donna. Icona francese della solidarieta’ e del sostegno ai poveri, si e’ spenta, il 20 ottobre, nella casa di riposo in cui viveva. Il 16 novembre avrebbe compiuto cento anni.
Figura di primissimo piano nel campo della spiritualita’ mondiale, e’ stata un’affascinante "grande vecchia" lucida fino all’ultimo respiro. In mezzo alla tragedia delle bidonville africane, suor Emmanuelle ha fondato scuole, ricoveri, ospedali e centri di formazione professionale. Ha mobilitato cattolici, ortodossi, musulmani, nonche’ molti uomini di buona volonta’, formando eserciti di volontari e creando tante associazioni allo scopo. Come se tutto cio’ non bastasse, l’infaticabile religiosa e’ stata pure un’apprezzata giornalista, nonche’ una gettonata conferenziera pronta a saltare su un aereo per testimoniare il suo impegno e la sua fede in ogni luogo.
Abbiamo incontrato suor Emmanuelle nel Sud della Francia nella casa di riposo in cui viveva dal 1993. Questa e’ la sua ultima intervista rilasciata a "Club3".
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Marino Parodi: Dove ha trovato la forza per il suo impegno a favore del prossimo?
suor Emmanuelle: Le do la stessa risposta che diedi a un giornalista, il quale, intervistandomi, mi chiedeva come potessi sopportare l’inferno delle bidonville, restando sempre cosi’ serena, addirittura felice. Ebbene, l’amore e’ piu’ forte della morte, piu’ forte del denaro, della vendetta e del male: alla base della mia missione vi e’ sempre stata questa consapevolezza. Non a caso, nelle mie bidonville ho sempre incontrato piu’ sorrisi e gioia di quanti ne abbia trovati ovunque in Europa e in America.
Ho viaggiato a lungo in tutti e cinque i continenti: nei Paesi devastati dalla guerra, dalla fame, dalla violenza, dalla prostituzione. Ebbene, dovunque ho incontrato donne e uomini capaci di lavorare per la pace e l’amore, malgrado tutto. Dovunque imperversasse la violenza, ho assistito alla fioritura della vita. Persino negli angoli piu’ bui non mancavano mai oasi di Paradiso e cio’ proprio in virtu’ dell’amore.
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Marino Parodi: Qualcosa mi dice comunque che lei ha pure un segreto da svelarci al riguardo...
suor Emmanuelle: Si’, qualunque sia l’inferno nel quale siamo precipitati, e’ sempre possibile uscirne. Non solo: e’ persino possibile creare un paradiso sulla terra, benche’, naturalmente, non sara’ mai perfetto come quello che ci attende in Cielo. Basta smettere di preoccuparsi per se stessi per dedicarsi agli altri, sorridendo e donando loro la gioia. Ecco che la nostra vita diventera’ piu’ interessante e felice. Io corrispondo tuttora con donne e uomini di tutto il mondo. Molti mi fanno sapere quanto soffrono, sentendosi imprigionati in un’esistenza che a loro pare priva di significato. Al che io rispondo con questo messaggio: davvero non avete ancora compreso che la vostra felicita’ dipende da voi? Non da vostra moglie, ne’ da vostro marito, ne’ dalla bellezza o dalle dimensioni della vostra casa, ne’ dalla vostra carriera, ne’ dal vostro stipendio. Dipende soltanto da noi, dal nostro atteggiamento nei confronti della vita, dalla nostra capacita’ di ascoltare il prossimo, in una parola sola: dal nostro cuore. Sa che le dico, sulla base della mia esperienza di tanti anni di condivisione fraterna della vita di tanti poveri? Non ho mai incontrato donne e uomini piu’ felici dei miei amici delle bidonville. Prendiamo, ad esempio, l’emancipazione femminile che abbiamo conosciuto in Occidente.
Sicuramente un grande passo avanti. Tuttavia, se guardiamo alle donne del nostro Occidente moderno o postmoderno, constatiamo che esse godono si’ di margini di liberta’ per lo piu’ sconosciuti a tante donne del globo, sconosciuti del resto pure alle loro madri, nello stesso Occidente, cio’ nonostante nella stragrande maggioranza dei casi non sembrano ne’ felici ne’ soddisfatte.
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Marino Parodi: Mentre nel Terzo mondo la situazione e’ diversa?
suor Emmanuelle: In linea generale, direi proprio di si’. Non dimentichero’ mai, al riguardo, un’esperienza straordinaria che vissi diversi anni fa in Senegal. Mi trovavo in una capanna coi muri di cartone, in compagnia di un gruppo di donne le quali mi raccontavano in tutta tranquillita’ che, non disponendo di un lavoro, si arrabattavano raccogliendo un po’ di frutta e di verdura da vendere al mercato. Eppure, durante tutta la durata del mio soggiorno, quelle donne non cessarono un solo istante di sorridere e di divertirsi. Davvero mi sono sembrate le donne piu’ felici del mondo. Tutto cio’ e’ dovuto alla fede sincera degli africani in Dio che e’ amore, un Padre a cui la felicita’ dei suoi figli sta veramente a cuore.
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Marino Parodi: Suor Emmanuelle, non di rado lei e’ stata al centro di iniziative clamorose, vero?
suor Emmanuelle: Lei si riferisce, immagino, alla lettera aperta da me indirizzata una quindicina di anni orsono al nostro beneamato Giovanni Paolo II...
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Marino Parodi: Si’, proprio a quella. Vogliamo brevemente spiegare di che cosa si tratto’?
suor Emmanuelle: Si trattava di una lettera in cui invitavo l’allora Santo Padre ad autorizzare e financo a incoraggiare la distribuzione di strumenti contraccettivi in alcune regioni del globo particolarmente segnate da una certa ben nota malattia.
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Marino Parodi: Questa non e’ stata certo l’unica sua iniziativa eclatante. Vogliamo ricordarne un’altra, risalente piu’ o meno allo stesso periodo, particolarmente attuale in tempi come questi, in cui tanto si parla di Islam?
suor Emmanuelle: Avevo organizzato una colletta per permettere a una piccola comunita’ musulmana di edificare un minareto. Sono contenta di averlo fatto e lo rifarei. Infatti, la preghiera e’ un diritto che va assolutamente riconosciuto a tutti. Conoscendo il mondo musulmano da ormai tantissimi anni, sono in grado di garantire che, al di la’ di ogni apparenza e delle paure di tanti occidentali, i fondamentalisti musulmani non sono in realta’ che una piccola minoranza. Invece i musulmani, nella stragrande maggioranza, sono assolutamente aperti al dialogo e all’amore nei confronti delle altre religioni, ne’ piu’ ne’ meno di quanto d’altra parte siano i cristiani autentici nei loro confronti.
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Marino Parodi: L’ecumenismo e’ sempre stato, non a caso, un suo cavallo di battaglia...
suor Emmanuelle: Sicuramente, a livello non solo teorico ma possibilmente anche pratico e questo gia’ in tempi, precedentemente al Concilio, in cui non era certo ancora di moda. Ho sempre ritenuto ogni religione ricca di luce e, per tornare ancora una volta all’Islam, non sono affatto d’accordo con coloro che pretendono di "convertire" i musulmani. Illudersi in tal senso non significa rendere un buon servizio ne’ alla fede cristiana ne’ all’Islam. Sarebbe come pretendere di sradicare un albero dalla sua terra.
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Marino Parodi: Proprio grazie a questo amore senza frontiere per la famiglia umana lei e’ riuscita a scuotere tante coscienze in Occidente, realizzando imprese che nessuno sino a quel punto era riuscito ad attuare...
suor Emmanuelle: Sia chiaro che io non mi attribuisco alcun merito, il quale caso mai va a nostro Signore nonche’ agli uomini (e soprattutto alle donne) di buona volonta’. Sono partita da una semplice constatazione di fatto, per scuotere le coscienze dell’opulento Occidente: l’egoismo dei ricchi e’ in fondo affar loro, ma come e’ possibile dirsi cristiani e mettersi a posto la coscienza andando a messa, davanti ai problemi del Terzo mondo? E’ inaccettabile. Leggiamo il Vangelo di Matteo: avevo fame e mi avete sfamato... Si tratta di decidersi ad amare il prossimo: soltanto cosi’ si realizza il cristianesimo. Con queste premesse, siamo allora riusciti a motivare tanti giovani di vari Paesi occidentali a condividere per qualche tempo la vita dei diseredati del Terzo mondo.
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Marino Parodi: Varie associazioni da lei fondate offrono da decenni a chiunque di vivere la straordinaria esperienza di una "vacanza-volontariato" in diversi Paesi del Terzo mondo. Lei e’ da sempre una grande amica dei giovani...
suor Emmanuelle: Certo, io amo moltissimo i giovani e le diro’ di piu’: la stragrande maggioranza di loro mi sembra assai piu’ aperta e solidale, nei confronti della sofferenza e in particolare dei poveri, di quanto lo fosse, in linea generale, la mia generazione. Oggi i giovani partono, zaino in spalla. Non hanno paura di nulla. Insomma sono meravigliosi i nostri giovani! Le ragazze, poi, se la sanno sbrigare ancor meglio dei ragazzi! Dobbiamo veramente essere grati al Signore per il fatto di vivere in un’epoca in cui i giovani hanno compreso un punto essenziale: se vuoi vivere un’esistenza piena e autentica, non puoi far a meno di uscire da casa, varcare le frontiere.
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Marino Parodi: E siamo giunti pure a un importante consiglio di suor Emmanuelle per mantenersi giovani...
suor Emmanuelle: La maggior parte della gente vive ancora rinchiusa entro i limiti della propria testa, per cosi’ dire, ossia frequentano soltanto la propria famiglia e un ristretto gruppo di amici, leggendo un solo giornale, pochi libri, non andando al di la’ del proprio lavoro. Col risultato, appunto, di finire inscatolati in un piccolo mondo. Invece, i giovani d’oggi giungono alla nostra missione con una conoscenza dell’essere umano assai piu’ profonda di quella di cui disponevo alla loro eta’. Bene, mi permetto di fare una proposta a tutti i giovani, termine che certo non e’ da intendersi soltanto in senso anagrafico: andate a vivere per qualche mese in un villaggio del Terzo mondo, oppure condividete lo stesso periodo di tempo con una famiglia completamente priva di mezzi! Vi renderete ben presto conto di aver ricevuto assai piu’ di quanto abbiate dato.
testimonianza Esce anche in Italia l’appassionata autobiografia della missionaria di origine belga fattasi indomita «apostola degli stracciaioli» del Cairo e scomparsa nel 2008 a 99 anni
Suor Emmanuelle: la mia Chiesa bella
Esce nei prossimi giorni per Jaca Book l’autobiografia di suor Emmanuelle del Cairo, «Confessioni di una religiosa» (pp. 318, euro 24), che in Francia ha venduto 400.000 copie.
Suor Emmanuelle Cinquin, religiosa di origine belga, ha speso la sua vita per i poveri in Sudan, Libano, Filippine, ma soprattutto tra le bidonvilles del Cairo. Il libro viene pubblicato per sua volontà dopo la morte (avvenuta nel 2008 all’età di 99 anni). Sostenuta da una grande fede, suor Emmanuelle si dedicò al Terzo mondo per decenni. Nel 1972 si trasferì nelle baraccopoli del Cairo, dove fece sorgere scuole, cooperative e dispensari tra gli straccivendoli.
«Nella bidonville ho vissuto nella gioia», diceva la religiosa che - ritornata in Europa alla soglia dei cent’anni, costretta all’inazione - diceva d’aver ritrovato il Mistero.
«Io con i cardinali Decourtray e Lustiger: siamo davvero poveri e servi dei poveri?»
DI SUOR EMMANUELLE (Avvenire, 28.01.2010)
In contrasto con il dinamismo dei giovani, ho spesso pensato alla celebre pagina di Balzac che descrive la Chiesa come una vecchietta confinata in una sacrestia ingombra di antiquati orpelli. Sognavo senza ambage di spalancare le finestre e di buttare fuori tutto! Oggi, dopo essere passata in tante sacrestie, sono giunta a convinzioni diverse.
Naturalmente, nulla è perfetto. Ma qual è l’istituzione sulla terra che non presta il fianco a qualche critica? L’ho già scritto: il mio sguardo, ora, si rivolge soprattutto sugli aspetti positivi degli uomini e delle cose.
Sicuramente, mi ci sono voluti molti contatti e molte peregrinazioni per arrivare a discernere, dietro ai vecchi orpelli ecclesiastici, una sconcertante vitalità. Oggi, dopo essere stata ricevuta da numerosi sacerdoti e vescovi, ho fiducia nel dinamismo della Chiesa.
Confesso che non mi aspettavo di trovare nella maggior parte di loro una eco così diretta alle invocazioni del mondo - un solo vescovo, ritenendomi troppo rivoluzionaria, mi ha proibito l’accesso nella sua diocesi! In Francia, ho incontrato preti con uno stile di vita più che modesto, il cui portafoglio si vuotava regolarmente a ogni grido di aiuto: «Da me, la porta è sempre aperta. Chi passa, si siede, e condividiamo la minestra». Nel corso delle serate trascorse nei presbiteri di diversi Paesi, la conversazione si soffermava in genere su una medesima ossessione: «Come rispondere alle richieste degli uomini di oggi?». Spesso in uno sguardo angosciato si leggeva la preoccupazione di non riuscire a corrispondere alle attese. Eppure, li vedevo quei preti, aiutati da volontari, sfinirsi in riunioni, campi, attività sociali di ogni genere e penetrare negli ambienti più colpiti dalle avversità: droga, Aids, carcere. Loro scopo non era sollevare una massa che si dirige altrove, ma risvegliare alla condivisione di un’effettiva solidarietà piccoli gruppi di volenterosi. Quante volte ho condiviso una scodella di riso al prezzo di un pasto completo in una sala parrocchiale! Quanti salvadanai di classe o familiari mi sono stati offerti nel corso di cerimonie religiose!
Quante stupende lettere di bambini nel tempo di Quaresima: «Sorella, ho trasportato delle carriole di sassi per guadagnare il denaro che le invio; ero stanca, ma Gesù lo è di più!». O ancora: «Non ho mangiato tramezzini al prosciutto a scuola per conservare i soldi per i miei fratellini che hanno fame; io, comunque, dopo mangiavo bene a casa». Questa educazione alla condivisione mi ha fatto conoscere una Chiesa più assetata di giustizia di quanto non lo fosse all’epoca della mia infanzia. Il cardinale Decourtray mi ha invitata un giorno alla sua mensa. Con impudenza, mi permisi di chiedergli: «Padre vescovo, la Chiesa è veramente serva e povera?». Ci fu un silenzio... «Abito questo palazzo episcopale che è proprietà dello Stato e rappresenta la residenza del vescovo di Lione. Quando ero giovane prete, avevo preso la decisione di abitare in una stanzetta e di non viaggiare che in bicicletta. Oggi potrei confinarmi in una stanzetta e utilizzare solo una bicicletta? Lei rigira il coltello nella piaga, suor Emmanuelle. Preghi affinché io viva il più poveramente possibile là dove devo attualmente risiedere e affinché io sia veramente il servo di tutti!». Sono le sue testuali parole.
Lo guardai. Il suo volto aveva la tristezza dell’uomo obbligato a vivere lontano dal suo ideale. E tuttavia, lui che aveva risposto alla mia aggressività con la dolcezza e una richiesta di preghiere, non praticava forse quella povertà di spirito che Gesù ha stabilito come prima beatitudine? E, tutti lo sanno, il cardinale Decourtray non faceva spese inutili e d’ostentazione. Se san Paolo fosse oggi arcivescovo di Lione, potrebbe, come ai suoi tempi, fabbricare tende per guadagnarsi da vivere? Potrebbe fare i suoi viaggi da città a città a piedi? In più occasioni ho ritrovato questa nostalgia della povertà primitiva. Con il cardinale Lustiger, invece, ho parlato della formazione dei seminaristi: «Dovrebbero condividere la vita del terzo o del quarto mondo, andare a vivere per un periodo in una bidonville e dormire sotto i ponti con i senza fissa dimora». Senza cedere allo sconcerto davanti al mio tono aggressivo, il cardinale mi ascolta con attenzione: «La loro formazione include, in effetti, un contatto con gli ambienti svantaggiati di Parigi. Ogni settimana trascorrono varie ore al servizio dei più poveri, dei malati, degli anziani, handicappati e senza fissa dimora.
Bisognerebbe prendere in considerazione di mandarli in una bidonville , me la può descrivere?». Lo sentivo pronto ad accettare nuovi suggerimenti. Un amico mi aveva chiesto di porgli questa domanda: «Lei darebbe un posto di lavoro a un omosessuale?». «Sì. L’ho già fatto, perché era un uomo di valore». Mi invitò a parlare a Notre-Dame di Parigi alla fine della messa solenne della domenica sera. Mi abbracciò poi fraternamente, ringraziandomi mentre tornavamo in sacrestia. Non vi vidi vecchi orpelli, ma un uomo dallo spirito giovane, aperto ai problemi del nostro tempo. A Roma ho avuto un terribile fremito di ribellione.
Avrei fatto meglio a non lasciarmi trascinare ai Musei Vaticani: oro, argento, pietre preziose, doni di incredibile valore accumulati nei secoli... Mi trovavo davanti a ricordi di arte sacra o in una grotta di Alì Babà? Ne parlo con un venerabile ecclesiastico: «Vendendo questa inutile miniera d’oro, il Papa potrebbe aiutare tante nazioni povere!». «Il Papa non ha il diritto di farlo, sorella. Mitterrand è forse il proprietario dei tesori del Louvre?». Non so veramente che cosa rispondere! La critica è facile, ma l’arte è difficile. Se fossi «papessa», con il rollio e il beccheggio che provocherei è sicuro che la Chiesa navigherebbe in pace verso il porto?