In fondo, in pdf, un pieghevole sulla Chiesa del Carmine di Contursi Terme (Salerno).
Federico La Sala,
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul "Poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989),
Prefazione di Fulvio Papi,
Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996 - Milano 2013
SCHEMA NARRATIVO DELLE IMMAGINI, ALL’INTERNO DELLA CHIESA DI MARIA SS. DEL CARMINE - CONTURSI TERME (SALERNO):
Entrando, e avanzando verso l’altare
a Sx:
1. Sibilla PERSICA, 2. Sibilla LIBICA, 3. Sibilla DELFICA, 4. Sibilla CUMEA [CHIMICA], 5. Sibilla ERITREA, 6. Sibilla [SAMIA]
a Dx:
12. Sibilla EGIPTIA, 11. Sibilla E[V]ROPEA, 10. Sibilla TIBURTINA, 9. Sibilla FRIGGIA, 8. Sibilla LESPONTICA, 7 Sibilla CUMANA
In alto, dietro e sopra l’altare, una Pala del 1608 di Jacopo de Antora, con - sotto a sx, - il Profeta Elia, - e a dx, il profeta Giovanni Battista, in alto, sulla nuvola, - Maria con il Bambino, e alle loro spalle, - le colline del Carmelo, con chiese e grotte. Nella cupola dell’abside, infine, il Paradiso, realizzato dai pittori Innocenzo Gentile e Carmine de Matina.
di Fulvio Papi
Con una immagine non inappropriata, si potrebbe dire che questo libro è una breve composizione sinfonica dove l’autore preleva temi dalla tradizione musicale che orchestra come preludi indispensabili all’apparizione del proprio tema. Nella dimensione letteraria si può dire che è un libro di citazioni dove anche la scrittura dell’autore vi compare come citazione che, più che dire, annuncia. L’insieme, ovviamente, non ha 1e tracce dell’esposizione legale e paterna, ma cerca la risonanza e la suggestione che il lettore deve accogliere come parola che tenta quasi una religiosa seduzione. Tutto questo è conseguenza coerente di una delle possibili strade che si possono prendere dopo il sospetto intorno alle architetture filosofiche che rappresentano con la spada tagliente del concetto una qualsiasi forma dell’essere.
Nel caso di La Sala il pensiero (e questo è il tema saliente del suo lavoro precedente, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica [Antonio Pellicani Editore, Roma 1991]), non deve istituire il giudizio come conseguenza della trasfigurazione simbolica del mondo, ma accogliere nel profondo 1a dimensione terrestre e sensibile della vita. Una voce, avevo pensato leggendo quel libro, che viene da un Nietzsche senza la volontà di potenza, declinato su quel "femminile" che è stato uno degli elementi di riflessione su un "vuoto" strutturale della nostfa tradizione.
E ora, in breve, qualche cenno sul nuovo viaggio testuale. Il luogo di inizio è nella chiesetta di S. Maria del Carmine, a Contursi, dove, a causa di recenti restauri, viene scoperto un poema pittorico (tempera su muro) di un ignoto carmelitano dell’inizio del ‘600. Il testo raffigura le Sibille che annunciano al mondo pagano la prossima nascita del cristianesimo.
Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo. Ne deriva un’immagine del mondo come presenza divina nella quale abita l’uomo come unità di corpo e anima.
Tuttavia questa grande sinfonia della sacralità del mondo conduce con sé l’esclusione della donna dal sacro: essa può essere solo portatrice di sacralità. Questa esclusione limita la tradizione e riapre la domanda filosofica con l’estremo Kant della Logíca: che cosa è l’uomo? Rispondere a questa domanda, interpretando quello che vuole dire l’autore, significa sottrarci alla nóstra carenza di futuro. Concetto, merce, e definizione della vita sono tre linee che consumano un’unica perdita fatale.
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: "guardiamo il nostro ombelico", rîconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire non i luoghi delle nostre scissioni. La Sala pensa in termini di speranza e di salvezza e di uomo e donna: non sono sentieri miei. E questo dovrebbe testimoniare proprio alla attenta considerazione del lavoro che deriva dall’essere trasportato senza riserve da un testo, per così dire, in piena.
Fulvio Papi
Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Pavia.
PARTE INIZIALE DELLA "PREMESSA" DELL’AUTORE:
Nel 1608, in piena bufera controriformistica, pochi anni prima che in tutta Europa divampassero le guerre di religione e che il filologo Isaac Casaubon (De rebus sacris et eccleslasticis exercitatíones XVI. Ad Cardinalis Baronii prolegomena in Annales, Londra 1614) demolisse “in un sol colpo la costruzione del neoplatonismo rinascimentale con alla base il culto dei prisci teologi principale dei quali era Ermete Trismegisto; [...] la posizione del mago e della magia rinascimentali con il relativo fondamento ermetico- cabalistico; [...] il movimento ermetico cristiano non magico del XVI secolo; [...] la posizione di un ermetico estremista, quale era stato Giordano Bruno; [...] tutti i tentativi di costruire una teologia naturale sull’ermetismo, come quello in cui Campanella aveva riposto le sue speranze”, un ignoto teologo e filosofo carmelitano rimedita nelle linee essenziali il problema e la lezione di Niccolò Cusano, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e, con l’aiuto di modesti artisti, a Contursi - in provincia di Salerno, nella chiesetta di Maria SS. del Carmine (monastero di padri carmelitani dal 1561 al 1652), scrive il suo poema sulla nascita e sulla pace fidei.
Lo schema della narrazione è lineare e semplicissimo - si parla di un viaggio in cui profetesse pagane (12 Sibille) e profeti ebraici (Elia e Giovanni Battista) mostrano la strada all"iniziato" e lo conducono da Maria, madre di Gesù Cristo, da cui rinasce come figlio e, come Cristo, accede al Regno Celeste - ma le questioni che esso solleva vanno ben al di là del suo tempo e gettano una nuova luce su problemi decisivi del nostro pàssato come del nostro stesso presente.
Infatti il poema del teologo-filosofo carmelitano presenta una significativa corrispondenza con il viaggio descritto da Parmenide nella sua opera (il cammino all’iniziato è mostrato dalle Figlie del sole e la destinazione è l’incontro con la Dea Giustizia che gli rivela la verità [...]
*Cfr. Federico La Sala, DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul "Poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), cit., p. 9.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Cappella Sistina-Volta: Sibille e Profeti (Musei Vaticani)
Federico La Sala
EUROPA2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) -OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
IL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO E L’ATTENZIONE DI AURELIO MUSI SU "TRE RITRATTI DI FILIPPO IV" ... *
Il sovrano e la monaca. Il malinconico re di spagna Filippo IV fu sorretto da suor Maria de Agreda
Un saggio di Aurelio Musi ricostruisce la vita di un personaggio roso dai sensi di colpa, giunto sul trono mentre il suo impero si avviava al declino. Negli ultimi anni con l’aiuto di una religiosa dimostrò notevoli doti di statista
di Paolo Mieli ( «Corriere della Sera», 30 marzo 2021)*
Filippo IV di Spagna, detto anche Filippo il Grande o il Re Pianeta, regnò tra il 1621 (quando aveva sedici anni) e il 1665. Una durata lunga, per di più in un’Europa sconvolta da un conflitto che ha lasciato un segno nella storia: la guerra dei Trent’anni (1618-1648). La stagione di suo padre, Filippo III (che regnò dal 1598 al 1621) era stata caratterizzata da una profonda crisi economica che, dopo l’epidemia di peste del 1600, aveva investito soprattutto la Castiglia. Crisi con radici lontane, quantomeno dalla bancarotta del 1596 che aveva fatto vacillare il trono di suo nonno, Filippo II (1559- 1598). Quel Filippo II già provato dalla catastrofica sconfitta dell’Invincibile Armata ad opera dell’Inghilterra (1588). Intendiamoci, la Spagna, a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, era ancora la più grande potenza europea. Un’Europa che nel 1571 aveva sconfitto i turchi a Lepanto, in un’epoca nella quale la Spagna aveva sì perso i Paesi Bassi con la proclamazione delle Sette Province Unite, ma aveva incorporato l’impero portoghese. Quella che si intravede nel libro di Aurelio Musi Filippo IV. La malinconia dell’impero (Salerno) è una Spagna che vive la fine del Siglo de Oro con una crisi di identità e si avvia a cedere alla Francia di Luigi XIV lo scettro del primato continentale.
Musi nota che il 1621 è ad un tempo l’anno dell’ascesa al trono di Filippo IV e della pubblicazione dell’opera L’anatomia della malinconia (Bompiani) dell’autore inglese Robert Burton. Un accostamento che, scrive Musi, «non deve apparire improprio». La crisi d’identità della Spagna, di cui si è detto, si poteva già individuare - come scrivono Carlos Alvar, José Carlos Mainer e Rosa Navarro nella Storia della letteratura spagnola (Einaudi) - nel capolavoro di Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (Bompiani) dato alle stampe in dieci anni tra il 1605 e il 1615. Don Chisciotte, ha scritto John H. Elliott in Il miraggio dell’impero. Olivares e la Spagna dall’apogeo al declino (Salerno), è un libro nel quale «oltre tante parabole, c’era anche quella di un Paese lanciatosi in fiera battaglia solo per accorgersi poi di essere andato a sbattere con la testa contro dei mulini a vento». Sicché tutto era finito nel disinganno, dal momento che «l’illusione non poteva resistere troppo a lungo all’urto della realtà». La malinconia era stata l’effetto di questo disinganno.
Scrisse Robert Burton all’inizio del Seicento che, se c’è un inferno sulla Terra, esso risiede nel cuore di un uomo malinconico. Poi però anche i regni, sottolinea Musi, «possono essere un inferno perché, come corpi politici, sono soggetti alla malinconia». In che senso? Il «corpo infermo dello Stato si manifesta con turbamenti che hanno la loro causa primaria nell’assenza di buon governo». A questo punto «tutto è desolazione abbandono, inciviltà, paradiso trasformato in deserto». La malinconia non è «solo malattia dell’individuo, angoscia esistenziale della sua anima [...] essa è anche la malattia di una collettività, o di una forma di governo, quella monarchica che per Burton resta il modello di Stato migliore». Nella condizione umana di Filippo IV «si può leggere il disordine umorale che turbò il corpo sociale dell’Impero asburgico e l’affezione saturnina dell’epoca barocca».
Qualcosa che si può capire meglio da una rilettura di La vita è sogno (Adelphi) il dramma filosofico-teologico scritto nel 1635 dal drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de La Barca. «La vita è sogno», scrive Musi, «riunisce in un’espressione contratta i molteplici fili della sensibilità barocca» che, nell’età di Filippo IV, giunge alla sua massima maturazione. Nel libro di Calderón de la Barca troviamo il «labile confine tra veglia e sonno»; la «complementarità tra vita e sogno; tra «luce e ombra»; lo «spostamento della realtà nell’immateriale»; la «sospensione contemplativa»; il tempo della produzione simbolica che, per citare Fernando R. de la Flor, «si dà come oggetto un oltre di sé stessa cercando, nella sua strategia in essenza malinconica, di salvare le cose nei linguaggi formali dei caratteri allegorici». L’ingresso dei significanti in un «regime di delirio».
Per spiegare meglio questi concetti Musi fissa l’attenzione su tre ritratti di Filippo IV. Nel primo - del 1626 (attualmente esposto al Museo del Prado) - «se lo sguardo si sposta dalla sporgenza della mandibola rispetto alla mascella verso gli occhi, l’espressione di intensa malinconia non può sfuggire». Nel secondo - dei primi anni Trenta del Seicento (oggi alla National Gallery) - Filippo ha i baffi, abiti di insolito splendore, con vello e catena d’oro e vuole essere rappresentato «nella sua piena maturità». Nel terzo, una figura equestre (al Museo del Prado), «ritorna la grazia malinconica dello sguardo e la stessa espressione è colta da Velázquez nei ritratti dei figli del sovrano».
Ritratti, scrive Musi, che più di tutti gli altri ci rimandano ad un «monarca malinconico»; «l’interprete della malinconia di un impero che, nel giro di qualche decennio, oscillò tra apogeo e declino, tra luce e ombra, fra il delirio imperialistico e lo svanire della speranza di continuare ad essere il centro del mondo». Se ne può dedurre che lo «sprofondamento malinconico» del re sia stato quello dell’impero spagnolo.
Da dove si può immaginare che abbia avuto origine la malinconia del sovrano? C’è innanzitutto un dato di carattere biografico. La prima fase della vita di Filippo IV è segnata dalla perdita della madre, Margherita d’Austria, all’inizio del 1608, quando il futuro re aveva tre anni. La morte della moglie di Filippo III, sostiene Musi, condizionerà profondamente l’intera vita del figlio: «la depressione, l’ossessione della morte, provate fin da piccolo» lo accompagneranno per tutta l’esistenza. A ciò si accompagna la fragilità fisica, ereditata - secondo Voltaire - dal padre, che gli provocherà, a sette anni, una grave malattia. In seguito riceverà un’educazione «spiccatamente repressiva», nel segno dell’austera ortodossia della morale cattolica. Un’educazione che gli verrà impartita proprio nel momento in cui, nel fiore della pubertà, proverà «una sfrenata sensualità, stimoli e pulsioni sessuali assai spinte anche se necessariamente dissimulate».
Suo padre morì, quarantatreenne, dopo la drammatica cacciata dei moriscos cioè i musulmani più o meno sinceramente convertiti al cristianesimo ai tempi della Reconquista. La morte di Filippo III avviene nel pieno della crisi economica di cui si è detto, mentre è appena iniziata la guerra dei Trent’anni. Filippo IV sedicenne può contare sul conte-duca di Olivares (che abbiamo incontrato nel titolo del libro di Elliot). Questi sarà suo primo ministro dal 1621 al 1643, una lunga fase della vita (ventidue anni), nella quale, assecondato da Olivares, Filippo «supera i limiti imposti dalla repressione infantile e della prima adolescenza» e si dà alla seduzione di «donne di ogni ceto sociale, dame di Corte, attrici, cantanti, prostitute anche di basso livello».
All’inizio degli anni Quaranta alcune sconfitte militari, l’intervento francese in Catalogna, la crisi portoghese fanno vacillare la monarchia asburgica. Olivares viene messo alla porta, ma il «malessere» del Paese non si placa. Le rivolte del 1647-48 a Napoli e in Sicilia, i costi della lunga guerra con l’Olanda provocano una nuova crisi economica.
Filippo, ora senza Olivares, dà prova di una grandissima (fino a quel momento insospettabile) capacità di governo. Ma è ancora tormentato per la «dolorosa contraddizione fra le sue profonde convinzioni religiose e la coscienza di essere schiavo dei peccati della carne». E dall’ossessione della morte. Ossessione che si fa più intensa allorché al decesso della madre e del padre si aggiungono la drammatica scomparsa dei fratelli, della prima moglie (Isabella di Borbone), di dieci dei suoi tredici figli, tra i quali Baltasar Carlos, quello a lui più caro.
A questo punto è impossibile capire il «mistero» di Filippo IV senza dedicare attenzione al suo rapporto con suor Maria di Gesù. Suor Maria fu badessa del monastero di Agreda dal 1627 e Filippo la incontrò facendole visita nel 1643, l’anno dell’uscita di scena di Olivares. Filippo ne fu «folgorato», scrive Musi, «tanto da chiederle di iniziare una corrispondenza». Una corrispondenza non occasionale: 614 lettere (314 della badessa, 30o del sovrano) per uno scambio che durò oltre vent’anni dal 1643 al 1665.
Quando Filippo la incontrò, Maria era già famosa per ben cinquecento episodi di bilocazione nel corso dei quali, pur essendo rimasta nel suo monastero, avrebbe «visitato» numerose tribù del Nuovo Messico, del Texas, dell’Arizona, della California. Tribù che, quando furono raggiunte dai missionari, erano già state catechizzate da una misteriosa signora vestita d’azzurro (la dama azul) che «compariva e scompariva senza rivelare la sua identità e provenienza». Poi fu l’arcivescovo di Città del Messico a raccontare di una giovane monaca di Castiglia che, pur non essendosi mai mossa dal suo convento, in alcune sue lettere descriveva l’America come se le fosse familiare. E furono i missionari di cui si è detto ad associare il nome della dama azul a Maria de Agreda. La quale, interrogata dal padre superiore della provincia del Nuovo Messico che le fece visita nel 1631, fu in grado di rivelargli i nomi di tutti i missionari e fece riferimenti molto circostanziati alle tribù catechizzate.
Le esperienze della Agreda, scrive Musi, si inquadrano nel profetismo francescano spagnolo che predicava una conquista pacifica dei territori extraeuropei e l’espansione missionaria affidata alla «potente mano della Madonna». Le apparizioni miracolose della dama azul si comprendono meglio se inquadrate nel contesto «dell’evangelizzazione prima francescana poi gesuita che ebbero un’impronta fortemente mariana». Il personaggio di Maria de Agreda è sicuramente, secondo Musi, uno tra i più affascinanti tra quelli che affollarono la scena delle «sante vive», cioè quelle donne che andavano continuamente «soggette a fenomeni estatici e visionari durante l’età barocca».
Alla fine dell’Ottocento Antonio Silvela pubblicò e curò le Cartas de sor María de Agreda e Joaquin Sánchez de Toca dedicò a queste carte uno studio critico destinato a divenire fondamentale per comprendere appieno la personalità di Filippo. Da quell’ampio carteggio Sánchez de Toca, riassume Musi, traeva la convinzione che «la debolezza fosse il tratto determinante e il difetto principale del carattere di Filippo IV».
E in quest’ottica, sempre secondo Sánchez de Toca, andava interpretata la corrispondenza con suor Maria che, rispetto alla fragilità del suo interlocutore, rivelava «una forza straordinaria» e si accreditava come «la più affascinante figura» tra le donne che ebbero accesso al favore del sovrano. Suor Maria «riuniva in misura eccellente tutte le qualità necessarie al consigliere di un principe» ed era «la testimone della dipendenza emotiva del re dall’autorevolezza della sua guida, spirituale e non solo».
Ma il sostegno spirituale della dama azul non fu sufficiente. Gli storici sono concordi nel datare l’inizio del definitivo declino dell’impero molto più tardi ai tempi della guerra di Successione spagnola ai primi del Settecento. Ma, giustamente, Musi ne individua alcuni segni evidenti già nell’ultima fase del regno di Filippo IV dall’estromissione del conte-duca a quando l’«imperatore malinconico» morirà all’età di sessant’anni. La capacità di governo di cui diede prova in questa ultima parte della vita è fuori discussione. Anzi, è quasi sorprendente se si tiene conto del lungo periodo in cui, su spinta di Olivares, si era dato ai bagordi. Ma a dispetto del suo talento, le paci di metà secolo, di Vestfalia (1648), Pirenei (1659) e Oliva (166o) «ridimensionano fortemente il peso mondiale del re cattolico». E il sistema imperiale spagnolo, nei primi decenni della seconda metà del Seicento, appare sempre più limitato «dal complesso e multipolare sistema di Stati europeo». Con la Spagna di Filippo IV si eclissava un mondo e ne veniva alla luce uno del tutto nuovo.
* FONTE: NUOVA RIVISTA STORICA.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ... CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE.
FLS
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna".
Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
LA VIA DELLA “SETA”: RIPARTIRE DA “GRANADA”. Una “fruttosa” sollecitazione storiografica... *
VISTA la ricca documentazione storica e artistica sul “viaggio” della «”seta”(il melograno/la melagrana)» nell’area mediterranea e, al contempo,l’ammissione preziosa da parte dell’ Autore della ricerca (Armando Polito, "La “seta” (il melograno/la melagrana) 5/5", Fondazione Terra d’Otranto, 04.10.2013) che “In Europa l’unica forma, per così dire, di istituzionalizzazione della melagrana che io conosca è lo stemma della città di Granada”), forse, è il caso di ripartire proprio da Granada e rimettere in moto l’indagine sulla presenza della «”seta”» in tutta l’Europa.
A ben guardare, infatti, la conquista di Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona avviene nel 1492 e la melagrana, nello stemma araldico di Ferdinando II d’Aragona, compare proprio dal 1492 e, poi, ricompare - definitivamente “istituzionalizzata” - nella mano dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano I d’Asburgo, ritratto da Albrecht Durer nel 1519. **
A partire dalla “melagrana”, e ripartendo da Granada, l’orizzonte si apre sulla nascita del “sistema imperiale spagnolo” e, all’indietro, sui passi accidentati di una “storia del mondo”, iniziata almeno nel IX sec. a.C (riguardare la documentazione “archeologica”: “il frammento di un bassorilievo ittita del IX secolo a. C. raffigurante la dea Kubaba ... La dea stringe nella destra una melagrana”).
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LA MONARCHIA SPAGNOLA DEL XVI SECOLO:
FILIPPO II, LA QUESTIONE DELLE FIANDRE, E LA FIGURA DI CARLO ARAGONA TAGLIAVIA.... *
A MEGLIO INTENDERE L’IMPORTANZA del lavoro di Lina Scalisi, "Da Palermo a Colonia. Carlo Aragona Tagliavia e la questione delle Fiandre (1577-1580)", e delle sollecitazioni critiche di Aurelio Musi (qui - espresse), forse, potrebbe essere utile “capovolgere” il titolo del libro e “rileggerlo” all’incontrario:”La questione delle Fiandre (1577-1580) e Carlo Aragona Tagliavia. Da Colonia a Palermo”; e, alla luce del pertinente e giusto “riferimento alla categoria di sistema imperiale spagnolo”, riprendere il filo del discorso proprio dal “periodo critico della rivolta delle Fiandre, quando la questione religiosa si innesta sul conflitto politico” e, al contempo, dal tener presente che dall’Escorial - a partire da questi anni - non è tutto oro quello che si vede luccicare all’orizzonte.
Filippo II comincia a perdere la sua “prudenza”, già nel 1577: la sua “bilancia dei poteri” (il partito “albistas” e il partito “ebolistas”) inizia a rompersi e l’equilibrio della erasmiana “follia” (“Fatemi un edificio - sembra che abbia detto agli architetti incaricati di costruire il Palazzo Reale e l’Escorial - che faccia dire ai posteri che eravamo pazzi”) diventa sempre più instabile.
Nel 1567/1568, “el Rey Prudente” ha già dato carta bianca al III Duca d’Alba di reprimere la rivolta olandese (“Tribunale dei tumulti”) e persino fatto giustiziare figure di primissimo piano come i conti di Egmont e di Horn (cavalieri dell’Ordine del Toson d’Oro) e, nel 1573, ha perso il suo consigliere e amico portoghese più fidato, Ruy Gomez, il principe di Eboli.
Al “massimo livello del suo sviluppo”, la “testa” del corpo mistico del regno (il “sistema imperiale spagnolo”) comincia a riscaldarsi, a fare “sogni di gloria” (annessione del Portogallo, 1580), a invadere l’Inghilterra e ad allestire l’Armada (1885). E’ troppo pensare che sull’impero, su cui non tramontava mai il sole, proprio ora (con “la linea politica del valimiento” e la figura di Carlo Aragona Tagliavia) cominci a scendere la sera?
Federico La Sala
IL «SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO» E L’ «UNIVERSALISMO» DI CARLO V...*
SE E’ VERO CHE, "Fin dal titolo, «Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità, relazioni, immagini (secc. XVI-XVIII)» - i due tomi, curati mirabilmente da Rossella Cancila, editi da «Quaderni di Mediterranea Ricerche Storiche» - appaiono intriganti e utili per un avanzamento degli studi storici sul sistema imperiale spagnolo" (A. Musi, qui), FORSE, è opportuno tenere presente che l’organizzazione stessa del sistema imperiale ha una sua "storia" e, più propriamente che, sì, "La Castiglia gioca sicuramente - come sostiene nell’Introduzione Rossella Cancila (p. VIII) - un ruolo preponderante all’interno dell’insieme" all’epoca di Filippo II, ma - è da precisare, per non perdere la differenza - non nella fase di Carlo V.
Dimenticare il legame di Carlo V con le sue "radici" (i Paesi Bassi e la Borgogna) porta, a mio parere, a distorsioni e a fraintendimenti non solo delle stesse relazioni all’interno del sistema imperiale ma a "dimenticare" anche il ruolo importante (ancora non ben messo a fuoco) del portoghese Ruy Gomez, Principe di Eboli, grande collaboratore dello stesso Filippo II: "La proposta di polycentric monarchies è applicabile anche al caso portoghese e non solamente in relazione agli anni di unione delle due corone (1580-1640), ma anche in riferimento all’eredità che gli Asburgo lasciarono alla monarchia lusitana negli anni successivi" (p. IX); e, ancora e non ultimo, a non comprendere la grande portata ideologica e strutturale dell’Ordine del Toson d’Oro, creato da Filippo di Borgogna.
* Nota a margine della rec. di Aurelio Musi, "Alla scoperta della monarchia spagnola dei secoli XVI-XVIII, nei volumi curati da Rossella Cancila" (L’Identità di Clio, 16 novembre 2020)
Federico La Sala
LA SPAGNA DI CARLO V, FILIPPO II E TERESA ’AVILA, E LA "STORIA" DI CONTURSI - IERI E OGGI...
A.
UNA "TESTIMONIANZA" DELLA "CRONISTA CONZANA" [1691] SULL’AMICIZIA DELLA CITTA’ DI CONTURSI CON L’IMPERATORE CARLO V:
"Fù onorata questa Terra dall’imperatore Carlo V, il quale passò per Contursi e l’Auletta, ed in Contursi nobilitò quei cittadini dicendo “nobilitamus omnes cives contursinos” e perciò li cittadini di detta Terra sin’al presente giorno si vanno vantando essere nobili e tengono un certo libro de’ loro privilegi e capitolazioni, volgarmente detto il livro rosso, ove sono tutte le raggioni e decreti fatti nel S. C. [Sacro Consiglio] e R. C. [Regia Camera] à pro dell’Università e vi è in detto libro una cosa curiosa ed è che L’arciprete di Contursi antichissimo haveva non so che teneva col padrone di detta Terra ed il detto se n’andò à ritrovare Carlo V sino à Spagna e detto Imperatore ordinò al padrone di detta Terra, sotto rigorose pene, che non molestasse il detto Arciprete, mà perché detto padrone di Contursi prese à malo tal fatto, perciò ritornò un’altra volta il detto Arciprete à Spagna ed otten’ordine dal detto Imperatore diretto al detto padrone di Conturso che in ogni mese mandasse fede di quale verità della salute che godeva detto Arciprete e ciò à proprie spese dal detto Barone e sin’hora in detto libro se ne conservano le lettere originali" (Cfr. “La Cronista Conzana del Castellani", a cura di don Franco Celetta, Circolo Culturale Cristiano “Santa croce”, Montella [...]: cfr. il Libro rosso dell’Università della Terra di Conturso, A cura di Salvatore Bini, Arci Postiglione 2018, vol. I, pp. 21-22).
B.
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
C.
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento (24 GIUGNO 2012).
Federico La Sala
Un messaggio dell’imperatore [1917]
di Franz Kafka *
L’imperatore - così si racconta - ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.
Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma questo mai e poi mai potrà avvenire - c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera
* Cfr. Franz Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1990, pp. 235-236.
La bustina di minerva
Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia
"C’è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c’è un giudice anche a Roma di Umberto Eco * ’Ci deve pur essere un giudice a Berlino’ è espressione che, anche quando se ne ignora l’origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l’aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all’inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n’era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all’estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.
Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l’aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.
Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino.
Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all’inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell’imparzialità della giustizia.
Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un’area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d’appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell’interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d’orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l’idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.
* Fonte: L’Espresso, 12 agosto 2013
Sul "caso del mugnaio Arnold",, si cfr. anche: Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2007, pp. 119-121.
FLS
Storia e attualità.
Il ritorno a casa dei Sefarditi, cinque secoli dopo
Si è chiuso il procedimento avviato da una legge del 2014 che ha consentito ai discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo di “riacquisire” la "perduta" cittadinanza iberica
di Paola Del Vecchio (Avvenire, sabato 12 ottobre 2019)
Il colombiano Andrés Villegas spera di trascorrere «una gradevole vecchiaia » in Spagna. E per questo non gli è costato spulciare nei registri ecclesiastici e perfino negli archivi dell’Inquisizione di Cartagena, che condannava chi praticava riti ebraici, per risalire ai suoi avi. In particolare al capitano Cristobál Gómez de Castro, che nacque nel 1595 e fu perseguitato per diffondere l’ebraismo.
Andrés Villegas è uno delle decine di migliaia di ebrei sefarditi che recupereranno la nazionalità spagnola persa oltre cinque secoli fa dai propri ascendenti, cacciati in massa per effetto dell’editto di conversione al cattolicesimo o di espulsione degli ebrei (Decreto di Alhambra), firmato il 31 marzo del 1492 dai Re Cattolici. È all’origine della diaspora che pose fine a 1.500 anni di presenza degli ebrei a Sefarad, il toponimo col quale la tradizione ebraica identificava la penisola iberica, per cui i discendenti sono identificati come ebrei sefarditi.
Molti si rifugiarono nell’adiacente Portogallo, in nord Africa, nei Balcani, in Turchia, ma anche in Sardegna e Sicilia, sotto il dominio spagnolo, e poi nelle Americhe. «Alcuni di loro, come avviene nei bazar di Istanbul, ancora conservano le chiavi delle case dalle quali furono cacciati», ricorda Ibrahim Lorenz, sefardita marocchino naturalizzato spagnolo.
Per riparare quella «ingiustizia storica», il governo di Madrid varò nel 2014 un disegno di legge per riconoscere la nazionalità - senza perdere quella d’origine - a tutti coloro in grado di dimostrare, con un certificato della Federazione delle comunità ebraiche in Spagna o dell’autorità rabbinica riconosciuta nel proprio Paese, la propria condizione di sefarditi per cognome, lingua, parentela e vincoli speciali con la cultura sefardita. La normativa, approvata all’unanimità dal Parlamento, puntava a «riparare un aggravio storico».
Il primo ottobre scorso, alla scadenza del termine previsto dalla normativa, sono state 149.822 le richieste pervenute al Ministero di giustizia e al Consiglio generale del notariato, delle quali oltre 72 mila nel solo ultimo mese, in gran parte provenienti dall’America Latina: circa 20 mila dal Messico, 15 mila dal Venezuela e 10 mila dalla Colombia. «I sefarditi non sono più ’spagnoli senza patria’», ha celebrato Isaac Querub, presidente della Federazione di comunità ebraiche, promotrice dell’iniziativa con l’allora ministro di Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon. «La Spagna ha chiuso una ferita storica con un atto di giustizia perdurante nella memoria», ha rilevato.
Un rush finale per quello che è stato un percorso ad ostacoli, «relativamente difficile », secondo il quotidiano israeliano "Haaretz". Con la proroga di un anno della dead line, sono stati infatti semplificati alcuni dei requisiti richiesti. Non solo per la difficoltà delle comunità ebraiche di evadere le numerosissime petizioni, ma anche per la necessità di sostenere esami all’Istituto Cervantes, per accreditare la conoscenza di lingua e cultura spagnola. Più di tutto, l’esigenza di doversi recare in Spagna per registrare in atto notarile l’origine sefardita ha rappresentato un ostacolo per i circa 2 milioni di sefarditi stimati inizialmente da Madrid come eredi degli almeno 200 mila deportati e dispersi nel XV secolo.
«Nello spirito della legge c’è una sorta di risarcimento storico, per compensare la sofferenza che i sefarditi hanno manifestato nei secoli nella propria letteratura, poesia e canzoni», spiega Santiago Palacios, dottore di Storia Medievale all’Università Autonoma di Madrid. «Ma - afferma - è puramente simbolico. Colpisce che non sia stato avviato lo stesso processo con i moreschi, che soffrirono le stesse persecuzioni, per la comunità musulmana oggi radicata in prevalenza nel Magreb».
Per alcuni, come Doreen Alhadeff, statunitense di 69 anni di Seattle, che ha ottenuto la nazionalità per sé e le due nipoti, è stato più facile. In casa ascoltava parlare ladino, lo spagnolo che dal Medioevo le comunità sefardite ancora conservano. «Sentivo che era stato tolto qualcosa di importante alla mia famiglia e volevo recuperarlo», ha scritto nelle sue motivazioni.
Per altri, come lo scrittore francese Pierre Assouline, è stato più difficile. «Ho amici francesi che hanno ottenuto il passaporto spagnolo in maniera più rapida, è deludente», spiega l’autore, che nel suo dossier ha incluso una lettera al re Felipe VI.
La misura di «riconciliazione» consente di avere un passaporto europeo che, per molti latinoamericani, è il principale obiettivo. Da qui la corsa finale.
Già nel 2007 il governo socialista di Zapatero lanciò un’iniziativa di ’riparazione’ nei confronti dei discendenti di spagnoli emigrati durante la Guerra civile (1936-39) e il franchismo, naturalizzando mezzo milione di latinoamericani che riuscirono a provare la loro discendenza dagli esiliati.
"Pace senza confini”. Sul Mediterraneo chiamati a scegliere fra carità e odio *
Verso Bari 2020.
«La Spagna abbraccia l’Africa. Con una Chiesa senza confini»
di Giacomo Gambassi, inviato in Spagna (Avvenire, mercoledì 18 settembre 2019)
Parla il cardinale Blázquez Pérez, presidente dei vescovi iberici che parteciperà all’evento Cei sul Mediterraneo. «La nostra è una comunità che vive sulle due sponde. No ai cuori e alle porte chiuse»
È una piccola via nel cuore di Valladolid calle San Juan de Dios. A poche decine di metri dalla Cattedrale di Nuestra Señora de la Asunción, grandiosa testimonianza di fede rimasta incompiuta dopo il trasloco della capitale del regno a Madrid, la strada dedicata al fondatore dei Fatebenefratelli accoglie in un largo il palazzo arcivescovile. Il grande portone d’ingresso si apre sulla facciata color rosa, incastonata fra due torri.
Il cardinale Ricardo Blázquez Pérez rivolge lo sguardo verso una delle finestre del suo studio. «La Chiesa spagnola vive sulle due sponde del Mediterraneo», spiega il porporato di 77 anni che nel 2015 ha ricevuto la berretta da papa Francesco, l’anno dopo essere stato rieletto per la seconda volta presidente della Conferenza episcopale spagnola. Sarà lui a guidare la delegazione nazionale all’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo, frontiera di pace” voluto dalla Cei che si terrà a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 e che sarà concluso da papa Bergoglio.
Con voce pacata, l’arcivescovo di Valladolid si dice convinto che la comunità ecclesiale «è chiamata ad essere testimone di riconciliazione fra i popoli» che orbitano attorno al grande mare «tenendo conto che viviamo nel medesimo spazio vitale e che non possiamo separaci men che meno ora, in un mondo globalizzato. Ricordare quanto ci consegna la storia può aiutare: qui è nato e si è diffuso il cristianesimo. E la convivenza nella diversità è precondizione e punto di partenza».
Dalla città nella comunità autonoma di Castiglia e León il cardinale racconta la sua Chiesa, quella spagnola, che è ancora di «popolo» anche se si assiste a «un raffreddamento religioso», che deve essere «missionaria» ripartendo dal laicato, che «soffre» per norme o proposte legislative che minano il matrimonio o aprono all’eutanasia, che sa dialogare con l’islam, che è tenuta a «praticare l’ospitalità in modo generoso».
Eminenza, una parte del bacino mediterraneo è segnata da conflitti e miseria. Come la Chiesa spagnola guarda a quanto accade a poca distanza?
Siamo una comunità ecclesiale che va al di là del mare. Dico fin da subito che quanti vivono nella sponda Sud sono nostri fratelli a tutti gli effetti. Basti citare ciò che accade nelle diocesi di Cadice, Ceuta, Malaga con Melilla che hanno cristiani sulle due rive.
Poi la Chiesa di Tangeri, città portuale del Marocco di fronte allo stretto di Gibilterra, tradizionalmente guidata da un vescovo francescano spagnolo, beneficia di aiuti sociali dalla Spagna.
In Italia si discute molto di migranti che giungono sulle nostre coste. Come il suo Paese si confronta con il fenomeno?
Anche da noi arrivano costantemente dall’Africa barche con persone in cerca di un nuovo orizzonte di vita. Molti fuggono dalla fame, dalle persecuzioni, dalla povertà. Il senso di umanità e di fraternità è insostituibile per affrontare la situazione e cercare di trovarvi soluzioni. Il Vangelo è fonte inestinguibile di azioni e comportamenti pacifici e rispettosi. Le condizioni presenti ci pongono la sfida di comprendere e di agire nella convinzione che le migrazioni agitur rea nostra. Viviamo un frangente nuovo che dobbiamo analizzare in modo profondo, tenendo conto dei vari fattori in gioco.
Quale il ruolo dell’Europa di fronte alle crisi nel Mediterraneo?
L’Africa confina con la Spagna, che al contempo è parte dell’Unione europea. L’Europa nel suo insieme deve assumersi la propria responsabilità in tale ambito. L’ospitalità, che è parte dell’etica umana e della morale cristiana, deve essere praticata all’interno di una pluralità religiosa delle nostre società nei confronti degli immigrati e, in particolare, dei rifugiati. D’altra parte, è chiaro che senza una regolazione complessiva cadremo nel caos. Che cosa si può fare nei Paesi d’origine? Ci sono nei tragitti uomini e organizzazioni che abusano dei poveri e degli indifesi? Certamente il cuore chiuso non deve portarci a chiudere le porte. A causa di pressioni sociali e politiche, l’Ue non affronta questa realtà né offre risposte.
La Chiesa spagnola è nel cuore della gente. Eppure un quarto degli abitanti si dichiara non credente o ateo.
Ritengo che la fede cristiana e la Chiesa siano ancora profondamente radicate. Al contempo si assiste a una minore esplicitazione dell’appartenenza ecclesiale, a una poca attenzione all’insegnamento cristiano e a una diminuzione dei praticanti. Che cosa fa la Chiesa? In primo luogo, analizza ciò che sta accadendo. Come cristiani vogliamo essere vicini alle persone con i loro dubbi, intensificare la trasmissione della fede nella vita personale e comunitaria. Comunque negli ultimi tempi notiamo un clima meno aggressivo nei confronti della Chiesa; a ciò contribuisce l’atteggiamento e il messaggio di papa Francesco.
Il Piano pastorale nazionale ha come tema “Chiesa in missione a servizio del nostro popolo”. E state preparando il Congresso nazionale del laicato.
Gli attuali percorsi di iniziazione alla fede non sono più sufficienti. La catena di formazione cristiana che comprendeva famiglia, parrocchia e scuola andava bene in un ambiente sociale uniforme, impregnato di pratica religiosa. Oggi la catena si è spezzata. È dunque necessario un itinerario che unisca dimensione personale e comunitaria. La formazione, l’azione e l’esperienza personale sono inseparabili. La Chiesa “in uscita” è l’altra faccia, necessaria, di una della Chiesa in comunione. Perché comunione e missione hanno una relazione reciproca. La fede deve essere apostolica. E a sua volta la missione consolida l’unità della Chiesa. Inoltre, dopo anni in cui era scomparsa di fatto l’Acción Católica General e quindi si assisteva a rimpianti per la sua assenza, stiamo creando un nuovo stile d’impegno. Ecco, perciò, il Congresso dei laici “popolo di Dio in uscita” che si svolgerà nel febbraio 2020.
Anche la Spagna fa i conti con un’onda libertaria. C’è la legge sulle nozze gay. Si discute di eutanasia.
L’istituto matrimoniale qui, come in altri Paesi europei, soffre di una de-istituzionalizzazione. Lo dimostrano le convivenze, le coppie di fatto con o senza forme di riconoscimento giuridico, le numerose separazioni, i divorzi facili, i cosiddetti matrimoni fra persone dello stesso sesso. Tutto ciò provoca instabilità sociale e un’educazione complicata per i figli. Siamo minacciati anche da una legge sull’eutanasia che eufemisticamente viene chiamata “morte degna”, perché manca il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Per la Chiesa ciò è fonte di angoscia. Così ci proponiamo di raccontare, con molte iniziative, la bellezza del matrimonio cristiano, la perseveranza nell’amore, il valore di educare i figli in un ambiente propizio. Uno stimolo importante giunge dall’Esortazione apostolica Amoris laetitia. Tuttavia la legislazione nazionale segue criteri ideologici.
Il Paese è tornato a fare i conti con il terrorismo. Stavolta di matrice islamista.
Per decenni abbiamo sofferto il terrorismo dell’Eta. Sebbene sia stato un sollievo la scelta dell’organizzazione di rinunciare alla violenza, restano numerose ferite da cicatrizzare. Sono necessari molti sforzi, il riconoscimento delle responsabilità e tempo per la riconciliazione.
Attualmente l’islam è la seconda religione spagnola per numero di fedeli. Come si coltiva il dialogo interreligioso?
Il documento firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar indica il cammino. L’islam è radicato fra noi da anni ed è trattato con rispetto. Su questo ha influito probabilmente la convivenza secolare fra spagnoli e marocchini in Nord Africa. Tutt’altra cosa sono gli attentati terroristici che gli stessi musulmani condannano. Serve rafforzare la convivenza democratica e la formazione che è fondamentale in ogni società civile.
Sul tema, in rete, cfr.:
Madrid. Bassetti: sul Mediterraneo chiamati a scegliere fra carità e odio
Il presidente della Cei alla tavola rotonda “Mediterraneo: vivere insieme è possibile” inserita nel forum internazionale di Sant’Egidio “Pace senza confini” (Giacomo Gambassi, inviato a Madrid, "Avvenire", lunedì 16 settembre 2019)
Madrid. Papa a Sant’Egidio: preghiera e dialogo nella prospettiva della pace
Si è aperto a Madrid “Pace senza confini”, l’annuale incontro di Sant’Egidio nello spirito di Assisi
di Giacomo Gambassi, inviato a Madrid (Avvenire, lunedì 16 settembre 2019)
La voce è quella di Carlos. Tocca a lui, 42 anni della Comunità di Sant’Egidio di Madrid, far “parlare” papa Francesco nella capitale spagnola che ospita l’incontro internazionale “Pace senza confini”. È l’appuntamento numero 33 “nello spirito di Assisi”. Uno spirito che è “preghiera a Dio e promozione della pace tra i popoli”, spiega Francesco tornando all’evento voluto da Giovanni Paolo II che nel 1986 aveva convocato nella città umbra i leader spirituali. Un’intuizione che ha dato vita a un “pellegrinaggio di pace” ideato da Sant’Egidio, come lo definisce Bergoglio, che adesso fa tappa a Madrid. Nella giornata di inaugurazione, domenica pomeriggio, sono in duemila nel Palacio municipal de congresos all’interno della Fiera. Duemila volti che raccontano fedi, culture, tradizioni e popoli di ogni latitudine.
“Stiamo vivendo un momento difficile per il mondo - scrive il Papa nel testo che viene letto all’inizio -. Dobbiamo unirci tutti, direi con uno stesso cuore e una stessa voce, per gridare che la pace non ha frontiere”. Anzi, aggiunge il Pontefice, “è folle chiudere spazi, separare popoli o, peggio, affrontarsi gli uni gli altri, rifiutare l’ospitalità a chi ha bisogno”. Nel messaggio indirizzato al “padrone di casa” il cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid, il Papa ricorda la caduta del Muro di Berlino, trent’anni fa, che accese “nuove speranze di pace”. Ma, prosegue, oggi assistiamo “allo spreco di quel dono di Dio” dilapidato “con nuove guerre e con la costruzione di nuovi muri”.
Eppure i muri cadono “quando sono assediati con la preghiera e non con le armi”. Da qui i due punti fermi che Francesco indica: “preghiera” e “dialogo”. Che si traducono in “fraternità tra i credenti”, come mostra il Documento sulla fratellanza di Abu Dhabi, citato dal Pontefice.
Nell’auditorium siedono sette cardinali, fra cui il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, e oltre venti vescovi. Poi rappresentanti delle diverse confessioni cristiane e di numerose religioni, comprese alcune delegazioni giunte dall’Asia. “Il dialogo ci salverà, non i confini”, dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio e instancabile anima del forum organizzato stavolta con l’arcidiocesi di Madrid. Anche lui richiama la caduta del Muro per denunciare che adesso “il mondo globale ha smarrito l’entusiasmo per la pace”. E negli ultimi tre decenni sono sorti nuovi confini. “Alcuni non sono frontiere, ma muri: per ragioni militari, difensive, per frenare i migranti”. E la questione dei rifugiati “si pone con un vigore tale che è impossibile risolverla con le scelte dei singoli Paesi”. Inoltre c’è “una ripresa di prospettive nazionali antagoniste o nazionalistiche”. E ricorda l’inizio della seconda guerra mondiale, 80 anni fa. Tuttavia, ammonisce Riccardi, ormai “siamo troppo abituati all’assenza di pace e ci basta che la guerra che sia lontana da noi”. Serve allora un “umanesimo planetario”. Perché “i confini esistono ma non possono diventare muri” e “i credenti li superano con lo sguardo del cuore e con la parola del dialogo”.
È una carrellata di voci di speranza dal mondo quella che irrompe con la sua forza profetica nella Fiera di Madrid. Con sensibilità e punti di vista differenti che trovano sintesi intorno allo spirito di Assisi.
Il presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadéra, invoca fra gli applausi disarmo e abolizione della pena di morte. E rilancia l’idea di un’”Eurafrica” ringraziando papa Francesco. “Non ci sarà stabilità e sviluppo dell’Africa senza l’Europa e viceversa”, sostiene. Guerre, ingiustizie sociali, crisi ecologica segnano il presente. Più volte torna l’intuizione di Paolo VI che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” o lo slancio della Laudato si’ di Bergoglio.
Lo studioso statunitense Jeffrey D. Sachs sprona i Paesi ricchi a donare “l’1% del loro Pil agli Stati poveri: così verrebbe cancellata la povertà estrema”. E Filippo Grandi, alto commissario per i rifugiati dell’Onu, esorta ad andare alle vere cause degli “sfollamenti forzati” e a non perdere tempo “con i porti chiusi che sono risposte sbagliate e inutili”.
Fondamentale il ruolo delle fedi. Il segretario dell’università di Al Azhar in Egitto, Mohammad Al-Mahrasawi, rivendica l’impegno musulmano alla “pace illimitata” e insiste che il “terrorismo non ha religioni”. Invoca il dialogo il rabbino capo di Tel Avil, Israel Meir Lau, sopravvissuto ai lager nazisti in Polonia. “Sapete perché c’è stato il primo omicidio della storia, quello di Abele ucciso da Caino? - dice -. Perché i due forse non si confrontavano, non parlavano”. E il metropolita della Chiesa ortodossa russa, Hilarion, vede nella “comprensione reciproca fra le fedi e i popoli” la via per “opporsi alla violenza e al terrorismo”. Fondamentalismo che diventa “profanazione” con i gruppi radicali che “compiono le loro azioni anche durante le celebrazioni nelle chiese”. Poi tuona: “Il loro spirito non è lo Spirito di Dio”. E allora tornano le parole del messaggio del Papa per l’incontro. La sfida è costruire insieme “la casa comune”, come la chiama Francesco, che “non sopporta muri che separino” e che necessita di “porte aperte”. “Sempre, senza eccezioni”, insiste Bergoglio.
L’invito a essere a “servizio della fraternità” giunge domenica mattina dal cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid durante la Messa di apertura dell’evento spagnolo. Non si riesce a entrare nella Cattedrale dell’Almudena. Ed è come se fra le navate soffi lo “spirito di Assisi” che più volte viene richiamato durante la celebrazione, a cominciare da Osoro Sierra. “Abbiamo il compito della pace”, ripete nell’omelia. È “un impegno personale e sociale” che ha bisogno di “un realismo incarnato”, sottolinea.
In prima fila il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, che ha vicino il presidente della Repubblica centroafricana, Faustin-Archange Touadéra. Intorno all’altare, accanto a Osoro Sierra, tre cardinali (più uno in pectore, Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna) e sedici vescovi. Nella preghiera dei fedeli, in più lingue, si sollecita un sussulto d’anima verso “coloro che bussano alle porte d’Europa” perché non le trovino chiuse. E il cardinale tiene a far sapere che “in questo momento storico ci è chiesto di non favorire mai coloro che approfittano del risentimento”. E se si vuole creare “canali di incontro” non è possibile farlo “attraverso il consenso ma solo con il dialogo” che consente di “distruggere i pregiudizi”. L’Italia è a mille chilometri, ma le parole di Osoro Sierra valgono qualsiasi sia la riva del Mediterraneo.
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL DESIDERIO DI VENDETTA, (L’ "EXORIARe") DI DIDONE (ANNIBALE), L’ESCORIAL DEL RE DI SPAGNA E DEL VICERE DI NAPOLI, IL CONTE DI OSSUNA, E "IL MERCANTE" MIGUEL VAAZ ..... *
Quella Napoli del Seicento
di Mimmo Carratelli (napoli.com)
Chi è il conte di Ossuna, conte e viceré di Napoli, e perché parla male di don Miguel Vaaz? Parafrasando il titolo di un film di Dustin Hoffman è questa la domanda che nasce dal libro di Nino Masiello (“Il mercante”, Massa Editore) che scava magnificamente nella Napoli del ‘600 proponendo la vicenda partenopea del mercante portoghese, uno dei più grandi mercanti europei di grano, inviso al viceré, e da questi perseguitato, da dover chiedere asilo nella Chiesa dell’Ascensione a Chiaia per sfuggire a suoi sgherri.
La grande lapida posta nella chiesa, traccia del passaggio napoletano di don Miguel Vaaz, che a Napoli, sua patria di adozione, visse per quaranta e più anni, è il punto di partenza per dipanare una storia tanto ricca di particolari da proiettarci nella vita della città e del Regno di Napoli al punto che, andando avanti nella lettura, dalla gran via di Toledo a Chiaia, così chiamata perché era stata una spiaggia, appunto una “chiaja”, tra Eletti, armigeri, carrozze, il Grassiere, i capitani di giustizia, i portieri con le mazze di argento, la Sommaria, la Vicaria, i duchi e le duchesse, gentiluomini e servi, palazzi e chiese, e popolani inferociti (“serra serra ci fanno mancare il pane”), si finisce per sentire i segugi di Ossuna alle calcagna e si prende fiato solo alla tavola di don Miguel dove lui racconta e offre brodo di gallina, crocchette, polpette di montone con zucchero e cannella e qualche frittella dolce per chiudere.
L’abilità di Nino Masiello, giornalista e scrittore, autore teatrale e di una storia del teatro popolare napoletano del ‘900, è proprio questa di attrarre il lettore al Mandracchio, alle “fosse del grano”, alla Marina del vino, al tribunale di San Lorenzo, nella carestia nel 1607, intravedendo l’intrigante cavese don Giulio Genoino e Tommaso Campanella in condizioni pietose nel torrione di Castelnuovo, la Napoli tumultuosa di quel tempo, grande e confusa città europea, alla pari di Parigi e Londra, alimentata da un forte flusso immigratorio e, col porto, città di grandi traffici e opportunità.
La vicenda di don Miguel Vaaz, la sua visione di San Pietro dei Celestini “nell’atto di proteggerlo”, la ristrutturazione della chiesa dell’Ascensione, che aveva le fondamenta su una palude, non solo in segno di riconoscenza per i tre anni di asilo, ma come testimonianza dell’intenzione di “legarsi seriamente alla città”, gli affari di don Miguel, il suo contributo per alleviare la carestia, le cene nel gran palazzo su via Toledo, sessanta stanze su tre piani, costato trentamila ducati, i suoi pomeriggi di siesta in giardino, “su un ampio sedile scolpito in un enorme masso di pietra vesuviana”, all’ombra di un albero di limone, mentre la domestica Dolores gli porta uno sciroppo di menta, e la casa comprata a trenta metri dalla chiesa dell’Ascensione, tutto questo è il canovaccio attorno al quale si muove la città che Masiello ci fa vivere “in diretta”.
La Napoli del ‘600.
Ed eccoci alla “parata del donativo” verso la strada di San Lorenzo, eccoci alle cavalcate dei cavalieri, al porto dove arrivano e partono galeoni, tartane e navi ragusane per i traffici militari e commerciali, eccoci in carrozza dopo lo spettacolo della prima compagnia di comici spagnoli al Teatro dei Fiorentini, e poi nella chiesa di Sant’Agostino dove si riuniscono i rappresentanti del popolo, ai processi e alle decapitazioni, al Te Deum per la nascita del principe Filippo di Spagna.
Vicende piccole e grandi, luoghi importanti e angoli modesti di una città di trecentomila abitanti in grande fermento, in grandi e piccoli affari, speculazioni e miserie, fra gabelle sulla frutta e tassa del sale, la polizia segreta del vicerè Ossuna all’agguato, ma anche gli spioni dell’Inquisizione, da non stare proprio tranquilli leggendo il libro. Se qualcuno bussa alla porta, potrebbe trattarsi di un capitano di strada e di un paio dei duecento e più armigeri di Palazzo, sbirri preoccupanti.
Il vicerè Ossuna è invidioso delle fortune commerciali di don Miguel Vaaz che aveva un patrimonio di due milioni di ducati (“come è potuto diventare tanto potente uno straniero arrivato a Napoli da sconosciuto?”), ci vuol vedere movimenti poco chiari, imbrogli, evasioni fiscali, forse vorrebbe farne parte con adeguate tangenti, o donazioni se vogliamo darle un nome educato. Ossuna ha un viso piccolo, un cranio piccolo, piccoli occhi, come risulta da certe stampe, ma è vistoso nell’armatura guerresca, le guerre di Fiandra alle spalle, prepotente e vessatorio, da far rimpiangere il precedente viceré, il molto nobile conte di Lemos, e anche il prossimo che sta arrivando ed è approdato a Bagnoli, ma Ossuna rimane al suo posto, prende tempo, perché l’uomo di potere non molla mai. Il mondo è stato sempre uguale.
Al tempo di don Miguel Vaaz, non devono essere mancati i furbetti del quartierino o, meglio, delle “ottine” in cui Napoli era divisa. Lo scandalo dello zucchero e il processo alla “banda del grano” furono solo gli episodi più eclatanti della corruzione del tempo. I giudici della Sommaria furono travolti da una serie di accuse, concussione, estorsione, omissione di atti di ufficio, concessioni date in cambio di mille ducati. Meno male che, di tanto in tanto, avveniva qualche miracolo, come l’apparizione di Santa Maria della Consolazione in una piccola stanza sotto i gradini della scala di San Giovanni a Carbonara. La Chiesa era presente con cento monasteri maschili e una quarantina femminili (con la storia morbosa di suor Giulia), e chiese, tante chiese, succhiando sino all’ultimo ducato dai possedimenti che tutelava.
Don Miguel Vaaz si destreggiò magnificamente nella sua vita napoletana. “Neanche lui era uno stinco di santo e aveva più di un peccato da farsi perdonare: non si conduce una vita più che agiata praticando la mercatura per trent’anni senza attraversare la corruzione” scrive Masiello. Ma sfuggì alla galera. Più innocente che colpevole fu la conclusione del processo intentatogli in contumacia.
Di Ossuna si lamentò fino alla fine dei suoi giorni. “Lecco le ferite infertemi da un viceré che ha cercato con tutti i modi, mai leciti, si sporcare il nome dei Vaaz, per fortuna senza riuscirvi”. Il suo secondo dolore. Il primo era l’artrite alle articolazioni e alla schiena col maggiordomo Gaetano sollecito a porgergli l’intruglio calmante di erbe e la domestica Dolores pronta con la tisana, all’ora della tisana nel giardino della casa a Chiaia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA, EBRAISMO E PSICOANALISI: VA’ PENSIERO (G. VERDI, "NABUCCO" - NABUCODONOSOR). MEMORIA, CREATIVITA’ E INTERPRETAZIONE ....
FREUD, RICORDANDO-SI DI NAPOLI (E DEL SOGNO DI UNA NUOVA "POLIS"), COMINCIA A CAPIRE COSA C’E’ DIETRO LA SUA (E NON SOLO SUA) INFATUAZIONE PER ANNIBALE, PER IL "VENDICATORE". Una breve analisi della "dimenticanza di una parola latina" da parte di un giovane accademico
FREUD E MUSSOLINI (E HEIDEGGER E HITLER). "All’eroe della cultura Mussolini, Con rispetto, Sigmund Freud". Una nota di Massimo Ammaniti (1995) su uno scritto dello psicoanalista Glauco Carloni e un articolo (1993) di Giuliano Gramigna -
Giuliano Gramigna (1993): "alcuni anni dopo Freud oppose alla dichiarazione liberatoria estirpatagli dai nazisti prima di lasciarlo partire, (...) chiosa cosi’ concepita: "Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia" (...).
Federico La Sala
LA SPAGNA, IL REGNO DI NAPOLI, IL PRINCIPE DI EBOLI, IL PARTITO "EBOLISTA", E I CARMELITANI SCALZI. Note
A) Ruy Gómez de Silva, Grande di Spagna, Principe di Eboli. *
B) FILIPPO II E LA FAZIONE "EBOLISTA". L’uso della Cappella Reale nel periodo barocco: devozione o giustificazione politica? *
"[...] Dal 1554, Filippo II fu assente dal regno perché impegnato a raggiungere i Paesi Bassi e l’Inghilterra (dove avrebbe sposato Maria Tudor) e lasciò sua sorella Juana come reggente in Castiglia. In questa occasione, il nobile portoghese Ruy Gomez de Silva, in seguito principe di Eboli, che era stato all’ombra del governo contrastando l’influenza del duca d’Alba nella corte, accompagnò Filippo II nel suo viaggio. Questa vicinanza al re permise a Eboli di tessere la propria rete di potere nella corte spagnola fino a formare una fazione politica e cortigiana chiamata "ebolista". I membri di questo gruppo aprofittarono della fiducia della principessa reggente per consolidare il proprio potere nella corte, raggiungendo le più alte posizioni nell’amministrazione della monarchia e attuando una strategia per isolare il capo della fazione opposta, don Fernando Álvarez de Toledo, III duca d’Alba. [8] L’occasione per allontanare il duca d’Alba dalla corte fu la crisi in Italia: quando il Duca venne inviato a Milano, e poi a Napoli, per risolvere le questioni ivi sorte, gli "albistas" vennero allontanati e sostituiti dai membri della fazione "ebolista".
Nonostante ció, la Corte era ancora influenzata da un personaggio che non poteva tollerare l’influenza degli "ebolistas" nell’amministrazione della monarchia. Si trattava dell’Inquisitore Generale Fernando Valdés, caratterizzato da una rigida ortodossia ed un esacerbato formalismo religioso. Valdés cercó di formare una propria fazione all’interno della Corte, ma non fu mai così coesa come la fazione nobile "ebolista". Tra i sostenitori di Valdés c’erano teologi influenti come il domenicano Melchior Cano, professore di Salamanca, con cui Valdés inizió la persecuzione contro la Compagnia di Gesù, l’Ordine religioso protetto dagli "ebolistas". Di conseguenza in quegli anni molti gesuiti vennero accusati e processati per essere considerati illuminati o alumbrados. In realtà si è poi constatato che l’influenza di Valdés e dei suoi sostenitori nella corte spagnola si esprimeva solo al livello teorico e unicamente nel campo inquisitoriale. In pochi anni Valdés pubblicò il catalogo dei libri proibiti del 1559 (causa effettiva del processo contro Carranza), gestì la decomposizione del foco luterano di Valladolid e iniziò la persecuzione inquisitoriale contro Francisco de Borja.
Tale azione inquisitoriale influenzò in modo decisivo l’evoluzione della Cappella Reale: iniziarono i processi e si infuse il sospetto su un certo numero di predicatori e cappellani, tutti della sezione castigliana della cappella reale di Filippo II e tutti protetti dai membri della fazione "ebolista". Non è un caso che tutti gli imputati provenissero da famiglie di origine ebraica, costrette alla conversione per paura di una persecuzione inquisitoriale, e con una spiritualità più personale e intima, lontana dall’ortodossia religiosa che Valdés aveva cercato di imporre alla società. Da quel momento, Carranza venne allontanato dalla corte e l’inquisizione diede avvio alla sua prigionia e alla distruzione dei suoi libri e documenti. Un altro personaggio allontanato della cappella reale per la sua posizione, legata alla fazione degli "ebolistas", fu il cappellano e predicatore Agustín de Cazalla, che aveva servito nella Casa castigliana di Carlo V. Era figlio del contador reale Pedro de Cazalla e di Leonor di Vibero, che erano stati diffamati dall’Inquisizione di Siviglia e accusati di essere ebrei. [...]
Le persecuzioni inquisitoriali di Carranza e Cazalla servono per comprendere la rimozione dalla cappella reale dei membri che, anni prima, avevano monopolizzato l’orientamento religioso della corte e dei regni iberici. Si trattava di religiosi che sostenevano gli interessi politici del gruppo "ebolista" (e, viceversa, "ebolistas" che condividevano la spiritualità di questi religiosi), e ciò evidenzia come la persecuzione inquisitoriale contro di essi nascondesse connotazioni spirituali e politiche. La rimozione dalla cappella reale di questo gruppo di religiosi, tutti cappellani e predicatori, fu un cambiamento radicale nella concezione religiosa e spirituale che aveva, fino ad allora, dominato nella cappella reale. Dal momento in cui ereditò i regni lasciati da suo padre, il Re Prudente si trovò con il doppio compito di articolare i così vasti ed eterogenei territori della monarchia e di impiantare la confessione cattolica adottata come religione della dinastia. Senza dubbio, il processo di confesionalización di Filippo II , iniziato nel 1560, serviva per dare alla Monarchia un’unità religiosa, oltre che istituzionale. In questo processo, l’Inquisizione fu l’istituzione che controllava il grado di assimilazione del cattolicesimo nella società. Così, per ottenere un incarico di governo nella monarchia o nella Chiesa era necessario non solo la purezza del sangue in stile tradizionale (cioè, non avere ascendenza ebraica o araba), ma anche non avere antenati processati dall’Inquisizione per qualsiasi eresia. Il monarca si circondò quindi di un gruppo di letrados castigliani per dare vita a un progetto così ambizioso, che imponeva una certa interpretazione del dogma cattolico e determinate pratiche religiose, in maniera non dissimile dalle élites che, durante il XV secolo, avevano spinto i monarchi ad escludere i "nuovi cristiani" dagli incarichi di governo e ad istituire l’Inquisizione. Era il trionfo di una ortodossia intellettuale e formale, già sostenuta dalla scolastica dei domenicani, per la quale avvicinarsi alla divinità era possibile soltanto attraverso l’intelletto, la liturgia e le cerimonie esteriori. [...]"
* SI CFR.: L’uso della Cappella Reale nel periodo barocco: devozione o giustificazione politica? (di Esther Jiménez Pablo - Università di Teramo).
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1608) RITROVATO A CONTURSI TERME (SALERNO). Documenti e materiali sul tema.
Spagna, lo sconquasso a sinistra del voto andaluso.
Spagna. A conquistare il Sud sono le destre peggiori. Si incrina così la positiva diversità spagnola, che sembrava esente dall’onda nera che sta sommergendo l’Europa
di Massimo Serafini (il manifesto, 05.12.2018)
Inumeri parlano chiaro e inquietano. In Andalusia hanno vinto le destre e perso tutte le sinistre, dal Psoe a Unidos-Podemos. La percezione della gravità e pericolosità del voto andaluso, la rendono bene le decine di migliaia di persone che sono scese in strada.
Che si sono riversate, spontaneamente, a protestare per le strade di Granada, Malaga e Siviglia. Richiamano alla mente le manifestazioni nelle città americane dopo la vittoria di Trump. Stesso stupore, incredulità e paura per il voto di domenica nella ex-roccaforte socialista spagnola, che potrebbe aprire un varco ai peggiori scenari, non escluso la tenuta dell’assetto democratico dell’intero paese.
DI SICURO incrina la positiva diversità spagnola, che sembrava esente dall’onda nera che sta sommergendo l’Europa. A conquistare il sud della Spagna sono le destre peggiori, quelle razziste del ’prima gli spagnoli’, quelle che odiano le femministe e vogliono le donne a casa e gli stupratori in libertà, le destre che odiano gli ambientalisti e negano il cambio climatico, le destre nostalgiche di Franco e di chi, come lui, aveva saputo “risolvere” la questione territoriale spagnola e in particolare quella Catalana. Fare distinzioni pensando che esista una destra democratica e costituzionalista, ovviamente recuperabile e una neo-franchista da combattere, è un errore. Se è vero, come da più parti si scrive, che gran parte dell’astensione viene da sinistra, non si può però ignorare che a mobilitare il voto a destra, a spingere quell’elettorato ad andare ai seggi, sono stati i toni e i contenuti di Vox e non di Ciudadanos e Pp. Non a caso ora stanno negoziando per poter governare insieme l’Andalusia.
NON SI PUÒ in altre parole pensare che lo sconquasso andaluso dipenda dal fatto che a confrontarsi con le destre c’era il peggior partito socialista di Spagna, intriso di corruzione, guidato dalla Diaz, la principale antagonista di Sánchez, contraria al rapporto con Podemos e sostenitrice delle larghe intese. Né è sufficiente a spiegare un esito tanto disastroso il fatto che al voto ci si è arrivati con in una regione con il record di disoccupazione, di persone a rischio di povertà, con la peggiore spesa sanitaria per abitante di tutta la Spagna e con un bilancio ambientale e di inquinamento terrificante. Questo spiega solo una parte della verità, ma non chiarisce come mai Adelante Andalusia, la confluenza con cui Podemos e Izquierda Unida si sono presentate in Andalusia, non abbia raccolto, nonostante una campagna elettorale fortemente antagonista e chiusa a ogni rapporto con il PSOE della Diaz, nessuno dei 400mila voti socialisti, che invece hanno preferito l’astensione.
IL VOTO di domenica può travolgere il fragile equilibrio che permette a Sánchez di governare. Ne svela infatti le difficoltà. Quelle di dare un senso compiuto al suo rapporto con Unidos-Podemos, alleanza sottoposta ad un continuo fuoco amico per tenerlo il più lontano possibile dalla esperienza di governo e impedire soprattutto che Sánchez lo riconosca come la forza indispensabile per cambiare il paese.
LO STESSO patto sul bilancio solennemente sottoscritto, che distribuisce giustizia sociale a una popolazione in sofferenza da anni, se resta sulla carta e non si trasforma in misure concrete che facciano percepire al paese che il cambiamento è in atto, non è pensabile che produca quello spostamento dei rapporti di forza necessario per conquistare stabilmente la Spagna alle prossime elezioni. Ha pesato l’incertezza con cui si è provato di consolidare la maggioranza per approvare il bilancio.
È MANCATO, pur giustificato dall’intransigenza delle forze indipendentiste catalane, un impegno ad offrire un percorso credibile che riportasse alla politica e non alla giustizia il compito di risolvere la questione territoriale. Una scelta che non solo non ha evitato l’accusa delle destre di dialogare con i golpisti e quindi di spaccare la Spagna, ma non ha neppure inciso sulle divisioni del fronte indipendentista assediato dalle manifestazioni di protesta per i tagli selvaggi allo stato sociale, prodotte dal governo indipendentista e a cui il bilancio dello stato dava risposte concrete.
È DEL TUTTO evidente che la pressione delle destre nelle prossime settimane cercherà di far precipitare gli equilibri e portare il paese alle elezioni. Pensare di evitarle, mantenendo le ambiguità e le incertezze, soprattutto ridimensionando la portata degli obiettivi di cambiamento, condannerebbe ad una sconfitta certa.
È augurabile quindi che l’appello lanciato da Unidos-Podemos di avanzare proposte per riunire e consolidare la maggioranza, necessaria ad approvare il bilancio, venga raccolto da Sánchez. Rilanciare il progetto di cambiamento, offrendogli soprattutto gambe per camminare è l’unica risposta in grado di contrastare l’onda nera che si è abbattuta sull’Andalusia.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Spagna, verso il nuovo governo Sanchez: 11 donne e 6 uomini
Vicepremier Carmen Calvo, c’è anche un astronauta
di Redazione ANSA *
MADRID. Il premier spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato nella sua prima dichiarazione ufficiale dal Palazzo della Moncloa che nel nuovo governo di Madrid "per la prima volta dal ritorno della democrazia ci sono più donne che uomini, 11 su 17". L’Uguaglianza, di responsabilità della vicepremier Carmen Calvo, sarà una "autentica priorità del governo", ha aggiunto.
Questi secondo la stampa i nomi dei probabili nuovi ministri: - Presidente del governo, Pedro Sanchez. - Vicepremier, Carmen Calvo, ministro dell’Uguaglianza. - Giustizia, Dolores Delgado. - Finanze, Maria Jesus Montero. - Economia, Nadia Calvino. - Esteri, Josep Borrell. - Interni, Margarita Robles. - Difesa, Constantin Mendez - Amministrazione Territoriale, Meritxell Batet. - Investimenti, José Luis Abalos. - Educazione, Isabel Celaà. - Scienza, Università, Pedro Duque. - Lavoro, Magdalena Valerio. - Sanità, Carmen Monton. - Ambiente, Teresa Ribera. Mancano i nomi del nuovo responsabile della Cultura e del Portavoce del governo.
* ANSA 06 giugno 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") ... *
Europa
Spagna: una nuova Costituzione
di Mauro Barberis (Il Mulino, 02 ottobre 2017)
Si ha un bel dire, come ha fatto il premier spagnolo Mariano Rajoy, che il referendum catalano non c’è stato. Giuridicamente è così: quella che si è svolta ieri è una consultazione di fatto, svoltasi fuori da qualsiasi controllo, e non per colpa degli indipendentisti.
Per di più, il risultato finale - due milioni duecentomila elettori, con il novanta per cento a favore del sì - non ha neppure raggiunto la soglia psicologica della metà più uno dei catalani favorevoli alla secessione. Ma il punto è che se, come ha mostrato l’imbarazzante discorso di Rajoy, il governo spagnolo non ha un piano B che non sia l’invio della Guardia Civil, allora la convulsa giornata di ieri segna un punto decisivo a favore degli indipendentisti. Ci fosse scappato il morto, la secessione sarebbe già un fatto compiuto.
In attesa dello sciopero generale di domani e della probabile dichiarazione di indipendenza da parte del Parlamento catalano, chiediamoci come si sia arrivati a questo punto. Per noi italiani, la questione catalana evoca immediatamente la questione padana, oggetto di un referendum consultivo per l’autonomia, dichiarato dalla Lega con l’acquiescenza di Pd e M5S, che costerà al contribuente cinquanta milioni di euro. -Ma a differenza della Padania la Catalogna è davvero una nazione, con una storia, una lingua. E un’economia che produce un quinto del Pil spagnolo. (In più, i catalani sono maledettamente simpatici: almeno a chi tifa Barça, almeno dai tempi di Johann Crujiff).
La questione catalana, dunque, è più simile a quella dell’indipendenza della Scozia: altra nazione storica, confluita nel Regno Unito solo all’inizio del Settecento, e anch’essa percorsa dai venti della secessione. -Proprio il paragone con la Scozia, però, spiega perché la questione catalana rischia di esplodere nelle mani del governanti spagnoli e catalani. Il Regno Unito ha permesso agli scozzesi di pronunciarsi sulla loro indipendenza, ottenendone la risposta più prevedibile, almeno prima della Brexit: una sensibile maggioranza a favore dell’unione. In Catalogna, invece, le cose sono andate molto diversamente.
Da decenni i deboli esecutivi spagnoli contrattano la maggioranza in Parlamento con gli indipendentisti catalani, di destra e di sinistra, che alzano progressivamente il prezzo del loro sostegno senza ottenere un’autonomia paragonabile a quella dei Paesi baschi.
Di errore in errore si è giunti così allo psicodramma di ieri, determinato dal tentativo di entrambe le parti di decidere la questione con una spallata. Come molti hanno notato, infatti, sino a ieri i catalani chiedevano solo l’autonomia, ottenuta dai Paesi baschi al prezzo di decenni di terrorismo. Solo l’atteggiamento miope e autoritario del governo centrale li ha spinti verso un’indipendenza, che potrebbero ottenere solo approfittando di un momento irripetibile, come nel caso della Brexit per il Regno Unito.
L’unica strada costituzionale percorribile, che sia politicamente e giuridicamente legittima, è un’altra, e dopo la consultazione di ieri appare più stretta di quella che si sta percorrendo. Questa strada non passa dai tentativi di spallate, da una parte e dall’altra, ma dalla via maestra di una riforma costituzionale. Le maggiori forze politiche spagnole potrebbero smetterla di fare accordi separati con gli indipendentisti e accordarsi su un cambiamento in senso federale della Costituzione del 1978, che dia alla Catalogna tutta l’autonomia possibile. A questo punto la riforma potrebbe persino prevedere la possibilità di un vero referendum per l’indipendenza: permettendo così ai catalani di decidere a mente fredda fra la certezza dell’autonomia e gli azzardi della secessione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE": RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE.
Federico La Sala
Quando l’Europa tradì la democrazia
80 anni fa la guerra civile spagnola
di Valerio Castronovo (Il Sole-24 Ore, 27.09.2016)
Ottant’anni fa, il 29 settembre 1936, con l’instaurazione a Burgos del governo golpista presieduto da Francisco Franco, ebbe inizio la guerra civile spagnola, che è stata considerata, per il carattere che essa assunse di uno scontro frontale fra le forze democratiche e quelle fasciste, il preludio dell’immane conflitto poi scoppiato nel settembre 1939. In realtà, la guerra che si combattè per quasi tre anni tra i franchisti e il governo di Madrid, anche se complicò la situazione politico-diplomatica in Europa, non giunse comunque al punto da rappresentare un’incubatrice della seconda conflagrazione mondiale.
Essa fu innanzitutto il risultato di una profonda crisi politica interna in corso in Spagna da vari anni; da quando nel 1931 i partiti progressisti avevano vinto le elezioni delle Cortes costituenti proclamando la repubblica, per poi uscire sconfitti nelle elezioni legislative del novembre 1933, in quanto presentatisi divisi nei confronti di una coalizione sotto l’egida della vecchia classe dominante (composta dai grandi proprietari terrieri, dall’aristocrazia nostalgica della monarchia e da una parte consistente del clero).
È vero che già allora era comparso un movimento d’ispirazione fascista come la Falange; ma fu un gruppo di alti ufficiali, dopo il trionfo nelle elezioni del febbraio 1936 del Fronte Popolare (che comprendeva repubblicani, socialisti, comunisti e anarchici) a prendere l’iniziativa dando vita, fra il 17 e il 19 luglio, a una sedizione contro il governo mobilitando le truppe coloniali di stanza nel Marocco e con l’appoggio di alcuni presidî militari nella Spagna metropolitana.
Gran Bretagna e Francia si attennero successivamente alla risoluzione del “non intervento”, sottoscritta il 9 settembre da ventotto Stati, fra cui pure l’Italia e la Germania, sebbene Mussolini e Hitler avessero cominciato ad assicurare il loro aiuto ai rivoltosi. Senonché Londra intendeva evitare che la destra franchista avanzasse rivendicazioni su Gibilterra, mentre Parigi temeva che i golpisti intralciassero i collegamenti con le sue colonie nordafricane.
In pratica, soltanto l’Unione sovietica decise di soccorrere la repubblica spagnola facendole giungere, attraverso l’Internazionale comunista, munizioni e carburante, oltre a un nucleo di tecnici e consiglieri militari: ma solo dopo che Berlino inviò una squadriglia aerea (quella della “Legione Condor”, resasi tristemente celebre per il bombardamento terroristico su Guernica nell’aprile 1937) e Roma dislocò in Spagna un corpo di spedizione di 50mila uomini, accanto alle truppe di Franco.
Ciononostante il governo di Madrid riuscì a reggere a lungo all’offensiva dei franchisti, contando, oltre che su una parte delle forze armate rimasta fedele, su un vasto appoggio popolare, garantito dai partiti e dai sindacati, nonché sull’azione delle “Brigate Internazionali”, composte da volontari antifascisti provenienti da molti Paesi e di cui facevano parte anche esuli italiani (organizzati da Carlo Rosselli del movimento “Giustizia e Libertà”, dal socialista Pietro Nenni, dal comunista Luigi Longo e dall’anarchico Camillo Berneri). Inoltre il governo aveva mantenuto il controllo delle regioni del Nord e dell’Est, quelle più dotate di risorse materiali e impianti industriali.
Ad accreditare la causa del Fronte popolare contribuirono numerosi e famosi intellettuali, tra cui i pittori Pablo Picasso e Joan Miró, i poeti Federico García Lorca e Pablo Neruda, scrittori come Arthur Koestler, Simone Weil, Paul Eluard, Virginia Woolf, William Faulkner, John Steinbeck, Thornton Wilder, Richard Wright. Altri parteciparono direttamente ai combattimenti, nelle file delle Brigate Internazionali, come André Malraux, Ernest Hemingway, W.H. Auden, Tristan Tzara, John Dos Passos, George Orwell.
Sta di fatto che Franco riuscì nella primavera del 1938 a tagliare in due il territorio della repubblica e a separare così Madrid dalla Catalogna. Ma se Barcellona finì per cadere nel gennaio 1939 in mano ai franchisti, fu anche a causa della decisione dei comunisti filo-sovietici di annientare frattanto in un conflitto armato i gruppi anarchici e i militanti del partito operaio di matrice trotskista. Stalin avrebbe poi portato a compimento la propria vendetta nei confronti di Lev Trotsky, l’ex condottiero dell’Armata Rossa durante la rivoluzione e suo principale rivale politico, esiliato nel 1936, facendolo assassinare nell’agosto 1940 a Città del Messico.
A Franco non rimase perciò che concludere vittoriosamente la guerra nel marzo 1939, ormai riconosciuto da Francia e Gran Bretagna rimaste da sempre neutrali; e scatenare subito dopo una durissima repressione con decine di migliaia di vittime che andarono ad aggiungersi al mezzo milione di morti nel conflitto.
Catalogna, vincono gli indipendentisti ma non raggiungono il 50% Le due liste secessioniste unite hanno 72 seggi su 135
di Francesco Cerri (Ansa, 28 settembre 2015)
MADRID. L’incubo di una secessione della Catalogna si è fatto più minaccioso per Madrid dopo la vittoria degli indipendentisti alle elezioni regionali catalane. "Abbiamo vinto con quasi tutto contro e questo ci dà una forza enorme e una grande legittimità per portare avanti questo progetto", ha esultato nella notte il presidente uscente secessionista Artur Mas davanti a migliaia di sostenitori in tripudio a Barcellona che gridavano "Indipendenza!".
"Dedicato allo stato spagnolo: senza rancore, adios!", ha twittato invece il leader dei secessionisti radicali della Cup Antonio Banos. Le due liste indipendentiste, Junts Pel Sì di Mas (62 seggi) e quella della Cup (10), hanno insieme una maggioranza assoluta di 72 seggi su 135 nel nuovo parlamento catalano. I secessionisti rimangono però sotto il 50% dei voti, con il 47,8%. Dato ampiamente sottolineato dai media ’madrileni’. Mas, che ha trasformato queste regionali anticipate in un plebiscito sull’indipendenza in un muro contro muro con Madrid, intende ora avviare la ’disconnessione’ della Catalogna dalla Spagna con l’obiettivo di arrivare alla secessione - malgrado la durissima opposizione del governo centrale - entro il 2017. I 5,5 milioni di elettori catalani si sono mobilitati in massa, trascinati dalla consapevolezza dell’importanza storica della consultazione, la più importante per la Spagna dalla fine del franchismo secondo la stampa di Madrid e di Barcellona.
L’affluenza alle urne ha toccato il 77%, una cifra senza precedenti, 9 punti sopra quella del 2012. Per il premier popolare spagnolo Mariano Rajoy, protagonista di una strategia di scontro totale con Mas, il risultato delle elezioni catalane è una catastrofe. Il Pp ottiene solo 11 seggi (-8) con l’8,45% dei voti, superato dai socialisti del Psc (12,8% e 16 seggi) e la lista di Podemos (8.9% e 11). Anche per il partito dei post-indignados di Pablo Iglesias è una netta sconfitta. Il partito moderato anti-sistema e anti-secessione Ciudadanos di Albert Rivera, che aspira a superare il Pp di Rajoy alle politiche spagnole di dicembre, e in futuro potenzialmente a sostituirlo, registra invece uno spettacolare successo e arriva secondo con 25 seggi e il 18% dei voti. Un’altra cattiva notizia per Rajoy in vista delle legislative di dicembre, che potrebbero segnare la fine della carriera politica dell’attuale premier spagnolo.
Nei prossimi giorni scatterà un difficile negoziato fra le due liste secessioniste per la formazione di un governo per l’indipendenza, che dovrebbe portare secondo i piani di Mas ad elezioni costituenti e alla secessione in 18 mesi. I radicali della Cup hanno detto finora di non volere rinnovare il mandato del presidente centrista uscente, e di preferire un altro esponente di Junts Pel Sì, come il capolista Raul Romeva. La strada sarà tutta in salita per il presidente catalano, impegnato in un braccio di ferro politico e istituzionale con Madrid, che minaccia addirittura di destituirlo. La vittoria del campo della secessione ha suscitato l’entusiasmo dei sostenitori delle ’piccole patrie’ nell’Ue.
Il segretario della Lega Matteo Salvini ha scritto su Facebook "Forza Catalunya! Alla faccia di Bruxelles e degli Stati centralisti, che vogliono cancellare popoli, lingue, culture, identità e lavoro, c’è chi resiste e partecipa, nel nome della Libertà. Grazie!". Soddisfatto anche l’ex ministro delle finanze greco Yannis Varufakis: "Siamo tutti vittime di una crisi non necessaria. Tutte queste scosse telluriche, come questa in Spagna, devono rafforzare l’Europa".
Spagna, Felipe diventerà re il 16 giugno
Ma la piazza ora chiede la Repubblica
Dopo l’abdicazione di Juan Carlos in favore del figlio comincia il percorso verso la successione. Oggi primo evento ufficiale per l’erede al trono che comparirà in pubblico al municipio di Madrid L’Escorial.
Ieri migliaia di spagnoli hanno manifestato per reclamare l’abolizione della monarchia
La Stampa, 03/06/2014
Il giorno dopo l’annuncio dell’abdicazione di re Juan Carlos, si riunisce oggi a Madrid il consiglio dei Ministri straordinario che deve avviare, con una legge ordinaria, il percorso verso la successione.
L’abdicazione è infatti prevista dalla Costituzione spagnola, ma in quasi 40 anni di monarchia parlamentare, la Spagna non ha mai approvato la legge che regola il processo per il passaggio di consegne.
È previsto che la proclamazione di re Felipe VI avverrà nel Congresso a partire dal 16 giugno, in una sessione solenne delle Cortes riunite. Intanto Don Juan Carlos e il figlio, il principe Felipe, oggi parteciperanno insieme a un evento al municipio di Madrid L’Escorial, e sarà la prima occasione in cui l’erede al trono comparirà in pubblico dopo l’annuncio dell’abdicazione.
E mentre l’ex monarca Juan Carlos continua a sostenere l’investitura del figlio definendolo «pronto per il nuovo incarico» e parla della necessità di «fare largo ai giovani», prende corpo nel Paese il fronte di quanti vorrebbero abolire definitivamente la monarchia a passare alla Repubblica. Ieri alcune migliaia di spagnoli hanno manifestato in una cinquantina di strade e piazze spagnole per reclamare un referendum sulla monarchia o la repubblica, a poche ore dall’annuncio dell’abdicazione del re Juan Carlos. La protesta, convocata attraverso i social network, ha visto nella centrale Pierta del Sol di Madrid almeno 20 mila manifestanti. Altri 5.000 manifestanti si sono concentrati in plaza de Catalunya a Barcellona, agitando la bandiera indipendentista catalana e all’insegna dello slogan «Queremos votar el 9 noviembre 2014», data fissata dal governo catalano per la consultazione sull’indipendenza.
L’annuncio dell’abdicazione da parte del re Juan Carlos è giunto ieri nelle prime ore del mattino. A darlo è stato il premier spagnolo, Mariano Rajoy, in un messaggio dal Palazzo della Moncloa trasmesso in diretta tv. «Sua Maestà il re Juan Carlos mi ha appena informato del suo desiderio di rinunciare al trono e di avviare il processo di successione», ha dichiarato il premier Rajoy.
Il 76enne sovrano spagnolo ha messo così fine ai 39 anni di regno, iniziati con la fine dell’era franchista ma negli ultimi tempi macchiati da numerosi scandali. Fonti della Casa Reale hanno spiegato che la decisione era stata presa a gennaio, per motivi politici e non di salute, ma l’annuncio è stato rinviato per non interferire con il voto per le elezioni europee del 25 maggio.
Il principe delle Asturie Felipe, 46 anni, nato a Madrid, regnerà con il nome di Felipe IV. Laureato in giurisprudenza, ha studiato negli Stati Uniti prendendo master internazionali a Georgetown. È sposato con la giornalista tv Letizia Ortiz, da cui ha avuto due figli.
Juan Carlos, nato a Roma nel 1938 e salito al trono nel 1975 per volere dello stesso Francisco Franco che due anni prima lo aveva nominato suo successore «a titolo di re», per una trentina d’anni ha goduto di grande popolarità in patria, nonostante le voci ricorrenti dei suoi tradimenti nei confronti della regina Sofia.
Negli ultimi tempi, però, il sovrano era stato investito da una serie di scandali che si erano sovrapposti e in parte intrecciati con i suoi malanni fisici con gli interventi alle anche e la rimozione di un nodulo a un polmone. A gennaio c’è stata l’incriminazione per malversazione e riciclaggio della figlia Cristina nell’ambito di uno scandalo di corruzione legato al marito Inaki Urdangarin.
Ma già in precedenza c’erano stati molti episodi che avevano portato a dure critiche verso il sovrano borbonico, come la battuta di caccia all’elefante del 2012 in Botswana, nel pieno della crisi economica della Spagna, in cui Juan Carlos si era fratturato l’anca destra per una caduta e dove pare fosse accompagnato da un’amante. Per placare le critiche, negli ultimi tempi la Casa Reale era stata costretta a pubblicare la dichiarazione dei redditi di re, regina, principi e principesse.
La secolare monarchia spagnola negli ultimi 159 anni ha conosciuto la cesura di due repubbliche e, dal 1931 al 1975, la dittatura del Caudillo. Molti osservatori ritengono che in Spagna più che la monarchia fosse popolare Juan Carlos e ora mettono in dubbio che l’istituzione possa sopravvivere all’uscita di scena di quello che era stato ribattezzato «il re repubblicano».
La dichiarazione di Torino: un rinascimento per l’Europa
Pubblichiamo l’atto finale del vertice dei Progressisti europei, concluso sabato a Torino
«Per una Unione democratica di pace, prosperità e progresso»
Completare un’autentica Unione economica e monetaria richiede una revisione dei Trattati
Una Unione democratica è indispensabile per dare agli europei la possibilità di incidere sul mondo *
Il 2013 è un anno cruciale per l’Europa progressista. Dopo le vittorie dei socialisti in Slovacchia, Francia e Romania nel 2012, le elezioni in Italia e Germania potrebbero cambiare gli equilibri in seno al Consiglio europeo, aprendo la strada a una maggioranza progressista dopo le elezioni europee del 2014.
La dichiarazione di Parigi e il lancio dell’iniziativa Renaissance for Europe nel marzo 2012 si sono concentrate sulla necessità di andare oltre le politiche di austerità, delineando i tratti di un nuovo e più equilibrato corso per un’Europa basata su stabilità, crescita e solidarietà. A Torino vogliamo elaborare la nostra visione dell’Europa politica: una Unione della democrazia basata su una sovranità condivisa, che costituisce la condizione essenziale per affrontare la crisi e per restituire potere ai cittadini e fiducia nel progetto europeo. Ciò che vogliamo realizzare è una Unione di progresso e prosperità per tutti, con un forte mandato da parte dei cittadini europei.
RIDEFINIRE I FONDAMENTI: SVILUPPARE LA DEMOCRAZIA
La crisi economica e finanziaria ha evidenziato la debolezza della governance dell’euro. L’introduzione di una moneta comune non è stata seguita dal completamento di una vera unione economica. Quindi, nonostante l’euro sia divenuto un simbolo importante del progresso nell’integrazione, esso non è diventato sinonimo di sicurezza, stabilità e controllo democratico. L’assenza di una adeguata architettura istituzionale si è riflessa in un compromesso tra l’intergovernativismo delle risorse da un lato, e il metodo comunitario delle regole dall’altro. Il primo ha implicato la canalizzazione dell’aiuto finanziario da parte degli Stati membri attraverso organismi intergovernativi. Il secondo, invece, si è tradotto in regole più severe di disciplina fiscale al livello europeo, con la conseguente attuazione delle politiche di austerità.
Questo impianto si è dimostrato inefficace, sia politicamente che economicamente. Non ha migliorato la stabilità finanziaria e la sostenibilità fiscale. Al contrario, ha innescato un circolo vizioso di recessione e peggioramento dei conti pubblici, le cui conseguenze economiche e soprattutto sociali sono devastanti. Il deficit democratico delle politiche europee è arrivato fino agli Stati membri, erodendo il consenso pubblico non solo nei confronti del progetto europeo, ma anche delle stesse democrazie nazionali.
Un’Unione di regole fiscali gestita da tecnocrati non può andare oltre l’austerità e priva i cittadini del proprio diritto all’autodeterminazione. La disciplina di bilancio deve trasmettere un senso di sicurezza, attraverso meccanismi sostenibili e non soggetti a continue negoziazioni tra gli Stati membri e al loro interno. La continua trattativa non fa che minare ulteriormente la solidarietà europea, incentivando un modello di governance fondato sugli equilibri di potere e una gerarchia basata sulla ricchezza, e portando al tempo stesso le democrazie nazionali in rotta di collisione l’una con l’altra, divise tra chi sente di pagare portando il peso delle altre e quante, invece, si sentono governate dalle prime.
Il paradosso è che il tentativo di proteggere la sovranità nazionale ed evitare i trasferimenti fiscali ha generato un sistema di governance meno efficace, più invadente e meno rispettoso della sovranità degli Stati di ogni altro modello federale esistente, e al tempo stesso più oneroso per i contribuenti.
RISTABILIRE LA LEGITTIMITÀ: PIÙ POTERE AGLI EUROPEI
Una autentica Unione economica e monetaria richiede di un diverso modello di governance, che si basi sui seguenti elementi: a) un’attuazione equilibrata del Patto di stabilità e crescita, che riconcili la responsabilità fiscale con la crescita e l’occupazione, salvaguardando gli investimenti e i servizi pubblici e, allo stesso tempo, perseguendo la riduzione del deficit e del debito; b) un coordinamento più forte e più equilibrato delle politiche economiche al livello di Uem e politiche europee nuove e potenziate; c) un’unione bancaria completa, una Banca centrale europea attiva nella promozione della stabilità finanziaria e una effettiva regolamentazione dei mercati, che incentivi gli investimenti a lungo termine e scoraggi la speculazione; d) le politiche economiche devono essere accompagnate da un robusto sistema di politiche sociali responsabili, che divengano obiettivi vincolanti e rispondano agli impegni presi per il progresso e la prosperità.
Questa è la ragione per cui deve essere elaborato un nuovo patto sociale che divenga una garanzia per tutti gli europei. L’autonomia dei partner sociali e il loro ruolo devono essere salvaguardati e rafforzati, favorendo l’emergere di un dialogo sociale europeo; e) un bilancio dell’Unione adeguato, fondato su risorse proprie, per promuovere la crescita e la competitività, per affrontare gli squilibri ciclici e quelli strutturali e sostenere la coesione sociale e territoriale; f) una capacità di emettere eurobond, per dare fondamenta più solide alla solidarietà finanziaria e facilitare il riscatto del debito.
Questo modello di governance richiede una migliore e più chiara divisione delle competenze e delle risorse tra l’Unione e gli Stati membri, oltre a una maggiore legittimità democratica e responsabilità a entrambi i livelli. Non deve fondarsi sul metodo intergovernativo, ma sulle istituzioni europee e sul «metodo comunitario», con una Commissione europea forte da un lato, che agisca come un vero e proprio governo, e una piena codecisione tra il Consiglio e il Parlamento europeo dall’altro. Il bilancio dell’Ue e dell’Uem deve venire da risorse proprie chiaramente legate alla ricchezza generata all’interno dell’Unione e alle specifiche funzioni regolatrici connesse alle competenze dell’Unione stessa. Gli Stati membri devono mantenere la responsabilità dell’attuazione delle linee-guida di politica economica co-decise a Bruxelles e dei bilanci nazionali all’interno dei limiti del quadro fiscale europeo.
Condividere la sovranità su una base democratica è l’unico modo per ripristinarla e dare potere ai cittadini. Il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali dovranno essere le forze motrici di questo processo e dovranno cooperare strettamente, esercitando al tempo stesso le rispettive prerogative sulla base del principio che la legittimità e il controllo democratico devono essere assicurati al livello in cui le decisioni vengono prese e attuate. Il completamento di un’autentica Unione economica e monetaria richiede una revisione dei Trattati. Noi chiediamo la convocazione di una Convenzione nel corso della prossima legislatura, che possa costituire l’avvio di una nuova fase deliberativa sul futuro dell’Europa. Un simile obiettivo deve essere preparato facendo un pronto e pieno ricorso agli strumenti previsti dai Trattati esistenti (dalla cooperazione rafforzata all’articolo 136 del Tfue, alla clausola di flessibilità) e con un ampio dibattito pubblico che coinvolga la società civile, le parti sociali, i partiti politici, il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali. Le fondazioni di ispirazione progressista promuoveranno tale dibattito, fornendo il proprio contributo e le proprie proposte per una vera Unione economica e monetaria in un’Unione democratica.
RIACCENDERE L’AMBIZIONE: RIDARE SPERANZA
Politiche europee migliori e più forti non sono possibili senza una vera politica europea. Un’unione fiscale ed economica, infatti, richiede un’unione politica. Deve emergere una sfera pubblica davvero europea, che valorizzi il ruolo della società civile. Questa unità dei cittadini d’Europa dovrà rispettare pienamente e utilizzare al meglio i valori del pluralismo culturale e della diversità nazionale, portando il dibattito e il processo decisionale dell’Unione lungo assi politico-ideologici transnazionali, invece che lungo le tradizionali divisioni nazionali.
Le elezioni legislative nazionali devono essere concepite come parte integrante del processo politico europeo. A loro volta, le elezioni europee non devono essere più considerate come test di metà mandato per i partiti nazionali nei 28 Paesi membri, bensì come il momento in cui il cittadino europeo sceglie la direzione per l’Europa, offrendo un mandato democratico al Parlamento e al governo europeo.
Il Pse ha già deciso di indicare, prima delle elezioni, il proprio candidato «di punta» per il ruolo di Presidente della Commissione. Invitiamo tutti i partiti europei a fare lo stesso, conformandosi alla risoluzione approvata a larga maggioranza dal Parlamento europeo. La nomina di tali candidati deve essere collegata alla presentazione agli elettori di programmi basati su politiche europee alternative, sottoscritti dai partiti nazionali e dai loro candidati al Parlamento europeo.
La politicizzazione della Commissione e l’europeizzazione delle elezioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali sono tappe cruciali verso una Unione politica, ma non sono sufficienti. È necessario promuovere e rafforzare la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale europeo. L’Iniziativa cittadina europea deve diventare uno strumento ordinario per coinvolgere la società civile e i partiti politici in campagne su base transnazionale. Gli scioperi e le lotte sociali devono essere condotti a livello europeo, controbilanciando con il ruolo dei cittadini e dei lavoratori il crescente peso delle lobby e degli interessi costituiti nelle decisioni dell’Unione. I gruppi socialisti e democratici al Parlamento europeo e nei Parlamenti nazionali devono promuovere una stretta cooperazione sia con il Pse che con i partiti nazionali.
I giovani devono essere la forza portante del processo di costruzione di una vera società europea. Quindi, iniziative fondate su pari e qualificanti opportunità, come la Garanzia europea per i giovani o il programma Erasmus devono essere visti come un investimento nel futuro collettivo dell’Unione. I progressisti devono collaborare per promuovere un dialogo transnazionale e programmi di scambio, che favorirebbero la circolazione orizzontale delle buone pratiche e delle esperienze nazionali, rafforzando lo spirito europeo e la famiglia progressista. È un modo per recuperare il senso della militanza, arricchendola e conferendo una dimensione paneuropea all’attivismo politico. Ciò si potrà realizzare attraverso l’istituzione di un Erasmus progressista militante che, grazie allo sforzo collettivo dei partiti europei, potrà dare la possibilità di effettuare stage e scambi di attivisti tra le organizzazioni nazionali.
L’economia globale richiede una democrazia sovranazionale. Una Unione politica è la condizione per poter dare all’Europa un modello di governance efficace e legittimo, che promuova stabilità, crescita e solidarietà. Una Unione democratica è indispensabile per dare agli europei una voce e la possibilità di incidere sul mondo in cui vivono. L’impegno di «un nuovo Rinascimento per l’Europa» è proposta credibile su come realizzare questo sogno ambizioso.
* l’Unità 11.02.2013
Il filosofo spagnolo studiò per anni l’eroe di Cervantes
Ora un libro raccoglie i suoi saggi mai tradotti
Siamo tutti Don Chisciotte
Unamuno e l’Hidalgo, il nostro viaggio verso la saggezza della follia
di Roberto Esposito (la Repubblica, 23.01.2013)
Quando, il 12 ottobre 1936, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università di Salamanca, un generale franchista pronuncia in maniera sprezzante il motto della Legione Spagnola «Viva la morte», Miguel de Unamuno, rettore di quell’Università, gli risponde a muso duro «Viva la vita». Così, dopo essersi opposto alla monarchia, e poi alla dittatura di Primo de Rivera, pagando queste scelte con l’esilio, egli rompe anche con il regime cui in un primo momento si era avvicinato. Ma tale riferimento alla vita, al di là del significato politico che assumeva in quel contesto, può essere assunto come l’epicentro semantico dell’intera attività di uno dei più significativi intellettuali europei del primo Novecento.
Narratore, drammaturgo, poeta, autore di testi filosofici come Del sentimento tragico della vita e Agonia del cristianesimo, egli è noto soprattutto per l’appassionato commento al Don Chisciotte, considerato il suo capolavoro. Mancava, però, ancora un volume che raccogliesse i suoi interventi, scritti lungo quasi un quarantennio, sul grande libro di Cervantes che egli stesso considerava come la Bibbia nazionale degli spagnoli. Questo vuoto è ora riempito dalla pubblicazione, egregiamente curata da Enrico Lodi per l’editore Medusa, di una ampia scelta di suoi saggi e articoli con il titolo In viaggio con Don Chisciotte.
Essa comprende un testo, come quasi tutti gli altri, mai tradotto finora, Il cavaliere dalla triste figura. Saggio iconologico - in cui l’autore confronta le descrizioni di Don Chisciotte presenti nel romanzo con i ritratti che i pittori gli hanno poi dedicato. Già in esso si profilano i tratti di un’interpretazione magistrale, che oltrepassa i confini tradizionali dell’ermeneutica, per configurarsi come un vero corpo a corpo con il proprio oggetto d’analisi.
Egli stesso sempre in lotta con se stesso, diviso tra ricerca della concretezza ed aspirazione all’universale, Unamuno proietta questa contraddizione sul Cavaliere Solitario, facendone un simbolo vivente non solo dell’anima spagnola, ma anche dell’uomo contemporaneo, sospeso tra angoscia e fede. Contro l’accademismo erudito di quelli che chiama “masoreti” - come i rabbini interpreti delle Sacre Scritture persi dietro minuziose ed inutili ricerche filologiche - Unamuno cerca la perenne attualità del Chisciotte nel contrasto che lo oppone a se stesso, sdoppiando la sua esistenza tra la saggezza inerte di Alonso Quijano e la follia utopica del suo stralunato alter ego.
Contrariamente ai buoni propositi del primo, è proprio lo sguardo stravolto e allucinato del secondo a gettare un inedito fascio di luce sulle cose, riscattandole dalla loro insignificanza. Solo dimenticando la propria identità, sacrificata alla più sublime delle follie, egli ritrova il significato profondo della vita aldilà della linea del nulla che, prima o poi, è destinata ad avvolgerci tutti. È perciò che la sua figura allampanata, i suoi baffi spioventi, il suo naso aquilino, tutt’altro che emblemi luttuosi, traducono una estrema energia vitale.
Lo stesso culto della morte, che si è voluto vedere nell’anima spagnola, piuttosto che attestare un distacco nei confronti della vita, ne determina la continua ricarica. Come appare dal sorriso tragico dell’hidalgo, quella malinconia non è che la faccia in ombra di una ricerca di immortalità destinata ad esser sempre delusa, ma perciò anche rinnovata. In questo senso Unamuno può richiamare perfino l’idea, diversamente declinata da Spinoza e Nietzsche, che la vita ha una inestinguibile tendenza a perseverare nel proprio stato ed anzi a potenziarsi.
Nonostante le sconfitte che sperimenta, Chisciotte incarna questa potenza storica, capace di restituire alla Spagna un primato spirituale che da secoli ha perduto. Per cogliere il senso di tale affermazione, che Unamuno contrappone al parere di chi ne sottolinea la decadenza culturale e civile, bisogna attivare una doppia prospettiva, di tipo teoretico ed esegetico. Intanto intendere per storia non la semplice successione dei fatti, situati in maniera indifferenziata nello spazio e nel tempo, ma quegli eventi, anche di ordine intellettuale, capaci di modificare le coscienze lungo il filo delle generazioni. Qui Unamuno si rifà alla distinzione di Kierkegaard tra semplice memoria e ricordo di qualcosa che resta nel tempo. Si può avere memoria di un episodio senza ricordarne il significato pregnante.
L’altro presupposto, attuale al punto di richiamare una metodologia strutturalista, sta nel privilegio assoluto del romanzo rispetto al suo autore. La tesi di Unamuno è che Don Chisciotte sia molto più avanti di Cervantes. Che, una volta pubblicato, la sua proprietà sia sfilata di mano all’autore, per appartenere al suo popolo e all’umanità intera. Come la Bibbia, o l’Iliade, il Chisciotte ha una vita autonoma che sta appunto nella durata dei suoi effetti storici. Da questo lato Unamuno tocca un vertice della riflessione contemporanea.
La vera opera d’arte, come quella del pensiero, è sempre impersonale, di nessuno perché di tutti. La genialità di Cervantes sta nel dileguarsi dietro la propria opera, mandando il suo protagonista avanti, nel tempo e nello spazio, fino a naufragare nell’oceano dell’impossibile. Ma non avevano fatto naufragio, in questo senso, anche i grandi condottieri spagnoli, da Cortes a Pizarro, quando, perdendo il contatto con la propria terra, avevano scoperto nuovi mondi?
Se avessimo il coraggio di uscire dal gregge
di Miguel De Unamuno (la Repubblica, 23.01.2013)
Durante la stagione in cui Cervantes stette sotto le ali spirituali della sua patria, e fu da essa incubato, nella sua anima si formò Don Chisciotte, ovvero il suo popolo creò in lui Don Chisciotte, e così questi venne al mondo, abbandonò Cervantes al suo popolo, e Cervantes tornò a essere il povero scrittore girovago, preda di tutte le preoccupazioni letterarie del suo tempo. E così si spiegano molte cose e, tra le altre, la debolezza del senso critico di Cervantes e la povertà dei suoi giudizi letterari (...).
Tutto ciò che nel Chisciotte è critica letteraria è quanto di più povero e grossolano possa darsi e tradisce una vera e propria saturazione di senso comune.
Incredibile come un uomo così assennato e pieno di luoghi comuni, e della più grande grossolanità immaginabile, com’era Cervantes, abbia potuto generare un cavaliere così folle e così colmo di senso proprio.
Cervantes non ebbe altra scelta che consegnarci un folle per poter incarnare in lui l’eternità e la grandezza del suo popolo. E il fatto è che molte volte, quando l’intimo dell’intimo delle nostre viscere, quando l’umanità eterna che dorme nel profondo del nostro seno spirituale ci affiora nell’anima gridando i propri aneliti, allora o sembriamo pazzi o fingiamo di esserlo affinché ci venga perdonato il nostro eroismo.
Migliaia di volte lo scrittore ricorre all’espediente di dire in tono scherzoso ciò che sente molto seriamente, o mette in scena un pazzo per fargli dire o fare quello che lui direbbe o farebbe molto volentieri e convinto, se solo la miserevole condizione di gregge degli uomini non li portasse a voler annullare chi esce dal recinto da cui vorrebbero uscire tutti, se solo avessero il valore o il coraggio per farlo (...).
Vedete quindi cosa c’è di geniale in Cervantes, e qual è la relazione intima che intercorre tra lui e il suo Don Chisciotte. E tutto questo dovrebbe spingerci ad abbandonare il cervantismo in favore del chisciottismo, e a curarci più di Don Chisciotte che non di Cervantes.
Dio non ci ha dato Cervantes se non perché scrivesse il Chisciotte, e mi sembra che sarebbe stato un vantaggio non conoscere nemmeno il nome dell’autore, essendo il nostro libro un’opera anonima come lo sono il Romancero e, lo pensiamo in molti, l’Iliade.
E dirò di più: scriverò un saggio in cui sostengo che non sia esistito Cervantes e sì, invece, Don Chisciotte. E visto che Cervantes non esiste più e che, al contrario, continua a vivere Don Chisciotte, dovremmo tutti lasciare il morto per seguire il vivo, abbandonare Cervantes e accompagnare Don Chisciotte.
(Traduzione di Enrico Lodi) © 2013 by Edizioni Medusa)
Vita dell’eterno Don Chisciotte sognatore sempre ingannato
Personaggio universale che aiuta tutti noi a capirci meglio
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 1.03.2013)
Don Chisciotte è uno dei non moltissimi personaggi delle letterature moderne che s’è imposto universalmente. Non per la sua vicenda, che non è poi straordinaria, ma perché ha qualcosa di archetipico, aiuta tutti noi a capirci meglio. Il cavaliere della Mancia è pazzo, perché crede di vivere ancora nel mondo dei romanzi, tra sfide e duelli, salvataggio di damigelle indifese e fama gloriosa; ma per il resto è persona di alti sentimenti, quasi un maestro.
È dunque una delle molte vittime che fa la letteratura, quando non si è capaci di distinguerla dalla realtà (tra i discendenti più famosi di don Chisciotte c’è Madame Bovary). Il romanzo a lui intitolato è uscito in due parti, nel 1605 e nel 1615, ma si può dire che il «tipo» di don Chisciotte è già disegnato perfettamente nella prima. Anziano e scalcagnato, il protagonista si fa armare cavaliere in una comica cerimonia, e cerca avventure degne dei leggendari cavalieri erranti. Siccome non sa leggere la realtà, ogni volta viene sconfitto e ridicolizzato.
Ma intanto gira per la Mancia, e tutto si nobilita ai suoi occhi: le locande diventano castelli, le prostitute sono principesse, i mulini a vento giganti. E, eroe della libertà, scioglie le catene di un gruppo di galeotti in marcia verso la prigione. Il bello è che moltissime delle persone che incontra sono, anche se meno gravemente di lui, malate di letteratura, e altre svolgono acuti ragionamenti sulla loro arte prediletta: così il viaggio finisce per essere una rassegna delle idee letterarie dell’epoca. Don Chisciotte si è poi preso come scudiero un contadino ignorante e sentenzioso, Sancio, che in linea di principio smonta con il buon senso le fantasticherie del padrone, ma lentamente è attratto nel gioco e diventa una caricatura dello stesso don Chisciotte.
Il don Chisciotte della seconda parte è concepito da Cervantes in modo molto diverso, anche per mortificare un mistificatore, Avellaneda, che lo aveva anticipato con una seconda parte apocrifa. Il don Chisciotte autentico sa di essere ormai un personaggio, data la diffusione straordinaria che ha avuto la prima parte del romanzo. Si muove con passo sicuro, e sente in chi incontra l’ammirazione nei suoi riguardi. Però, nello stesso tempo, la sua inventiva si è esaurita, e sono gli altri che cercano di stimolarla. Così, mentre nella prima parte è don Chisciotte che cerca di trasformare la realtà secondo i suoi sogni, nella seconda si sente obbligato ad accettare e motivare a posteriori le trasformazioni apportate dai suoi interlocutori. I quali, onorandolo e coccolandolo, in realtà fanno di lui uno zimbello, quasi un buffone di corte.
Un’occasione per rileggere questo secondo, meno noto, don Chisciotte ce la dà l’uscita di una nuova traduzione del capolavoro, fondata sulla più attendibile ricostruzione critica del testo (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Francisco Rico, traduzioni di Angelo Valastro Canale, testo spagnolo a fronte a cura di F. Rico, Bompiani, pp. CXXIV-2162, € 30).
Per cogliere il diverso clima della seconda parte del romanzo, basta una lettura dei capp. XXXIV-XXXV. Vi si narra una macchinazione dei duchi di cui don Chisciotte è ospite. Essa ha come punto focale quella Dulcinea del Toboso che don Chisciotte ha trasformato nella propria dama, anche se è una rozza contadina appena incontrata, e forse nemmeno incontrata. Poiché don Chisciotte è convinto che Dulcinea sia vittima di un incantesimo, i duchi, instancabili nel progettare nuove avventure a don Chisciotte, fanno apparire nella foresta, dove la corte è impegnata in una caccia, nientemeno che il diavolo, accompagnato da musiche d’effetto. E poi, su un grande carro, il mago Merlino, il quale annuncia che per la libertà di Dulcinea è necessario che Sancio si frusti tremilatrecento volte «ambedue le chiappe».
E qui si possono notare almeno due cose. Anzitutto che sono stati messi in moto una grossa macchina teatrale, un gruppo di musicanti e complessi effetti speciali, per ottenere la fine, sempre fittizia, dell’incantesimo di una contadinella. E poi che il gusto dei nobili duchi scopre la sua volgarità di fondo nel prendere come bersaglio quel poveraccio di Sancio e le sue natiche. Questa volgarità ha già trovato un primo appagamento quando Sancio, fuggendo da un cinghiale, si arrampica su una quercia e rimane appeso a testa in giù ad un ramo, suscitando la grassa ilarità dei presenti.
Se nella prima parte don Chisciotte si ingannava, nella seconda viene ingannato, e la parabola da pazzia trasfiguratrice a pazzia organizzata, eteronoma, segue l’arco narrativo costituito dallo sviluppo fra prima e seconda parte. Ciò rende più complesso il rapporto fra realtà e follia e invenzione, in un gioco di specchi esasperatamente letterario.
Il mondo che ora don Chisciotte attraversa è molto più ricco e variegato di quanto lo stesso don Chisciotte immaginasse, ma è anche tale da produrre una serie crescente di scacchi, come la sconfitta in duello da parte di un cavaliere più finto di lui, o la rovinosa caduta nel fango dopo che un’orda di porci lo ha travolto con Sancio. Don Chisciotte è diventato un personaggio tragico, e, prima di dichiararsi risanato e pentito, e dunque vinto, sul letto di morte, esclama, come un mistico: «io sono nato per vivere morendo».
Diritto finito all’Indice
di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 12 agosto 2012)
La risposta della Chiesa di Roma alla sfida della Riforma protestante fu lenta e difficoltosa. Troppe fragilità personali, troppa distanza da ogni autentica sensibilità religiosa, troppi interessi fiorentini avevano impedito ai papi medicei, Leone X (1514-1521) e Clemente VII (1523-1534) di promuovere qualche significativo rinnovamento pastorale e istituzionale, e anche lo sfrenato nepotismo del loro successore, Paolo III Farnese (1534-1549), fu ben lungi dal segnare una svolta.
Ciò contribuisce a spiegare perché solo nel 1542, ben 25 anni dopo le tesi di Wittenberg, fosse istituito il Sant’Ufficio dell’Inquisizione romana, con il compito di debellare ogni forma di dissenso religioso, e solo nel 1546 potesse infine riunirsi il concilio di Trento, destinato tuttavia a concludersi solo nel 1563. Le istanze della repressione precedettero dunque quelle della riforma della Chiesa in capite e in membris, e ne segnarono profondamente la presenza e il ruolo sociale, il magistero dottrinale, gli orientamenti politici, l’identità storica lungo tutto l’arco di una Controriforma destinata a durare fino al concilio Vaticano II.
Tra i compiti primari di questo capillare controllo della vita religiosa, com’è ovvio, emerse l’esigenza di sorvegliare la circolazione dei libri, quel possente strumento di diffusione delle idee che lo stesso Lutero aveva definito come l’ultimo e il più grande dono di Dio, con il quale aveva voluto far conoscere «fino ai confini del mondo» la vera fede di un cristianesimo rinnovato. I primi elenchi di libri proibiti cominciarono a circolare precocemente in sede locale, fino all’Indice pubblicato nel 1549 a Venezia dal nunzio Giovanni Della Casa, al rigorosissimo Indice di Paolo IV del 1558, all’Indice tridentino del 1564, a quello di Clemente VIII del 1596: compito di tale importanza e di tali dimensioni da convincere Pio V, il papa inquisitore per eccellenza, a istituire nel 1571 una nuova congregazione cardinalizia, destinata appunto a questo compito.
Un compito immane e di fatto impossibile, che esigeva di fronteggiare una marea di libri sempre crescente e ovunque pullulante, al punto da indurre il cardinale Roberto Bellarmino, diventato poi san Roberto Bellarmino dottore della Chiesa, ad affermare mestamente che sarebbe stato opportuno che per molti anni «non vi fusse stampa» e ad ammettere che i censori romani riuscivano a stento e tra molte falle ad arginare la diffusione dei libri eterodossi soltanto al di qua delle Alpi, «almeno qui dove potiamo».
L’Italia diventava così l’ultima e assediata cittadella della fede cattolica, poiché in Spagna agiva un’Inquisizione controllata dalla corona (e quindi sensibile alle sue esigenze politiche e giurisdizionali) e in Francia pluralismo religioso e istanze gallicane facevano diga al centralismo romano e impedivano che le autorità romane diventassero «signori di libri», domini librorum, come denunciava Paolo Sarpi. Un compito tanto più impossibile, infine, in quanto occorreva distinguere tra libri da condannare e libri da espurgare, libri del tutto erronei e libri non privi di errori, e ancor più perché il dilatarsi del concetto stesso di eresia dalla teologia alla filosofia (il platonismo), alla scienza (Galileo), alla letteratura, alla pseudosantità, al diritto finiva con l’estendere di fatto a tutta la produzione tipografica una sorveglianza destinata a diventare sempre più illusoria e velleitaria con il passare del tempo.
Ad essere coinvolti in questa debole quanto ossessiva prassi censoria furono anche i libri giuridici, come spiega in questo saggio Rodolfo Savelli (Rodolfo Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano, Giuffrè, ), storico del diritto attentissimo alla contestualizzazione storica e quindi capace di cogliere con finezza le ragioni specifiche delle censure ecclesiastiche, dal «lento avvio» cinquecentesco fino al tramonto nell’età dei Lumi, quando esse finirono con il perdere di credibilità e valore, fino a diventare oggetto di scherno, nella convinzione che a Roma si proibisse «tutto ciò che non è Bellarmino».
Libri che incrociavano una molteplicità di temi particolarmente sensibili per le autorità religiose, come il prestito a interesse, per esempio, o le prerogative statali, l’amministrazione della giustizia e le immunità, il foro ecclesiastico, i matrimoni, questioni delicate, che rischiavano di sconfinare sul terreno sempre più dilatato dell’eresia: i libri che difendono «l’autorità temporale del principe», scriveva ancora Sarpi, sono «dannati e perseguitati più degli altri».
A ciò si aggiungevano anche gli interessi materiali di tipografi e librai, che traevano profitto dallo smercio di opere che costituivano oggetto di studio nelle Facoltà giuridiche: di qui la particolare attenzione di cui furono fatti oggetto i commentari alle Institutiones, pubblicati a volte con l’esplicita precisazione che in essi era stato omesso tutto ciò che fosse contrario alle norme del diritto canonico. Ne scaturivano oggettivi limiti di conoscenza e soggettivi scrupoli di coscienza (tali a volte da indurre a chiedere il permesso di leggere libri che non erano proibiti), censure e autocensure, favoritismi ed espedienti, autorizzazioni concesse e negate, all’insegna del costante timore delle autorità ecclesiastiche per la libertà di coscienza, per il discernimento dei fedeli.
E intanto già nel Seicento la lista degli autori condannati si dilatava a comprendere numerosi giuristi cattolici, italiani, spagnoli, francesi, anch’essi schieratisi in difesa dell’autorità secolare contro i privilegi e le immunità ecclesiastiche, a dimostrazione di quanto il baluardo dei censori romani cominciasse a dare segni di cedimento.
Da quindici anni a questa parte gli archivi di quella che fu la congregazione dell’Indice sono aperti alle ricerche degli studiosi e numerosi studi ne hanno esplorato l’azione in materia di fede, di morale, di politica, di letteratura: è merito dell’autore di queste pagine aver affrontato il tema cruciale della cultura giuridica, anch’essa passata al vaglio di teologi sensibilissimi alla «ragion di Chiesa» e ossessionati per secoli da «quelli diavoli di Genevra» dai quali ai loro occhi erano nati tutti i mali del mondo moderno.
Intervista ad A. B. Yehoshua
"Anch’io sul cammino di Santiago"
di Elena Loewenthal (La Stampa, 10/06/2011)
Carità spagnola è il titolo del nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua, appena uscito in Israele. I lettori italiani dovranno aspettare l’autunno per leggerlo: nell’edizione Einaudi si chiamerà La scena perduta , per evocare il mistero di un’assenza, di una lontananza nel tempo e nella mente. È un libro complesso, insolito per questo grande narratore. Forse un bilancio personale, di vita e letteratura. Anche e soprattutto una storia scabrosa nel suo affondo psicologico, nel non detto che tiene insieme - ma soprattutto separa - le intriganti personalità dei protagonisti.
«È un romanzo che ha al centro la questione della creatività. Il suo mistero. Che parla dell’arte, nelle sue forme più diverse. Questo tema lo affronto attraverso la storia di un vecchio regista per il quale viene allestita una vasta retrospettiva, a Santiago de Compostela, in Spagna. Qui il cinema “incontra” la teologia, perché la sede di questo evento è uno spazio cattolico. Il regista si chiama Moses ed è un tipico esponente del fior fiore (in ebraico si direbbe “il cuore del cuore”) della società israeliana: gerosolimitano di origine tedesca, di famiglia colta e illuminata. Assieme a lui arriva alla restrospettiva la compagna con cui ha un rapporto fuori degli schemi, indefinibile. Lei è la “sua” attrice, ma prima era la donna dello sceneggiatore che ha organizzato la manifestazione, e che è una vecchia conoscenza del regista. Hanno lavorato insieme sino a una drastica rottura, originata da un litigio insolubile. Anche lo sceneggiatore è un uomo speciale, speculare rispetto al regista: è arrivato in Israele bambino, dal Nord Africa. Insieme hanno fatto film surrealistici, simbolici, grotteschi. D’avanguardia. Poi è sceso il ghiaccio, fra loro».
L’edizione in ebraico ha una copertina molto eloquente. Vi si trova la fotografia di un celebre quadro, dove è raffigurato un vecchio curvo, di spalle, che succhia al seno di una giovane donna dall’aria molto triste. Qual è il nesso tra questa immagine e il romanzo?
«Non voglio svelare troppo al lettore... ma questa scena è cruciale. È una raffigurazione della “caritas romana”, evocata nel mito di Pero e Cimone e ricordata per allusione nel titolo del mio romanzo: un padre condannato a morire di fame in prigione e salvato dalla pietà della figlia che gli offre il suo latte. I protagonisti del libro si ritrovano come per caso di fronte a questo quadro, a Santiago, in occasione della retrospettiva. E tornano immediatamente con la memoria a quel litigio di tanti anni prima, quando l’attrice - all’epoca compagna di Trigano, lo sceneggiatore - si rifiutò di girare una scena, per la sua scabrosità, trovando l’appoggio del regista... e tutto cominciò, anzi finì, fra loro tre. In sostanza, attraverso il quadro si scopre il fondamento mitologico e dunque culturale di quel loro vicolo cieco sentimentale di tanto tempo prima - che non era un capriccio ma qualcosa di molto profondo. Per quanto mi riguarda, ho voluto in questo libro esplorare il mistero della creazione artistica - letteraria, figurativa, cinematografica - e in particolare l’interazione tra il genio della fantasia, dell’invenzione provocatoria, che “sfonda” la realtà, e l’imprescindibile fondamento costruttivo, il metodo e la costanza che sono elementi necessari all’artista».
La critica israeliana ha accolto con il consueto entusiasmo, e in qualche caso un po’ di sconcerto, questo libro insolito - particolarmente ricco di divagazioni e spunti dotti. Molti hanno rilevato che il romanzo porta un’impronta personale come nessun altro dei suoi libri. In parole povere, è vero che in Moses c’è molto di Yehoshua, e che questa è anche una retrospettiva dei suoi libri, oltre che dei film del protagonista?
«Non ho mai scritto di uno scrittore... Ma questa volta desideravo esplorare, come dicevo, le forze della creazione artistica, le forze che agiscono al momento di produrre, e che valgono per ogni manifestazione artistica. È vero, dunque, che in Moses c’è qualcosa di me e di ciò che agisce in me quando creo. È anche vero che due o tre dei film evocati nel romanzo e presentati nella retrospettiva sono echi di miei libri. Ma nulla di più. Diciamo allora che m’interessava esplorare quella tensione simbolica, surrealistica, grottesca, così presente in tutta l’arte europea del secondo dopoguerra, da Beckett a Camus e Fellini e tanti altri. Una tensione così forte e potente, in Europa ma anche in Israele».
A proposito di Israele, pare di individuare in questo romanzo una specie di «superamento» della dimensione locale, anzi qualcosa di più. Azzardando, viene da pensare quasi a una fascinazione esercitata in lei dall’«altro» per eccellenza nell’identità ebraica (e israeliana): l’universo religioso e umano del cattolicesimo. Santiago, la scena, la carità: luoghi e simboli di una fede «altra».
«Il libro è cattolico solo nella sua cornice, nell’ambientazione - e non nella sostanza. È indubbio che però per me il rapporto tra questa religione e l’arte sia carico di fascino, attrazione - anche e soprattutto perché, all’opposto, l’ebraismo è una fede “avara”, anzi ostile, nei confronti dell’arte. Ho dunque attinto all’immaginario cattolico, innestandolo in una storia secondo me profondamente israeliana».
La fabbrica dei dibattiti pubblici
Un testo inedito di Pierre Bourdieu, sociologo (1930-2002).
(traduzione dal francese di José F. Padova)
La fabbrica dei dibattiti pubblici
Da una parte, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altra, un dibattito pubblico mutilato, ridotto a un’alternativa fra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? questo spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo suo corso sullo Stato tenuto al Collège de France e pubblicato in questo mese.
Un testo inedito di Pierre Bourdieu, sociologo (1930-2002). (traduzione dal francese di José F. Padova) Un uomo ufficiale [ndt.: autorità] è un ventriloquo che parla a nome dello Stato: egli prende una postura ufficiale - bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’autorità -, parla in favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla come rappresentante dell’universale.
Si perviene qui alla nozione moderna di opinione pubblica. Che cos’è questa opinione pubblica che invocano i creatori del diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di coloro che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione patente in una società che pretende di essere democratica, ovvero che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. Vi è una specie di definizione per censo dell’opinione pubblica illuminata, come opinione degna di questo nome.
La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo, costituito in modo da dare tutti i segnali esteriori, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle sue forme adeguate. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte delle persone incaricate di comporre la commissione, che la persona considerata conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in modo legittimo, nella maniera che va al di là delle regole del gioco, che legittima il gioco stesso. Non si è mai tanto addentro nel gioco quanto lo si è stando al di là del gioco stesso. In ogni gioco ci sono regole e fair play. A proposito del mondo intellettuale, avevo usato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con le regole del gioco, facendo di questo gioco giocato con le regole del gioco un omaggio supremo al gioco stesso. Il trasgressore controllato si oppone del tutto all’eretico.
Il gruppo dominante coopta i membri su indici minimi di comportamento che sono l’arte di rispettare la regola del gioco, finanche nelle trasgressioni, regolate, della regola stessa del gioco: la buona creanza, il conservatorismo. È la celebre frase di Chamfort: «Il vicario di Curia può sorridere di un commento contro la religione, il vescovo riderne del tutto, il cardinale aggiungervi il suo motto [irridente] (1)». Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, partendo da una posizione tale che non vi siano dubbi. L’umorismo anticlericale del cardinale è supremamente clericale.
L’opinione pubblica è sempre una sorta di realtà doppia. È ciò che non si può non invocare quando si vuole legiferare su terreni non riconosciuti. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (straordinaria espressione) a proposito dell’eutanasia o dei bambini-provetta, si convocano persone che lavoreranno con piena autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con persone disparate - psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, eruditi, ecc. - che hanno come scopo quello di trasformare una somma di idioletti [ndt.: Zingarelli: l’insieme degli usi di una lingua caratteristico di un dato individuo, in un determinato momento] (3) etici in un discorso universale che riempie un vuoto giuridico, vale a dire che dà una soluzione ufficiale a un problema difficile che scombussola la società - la legalizzazione delle madri in affitto, per esempio. Se si lavora in questi tipi di situazione si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto la funzione attribuita ai sondaggi si comprende molto bene. Dire «i sondaggi sono dalla nostra parte» equivale a dire «Dio è con noi» in un altro contesto [ndt.: allude al “Gott mit uns”?].
Ma i sondaggi sono fastidiosi, perché talora l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto per. Che fare? Si crea una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che istituirà l’opinione illuminata come opinione legittima nel nome dell’opinione pubblica - che d’altra parte dice il contrario o non ha opinioni (e questo è il caso in molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alle persone problemi che esse non si pongono, nel fare infilare risposte a problemi che essi non hanno posto, quindi a imporre risposte. Non è una questione di sotterfugi nella costituzione dei campionari delle domane [dei sondaggi], è il fatto di imporre a tutti domande che si pongono all’opinione illuminata e, per questo, di produrre risposte di tutti su problemi che si pongono a qualcuno, quindi di dare risposte illuminate prodotte dalla domanda: si sono fatte esistere per le persone domande che per loro non esistevano, mentre ciò che costituiva per le persone una domanda è la domanda stessa.
Traduco man mano un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica dando la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla d’opinione pubblica si fa sempre un doppio gioco fra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente, che è ottenuta come sottoinsieme ristretto dell’opinione pubblica definita democraticamente.
«Essa è quel parere su un soggetto qualsiasi che è mantenuto e prodotto dalle persone meglio informate, più intelligenti e più moralmente qualificate della comunità. Questa opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone con un po’ di educazione e di sentimenti convenienti a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diviene quella di tutti.
Mettere in scena l’autorità che autorizza a parlare
Negli anni 1880 si diceva apertamente all’Assemblea nazionale [ndt.: v. storia della Rivoluzione francese, fra le altre quella di Furet-Richet] ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, vale a dire che il sistema scolastico doveva eliminare i figli degli strati sociali più sfavoriti. All’inizio si poneva il problema che in seguito è stato completamente rimosso, poiché il sistema scolastico si è messo a fare, senza che glielo si chiedesse, quello che ci si aspettava da esso. Quindi, nessuna necessità di parlarne. L’interesse del ritornare sulla genesi è molto importante, perché vi sono, all’inizio, dibattiti dove si dicono a chiare lettere cose che, in seguito, appaiono come rivelazioni provocatorie dei sociologi.
Il riproduttore della versione ufficiale sa produrre - nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» -, facendola divenire protagonista, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile) e in nome della quale egli parla. Deve produrre ciò in nome di quello che egli ha diritto di produrre. Non può non renderla protagonista, non darle una forma, non fare miracoli. Il miracolo più ordinario, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, la riuscita retorica; deve produrre la messa in scena di ciò che autorizza il suo dire, ovvero dell’autorità in nome della quale egli è autorizzato a parlare.
Ritrovo qui la definizione della prosopopea che cercavo poco fa: «Figura retorica mediante la quale si fa parlare e agire una persona che si vuole evocare, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, sempre un formidabile strumento, si trova questa frase di Baudelaire che parla della poesia: «Saper usare sapientemente una lingua equivale a praticare una specie di stregoneria evocatoria». Gli esperti in materia, coloro che manipolano una lingua erudita, come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena l’immaginario referente nel nome del quale parlano e che essi realizzano nella sua forma parlandone; devono fare esistere ciò che essi esprimono e questo nel nome di che essi esprimono. Devono nello stesso tempo produrre un discorso e produrre la credenza nell’universalità del loro discorso, con la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi - lo Stato è un fantasma...) di quella cosa che garantirà ciò che essi fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.
Percy Schramm ha dimostrato come le cerimonie di incoronazione erano il transfert, nell’ordine della politica, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi tanto facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie dell’incoronazione, è perché si tratta, nei due casi, di fare credere che vi è un fondamento del discorso, che non appare come auto-fondatore, legittimo, universale, se non perché vi è teatralizzazione - nel senso di evocazione magica, di stregoneria - del gruppo unito e consenziente al discorso che l’unisce. Da qui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese - che non si può comprendere completamente se non si vede ch’essa non è semplice apparato che si aggiunge: essa è costitutiva dell’atto giuridico (6). Dire di diritto vestiti modestamente è azzardato: si rischia di perdere la pompa del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo vestito: i re nudi non sono più carismatici.
L’autorità, o la malafede collettiva
Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione del convincimento dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico - teatralizzazione della credenza del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fede in ciò che fa. Se la teatralizzazione del convincimento fa parte delle condizioni tacite per l’esercizio della professione di esperto - se un professore di filosofia deve avere l’aria di credere alla filosofia -, si tratta dell’essenziale omaggio dell’autorità-uomo all’autorità; è ciò che occorre accordare all’autorità per essere un’autorità: occorre accordare il disinteresse, la fede nell’autorità, per essere una vera autorità. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle da curati, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di credenza politica nella quale tutti sono in malafede, essendo questa credenza una sorta di malafede collettiva, nel senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a sé stessi e mentono ad altri, sapendo che si mentono. È questo, l’autorità...
(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Paris, 1795.
(2) Dominique Memmi, « Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle », Actes de la recherche en sciences sociales, n°76-77, Paris, 1989, p. 82-103.
(3) Du grec idios, «particulier» : discours particulier.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londres, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) eut une longue carrière de membre du Parlement britannique.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9. zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (deux volumes), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n°4, Berkeley (Californie), 1974, p. 382-405.
SOCIETA’
Nel mondo globale l’«altro» non c’è più
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 01.12.2011)
Alla fine “noi” siamo davvero gli “altri”. Basta con la condiscendenza verso i primitivi, basta con il paternalismo di chi pensa che, se si impegnassero, gli aborigeni di qualsiasi latitudine potrebbero raggiungere l’unico livello di civilizzazione universalmente riconosciuto come tale, e cioè quello che obbedisce agli standard dell’Occidente illuminista. Un conto era quando gli altri se ne stavano nei loro villaggi, in atolli sperduti o in avamposti inaccessibili. Adesso invece abitano le nostre città, esercitando su di noi lo stesso sguardo sorpreso e indagatore che fino a poche generazioni fa l’Occidente riservava al resto del pianeta. Noi il centro, loro periferia. Tutto mescolato, adesso. Senza che gli altri ci diano almeno la soddisfazione di lasciarsi corrompere dai nostri vizi. La globalizzazione viaggia a modo suo e i simboli tribali convivono con la logica del consumismo. Non è un “altro” mondo: è il mondo così com’è. Il nostro e, nel contempo, il loro.
Una provocazione? La lanterna dell’antropologo di Marshall Sahlins (a cura di Cristiano Casalini, Medusa, pagine 64, euro 9,00) è anche questo, non c’è dubbio. Nello stesso tempo, è un’eccellente introduzione al pensiero di quello che viene ormai considerato il maggior antropologo vivente: statunitense, classe 1930, Sahlins ha studiato in particolare le culture della Polinesia, pubblicando numerosi saggi, alcuni dei quali già noti al lettore italiano (Capitan Cook, per esempio, edito da Donzelli nel 1997, e Un grosso sbaglio, uscito da Eleuthera lo scorso anno). Quanto alla Lanterna dell’antropologo, si tratta di una conferenza pronunciata nel 1997 a Nanterre, quindi in Francia, patria dell’Illuminismo. Il posto ideale per “rovesciare la torta” dei pregiudizi occidentali. Partendo, letteralmente, dalla metafora cara al maestro di Sahlins, Leslie White, per il quale la base di ogni società era marxianamente costituita dalle tecnologie e dai mezzi di produzione, su cui in un secondo momento si stendeva la “glassa” delle forme simboliche e culturali. Niente affatto, ribatte l’intemperante allievo, che pure di economia se ne intende: i simboli vengono prima, le tecnologie contano fino a un certo punto. Altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno dei cosiddetti develop man, i melanesiani che, una volta inurbati, continuano a praticare le antiche usanze tribali, magari adoperando mazzi di banconote al posto delle conchiglie votive.
«La riflessione di Sahlins ha come obiettivo il superamento di un equivoco fortemente radicato - sottolinea l’antropologo Franco La Cecla -, quello per cui le culture tradizionali sarebbero fatalmente destinate a soccombere quando vengono a contatto con l’Occidente. È un pregiudizio che in realtà ne sottintende un altro, vale a dire che le culture degli “altri” siano immutabili nelle loro strutture e immobili nel tempo. Prive di storia, insomma. Oggi sappiamo che questa distinzione, cara a un autore come Claude Lévi-Strauss, non ha più senso. Le culture che fino a poco tempo fa immaginavamo rigide e fisse si dimostrano, al contrario, capaci di adattarsi in modo originale ai processi della globalizzazione. Da un certo punto di vista, questo rappresenta la fine del mito della “purezza” degli indigeni, che fa da contraltare alla presunta malvagità del nostro modello di civilizzazione. Il quale, tra l’altro, non per questo rinuncia a proporsi come egemonico. Chi parla di “culture subalterne” lo fa nella convinzione di non essere subalterno. Di essere centro, non periferia». E il denaro? «Il riconoscimento dell’elemento simbolico insito nella moneta è ben presente, oltre che in Sahlins, negli studi di Maurice Bloch. In generale, poi, l’attenzione per i significati profondi dei processi economici è determinate in ambito neomarxista, dove si tende a dare per scontato che gli elementi culturali vengano prima di quelli strutturali o, se si preferisce, sovrastrutturali». Ma una rivoluzione come quella suggerita da Sahlins non si traduce in una sorta di relativismo? «Non direi - afferma la Cecla -. Anche da un punto di vista religioso, mi pare interessante l’intuizione per cui alcune popolazioni indigene possono ormai considerare il cristianesimo appreso dai missionari come una componente essenziale della loro identità».
Meno severo verso l’eredità dell’antropologia classica si dimostra lo storico Franco Cardini: «È una disciplina che discende da buone intenzioni e da cattiva coscienza insieme - sintetizza -. In questo c’è tutto il paradosso dell’Occidente, che prende coscienza della propria marginalità con Erodoto, per il quale è evidente che il centro sta altrove, nell’Impero persiano, rispetto al quale i greci sono sudditi periferici. Si tratta di un atteggiamento unico nella storia della cultura, perché di solito ogni civiltà rivendica un primato, un’unicità che la rende centrale e irriducibile a confronto delle altre. Lo stesso cristianesimo, a ben vedere, si fonda su una promessa altrettanto insolita: già per Agostino la legittimità dell’Impero romano è considerata la condizione che rende possibile la nascita di Gesù, eppure Gesù non è romano. Appartiene a un popolo che in quel momento è assoggettato all’autorità centrale, un popolo che, tra l’altro, fonda da sempre la propria identità sul principio di elezione e quindi di centralità». Da dove viene, allora, la cattiva coscienza? «Dal fatto che queste premesse sono clamorosamente contraddette dalla prassi dell’Occidente - risponde Cardini -, che con la forza bruta dell’azione ha cercato di imporre il proprio modello al resto del mondo. Cercando, nei momenti più drammatici, un correttivo nel principio di tolleranza, che emerge nel Seicento, con Locke, in ambito religioso e diventa universale nel secolo seguente». E adesso a che punto siamo? «Al punto indicato da san Paolo nella Lettera ai Galati - rilancia Cardini -. Per effetto della globalizzazione ci rendiamo conto che davvero non esiste più “giudeo né greco" e che l’alterità è, da un certo punto di vista, l’unico tratto che accomuna gli esseri umani. Siamo tutti gli altri di qualcuno, ma questo non si traduce in una resa al relativismo. Se mi permette il gioco di parole, solo il riconoscimento della relatività delle culture rende possibile la relazione fra di esse. Del resto, è quello che sosteneva Cusano nel De pace fidei. E pensare che a quell’epoca, a metà Quattrocento, Colombo non aveva ancora scoperto l’America...»
Alessandro Zaccuri
USA
OWS torna in piazza: "Chiuderemo Wall Street"
Disordini tra polizia e manifestanti
Grandi proteste in programma a New York e in centinaia di altre città nel mondo. Su Internet l’annuncio dell’intenzione di bloccare la sede della Borsa *
NEW YORK - Torna la tensione a New York dove si registrano disordini tra la polizia e centinaia di indignados che da Zuccotti Park hanno marciato verso Wall Street cercando di raggiungere la Borsa per impedire l’ingresso agli operatori. L’iniziativa era stata annunciata su Internet: "Loro ci hanno fatto vedere la loro forza. E noi faremo vedere loro la nostra", avevano avvertito i dimostranti, facendo riferimento allo sgombero forzato di martedì subito dalla polizia, che era intervenuta in forze per sgomberare l’accampamento a Zuccotti Park, arrestando 200 persone. "La mattina del 17 novembre chiuderemo Wall Street", si legge nel comunicato in Rete.
Oggi gli agenti in assetto anti sommossa hanno fermato diversi manifestanti che, seduti per terra, entavano di bloccare l’accesso alle strade attorno al cuore finanziario della Grande Mela. Secondo quanto riferito dal New York Times, le forze dell’ordine hanno transennato la zona, cercando di tenere i manifestanti lontani dal palazzo della Borsa, con ricadute pesanti sul traffico.
Nel primo pomeriggio, secondo quanto annunciato, l’azione si sposterà in 16 diverse stazioni della metro e dei trasporti pubblici di New York, dal Bronx a Staten Island, che saranno occupate dai manifestanti, che porteranno "le loro storie all’interno dei treni della metropolitana", per poi convergere tutti insieme a Foley Square, nella parte sud di Manhattan.
A partire dalle 5 del pomeriggio, dalla stessa piazza partirà una marcia in direzione del municipio e del ponte di Brooklyn, con cui "decine di migliaia" di persone reclameranno "posti di lavoro". Altre iniziative di protesta sono previste, inoltre, a Portland, Madrid, Gand e in una decine di città in Germania, così come a Washington, Atlanta e Detroit.
Ieri centinaia di manifestanti erano tornati a Zuccotti Park 1, grazie al provvedimento del giudice che ne aveva ordinato la riapertura, sia pure con il divieto di accamparsi, e a Washington un corteo si è diretto alla Casa Bianca, invitando Obama a unirsi alla protesta.
* la Repubblica, 17.11.2011
"Il mito della meritocrazia può distruggere la società"
intervista a Pierre Rosanvallon
a cura di Fabio Gambaro (la Repubblica, 8 novembre 2011)
Solo una società fondata su una vera uguaglianza può garantire la coesione sociale necessaria ad affrontare le difficili prove del nostro tempo. Per Pierre Rosanvallon è una certezza. Il celebre studioso delle forme della politica lo ribadisce nel suo ultimo libro, La société des egaux (Seuil), appena uscito in Francia e già in corso di traduzione in molte lingue. L’intellettuale francese che insegna al Collège de France e dirige La République des idées vi analizza la crisi del concetto di uguaglianza in una società, la nostra, dominata da differenze sociali sempre più marcate. Analisi da cui poi nasce la proposta di "una società degli eguali" che suona quasi come un contributo teorico al movimento degli indignados.
«Gli indignados sono solo la punta dell’iceberg di un protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione sociale», spiega Rosanvallon, di cui in Italia sono disponibili diverse opere, tra cui Il popolo introvabile (Il Mulino). «Purtroppo però l’indignazione non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano. La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega?
«La società condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l’idea che il merito possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche di trent’anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato sull’uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale della democrazia contava di più?
«Certamente. Per le rivoluzioni americana e francese, più che il regime politico contava l’idea di una società senza privilegi e differenze sociali. Per questo la parola "uguaglianza" era tanto importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e condivisa. Nella frattura sociale rischia d’insinuarsi il populismo, vale a dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il populismo risponde con l’esaltazione di un sentimento di comunità fittizio, basato su un’ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent’anni l’eguaglianza sociale è arretrata?
«La società ha progressivamente abbandonato il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo dell’individualismo?
«E’ stato un fattore strutturale determinante, per altro favorito dall’avvento del nuovo capitalismo d’innovazione, il quale valorizza la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poila meritocrazia e l’uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica dell’individualismo».
In che direzione?
«Agli albori della democrazia, l’individualismo era universalizzante. Essere un individuo significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la stessa libertà. Da qui l’idea di una società d’individui simili e uguali. Oggi invece prevale la domanda di singolarità, l’individualismo che ci distingue dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d’elezione nella società dei consumi. Abbiamo l’impressione di avere un potere supplementare sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicano come ideale della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere l’uguaglianza al centro della società?
«Insistere sul merito e sull’eguaglianza di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia dell’uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo. Dall’eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all’eguaglianza come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società d’eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si può più pensare all’uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. Ma accanto a questa eguaglianza "di posizione", va promossa l’eguaglianza "d’interazione", da cui dipende il sentimento di reciprocità, che è fondamentale per la coesione sociale».
Perché la reciprocità è così importante?
«C’è reciprocità quando ciascuno contribuisce in modo equivalente ad una società dove l’equilibrio dei diritti e dei doveri è lo stesso per tutti. L’assenza di reciprocità produce il sospetto sociale e la mancanza di fiducia nei confronti della collettività. Più la fiducia viene meno, più i cittadini si allontano gli uni dagli altri. La reciprocità è alla base delle cosiddette "istituzioni invisibili" che regolano la vita sociale: vale a dire, la fiducia, la legittimità, il rispetto dell’autorità. Oggi le istituzioni invisibili penano a mantenere il loro statuto e la loro efficacia. Ecco perché è necessario rimettere l’uguaglianza al centro dello spazio sociale, rendendo possibile tra l’altro quell’eguaglianza "di partecipazione" che è al centro della vita politica democratica. La possibilità per tutti di intervenire nella vita pubblica, anche al di là dell’esercizio del voto. Favorire questo tipo d’uguaglianza, da cui poi dipende anche la redistribuzione economica, è interesse di tutti. Un mondo di disuguaglianze, infatti, oltre ad essere un insulto ai più poveri, è anche un mondo dominato dall’insicurezza, dalla violenza e da costi sociali sempre elevati. La società della disuguaglianza non solo è ingiusta, ma è anche una minaccia per tutti».
Per un giorno il mondo parla spagnolo
Novecento città unite nella protesta nata 5 mesi fa a Madrid
Il mondo parla con inconfondibile accento spagnolo. Sono più di novecento le città di oltre 80 paesi dei cinque continenti che oggi scenderanno in piazza rispondendo a un appello venuto da lontano.
di Manuel Anselmi, Alessandro Oppes e Angela Vitaliano (il Fatto, 15.10.2011)
MADRID Era il 30 maggio, appena due settimane dopo la nascita del movimento degli “indignados”, quando nel clima di euforia della Puerta del Sol, fra tende da campeggio, gruppi di lavoro e assemblee permanenti, nacque l’idea un po’ folle di trasformare una protesta locale in manifestazione planetaria. Lo slogan globale venne scandido la prima volta nelle piazze di Spagna il 15 maggio: “Uniti per un cambiamento globale. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, loro non ci rappresentano”. Parole concordate nell’assemblea preparatoria che, nei giorni scorsi, ha riunito a Barcellona i rappresentanti di una quindicina di paesi.
In Spagna saranno oltre 60 le città che scenderanno in piazza, ma il cuore della protesta sarà, ancora una volta, la Puerta del Sol, dove tutto prese il via in un pomeriggio di primavera, a pochi giorni dalle elezioni amministrative che segnarono la disfatta del Psoe di Zapatero. Anche questa volta, ci sono elezioni in vista: manca un mese alle politiche. Ma loro, gli “indignados” di Spagna, ripetono: “Non ci interessa. Questi politici non ci rappresentano”.
NEW YORK Alla fine, gli “indignados” di Wall Street si sono armati, ma solo di scope, disinfettanti e strumenti da giardinaggio per rifare un po’ il make up delle aiuole di Zuccotti Park. La decisione degli occupanti è scattata dopo che il sindaco Bloomberg, giovedì sera, aveva annunciato che ieri mattina, alle 7, gli addetti alla sanitation si sarebbero recati nell’area per il regolare lavoro di pulizia che, da circa un mese, non viene effettuato proprio per la protesta in atto. Il sindaco, che aveva fatto una visita a “sorpresa” agli “occupanti”, spiegando che Zuccotti Park doveva essere sgomberato prima dell’arrivo degli spazzini, aveva provato anche a rassicurarli sul fatto che, subito dopo, la protesta avrebbe potuto ricominciare regolarmente. Un’ipotesi che, però, non è andata giù ai ragazzi che temevano la messa in atto di regole ancor più restrittive, come il divieto di utilizzo di sacchi a pelo, unica difesa contro il freddo e la pioggia che nella notte di giovedì è caduta copiosa. Intanto per oggi, è prevista una mobilitazione degli studenti delle scuole di ogni grado, in supporto all’occupazione di Zuccotti Park la cui onda d’urto non accenna a diminuire.
SANTIAGO Sono giovani, sono comuniste e sono donne. Hanno dei ruoli di dirigente, di portavoce, di responsabili. L’opinione pubblica mondiale, conosce soprattutto il nome di Camila Vallejo. Soprattutto grazie alla sua bellezza. Ma la Vallejo il 15 novembre, data della rielezione del portavoce della Confech, la confederazione dei movimenti universitari, molto probabilmente lascerà. Forse sparirà nell’anonimato come molti suoi predecessori, forse, come invece spera il Pc cileno che l’ha già inserita nel coordinamento nazionale del partito, continuerà a fare politica. Di sicuro, dietro di lei, tra le fila de movimento, ci sono tante ragazze pronte a prendere il suo posto. Come Camila Donato, Daniela Serrano o come Karola Carioli. Ancora più giovani della già giovane Vallejo. È singolare che molte di loro si chiamano Camila, qualcuno ipotizza in onore di Camilo Cienfuegos, il compagno di lotta di Fidel Castro morto per un incidente subito dopo la rivoluzione. Di sicuro molte di queste ragazze vengono da famiglie di comunisti che hanno sopportato duramente gli anni della dittatura di Pinochet.
Un mondo di indignados
La contestazione partita in Spagna contagia il globo
Sabato le mille anime del movimento in piazza a Roma
di Salvatore Cannavò (il Fatto, 12.10.2011)
Scusate il disturbo ma questa è una rivoluzione”. Inizia così la presentazione che il movimento spagnolo 15M, meglio conosciuto come quello degli “indignados” ha fatto ieri della giornata del 15 ottobre. La data era stata lanciata quasi in sordina prima dell’estate dai giovani spagnoli che hanno occupato le piazze del loro paese. Ora è diventata mondiale. Non si contano, infatti, le città del pianeta che hanno deciso di manifestare sabato prossimo contro gli effetti della crisi economica, il taglio della protezione sociale ma anche contro il riscaldamento del pianeta, la corruzione, per una nuova democrazia. C’è un video del movimento spagnolo che elenca 99 ragioni per manifestare sabato, e il 99 per cento è la percentuale di coloro che pagano la crisi mentre l’1 per cento della popolazione detiene nelle proprie mani la maggior parte delle ricchezze.
C’È CHI ha scomodato il ’68 e chi, più modestamente, il movimento “no global” che attraversò il pianeta circa dieci anni fa, per descrivere l’impatto della nuova ventata di indignazione. Certamente, la crisi globale ha contribuito a generare una rivolta generazionale più o meno estesa che, però, sembra avere una forte efficacia mediatica. Si pensi alle immagini che provengono da New York, dove “Occupy Wall Street” sta catalizzando l’attenzione della stampa e degli opinionisti antisistema più noti come Michael Moore, Naomi Klein o Slavoj Zizek. Un altro video del movimento spagnolo dà il senso di questa visione globale: si vedono, infatti, le immagini delle piazze del Cile, dell’Egitto, della Tunisia, di Israele, di New York e di Madrid come segnali di un vento globale che scuote il mondo intero e che, da sabato prossimo, dovrebbe soffiare anche in Italia.
La giornata italiana indetta dal Coordinamento “15 ottobre” si snoderà da piazza della Repubblica (appuntamento alle ore 14) fino a piazza San Giovanni. “Gli esseri umani prima dei profitti - dice l’appello di convocazione - non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, chi pretende di governarci non ci rappresenta, l’alternativa c’è ed è nelle nostre mani, democrazia reale ora!”. I toni sono analoghi a quelli spagnoli, viene denunciata la politica portata avanti da Commissione europea, Banca centrale, Fondo monetario internazionale. E se si respira un’aria antigovernativa e antiberlusconiana gli “indignados” italiani puntano il dito anche contro i “dogmi intoccabili quali il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita”. Scelte “non obbligate” perché ci sono “altre strade” dicono i promotori che chiedono “riconversione ecologica, giustizia sociale, saperi, cultura, territorio”. Si fa riferimento al referendum del 12 e 13 giugno, alla difesa dei beni comuni, ai diritti dei migranti e alla riduzione delle spese militari. Si parla anche di debito e della possibilità di non pagarlo. Il cartello di forze riunite è molto ampio e comprende più associazioni, sindacati e comitati che partiti.
C’è l’Arci e la Fiom, Legambiente e il Popolo viola, quasi tutti i sindacati di base, le organizzazioni studentesche protagoniste dei movimenti degli ultimi anni, i centri sociali e poi le sigle della sinistra radicale: Sinistra e libertà, Federazione della sinistra, Sinistra Critica, le varie sigle comuniste. Le previsioni per il corteo di sabato sono molto ottimistiche. I pullman sono tra i cento e i duecento - difficile una stima precisa perché ogni struttura organizza i propri e non c’è un coordinamento centrale - con un impegno corale da parte di tutte le anime. Che sono diverse tra loro e non sempre d’accordo su tutto.
C’è una componente, ad esempio, che ha visto riunire sotto la sigla “Uniti per l’alternativa” un sindacato come la Fiom e i centri sociali “ex disobbedienti” che progetta di costruire “uno spazio pubblico politico e di movimento” e si riconosce nelle varie manifestazioni sociali, ma che guarda con interesse anche alle primarie “di programma” e all’impresa di Nichi Vendola; c’è un cartello, piuttosto distante dal Pd, che invece si riconosce nello slogan “Non paghiamo il debito” e che ha visto riunite circa mille persone a Roma il 1 ottobre in una assemblea introdotta da Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra Cgil; poi c’è l’area dello “sciopero precario” che si muove attorno a parole d’ordine come “diritto all’insolvenza e reddito di base” e che è animata da centri sociali, ma anche da economisti come Andrea Fumagalli; poi ci sono soggetti più contigui al Pd come l’Arci o Legambiente, ma anche la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero. Tra i politici in piazza si annuncia anche la partecipazione di Antonio Di Pietro che al Fatto spiega di aver registrato “una spontanea partecipazione di tanti uomini e donne dell’Idv”. Ci sarà anche Luigi De Magistris e molto probabilmente Nichi Vendola.
LA CHIUSURA formale del corteo sarà in piazza San Giovanni dove non parleranno né politici né personalità riconosciute, ma i rappresentanti di trenta vertenze, dai NoTav ai lavoratori della Fincantieri, dai NoPonte ai cassintegrati. E se alcuni settori pensano di non fermarsi o di non arrivare a San Giovanni altri invece terranno degli “speak-corners”, angoli della piazzaattrezzatidialtoparlantiper tenere comizi spontanei. Ma sabato in piazza potrebbero vedersi anche diverse tende da campeggio. Gli universitari di Atenei in Rivolta, ad esempio, stanno sostenendo la campagna “Yes we camp”, per “scendere in piazza e rimanerci fino a quando questo governo non se ne sarà andato”. Gli studenti della Link, invece, dicono “chi vuole intendere inTenda” slogan corredato dall’immancabile igloo sul modello delle piazze spagnole a loro volte mutate da piazza Tahrir. Tutti gli studenti, comunque, si sono dati appuntamento per sabato alle 12 all’Università di Roma in piazzale Aldo Moro.
E POI C’È l’anteprima che si terrà oggi all’insegna di “Occupiamo Banca d’Italia” promossa anche in questo caso dagli studenti a cominciare da Unicommon. L’istituto presieduto da Mario Draghi organizza un convegno al quale parteciperà anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E a lui i “Draghi ribelli” vogliono consegnare una lettera (box in alto). L’appuntamento sarà probabilmente animato - ieri la polizia ha bloccato i precari che volevano occupare simbolicamente la Biblioteca nazionale - e anche in questo caso ci sono diverse tende pronte ad accamparsi nel centro della città. Sono in molti a sostenere, infatti, che dopo “Occupy Wall Sreet” è venuto il tempo di “occupare Roma”.
Il ritorno di Karl Marx nel cuore di Wall Street
Quei ricchi isterici che minacciano i valori americani
di Paul Krugman (la Repubblica, 11.10.2011)
NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all’America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale. Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell’un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c’è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell’estate del 2009. Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Michael Bloomberg, sindaco di New York e gigante della finanza a pieno titolo, è stato un po’ più moderato. Pur accusando anche lui i manifestanti di voler «portar via il posto a chi lavora in questa città», una dichiarazione che non ha nulla a che vedere con i reali obiettivi del movimento. E se vi è capitato di sentire i mezzibusti della CNBC, gli avrete sentito dire che i manifestanti si sono «scatenati» e che sono «allineati con Lenin».
Per capire tutto questo, bisogna rendersi conto che fa parte di una sindrome più ampia, nella quale gli americani ricchi, che beneficiano ampiamente di un sistema truccato a loro favore, reagiscono in modo isterico contro chiunque metta in evidenza quanto sia truccato questo sistema.
L’anno scorso, probabilmente lo ricorderete, alcuni baroni della finanza si infuriarono per alcune critiche molto miti fatte dal presidente Obama. Accusarono Obama di essere quasi un socialista perché appoggiava la cosiddetta legge Volcker, che voleva semplicemente impedire alle banche sostenute da garanzie federali di intraprendere speculazioni rischiose. E riguardo alla proposta di metter fine a una scappatoia che permette a molti di loro di pagare delle tasse bassissime, Stephen Schwarzman, presidente del Gruppo Blackstone, ha reagito paragonandola all’invasione nazista della Polonia.
Poi c’è la campagna diffamatoria contro Elizabeth Warren, una riformatrice del sistema finanziario che si candida al senato per il Massachusetts. Recentemente, un suo video su YouTube, in cui spiegava in molto eloquente e comprensibile a tutti perché si debbano tassare i ricchi, ha fatto il giro del web. Non diceva nulla di radicale: era solo una moderna versione della famosa definizione di Oliver Wendell Holmes, secondo la quale «le tasse sono ciò che paghiamo per vivere in una società civile».
Ma se dessimo ascolto ai paladini della ricchezza, dovremmo pensare che la Warren sia la reincarnazione di Lev Trotsky. George Will ha dichiarato che ha un «programma collettivista» e che crede che «l’individualismo sia una chimera». Rush Limbaugh l’ha definita, invece, «un parassita che odia il proprio ospite e che vuole distruggerlo mentre gli succhia il sangue». Ma che sta succedendo? La risposta, di sicuro, è che i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Non sono John Galt; non sono nemmeno Steve Jobs. Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite - fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media. Questo trattamento speciale non sopporta un’analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato, come dimostra il disperato tentativo di infangare Elizabeth Warren.
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza.
© 2011 New York Times News Service. Traduzione di Luis E. Moriones)
E gli Usa rinnegano il mito del capitale
Il movimento anti-Wall Street che da giorni scende in piazza ha scelto il proprio "guru". E, a sorpresa, ha rispolverato Marx e le sue teorie. Nella nazione in cui parlare male dei miliardari era diventato un tabù, sembra l’inizio di una svolta rispetto agli ultimi 30 anni segnati dall’egemonia culturale dell’edonismo reaganiano
di Federico Rampini (la Repubblica, 11.10.2011)
NEW YORK C’è un nuovo guru i cui testi sono diventati un’ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx. A riscoprire l’autore del "Capitale" e del "Manifesto del partito comunista" non sono soloi giovani che da tre settimane protestano contro i soprusi dei banchieri. Il movimento "Occupy Wall Street" è arrivato secondo in questa riscoperta. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Downtown Manhattan, contro cui i manifestanti gridano i loro slogan. Michael Cembalest, capo della strategia d’investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari».
Cembalest riecheggia ampiamente l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c’è «un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano». Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro».
La rivista The New Republic parla di "bolscevismo alla Brooks Brothers": è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camice che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage "Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti". Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l’esercito industriale di riserva» di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoroe comprimerei livelli retributivi. Il capitalismo - sostiene Bloomberg Businessweek - ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell’illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engelse di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamentia The Nation, l’unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un’opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs.
Per il pubblico di massa, la tv ha appena lanciato due serial praticamente sovversivi. Basta "Sex and the City"e altre storie eroticofrivole da borghesi spendaccioni, roba datata pre-recessione. Ora vanno in onda "2 Broke Girls" storia di due ragazze spiantate (vedi il titolo) che faticano per sopravvivere coni magri salari da cameriere. Sul network Abc il serial del momentoè "Revenge", dove la protagonista trama vendette contro i banchieri e altri privilegiati che hanno rovinato suo padre. Gli episodi si svolgono agli Hamptons, la località di villeggiatura marittima dei miliardari newyorchesi, luogo ideale per chi voglia punire i capitalisti. L’attrice Madeleine Stowe che recita da protagonista della "Vendetta", è convinta che «in questo particolare momento della nostra storia, l’americano medio vuol vederei ricchi messi al tappeto».
E’ un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segnati dall’egemonia culturale dell’"edonismo reaganiano"? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti. Per anni in cima alla classifica dei best-seller si sono avvicendati libri come "Secrets of the Millionaire Mind", "The Millionaire Next Door", "Rich Dad Poor Dad": i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educai suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul "riccoe la cruna dell’ago" avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successoe ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all’efficacia dello slogan di "Occupy Wall Street": «Siamo il 99%, riprendiamoci un’America cheè stata sequestrata dall’1% dei plutocrati».
I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c’è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal Consiglio d’amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7%e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po’ più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso «comprensione» per il movimento "Occupy Wall Street", noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l’accusa di «fomentare l’odio di classe» (Rick Perry), di «incitare alla lotta di classe» (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan, il padre storico dei neoconservatori, quando diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: «Noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà».
Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si cominciaa riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati.
David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolatoe alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione». Un segnale arriva perfino dalla superpotenza governata da un partito che si definisce comunista.
In Cina l’attenzione verso "Occupy Wall Street" è intensa, sul blog Utopia animato da accademici nostalgici del maoismo quella protesta viene definita come «l’inizio di una rivoluzione che spazzerà il mondo». E non si limiterà agli Stati Uniti: secondo quei blogger cinesi «i paesi emergenti hanno lo stesso destino, le stesse sofferenze, gli stessi problemie gli stessi conflitti; di fronte a una élite globale che è il comune nemico, i popoli hanno una sola opzione, unirsi per rovesciare lo strapotere delle oligarchie capitalistiche». Come diceva Lui: proletari del mondo intero...
I ragazzi indignados
di Gad Lerner (La Repubblica, 8 ottobre 2011)
Mentre la politica italiana s’ingarbuglia nella complicata liquidazione del berlusconismo, le prime vittime della Grande Depressione, cioè i giovani, mirano più in alto. Da temerari, lanciano una sfida globale contro la superpotenza finanziaria. Usano lo spagnolo per definirsi indignados. Scrivono in inglese i loro striscioni: Save school, not banks! S’interconnettono nella scelta dei bersagli: agenzie di rating, Borsa, banche d’affari, istituzioni finanziarie sovranazionali. Se la primavera araba ha abbattuto dei tiranni decrepiti, l’autunno occidentale si misura con l’anonimato di un’altra tirannia che traballa: i dogmi di un’economia incapace di distribuire equamente il benessere.
Troppo facile accusarli di velleitarismo, ora che il loro movimento ha circondato perfino il santuario di Wall Street. Neanche il più nostalgico dei marxisti avrebbe osato pronosticare un simile evento storico: lo spettro dell’anticapitalismo si aggira per gli Stati Uniti d’America? Calma e gesso, l’individualismo e lo "spirito animale d’intrapresa" restano connaturati all’America. Mai però la contestazione aveva insidiato prima d’ora i forzieri del capitale, là dove buona parte della ricchezza planetaria viene convogliata e ripartita secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. Fino a erigere la piramide assurda dell’ingiustizia sociale che neppure i suoi beneficiati osano più giustificare.
Nella Grande Depressione in corso ormai da quattro anni, ha proliferato dapprima diffuso un senso comune anti-élitario, di destra o di sinistra. E ora ne scaturisce un’inedita contestazione eretica dei vincoli dell’economia di mercato. Quando è apparso evidente come all’arricchimento smisurato di pochi corrispondesse l’impoverimento di nazioni intere, gli indignados hanno lanciato la rivolta contro gli intoccabili.
Questi giovani pretendono (si illudono?) di dare un volto ai giocatori che speculano sull’azzardo finanziario. Denunciano le conseguenze di un debito da costoro continuamente riacceso e dunque (solo per loro vantaggiosamente) infinito. Insieme ai tecnocrati, contestano i professori di economia arcisicuri che la sofferenza sociale vada sopportata, perché dalla crisi si uscirà prima o poi ripristinando la baldoria di prima.
La simultaneità dei movimenti di protesta giovanile esplosi a ogni latitudine, rompe i vecchi schemi terzomondisti. Oggi è nel cuore del sistema capitalistico occidentale che si genera l’antagonismo sociale, impersonato da soggetti nuovi come i lavoratori della conoscenza. D’un colpo è invecchiata pure la terminologia suggestiva ma generica di Toni Negri sull’"Impero" circondato da "moltitudini" espropriate: un movimento statunitense che si autodefinisce "Occupy Wall Street" esprime ben altro che la protesta delle periferie del pianeta. Atene, Tel Aviv, Madrid, Santiago non sono più così distanti da New York. Semmai è l’Occidente stesso che comincia a patire le conseguenze della sua eclissi. Smette di credere alla favoletta della ripresa dietro l’angolo, perseguibile con apposite manovre governative dettate dall’alto. Dubita dell’efficacia di piani di rientro del debito sempre più onerosi. Si domanda se una civiltà che prevede un limite ai minimi salariali, per sostenibilità non debba contemplare pure un limite ai compensi elevati.
Trovano così cittadinanza, nel senso letterale del termine, le domande scandalose che purtroppo l’accademia e l’establishment commettono l’errore di liquidare con sufficienza.
La politica, compresa la politica di sinistra, evita di rappresentarle, considerandole naïf, perché a sua volta affida le proprie chance di successo ai rapporti confidenziali che intrattiene con l’accademia e l’establishment. Nessuno che aspiri a governare l’Italia, per esempio, azzarderebbe una contrapposizione esplicita alla lettera-diktat spedita dalla Bce l’agosto scorso. Gli indignados di casa nostra, viceversa, pretendono di consegnare nei prossimi giorni alla Banca d’Italia una lettera dai contenuti diametralmente opposti.
L’appello messo in rete per la giornata europea di mobilitazione, convocata il prossimo sabato 15 ottobre, si rivolge alla Commissione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, assimilati alle multinazionali e ai poteri forti: "Ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita". La replica degli indignados è secca: "Non è vero che siano scelte obbligate". Alla politica chiedono di esercitare un contropotere rispetto alla superpotenza finanziaria globale, perfino rivendicando il "diritto all’insolvenza".
L’equazione grossolana secondo cui "il debito non l’abbiamo contratto noi, quindi non lo paghiamo", comincia a essere declinata in forme più articolate. Come l’ipotesi di un "default concordato e selettivo" a protezione dei ceti deboli. Anche per rintuzzare la voracità di cui sono vittime i paesi più indebitati, come la Grecia, a rischio di spoliazione. È una follia questa richiesta di sottrarsi alle regole dei mercati? Può darsi, ma nel caso bisognerà spiegarlo con umiltà a molta gente che nei decenni trascorsi - quando pure furono dei tecnici eccellenti a guidare le politiche di risanamento - ne subirono ingenti decurtazioni di reddito. Neanche l’idea di accollare agli Stati un oneroso piano di rifinanziamento delle banche risulterà accettabile, finché latitano provvedimenti di maggiore giustizia sociale. "Salvate le scuole, non le banche", appunto.
Succede quindi che su ambedue le coste dell’Atlantico si riconosca un nemico comune. Magari ridotto in caricatura semplicistica da chi imbratta le sedi delle banche e occupa gli uffici delle agenzie di rating. Ma si tratta di una reazione comprensibile di fronte a un’economia trasformatasi in ideologia. Sono due docenti dell’università Bocconi, Massimo Amato e Luca Fantacci, a denunciare il feticcio di un sistema finanziario solipsistico in cui pareva possibile che i conti non si chiudessero e i debiti non si pagassero mai (Fine della finanza, Donzelli editore). Fino all’"eternizzazione dell’espediente": da ultimo, creare debito impagabile prestando soldi a chi non può permettersi di rimborsarli, tanto... chi vivrà, vedrà.
Ecco, non si può pretendere che gli indignados, italiani, greci, islandesi, spagnoli o americani che siano - comunque figli rimasti esclusi dai nostri privilegi - credano ancora che l’innovazione sia di per sé portatrice di miglioramento. La creatività dei finanzieri, se mai fu ammirevole, oggi risulta detestabile. E per favore non chiamatela invidia sociale.
DENTRO IL CORTEO
Studenti, la protesta versione indignati
Come è cambiato il movimento in un anno
I- tagli e il dissesto finanziario della scuola si fondono con la recessione finanziaria e con la precarietà del lavoro.
Ecco cosa sta spingendo in piazza un’intera generazione di under 30
di CORRADO ZUNINO *
ROMA - E’ il corteo "giro dell’oca" quello di Roma, andata e ritorno dalla Piramide in tre ore e trenta minuti. Serve a paralizzare il quadrante sud a ridosso del centro. Sono tornati gli studenti in piazza, e sono più giovani e nervosi di un anno fa. Fanno ancora i flash mob, vuol dire che se la polizia li blocca non tirano le pietre, ma, flessibili come mercato comanda, cambiano traiettoria e fermano un altro pezzo di città. Un anno fa, dicevamo. Era l’otto ottobre 2010 quando i ragazzi iniziarono a contestare in massa la riforma universitaria del ministro Mariastella Gelmini. Ora hanno il padre in cassintegrazione e il fratello cerca lavoro da un tot.
Alla Piramide hanno messo, con qualche screzio in verità, i medi superiori in testa al corteo e dietro i famosi book bloc, gli scudi di polistirolo che citano i romanzi della crescita, ora si vedono queste esplosioni di testosterone sui volti. Sono tornati in piazza gli studenti perché la carta igienica nei bagni delle scuole continuano a portarsela da casa, perché nove università ogni dieci tra un semestre saranno sotto commissario causa dissesto finanziario. Sono tornati perché nel mondo c’è una perfida recessione finanziaria che serve a dare un alibi a tutti i "no" che gli sbattono in faccia: non c’è lavoro, la scuola pubblica costa troppo, se alzate la voce crolla il rating. Sono tornati in piazza perché si sono ricordati che quell’otto ottobre in cui tutto ebbe inizio - il corteo dei trentamila, il primo importante, il primo di una serie di marce fuori controllo in tutta Italia che avrebbe portato all’insurrezione di Piazza del Popolo, 14 dicembre - il contagio della rivolta si è diffuso nel mondo.
Già, gli "indignados" globali - se un giorno si scriverà la storia del movimento giovanile del primo decennio, la Generazione P (appunto, Precaria), tutto questo andrà sottolineato - sono nati in Italia. A Roma. E la data fondante potrebbe essere individuata nel 29 aprile 2010, quando un gruppo di ricercatori quarantenni - i fratelli maggiori dei ragazzi precari, loro da tempo dentro il meccanismo soffocante delle università - organizzò la Rete (29 aprile) e bloccò le lezioni negli atenei d’Italia. Ci fu un’assemblea calda, di fine stagione, all’Università La Sapienza, facoltà di Lettere. Era giugno. E lì si comprese che sarebbe stato un anno di movimento in piazza. Quindi arrivarono i cortei di fine settembre e la marcia dei trentamila dell’otto ottobre. Si formò così l’era degli indignados, e si scoprì per caso e in un istante che i guai nel mondo occidentale erano uguali per tutti gli under trenta. Scuola pubblica a pezzi, scuola privata inaccessibile e una sterminata offerta di lavori a 500 dollari al mese per vendere qualcosa al telefono appena laureati.
In Inghilterra si triplicavano le tasse e a Londra il figlio di David Gilmour oltraggiava il monumento ai caduti. Ad Atene la rivolta del ceto medio e degli strati anarchici della gioventù trovava negli studenti organizzati nuove ragioni e nuovi cubetti di porfido da lanciare. E poi Madrid, l’occupazione per settimane, con la pioggia e con il vento, della Puerta del Sol. Diventerà la piazza del pellegrinaggio di una generazione europea, suggerirà nuove occupazioni nelle più grandi città di Spagna. A Londra il "no future" ha iniziato a ispirare a minorenni dell’East saccheggi e incendi, mentre una nuova consapevolezza democratica ha attraversato i ragazzi di Santiago del Cile. Guidati da Camila Gallejo, la ragazza con il piercing al naso, reclamano lo smantellamento della scuola classista sopravvissuta alla fine di Pinochet. Oggi, attendendo il sorgere del sole nell’emisfero australe, a Santiago si torna in piazza. Ancora, in queste ore si legge dello sbarco degli indignados a Wall Street, delle cariche e degli arresti della polizia a Washington, a Boston, delle proteste anti-capitaliste addirittura a Los Angeles. E’ Michael Moore, capita spesso, a leggere meglio di tutti la rivolta: "Che devono fare questi ragazzi?, hanno capito che le banche terranno la loro generazione nel garage".
E’ stato un contagio lungo un anno. E il ceppo del virus si era formato lo scorso autunno nella capitale d’Italia, dentro le sue aule con l’intonaco grattato. Si è scoperto così, seguendoli da ottobre a ottobre, che ai ragazzi occidentali la precarietà era stata globalizzata. Si è tornati a comprendere, così, che da ragazzi si vuole ancora cambiare il mondo.
* la Repubblica, 07 ottobre 2011
Usa: ’indignados’ arrivano a Casa Bianca
Protesta sbarca a Washington,attesa marcia verso residenza Obama *
(ANSA) - WASHINGTON, 6 OTT - La protesta degli ’indignados’ sbarca a Washington, a due passi dalla Casa Bianca. Circa duecento dimostranti si sono radunati a Freedom Plaza e si preparano a marciare verso la residenza presidenziale e la Camera di commercio. La piazza, a pochi isolati dal numero 1600 di Pensylvania Avenue residenza della First Family, è situata di fronte alla sede del governo di Washington Dc ed è diventata teatro di una colorata protesta con tende e sacchi a pelo, cartelloni e tante bollicine.
* Ansa, 06 ottobre 2011, 20:21
Indignati, le bandiere rosse sfilano a Wall Street
In piazza con i manifestanti anche studenti e sindacati. Lo slogan: finite la guerra, tassate i ricchi
di Maurizio Molinari (La Stampa, 06.10.2011)
Con una inattesa dimostrazione di forza gli indignati di «Occupy Wall Street» invadono le strade di Downtown Manhattan riempiendo a migliaia Foley Square al grido di «End the War, Tax the Rich», fine alla guerra e tasse ai ricchi. Tutto inizia a Zuccotti Park alle 15, le 21 in Italia.
Tutto inizia quando l’accampamento dei drappelli protestatari su Liberty Street accoglie una marea umana multicolore. il popolo delle associazioni studentesche e delle Unions, i sindacati degli operai di New York. Fino a questo momento gli indignati di «Occupy Wall Street» sono stati soli nella sfida all’«avarizia dei ceo» iniziata il 17 settembre, negli scontri con la polizia sabato sera sul Ponte di Brooklyn e nelle notti trascorse nei sacchi a pelo, giocando a scacchi o suonando i tamburi. Ma con l’arrivo di insegnanti ispanici, operai filippini, studenti universitari, magliette blu degli idraulici del Bronx, insegne rosse delle «famiglie lavoratrici» e un’infinità di altre sigle del proletariato urbano cambiano i numeri e anche l’impatto della rivolta che si propone di «trasformare Wall Street in Piazza Tahrir» come riassume Jouno, 20 anni, studentessa di Portland, Oregon.
L’appuntamento fra gli studenti e i sindacati avviene con puntualità sotto gli occhi di dozzine di agenti, schierati con auto, mezzi e anche le torrette bianche che consentono di osservare tutto dall’alto. L’abbraccio fra le diverse anime della protesta si svolge all’incrocio fra Liberty Street e Broadway attorno ad un piccolo cartello bianco con scritto «Jobs» (posti di lavoro), che diventa la testa del corteo. Gli ordini della polizia sono rigidi: chi invade le corsie stradali rischia l’arresto. E così a centinaia risalgono Broadway verso Nord invadendo i marciapiedi.
Al passaggio di cartelli «Eat the Rich» (Mangia i ricchi), gruppi di improvvisati suonatori jazz e cori «Siamo il 99 per cento, unisciti a noi» succede di tutto. I turisti messicani si sporgono dagli autobus facendo con le dita il segno di vittoria, dal negozio di AT&T all’angolo con Vesey Street i commessi afroamericani escono applaudendo, davanti al Sun Building un passante caraibico alza al cielo il pugno nero dell’orgoglio afro, alcuni broker bianchi contestano la protesta e vengono subissati dai fischi. Lo schieramento di polizia è massiccio ma il servizio d’ordine dei manifestanti non ha sbavature, ripete in continuazione «restate sui marciapiedi» facendo ricorso anche ai megafoni.
L’obiettivo è arrivare a Foley Square, la piazza davanti al tribunale di Manhattan intitolata al combattivo fabbro che a fine Ottocento contribuì a creare il partito democratico cittadino. Sono da poco passate le 17, le 23 in Italia, quando la testa del corteo entra nei giardini. Ad accoglierla c’è un’orchestra di tamburi e trombe e un’altra massa di manifestanti, ancora dei sindacati come anche di MoveOn.org, l’associazione ultraliberal che nel 2008 tanto contribuì all’elezione di Barack Obama e che continua ad essere finanziata da George Soros, lo spericolato speculatore che si è schierato a favore di «Occupy Wall Street».
Foley Square si trasforma rapidamente in un tappeto umano che contiene oltre 10 mila anime, forse di più. Sventolano i drappi rossi dei socialisti, le bandiere americane rovesciate dei pacifisti, i colori dei cubani che auspicano «il risveglio popolare» e, sui gradini del tribunale, campeggia un grande striscione con scritto a caratteri cubitali «Revolt». Ad averlo confezionato sono due ragazze, Kerry di Miami e Lora di New York. «Rivolta non significa prendere le armi ma auspicare un grande cambiamento - dice Kerry, tenendolo bene in alto - proprio come avviene nel linguaggio musicale». Per Lora «qui stiamo facendo la storia e abbiamo voluto dare un nostro contributo». Pochi gradini più sotto un ragazzo con una maschera dorata assicura nel suo cartello che «la lotta di classe sta arrivando» e in effetti nella piazza ricolma sono temi e colori della sinistra radicale a prevalere.
Dei militanti del Tea Party visti pochi giorni prima a Zuccotti Park non c’è traccia e i sostenitori del repubblicano Ron Paul riescono a farsi largo a fatica solo gridando «End the Fed», poniamo fine alla Banca Centrale. Gli avversari di Obama tuttavia non mancano: dai ragazzi di Queens con le magliette anti-Barack agli irridenti adesivi sulla «speranza mai avveratasi» con tanto di effigie presidenziale.
La piazza degli indignati non si riconosce in leader e partiti esistenti, sfida tutti, accomunata dalla convinzione che si possa mettere fine alla crisi finanziaria «terminando la guerra e tassando i ricchi» al fine di rovesciare un mondo dove «i cittadini falliscono e le banche vengono salvate», come gridano i cori ritmati. Quando su Manhattan arriva il tramonto, gli indignati sfollano ordinatamente, tornando a Zuccotti Park dove da oggi si sentono più forti e meno isolati. Anche perché i sit-in di protesta si moltiplicano da Los Angeles a Boston.
All’assalto dei “ladri” di Wall Street
Giovani, in rete, e contro il sistema capitalistico: l’America siamo noi
di Angela Vitaliano (il Fatto, 04.10.2011)
New York. Ne arresti uno e ne spuntano due, questo sembra essere l’effetto finora ottenuto dai circa settecento fermi effettuati dalla polizia di New York nella giornata di sabato, nel tentativo di sgomberare il ponte di Brooklyn. A manifestare, marciando pacificamente, armati solo di parole poco gentili, scritte su cartelli e urlate, nei confronti di “quelli della finanza e della polizia”, erano gli ormai famosi indignados statunitensi, cioè i supporter del movimento Occupy Wall Street. “Noi siamo il 99%” si legge sul loro sito e su tutto il loro materiale di propaganda: il 99% di americani che soffre per una crisi senza fine a fronte di quell’uno per cento di “affaristi” di Wall Street che dettano regole buone solo per loro e per aumentare le proprie ricchezze. Il movimento, costituito in gran parte da giovani e giovanissimi che si ispirano, esplicitamente, alla Primavera Araba, ha cominciato a far parlare di sé da alcune settimane, anche se soprattutto via Twitter e Face-book, per aver occupato pacificamente un’area a ridosso di Wall Street, chiamata Zuccotti Park, dove i dimostranti dormono avvolti in sacchi a pelo e si danno il cambio senza mai lasciare completamente libera la zona.
La prima eco sulla stampa, tuttavia, si è avuta quando, Occupy Wall Street ha deciso di marciare nel pressi del Palazzo di Vetro, nei giorni dell’Assemblea generale, causando una reazione esacerbata della polizia, culminata nell’arresto di un’ottantina di persone. Niente in confronto alle 700 di sabato e, evidentemente, sufficienti solo per catalizzare l’attenzione di molti intorno al movimento e richiamare più supporter da ogni parte del paese.
CHRIS Longenecker, 24, responsabile per la pianificazione dei cortei, a proposito dei fatti di sabato, non esita a parlare di “provocatori” infiltrati in un movimento che è assolutamente pacifico e che non intende fermarsi fino al raggiungimento del proprio obiettivo: smantellare Wall Street o perlomeno le sue logiche. Molti degli “occupanti” non esitano a definirsi “socialisti” o “comunisti” e sottolineano con rigore che non vogliono essere “manipolati” né da democratici né da repubblicani, facce della stessa medaglia.
E se gli indignados, nella città del capitale, dove, però, non è raro vedere, come ovunque, ragazzi con indosso magliette di Che Guevara, si definiscono socialisti, i socialisti non perdono tempo a dargli tutto il loro appoggio, in maniera ufficiale. Molti infatti i gruppi socialisti, comunisti e marxisti che hanno espresso solidarietà e sostegno concreto al movimento. Il Partito socialista Usa, ad esempio, ha annunciato sul proprio sito web che “esprime totale appoggio alla mobilizzazione per occupare Wall Street a New York e in altre città e incoraggia tutte le nostre sedi locali a prendere parte attiva alle azioni”.
Il partito socialista, inoltre, auspica che il movimento contribuisca alla creazione di un “nuovo ordine sociale”. Se i Tea Party, dunque, combattono Obama con ogni arma perché “socialista”, i supporter del movimento Occupy Wall Street fanno esattamente lo stesso ma per la ragione opposta, “il presidente non è abbastanza socialista per smantellare Wall Street”. Il risultato, in periodo che si può già chiamare pre elettorale, è il rischio di una diserzione di massa dalle urne come segno della protesta civile contro il Congresso, nella sua totalità, e le logiche di Washington. A sostenere l’azione del movimento, anche Van Jones, ex consulente per l’ambiente alla Casa Bianca e fondatore, dalla scorsa estate del movimento Rebuild the dream che ha già raccolto numerosissime adesioni attraverso manifestazioni in tutto il paese. “Dopo la primavera araba - ha detto Jones - assisteremo ora all’Autunno statunitense e ottobre sarà solo l’inizio del cambiamento”.
LE MIE NOTTI CON GLI INDIGNATI
DI MICHAEL MOORE
New York ha otto milioni di persone: e un milione vive in povertà. È una vergogna. Eppure il sistema non si ferma qui. Non importa quanta vergogna possiamo provare: la macchina va avanti - per fare altri soldi. Per trovare nuovi modi di imbrogliare la gente che lavora. Nuovi modi per accaparrarsi le pensioni: di rubare ancora di più. Ma qualcosa sta succedendo a Liberty Plaza.
Sono stato a Liberty Plaza per un paio di notti. E ci tornerò. Sapete? Stanno facendo un gran lavoro laggiù. E stanno ricevendo sempre più sostegno. L’altra notte il sindacato dei ferrotranvieri - gli autisti di bus, gli autisti della metropolitana - ha votato con entusiasmo per sostenere la protesta. Tre giorni fa 700 piloti di linea - soprattutto United e Continental - hanno marciato su Wall Street.
Non so se avete avuto modo di vedere queste cose nei tg. So bene com’è andata la copertura fin qui: vi hanno mostrato pochi hippy che picchiavano duro sui tamburi - le cose tipiche che cerca la stampa. Per carità: che Dio benedica gli hippy che picchiano sui tamburi! Ma c’è una ragione per cui "loro" vogliono farci vedere solo questo. E allora ve lo dico io che cosa ho visto in quella piazza. Ho visto i giovani. Ho visto gli anziani. Ho visto la gente di tutti i tipi e di tutti i colori e di ogni religione. Ho visto anche la gente che vota per Ron Paul (il candidato presidenziale ultraconservatore che vuole abolire la Banca centrale). Voglio dire: è un gruppo di gente davvero assortita. Ci stanno le infermiere in quella piazza. Ci stanno gli insegnanti in quella piazza. Gente di ogni tipo.
Martedì ci sarà una nuova manifestazione: anche gli autisti di autobus e della metropolitana marceranno su Wall Street. E ho già sentito dire che l’Uaw (il sindacato degli operai dell’automobile) sta pensando a qualcosa del genere. Pensate: il loro incubo peggiore diventa realtà. Gli hippy e gli operai dell’auto che marciano insieme! Ma vedete: la gente ha capito. E tutta questa storia sulle divisioni interne e questo e quell’altro: alla gente non gliene importa più niente. Perché stavolta si tratta dei propri figli: che rischiano di non poter più andare al college. Stavolta si rischia di restare senza un tetto. Questo è quello che è davvero in gioco.
Ma quello che mi sembra più strano e bizzarro, dei ricchi, è come abbiano deciso di strafare fino a tanto. Voglio dire: gli stava andando tutto così bene. No: per loro non era abbastanza. Per i nuovi ricchi non era abbastanza. I nuovi ricchi che hanno fatto quattrini non grazie a buona idea. Non a un’invenzione. Non con il loro sudore. Non con il loro lavoro. I nuovi ricchi che si sono arricchiti con i soldi degli altri: con cui hanno giocato come se fossero al casinò. Soldi su soldi. E adesso ci ritroviamo con una generazione di ragazzi per cui gli eroi da seguire sono quelli dei canali tv di business: quelli che si sono arricchiti facendo soldi su quelli che fanno soldi su quelli che fanno i soldi... Ma quanto bisogno avremmo di giovani che si mettessero al lavoro per salvare questo pianeta? Per trovare le cure a tutti questi mali. Per trovare un modo di portare acqua e servizi igienici ai miliardi di persone su questa Terra che non ne hanno.
Questo è ciò che ci vorrebbe. E invece le 400 persone più ricche di questo paese oggi hanno più ricchezza che 150 milioni di americani messi tutti insieme. Dicevano: oh, sarà uno di quei numeri che Michael Moore butta giù. Beh, è una statistica vera: verificata da Forbes e da PolitiFact. Le 400 persone più ricche di questo paese hanno più ricchezza che 150 milioni di persone messe insieme! Ma questa non si può chiamare democrazia. La democrazia implica una qualche sorta di eguaglianza: una qualche sorta di egalitarismo. Io non dico che ogni pezzo della torta dev’essere della stessa misura: però non siamo andati ormai oltre?
Ma ora c’è questa buona notizia. Perché fino a quando avremo qualcuno che pone delle sfide alla nostra democrazia - fino a che la Costituzione resterà intatta - vorrà dire che ciascuno di noi avrà lo stesso diritto di voto dei signori di Wall Street: una persona vota per una persona. E loro potranno pure comprare tutti i candidati che vogliono: ma la loro mano non guiderà la nostra mano quando saremo in cabina. Questo è il messaggio da gridare forte: da fare arrivare a quei milioni di persone che si sono arresi - o che sono stati convinti e fuorviati per ignoranza. Ecco: se riusciremo a far arrivare il nostro messaggio, beh, per quei 400 sarà il peggiore degli incubi. Perché l’unica cosa che sanno fare bene sono i conti. E sanno che noi siamo un fottìo più di loro. Dipende solo da noi. Basta svegliarsi al mattino e dire ok, adesso basta, fine. Ho deciso di impegnarmi. E ho deciso di coinvolgere 10 persone tra i miei vicini. Questa adesso è la nostra missione: impegnarci. Per questo vi dico: sostenete la protesta di Liberty Plaza.
Micahel Moore
Fonte: www.repubblica.it, 02.10.2011
Non confondete berlusconismo con populismo
di Michele Ciliberto (l’Unità, 21 luglio 2011)
Il concetto di populismo non è a mio giudizio in grado di interpretare in modo adeguato la vicenda italiana degli ultimi venti anni e, in modo specifico, le posizioni di cui è stato massimo artefice e protagonista Silvio Berlusconi. Quello su cui i classici insistono quando si parla del popolo è la dimensione della totalità, del tutto sulle parti, della comunità sugli individui. (...) Berlusconi non si è mai mosso in una prospettiva comunitaria e organicistica, cioè populistica (come invece ha fatto, almeno in parte, Bossi); ma, anzi, ha accentuato - fino a stravolgerli in senso dispotico - il carattere e la dimensione strutturalmente individualistica della «democrazia dei moderni».
Con il suo messaggio ha proposto, e fatto diventare modello di vita e senso comune, una sorta di bellum omnium contra omnes; per riprendere la distinzione di Hobbes, ha sostenuto, e anche realizzato, una regressione dalla «società politica» alla «società naturale». Da questo punto di vista, rispetto al movimento della società moderna, e al significato in esso assunto appunto dalla politica, Berlusconi si è mosso come il granchio: è retrocesso dalla storia alla natura; dalla legge al primato degli spiriti animali.
Nel suo messaggio Berlusconi non si è mai rivolto né alla massa, né al popolo inteso come un totum ma sempre e soltanto agli individui, ai singoli individui: individui isolati, privi ormai di identità comune, chiusi nei loro interessi e pronti, nella crisi, a dislocarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. È vero: ha usato il termine «popolo» per definire il suo movimento, ma precisando subito che non si trattava di un «partito» tradizionale di massa (cioè di tipo novecentesco), e connotandolo come «popolo della libertà». Ed è, ovviamente, al secondo lemma che ha assegnato maggior rilievo. Il popolo cui Berlusconi si è rivolto fin dall’inizio della sua avventura politica non ha nulla di totalitario o di organicistico. (...) L’individualismo è stato l’architrave di questa posizione, in accordo su questo punto con la Lega che però, a differenza del berlusconismo, declina motivi comunitari e nuove identità collettive estranee, come tali, all’ideologia del Popolo della libertà. In sintesi nel berlusconismo si sono espressi anche sul piano simbolico, e hanno avuto a lungo successo, nuovi modelli antropologici e culturali, incardinati sul primato degli «spiriti animali», della «società naturale» sulla legge e sulla «società politica». (...)
Qualunque sia il giudizio sulla sua opera, il berlusconismo si è sforzato di dare una risposta a esigenze che, in modo complesso e anche contraddittorio, si erano cominciate liana, inclinandole - attraverso un’ampia e capillare «rivoluzione ideologica» imperniata sui media - verso un individualismo egoistico e autoreferenziale, chiuso in se stesso, imperniato sull’esaltazione degli spiriti animali.
Quali siano stati i risultati di questa stagione è oggi sotto gli occhi di tutti: il primato dell’individuo invece di esprimersi in una più ampia e articolata affermazione dell’uomo e delle sue facoltà si è risolto in nuove e più profonde forme di separazione e di contrapposizione tra gli uni e gli altri; e in nuove forme di sottomissione servile, acuite dal venir meno e dalla crisi delle vecchie strutture politiche e sociali a cominciare dal sindacato. (...) Non credo che oggi il problema sia quello di insistere, anzitutto, sul valore e sul significato dell’individuo. Nel ventennio passato questa musica è stata suonata in forma addirittura assordante; e, almeno alle origini, poteva avere un senso sintonizzarsi su queste onde. Oggi appaiono però chiari gli esiti intrinsecamente autoritari e dispotici dell’individualismo di cui si è fatto promotore e artefice il berlusconismo.
Per riprendere la coppia usata da Kant e prima da Machiavelli, in questo ventennio il popolo si è disgregato ed è diventato plebe, moltitudine priva di leggi. Ma come Machiavelli ci ha insegnato nei Discorsi una moltitudine senza religione e senza leggi, cioè senza vincoli, non può mai essere uno stato, una repubblica; e sarà sempre superata, come coesione e capacità di azione e di organizzazione, dal regno, dal Principato - in una parola - dal dispotismo.
Il problema di un partito riformatore, che voglia stabilire nuove relazioni tra governanti e governanti, oggi è precisamente quello di ristabilire nuovi vincoli, nuovi legami tra i singoli individui considerati come tali, come individui. La democrazia vive di legami, a cominciare da quello costituito dal lavoro, come il dispotismo si nutre di isolamento, divisione, contrapposizione. Legami nuovi, legami che devono essere capaci di toccare la pluralità di cerchi entro cui si esprime la vita umana. (...) È questa esigenza, questo rinnovato bisogno di solidarietà, di socialità, anche di condivisione di valori comuni - prepolitici, prepartitici - che un partito riformatore oggi deve sapere intercettare, mettendoli al centro di un nuovo rapporto tra governanti e governati.
Senza politica, ne sono convinto, non ci sono né libertà né democrazia. La politica, il partito sono una effettiva risorsa; ma né l’una né l’altro potranno mai più essere quello che sono stati nell’epoca della politicizzazione di massa. Sono, l’una e l’altro, un momento fondamentale, ma un momento, di un vivere che si articola in una pluralità di campi, di cerchi, tutti degni, tutti autonomi, tutti irriducibili a un minimo comun denominatore. Lo spazio del rapporto tra governanti e governati si è esteso enormemente oltre le barriere del XX secolo, sia sul piano delle forme che dei contenuti. E questo incide anche sul carattere e sulla funzione del partito, il quale oggi deve essere al centro di una vasta costellazione di istituti, capace di corrispondere alla pluralità di cerchi in cui si esprime l’esperienza civile e politica.
Tocqueville nella Democrazia in America insiste sulla necessità delle associazioni (diventate poi i moderni partiti); oggi, occorre individuare, e valorizzare, nuove forme di cooperazione e di aggregazione - nuovi istituti appunto - aprendosi in tutte le direzioni, imparando, se necessario, anche da quello che avviene nella sfera religiosa. Bisogna passare dal mondo chiuso della politicizzazione di massa all’universo delle nuove forme di associazione, di relazione, di comunicazione.
300 preti austriaci scrivono un appello per il sacerdozio alle donne e una riforma della Chiesa
di Cindy Wooden
in “National Catholic Reporter” (“Catholic News Service”) del 12 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
I vescovi austriaci hanno criticato l’attività di un gruppo di preti che chiede riforme nella prassi della chiesa - tra cui l’apertura al sacerdozio alle donne e agli uomini sposati - ma non hanno compiuto né minacciato azioni disciplinari.
Michael Pruller, portavoce del cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, ha dichiarato che il cardinale ha in programma di incontrare a fine agosto/settembre i preti della diocesi viennese che sono tra i leader dell’"Iniziativa dei parroci", che ha lanciato un "Invito alla disobbedienza" nello scorso mese di giugno .
L’iniziativa, che afferma di raccogliere poco più di 300 membri, prevede di recitare una preghiera pubblica nel corso di ogni Messa per la riforma della Chiesa, di offrire la Comunione a tutti coloro che si avvicinano all’altare in buona fede, compresi i cattolici divorziati risposati, e privi di annullamento matrimoniale, di permettere alle donne di predicare durante la messa, e sostenere in ogni modo l’ordinazione delle donne e di uomini sposati.
In una intervista telefonica da Vienna, lo scorso 11 luglio, Pruller ha detto che per quanto ne sapeva, i vescovi austriaci non hanno discusso l’eventualità di una risposta comune da presentare ai preti. "Nessun vescovo ha minacciato azioni disciplinari, ma se un prete conduce la sua parrocchia lontano da quanto insegna la Chiesa, una sanzione la si dovrebbe prendere”, ha detto Pruller. Nell’ "Invito alla disobbedienza", si afferma che i preti si sono sentiti costretti a seguire la propria coscienza per il bene della Chiesa in Austria, anche perché i vescovi finora si sono rifiutati di agire in merito.
Il Cardinale Schönborn ha rilasciato una dichiarazione il 22 giugno dove diceva che avrebbe aspettato tre giorni prima di rispondere, perché non voleva reagire d’impulso "con la rabbia e il dolore" che l’iniziativa dei preti gli aveva causato.
"L’invito aperto alla disobbedienza mi ha letteralmente shoccato", ha detto. Il cardinale ha affermato che nessuno dei preti firmatari è stato ordinato con la forza e tutti loro hanno giurato obbedienza così come si sforzano di compiere la volontà di Dio. Il Cardinale Schönborn ha detto che è giusto per ogni uomo seguire la propria coscienza, e se i preti veramente credono di vivere un tale conflitto estremo tra la propria coscienza e la Chiesa, probabilmente essi dovrebbero considerare se appartengono ancora alla Chiesa. "Io credo e spero, però, che questo caso estremo non possa verificarsi qui da noi", ha scritto. Ma alla fine, "sta a tutti noi decidere se vogliamo percorrere la strada insieme al Papa, i vescovi e la Chiesa universale, o meno".
Il vescovo di Graz, Egon Kapellari, vice presidente della Conferenza episcopale austriaca, ha rilasciato una dichiarazione il 28 giugno, nella quale afferma che “le proposte dei preti stanno minacciando seriamente l’identità e l’unità della Chiesa cattolica".
“Mentre i pastori hanno ragione a essere preoccupati per fornire una cura pastorale migliore ai cattolici del Paese, la situazione in Austria non è così drammatica da richiedere ai preti di agire al di fuori della comunione con la Chiesa universale”.
“Una cosa è richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica alle necessità della Chiesa - ha detto Kapellari - altro è incoraggiare le persone a disobbedire agli insegnamenti e alla prassi della Chiesa stessa.”
Mons. Kapellari ha aggiunto che mentre la coscienza personale è riconosciuta dalla Chiesa come un "valore di tutto rispetto", è sbagliato insinuare che il papa e i vescovi non agiscono secondo la propria coscienza quando promuovono l’unità e il rispetto della tradizione della Chiesa.
Quando? Ora!
di Cinzia Sasso *
Che meraviglia la manifestazione di Siena. Ti guardi in giro, vedi le facce, i cappelli, le magliette, i sorrisi, e ti chiedi: ma quanto sono belle, le donne? Immaginate la stessa scena riempita da un’altro genere... beh, sarebbe proprio diversa. E però non è solo questione di estetica. Questo è un appuntamento di sostanza: non era facile immaginare che cinque mesi dopo le donne - di tutte le età, professioni, cultura, origine geografica - avessero ancora la forza e la voglia di incontrarsi tutte insieme e di mettere al centro del dibattito politico proprio se stesse.
Era successo il 13 febbraio, ma allora le piazze d’Italia piene di donne potevano sembrare la risposta di istinto a quella gigantesca offesa collettiva che era stata la scoperta - e soprattutto la spiegazione da parte dei protagonisti - delle notti di Arcore. Il guerriero stanco aveva spiegato che era suo diritto rilassarsi così, con ragazze a cachet. Chiarendo due radicati concetti: che il guerriero è il maschio e che le donne quello sono capaci a fare. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, è chiaro: perché alle spalle avevamo la scelta di una classe dirigente femminile fatta con questi criteri e la mancanza assoluta di una idea del mondo più vicina alle donne e dunque alla vita e alla realtà.
Non so se sia bastato riempire le piazze e gridare collettivamente ”non ne possiamo più”; certo in questi cinque mesi molte cose sono cambiate. Oggi le giunte delle più importanti città che hanno rinnovato la loro amministrazione - da Milano a Cagliari - vedono uomini e donne, assessori e assessore, ugualmente divisi. E se non tutti hanno la lucidità di decidere in autonomia questo mix di genere, oggi c’è pure una legge che ti costringe: legge imperfetta, quella delle quote nei cda, ma comunque per l’Italia un passo avanti radicale come una rivoluzione.
Siena, oggi, è dunque una griglia di partenza avanzata. Forse davvero il momento di svolta. Il luogo dove alla domanda “quando?” è possibile rispondere “ora”. Buon lavoro, ragazze. Il futuro è nelle nostre mani: noi lo sappiamo, ma adesso lo spieghermo anche a tutti gli altri.
* la Repubblica - Blog di Cinzia Sasso: WWWOMEN
http://sasso.blogautore.repubblica.it/2011/07/09/quando-ora/?ref=HREC1-2
IL MOVIMENTO DELLE DONNE CI RIPROVA
di LEA MELANDRI (Gli altri, 08.07.2011)*
Sembra un destino dei movimenti rendersi "visibili" solo quando scuotono la compagine istituzionale, le sue chiusure, i suoi modelli, la sua cecita’ rispetto a tutto cio’ che si muove intorno e al suo interno. La divisione tradizionale tra politica e societa’ e’ ancora cosi’ salda che e’ bastata l’imprevista partecipazione alle elezioni amministrative e al referendum per qualificare come "nuovi" protagonisti che sono da decenni tutt’altro che assenti dalla scena pubblica e dai suoi conflitti. I cortei degli studenti e dei precari, le occupazioni delle universita’, le singolari forme di lotta adottate negli ultimi tempi dagli operai, le grandi manifestazioni delle donne, dal 2006 al 13 febbraio, appaiono nonostante tutto "carsici" finche’ non producono cambiamenti riconoscibili nei luoghi deputati della politica.
"Il clima d’opinione, scrive Ilvo Diamanti ("La Repubblica", 27 giugno 2011), non cambia da solo. Ci vogliono nuovi ’attori’ in grado di riscrivere l’agenda pubblica imponendo all’attenzione dei cittadini nuovi temi (...) Si tratta di una partecipazione nuova, caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all’impegno politico. In primo luogo le donne e i giovani".
Ma come e’ possibile che i "soggetti imprevisti" del ’68, a distanza di quarant’anni, siano ancora tali? Anche ammettendo che non si tratti di un disperante ritorno dell’uguale ma di una "ripresa" nel senso che Elvio Fachinelli dava a questo termine - il gia’ noto che cerca nuove vie di uscita -, non possiamo non chiederci se il primo nemico del cambiamento non sia la politica stessa, la strenua difesa dei confini astratti che si e’ data storicamente, fatti di esclusioni ingiustificate, di strappi violenti, privilegi, poteri e linguaggi sempre piu’ vacillanti. La radicalita’ della dissidenza giovanile e del femminismo degli anni ’70 e’ stata, principalmente, la ridefinizione dell’agire politico: il lavoro, ma anche la quotidianita’, la persona, i corpi, i ruoli sessuali, la formazione dell’individuo, le professioni, il rapporto con la natura, con l’ambiente, con la diversita’ sotto qualsiasi forma si presenti. Sul tracciato che si e’ aperto allora, si puo’ dire che l’onda lunga di alcuni movimenti non ha mai smesso di scavare solchi profondi e sempre piu’ estesi, fino a far balenare l’idea che "un altro mondo e’ possibile".
Eppure, la loro presenza e i cambiamenti di cui sono gli anonimi protagonisti, vengono registrati solo quando i "nuovi barbari" riescono ad abbattere qualche paletto della fatiscente impalcatura istituzionale: la cancellazione o la conquista di una legge, un risultato favorevole alle elezioni, l’accostamento alle regole di una politica ancora sostanzialmente separata dalla vita. A questa visione dicotomica non sfugge neppure l’analisi di un osservatore acuto come Ilvo Diamanti che, pur rilevando la "moltitudine di esperienze diverse, diffuse, articolate" del popolo che oggi esprime il suo desiderio di partecipazione, accosta ancora una volta le donne ai giovani, agli studenti e agli operai. Mi chiedo se il femminismo stesso, la’ dove ha rinunciato a interrogarsi sul rapporto tra il corpo e la polis, la sessualita’ e la politica, non abbia avallato involontariamente una classificazione che vede le donne come un gruppo sociale tra altri, sia che le si consideri alla stregua di una minoranza svantaggiata o, al contrario, una "risorsa viva" da reintegrare, a sostengo di un sistema in declino.
"Il risultato vero che la manifestazione del 13 febbraio ha dato con successo - scrive Franca Chiaromonte (www.donnealtri.it, 17 giugno 2011) - e’ stato quello di mettere in scena una mobilitazione di popolo a egemonia femminile (...) quello che voglio dire e’: cosi’ come innumerevoli manifestazioni - che di solito chiamiamo di carattere generale, per es. quelle dei sindacati o dei partiti -, sono piene anche di donne (...) altrettanto ora si renderanno possibili e ugualmente potenti, se non di piu’, manifestazioni all’inverso, dove cioe’ saranno le donne a segnare i passi decisivi".
Le oltre duecento piazze che hanno accolto l’appello del comitato romano "Se non ora quando" possono far pensare a una forza unitaria delle donne, capace di imporre i suoi temi all’agenda politica, cosi’ come suggerire l’idea che uno spazio pubblico segnato per secoli dall’autorita’ maschile cambi finalmente volto. Ma se si vuole dare una risposta alla domanda di continuita’ che viene oggi dai comitati diffusi su tutto il territorio nazionale, e’ importante - come ha scritto Serena Sapegno ("Gli Altri", primo luglio 2011) tener conto che, se il 13 febbraio ha fato cadere "vecchi steccati e pregiudizi aprendosi a donne molto diverse per eta’ e ceto sociale, cultura e esperienza di vita, posizioni politiche, opzioni religiose, scelte sessuali", non per questo viene meno il carattere problematico, contraddittorio, della "frammentazione" che caratterizza da sempre il movimento delle donne. Connaturata a una pratica che parte da "se’", dall’esperienza particolare di singole, gruppi, associazioni, per estendersi a un orizzonte piu’ generale, la pluralita’ dei soggetti, delle situazioni locali, dei percorsi storici, mal sopportano strette organizzative omologanti, cosi’ come la rassegnazione a vedere trasformarsi l’autonomia in isolamento.
L’assemblea di Snoq che si terra’ a Siena il 9-10 luglio non puo’ non richiamare alla memoria tentativi analoghi che quasi sempre hanno fatto seguito a mobilitazioni riuscite, ma la ripresa, oltre che essere in questo momento nelle aspettative di molte, prende una valenza nuova e la speranza di riuscita dal contesto in cui avviene. La concomitanza tra le piazze segnate dall’autonomia del movimento delle donne con quelle occupate per giorni dai comitati elettorali e referendari, ha creato occasioni di incontro, scambio, condivisioni inaspettate tra donne di formazione culturale e politica diversa, tra associazioni del femminismo e donne provenienti da ambiti sindacali e partitici. Per alcune citta’, come Milano, si tratta di una situazione nuova, che richiede come tale attenzione, impegno, disponibilita’ a interpretare le ragioni che ci hanno tenuto a lungo separate, estranee e diffidenti le une verso le altre. A un livello ancora piu’ esteso, quale e’ un’assemblea nazionale, sara’ possibile fare interagire realta’ cosi’ diverse, darsi una forma minima di organizzazione che non ricalchi modelli noti - lobby o partiti -, trovare "un sentire comune, terreni condivisi, azioni concertate"?
Sara’ questa la sfida maggiore: non scambiare la forza collettiva con l’obbedienza al pensiero unico, la valorizzazione delle differenze con l’assenza di conflitto, la solidarieta’ con l’adeguamento. Molto dipendera’ dall’ascolto reciproco e dall’apertura ai temi molteplici che via via sono venuti allo scoperto nei percorsi della coscienza femminile, oltre che dall’attenzione ai nessi non sempre evidenti che li attraversano. Non solo percio’ la rappresentazione della donna nei media, l’ideologia assorbita oggi dalle leggi del mercato e della pubblicita’ che da sempre l’ha identificata col corpo - erotico e materno -, ma anche la violenza domestica, la subalternita’ inconsapevole alla cultura maschile dominante, la divisione sessuale del lavoro, che ancora vede le donne - direttamente o attraverso la messa al lavoro di donne, per lo più straniere - responsabili "naturali" della conservazione della vita, l’estensione indebita del concetto di maternita’ a tutte le funzioni di cura indifferentemente prodigate a persone non autosufficienti e perfettamente autonome, la tentazione di assolutizzare, assumendole come proprie, le attrattive femminili che l’uomo ha asservito ai propri bisogni e desideri.
Dietro i corpi artificiali e mercificati, "offerti ossessivamente al consumo", come scrive Sapegno, ci sono donne non meno reali di quelle che giustamente criticano l’imposizione di modelli. Si possono trovare di volta in volta "obiettivi strategici" all’azione comune, se si ha, al medesimo tempo, la voglia di costruire una visione di insieme che si avvalga della ricchezza di saperi prodotta, paradossalmente, proprio dalla frammentazione conosciuta finora.
* Fonte: http://www.universitadelledonne.it/
Libertà per le donne
Se non ora quando
di Michela Marzano (la Repubblica, 10 luglio 2011)
Non ci sarà mai un buon governo finché si calpesteranno o si dimenticheranno i diritti delle donne. La prima ad averlo detto era stata, nel 1791, Olympe de Gouges, due anni prima di essere ghigliottinata. Oggi sono tante le donne che condividono quest’affermazione. Lo dimostra la manifestazione di Siena.
Dove è stato scelto di farne uno degli slogan dell’incontro organizzato per questo fine settimana dall’ormai celebre movimento "se non ora, quando?". Sono tante e diverse le donne che non vogliono più essere ostaggio del potere maschile. Tante e diverse coloro che desiderano battersi perché gli uomini e le donne siano realmente uguali. Uguali in termini di diritti e di libertà. Uguali in termini di opportunità lavorative e intellettuali.
Uguali non solo di fronte alla legge, ma anche nella vita di tutti i giorni. Perché, nonostante tutte le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, la condizione della donna in Italia si è oggi notevolmente degradata e l’uguaglianza effettiva sembra ormai una mera chimera. Quante donne, pur lavorando come gli uomini (e talvolta più di loro) sono costrette ad occuparsi da sole dei figli e della casa? Quante ragazze hanno gli strumenti critici necessari per decostruire le immagini e i discorsi che arrivano loro attraverso la televisione e la pubblicità?
La strada per l’emancipazione e l’uguaglianza è ancora lunga. Soprattutto quando ci si rende conto che, nonostante tutto, il concetto di uguaglianza viene ancora oggi frainteso. Molti continuano a confonderlo con quello di identità, come se, per godere degli stessi diritti, gli esseri umani dovessero per forza essere identici. Come se le donne, per potersi affermare a livello lavorativo e rompere il famoso "soffitto di cristallo", dovessero necessariamente rinunciare alla propria femminilità e "diventare uomini". L’uguaglianza per cui ci si batte oggi, invece, non ha affatto lo scopo di cancellare ogni differenza tra gli uomini e le donne, di tendere al "neutro", o di considerare che valore e dignità dell’essere umano dipendano solo dalla razionalità priva di sesso.
L’uguaglianza per la quale tante donne si mobilitano oggi è un’uguaglianza che valorizza le differenze, tutte le differenze. Come scriveva negli anni Novanta la femminista americana Audre Lorde: «Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse. (...) Ognuna di noi aveva i suoi propri bisogni ed i suoi obiettivi e tante e diverse alleanze. C’è voluto un bel po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza».
Certo, ci sono sempre quelle che pretendono di aver capito tutto e che vorrebbero imporre alle altre la propria concezione della femminilità o la propria visione della sessualità. Ciò che è giusto o sbagliato. Quello che si deve o meno fare. E che finiscono paradossalmente col proporre una nuova forma di "paternalismo al femminile", un mondo in cui poche donne avrebbero il diritto di imporre a tutte le altre il proprio modo di pensare e di agire.
Ma si tratta sempre e solo di una minoranza. Perché la maggior parte delle donne che si battono oggi per la difesa dell’uguaglianza e della libertà hanno ormai capito che la donna, per natura o per essenza, non è proprio nulla. Non è naturalmente gentile, dolce, materna, fedele. Esattamente come non è naturalmente perfida, libidinosa o pericolosa. Come l’uomo, la donna ha tante qualità e tanti difetti. Solo che, a differenza dell’uomo, non ha ancora avuto la possibilità di mostrare al mondo ciò di cui è capace. In quanto donna, non ha ancora accesso alle stesse opportunità degli uomini e viene spesso penalizzata.
L’unica vera battaglia che vale la pena di combattere oggi perché l’uguaglianza tra gli uomini e le donne diventi effettiva è quella per la libertà. È solo quando si è liberi che ci si può assumere la responsabilità delle proprie scelte, dei propri atti e delle loro conseguenze: la libertà è il cardine dell’autonomia personale; ciò che permette ad ogni persona di diventare attore della propria vita. Al tempo stesso, però, perché la libertà non resti un valore astratto, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio.
Alla libertà come "non interferenza", la famosa libertà da della tradizione filosofica liberale, si deve aggiungere la libertà come "non dominazione" della tradizione repubblicana, la libertà di, quella libertà effettiva che permette ad ognuno di partecipare alla "cosa pubblica" senza subire le conseguenze di discriminazioni intollerabili sulla base del sesso, dell’orientamento sessuale, del colore della pelle o della fede religiosa.
Se non ora quando
Un fine settimana all’insegna del confronto.
«Dare voce a coloro che non hanno voce»
Nuovo protagonismo
Cristina Comencini: «Faremo un bilancio per guardare al futuro»
Una valanga rosa verso Siena «Anche stavolta saremo migliaia»
di Augusto Mattioli (l’Unità, 08.07.2011)
Quelle piazze piene del 13 febbraio le donne non le hanno dimenticate. Quel giorno è stato solo un inizio. Da allora hanno continuato a lavorare insieme, a dibattere sul loro ruolo, sui temi che le avevano indotte ad andare in piazza. Al di là delle appartenenze politiche. Come un fiume carsico, le donne del 13 febbraio tornano a farsi vedere e sentire. E lo fanno a Siena questo fine settimana. Si incontrano nella città del Palio per fare un bilancio di ciò che è stato fatto fino ad oggi, discutere ancora dei temi che maggiormente le interessano (il lavoro, la maternità, la rappresentazione che viene fatta del loro corpo, rapporto uomo-donna) e per capire cosa fare nei prossimi mesi della forza che, con le loro manifestazioni, hanno mostrato di possedere.
«L’appuntamento di Siena non sarà certo la conclusione del nostro lavoro ha ricordato ieri la regista Cristina Comencini ma faremo un bilancio di ciò che abbiamo fatto e rilanceremo andando avanti con iniziative comuni e forti». «In effetti ricorda Albalisa Sampieri, del comitato senese Donne del 13 febbraio abbiamo lavorato molto in questi mesi per l’appuntamento di Siena. Sarà importante che prendano la parola le donne comuni». Con le loro testimonianze. Quella di Sofia Sabatino, per esempio, che è portavoce nazionale della rete degli studenti. O quella di Sohueir Katkhuouda, presidente dell’associazione nazionale delle donne musulmane in Italia. O della teologa Agnese Fortuna.
La due giorni senese sta lievitando di ora in ora. Il numero delle partecipanti dovrebbe superare quota 1200. Una presenza che ha spiazzato le organizzatrici senesi e nazionali che si dichiarano soddisfatte. Per questo motivo è stata addirittura cambiata la sede dell’incontro dal museo Santa Maria della Scala alla vicina Piazza sant’Agostino nei pressi del Liceo Classico Piccolomini che ha messo a disposizione un’aula multimediale per la sala stampa. Un piccolo segnale della disponibilità della città ad accogliere le donne di «Se non ora quando». Del resto anche l’appello ai senesi per ospitare nella propria abitazione alcune di loro è stato accolto per una settantina di persone. Collaborazione piena anche dalle istituzioni, a partire dal Comune. «Siamo orgogliosi ha sottolineato il sindaco Franco Ceccuzzi che Siena sia stata scelta per questo appuntamento. Spero che da questa città continui a soffiare quel vento che ha innescato qualcosa di importante nel nostro Paese come il protagonismo delle donne».
L’EVENTO
Donne di tutto il mondo unitevi
le nuove vite del femminismo
Piazze, blog, manifesti, riviste, documentari. Dall’Italia, che si ritrova oggi e domani a Siena, alla Francia fino ai paesi arabi. È il nuovo mondo delle ragazze che, dopo le storiche lotte, si sta riaffacciando sulla scena. Con molte differenze e un tratto comune: la voglia di tornare ad essere visibili e di prendersi il futuro
di BENEDETTA TOBAGI *
BENVENUTI nel nuovo mondo. Delle donne. Oggi e domani quelle italiane si incontrano a Siena, ma tutti i giorni si ritrovano sul web, nelle piazze francesi o sulle riviste inglesi. The F world, dove F sta per femminismo, è il nome di un popolare sito web nato nel 2001 divenuto un saggio di successo, ed è il titolo del numero estivo che Granta, trimestrale cultural-letterario britannico tra i più influenti a livello globale, dedica a "esplorare i modi in cui, dalla Gran Bretagna al Ghana, il femminismo continua a influenzare, affrontare e complicare le cose" in un mondo inesorabilmente dominato dagli uomini.
In Francia, a quarant’anni dal Manifesto delle "salopes" (termine gergale la cui area semantica oscilla tra "puttana" e "stronza"), cioè le 343 donne, tra cui Catherine Deneuve e Simone de Beauvoir, che il 5 aprile 1971 uscirono allo scoperto dichiarando di aver abortito illegalmente, Libération ha pubblicato la versione aggiornata dalle loro "nipoti".
Negli ultimi mesi si sono viste parecchio: dalle proteste "situazioniste" con barbe finte contro il sessismo imperante alle marce in abiti succinti, ripresa delle "slut walk" (marce delle "salopes") nordamericane contro chi ancora sostiene che un abbigliamento sexy "provoca" gli stupratori. Oltremanica, "Million Women Rise" organizza affollate manifestazioni antiviolenza, mentre le italiane rispondono al rinnovarsi del richiamo talmudico "Se non ora quando". Questo sommovimento internazionale è solo un riflesso d’indignazione al proliferare degli scandali sessuali del potere e al problema endemico e trasversale delle violenze, oppure il femminismo sta davvero tornando ad essere un attore protagonista sulla scena globale?
La mobilitazione torna a coinvolgere le giovanissime, rileva il Guardian, ma s’interroga su come verrà canalizzato politicamente questo patrimonio d’entusiasmo e rinnovata consapevolezza. Un confronto tra i due manifesti francesi mette bene in luce potenziale e criticità del nuovo femminismo. Negli anni Settanta, la battaglia per l’aborto libero e gratuito fu un collante formidabile, insieme alle lotte per la parità salariale, il divorzio, le modifiche al diritto di famiglia.
Obiettivi chiari, perseguibili con battaglie mirate e referendum. Oggi, l’agenda richiede azioni politiche, sociali, culturali complesse e mediate. Sradicare il sessismo è un compito educativo transgenerazionale. Non basta un referendum per trasformare l’immagine della donna nei media. Tutelare il lavoro impone di operare nel quadro più ampio dei provvedimenti contro la crisi. Non si tratta più solo di donne: SNOQ ha scelto uno slogan come "rimettiamo al mondo l’Italia", facendo storcere parecchi nasi femministi-ortodossi.
Sull’onda della nuova fioritura, si rinnova il dibattito su cosa il femminismo sia stato e debba essere. L’editorialista del Times Caitlin Moran in How to be a woman cestina la nozione di "sorellanza" ("quando hanno cominciato a confondere femminismo e buddismo?") e sembra tornare a The subjection of woman di John Stuart Mill (1869): il femminismo è uguaglianza tra i sessi, con buona pace del pensiero della differenza. Tante donne preferiscono parlare di "movimento delle donne ", per marcare un’autonomia ideologica rispetto al passato e scansare i sarcasmi e le vecchie fratture interne, che tendono a riproporsi. Sulla nascita di una autentica koiné (neo)femmista grava il mancato superamento di antichi dilemmi. Senza una vera "comunità epistemica" (un insieme di concetti, spiegazioni, ideali e policies condiviso) argomenta l’accademica Sylvia Walby nel saggio The future of feminism, il femminismo non riuscirà a dare la spallata fatale al paradigma patriarcale. Ed è sulla sessualità che persistono le divisioni più profonde: per questo, afferma Walby, ben poco di rilevante è stato scritto dopo il Rapporto Hite, la dirompente inchiesta sulla sessualità femminile del 1976.
Non a caso, è sul moralismo che puntano i detrattori delle proteste rosa: le donne fatalmente si dividono sull’opportunità dei riferimenti alla prostituzione, sul rischio di fossilizzarsi nella condanna delle "olgettine". Affibbiarsi l’etichetta di sluts o salopes e vestirsi come passeggiatrici è un’ironica rivendicazione di controllo del proprio corpo o l’ultima e più subdola forma di autodenigrazione? Hanno ragione le neofemministe che invocano una pornografia di donne per le donne? La Walby individua il fattore culturalmente più disgregante per il movimento nell’affermarsi di una "svolta neoliberista" anche nell’intimità. E’ davvero libera la donna che pratica sesso per ricavarne potere o vantaggi competitivi attraverso la manipolazione del piacere altrui, anziché cercando l’appagamento e l’incontro con l’Altro? La libertà sessuale non si riduce a un nuovo conformismo o, peggio, alla riedizione di una subalternità? Se lo chiedevano già le ragazze alla fine degli anni Settanta le cui voci e volti ci ha restituito Alina Marazzi nel documentario Vogliamo anche le rose: allora, se non la davi a tutti i "compagni" eri una frigida borghese. Oggi, rischi di passare per una frigida moralista, tra sguardi di sospetto e compassione.
La frammentazione nel pensiero femminista, d’altra parte, è specchio del vissuto delle donne: dunque non è un male, ma un sintomo di apertura e di vitalità. L’agenda politica è complessa come la nostra vita. Dentro e fuori, condizioni materiali e aspetti simbolici, personale e politico sono inestricabilmente mescolati. L’ordine simbolico si evolve con lentezza, oggi si incrociano aspettative sociali appartenenti a "ere geologiche" diverse. Le donne devono essere troppe cose insieme e Caitlin Moran legge nell’epidemia di nuovi disturbi alimentari come la "sindrome da abbuffata" un tragico compromesso: le donne sfogano fragilità e frustrazioni in una dipendenza che, diversamente da alcol e droghe, non compromette l’efficienza. Un’inchiesta britannica ha rivelato come l’insicurezza femminile sia parte del soffitto di cristallo che tiene le donne lontane dal top management. Jennifer Egan, vincitrice del Pulitzer 2011, ammette il surplus d’insicurezza che accompagna ogni scrittrice che sperimenti strade nuove.
L’archetipo materno della cura e del dono di sé e bisogni atavici di sicurezza e protezione mantengono profonde risonanze interiori nell’animo delle donne che hanno conquistato quella "stanza tutta per sé" vagheggiata da Virginia Woolf nel 1928. Spesso, abitarla significa ancora rinunciare a una nursery profondamente desiderata, o trovarsi in una camera matrimoniale vuota, e i tagli al welfare innescano ed esacerbano questi dilemmi interiori. Il nuovo femminismo conosce la fatica di muoversi tra le molte stanze, vuote o assediate, abbandonate o sovraffollate, attraverso cui ogni donna cerca di costruire il senso di sé e trovare il suo posto nel mondo, i rischi e il prezzo dell’agognata libertà. E cerca gli strumenti per attenuarli.
La riscoperta della sorellanza del "noi", con buona pace di Moran, è il primo passo. Non è ancora emerso un canone di testi per la battaglia delle donne del XXI secolo. Interrogandosi su quale sia la nuova bibbia femminista Granta suggella questa situazione sospesa, confusa ma feconda, chiedendo a tre scrittrici di parlare dei libri che hanno condizionato il loro personale romanzo di formazione. Farà sempre bene leggere classici come Memorie di una ragazza per bene, La mistica della femminilità o Tre ghinee. Ma la nuova bibbia dobbiamo scrivercela da noi.
* la Repubblica, 09 luglio 2011
Risorgimento civile. Le donne costruiscono
Il 13 febbraio è nato un movimento vero
di Maria Luisa Busi (l’Unità, 09.07.2011)
Quel giorno è iniziato un nuovo Risorgimento civile. Siamo state noi a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita
Ma parliamoci chiaro. Chi sta reggendo sulle spalle il nostro paese? Ma le avete viste le donne per strada? Le vedete le donne negli uffici, nelle banche, negli ospedali, nei supermercati, nelle case? La vedete o no la fatica delle donne, la vita da funambole, sempre in bilico, sempre incerte se ce la faranno a fare il passo successivo? E poi ce la fanno, ce la fanno sempre. Nonostante tutto. Nonostante la crisi economica morda persino i consumi alimentari, nonostante ci siano più precarie che precari, nonostante la più bassa occupazione femminile, nonostante siano più preparate e meno pagate, nonostante un welfare tra i peggiori d’Europa, nonostante un paese che si riempie la bocca della parola famiglia, mentre accetta che quasi un milione di donne lasci il lavoro perché costrette, alla nascita del primo figlio.
Le donne fanno. Terza persona plurale del verbo fare. Il verbo che piace di più alla propaganda di questi tempi. Solo che le donne fanno davvero. Arriverà cosi tanta gente oggi e domani a Siena che han dovuto spostare la location per la due giorni dello SNOQ, acronimo del movimento senonoraquando, quello delle donne che han portato un milione di persone nelle piazze italiane, il 13 febbraio scorso, tanto per capirci. Per chi se ne fosse dimenticato, l’inizio di un nuovo Risorgimento civile.
Diciamoci la verità. Pochi credevano che sarebbero andate avanti. Molte invece sì. Ne erano certe. Perché le donne fanno. E le donne sanno quando si può, quando si deve. Hanno detto: si sa, le donne non sanno fare squadra....Si sa le donne sono nemiche delle donne, hanno sibilato. Ma cosa volete che dica un paese maschile e maschilista, ripiegato in se stesso, conservatore, rattrappito, asfittico, vecchio e un po’ triste, che per anni e da anni gira come un criceto su una ruota che un ditino muove, e a ogni giro c’è un attacco alla magistratura, e poi alla Costituzione, e poi a una qualche Istituzione dello Stato, e poi alla scuola pubblica, e poi ai precari. Un paese dove un Ministro della Repubblica si permette di definirli «l’Italia peggiore...» E guarda caso, se lo consente con una donna.
E hai appena finito di inorridire per le feste eleganti a base di lap dance che spuntano le strutture Delta. Ma non riesci a prendere ossigeno che si ricomincia, un altro giro, e sempre la stessa ruota e il dito, sempre quello, che fa girare noi tutti criceti e facendoti girare infilano di striscio, come giocolieri maldestri, un’altra bella norma ad personam che quando li scoprono la ritirano, come bambini colti col dito nella marmellata. Scusate, si scherzava. E mentre cerchi di risollevarti e non sai più se dal pianto o dal riso, stiam pur certi che ripartono, e le loro televisioni dietro e quelle che controllano pure, nel paese con il più sfrontato conflitto di interessi del mondo occidentale, ripartono con l’attacco alla magistratura e alla Corte Costituzionale e ce ne sarà forse ancora un po’ di nuovo anche per il Capo dello Stato e poi per la scuola pubblica e poi per gli omosessuali e, ci mancherebbe, anche per le donne.
Come dopo quella domenica 13 febbraio, che si poteva fare come al solito e prolungare il pranzo domenicale e magari vedere le trasmissioni demenziali in televisione, quelle giovani donne in sottoveste a febbraio negli studi televisivi dove a febbraio fa freddo e loro lì a darsi sulla voce nell’arena di turno di conduttori piacioni che le invitano per fare tappezzeria, e loro lì perchè non c’e’ altra immagine che passi, altre storie che si impongano, mica si puo’ invitare un’attrice che recita Plauto in teatro! Lì, facendosi strumento di una subcultura che le vuole ospiti sottomesse e semimute, le gambe attorcigliate come equilibriste a discutere di argomenti su cui cercano di mimare una qualche competenza. Mai vista una rettrice di Università alle quattro del pomeriggio. Eppure basterebbe fare tre telefonate.
Perché sono solo tre, in tutta Italia. Si poteva dunque stare lì, davanti a quello specchio deformante che dai, sì, un po’ ci ha deformati, fin dai tempi in cui ci aspettava a casa silente e quando lo accendevi ti diceva gaio: corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta. Ci ha trasformati un po’, e lo abbiamo lasciato fare, riuscendo talvolta a tirar fuori il peggio da noi : l’indifferenza per il bene comune, l’irresponsabilità, la pigrizia, la maleducazione, la mancanza di rispetto per le donne, quindi per tutti. Ci hanno provato con forza a cambiarci la testa, prima piano piano, poi con determinazione crescente, fino a fabbricare una macchina perfetta in ogni suo meccanismo: la macchina del populismo mediatico,
La macchina del consenso. La notizia è che non ci sono riusciti. Molte e molti hanno posto distanze, letto libri, giornali liberi, sono andati al cinema, a teatro, si son collegati con internet al mondo reale, o semplicemente han parlato con gli altri, con quelli che come loro non ce la fanno, con chi non ha il posto all’asilo nido, o con chi ha la vita scritta a matita per un contratto ogni tre mesi, mal pagate, mal pagati, senza orizzonte, che non possono pagare l’affitto, figuriamoci fare un figlio. Ognuno si è difeso come ha potuto, in questi anni un po’ infelici, da quella macchina ancora attiva che vuole “inculcare”quella sìche l’immagine è tutto, tanto che quel che appare diventa reale, la finzione si sovrappone alla realtà e diventa il vero.
E quel che più conta per costruire il consenso, di donne e uomini: farli diventare consumatori, un imperativo di questa nostra società liquida. Molti l’hanno oscurato, come si copre un defunto, con un sudario, quello specchio deformante e deformato, che trasmette una realtà che ha dell’osceno, nella nudità del re. L’hanno fatto con il velo dell’indignazione prima, della ribellione pacifica poi, persino con un’arma micidiale: la risata. E la voglia di partecipare è divenuta bisogno di diffondere l’antivirus: senso e civiltà, regole e diritto. Lo hanno fatto coi referendum, attraverso la rete, scavalcando la tv ostile o complice, che nicchia o non informa. E le figlie e i figli hanno così spiegato ai padri e alle madri, e loro ai nonni, ai conoscenti e agli amici qual era la posta in gioco: che siamo opinione pubblica, e non un pubblico. Così la brezza è diventata vento. Così non ce l’han fatta. E il così fan tutti, il chissenefrega, non ci ha mangiato come un alien.
Ma tutto è cominciato lì, non dimenticatelo. Tutto è cominciato dalle donne, quel 13 febbraio. Perché le donne fanno. E quando fanno non fanno solo per loro, fanno per tutti. E questo deve rimanere storia. Sono state le donne a dire basta a un’Italia che non c’e’, che non è maggioranza. Sono state le donne a non voler più farsi dire non solo chi sono, ma chi siamo tutti, uomini e donne in questo paese, chi siamo, cosa dobbiamo provare, cosa ci deve emozionare, cosa dobbiamo ignorare. Sono state le donne a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita.
Per questo quel 13 febbraio le donne sapevano già, con quel senso che sanno dare le donne alle cose, che da lì cambiava tutto. E tutte e tutti quelli che c’erano stritolati allegramente in Piazza del Popolo a Roma come in centinaia di piazze italiane, hanno risposto che non siamo né bambini né cavalli che hanno bisogno della caramella o dello zuccherino per digerire le notizie più pesanti, quelle della politica e della cronaca, come ha detto il direttore del più importante telegiornale della televisione pubblica, per giustificare notizie di primario interesse come quella della medusa cubo nei mari australiani, mentre se ne nascondono altre. E davanti a quella moltitudine sembra vederlo lo stupore che diventa rabbia e balletto di cifre e denigrazione sloganistica: «le solite snob della sinistra, poche radical chic». Ma cosa vuoi che dicano, col paese che sfugge, che non crede più al pifferaio magico e al suo specchio deformante!
Nessuno ci credeva alla vigilia che potessero arrivare a tanto, a quei numeri, a quella massa, a radunare un popolo, le donne, quando si muovono. Quando decidono di dire basta. Finirà lì, qualcuno ha detto, dopo quel 13 febbraio. Tanto poi si dividono, si dissolvono, pluff, come bolle di sapone. Si sa, le donne non sanno far squadra. Come se quelle piazze che non bastavano a contenere tutte e tutti struccate e allegre sessantenni, fichissime arrabbiate ventenni, tacchi alti, scarpe da ginnastica, piumini e cappotti, collane di perle e piercing sulla lingua, capelli rasta e taglio alla Carfagna, volti di rughe serene e labbra e zigomi gonfi come pane e passeggini con neonato e cani al guinzaglio e la suora sul palco e la sindacalista, la regista e l’insegnante, la precaria e la ricercatrice, la disoccupata e la professionista e madri e nonne e single e mariti con la panzetta e compagni e fidanzati e amici... come se quella ritrovata agorà non fosse che una cosa soltanto: L’Italia che chiede rispetto e uguaglianza. Se fosse la loro direbbero la migliore. Noi diciamo semplicemente quella vera. Perché le donne fanno. Oggi, domani. Sempre.
Stati generali del movimento il 9 e 10 luglio.
Comencini: vogliamo che la nostra rete resti in piedi
Riecco le donne di "Se non ora quando"
"A Siena per cambiare il Paese"
"Lavorano come gli uomini ma guadagnano meno: dati Istat sconfortanti"
di Silvia Fumarola (la Repubblica, 28.06.2011)
ROMA - Le donne sono abituate a non arrendersi; se cominciamo qualcosa, difficilmente mollano a metà strada. Ma perché la condizione femminile cambi veramente bisogna impegnarsi a fondo, far sentire la propria voce, senza dare niente per scontato, senza incertezze: per questo, dopo aver portato un milione di persone in piazza, le donne di "Se non ora quando?" organizzano la grande manifestazione a Siena del 9 e 10 luglio, perché «l’Italia diventi davvero un paese per donne». Indietro non si torna ma dopo il 13 febbraio, e la conferma che c’era una grande voglia - dapprima silenziosa - di cambiare, non si sono fatti grandi passi avanti.
Adesso gli oltre 120 comitati locali, nati in quell’occasione, si incontreranno nella città toscana, nel complesso di Santa Maria della Scala per una sorta di Stati generali della condizione femminile, un momento di confronto con le donne di tutta Italia, sui temi fondamentali: la vita quotidiana, il lavoro, l’immagine femminile, il ruolo nella società, la difficoltà enorme di conciliare famiglia e professione. Quante sono le donne nelle stanze dei bottoni? Ancora troppo poche. Linda Laura Sabbadini dell’Istat fornirà dati sconfortanti e l’economista Tindara Addabbo spiegherà come le donne siano ancora discriminate: lavorano come gli uomini, ma guadagnano meno.
«Vogliamo che la rete resti in piedi» chiarisce la regista Cristina Comencini «e si allarghi il più possibile; se siamo riuscite a portare tanta gente in piazza è stato grazie al web, al confronto continuo con tante donne diverse, in tutto il Paese. È fondamentale mettere insieme le esperienze e confrontarci, c’è stato un risveglio lo scorso inverno che è prezioso, le energie non vanno disperse. Partendo dalla difesa del corpo delle donne adesso vogliamo andare avanti, mettere al centro il lavoro. I dati parlano chiaro: le 800mila italiane costrette a lasciare il loro impiego dopo una gravidanza, l’esercito di precarie e disoccupate - eppure, è appurato, le donne sono le più efficienti e preparate - sono la dimostrazione che questo non è un Paese per donne. Il campo non lo lasciamo, anche se ci rendiamo conto che il nostro progetto di cambiamento è molto ambizioso».
Ma le donne riunite alla Fnsi (tra cui Francesca Comencini e Lunetta Savino, fondatrici del movimento) dov’è stata presentata la nuova iniziativa - che prevede anche una sottoscrizione online per la due giorni senese, sul sito di "Se non ora quando?" - hanno l’aria di voler andare fino in fondo. «Vogliamo coinvolgere gli uomini e farci sentire perché la politica» come spiega la Comencini «non può non farsi contagiare da un movimento che dal Nord al Sud ha scosso il Paese». «Il 13 febbraio ha fatto esplodere un processo già in corso» aggiunge la sindacalista Valeria Fedeli «e ciò che sta avvenendo dice che una parte della società civile si è svegliata. Non dobbiamo mollare, anche se c’è un pezzo della politica e delle istituzioni che si muove per bloccare questo movimento, come dimostrano le ultime decisioni sull’età pensionabile. A Siena sarà un atto fondativo pubblico».
Siena diventerà per due giorni "la città delle donne": sono previsti sconti ed iniziative, come anticipa Tatiana Campioni, direttrice del Complesso di Santa Maria della Scala. «Per noi è un’iniziativa bellissima, speriamo davvero che tante donne, insieme, riescano a fare la differenza». «Cambiare» è il verbo più ripetuto. «Perché per cambiare davvero va combattuta una battaglia culturale» dice Lunetta Savino «il mondo ha bisogno dello sguardo delle donne, capace di andare a fondo nelle cose e modificarle. E va rinnovato anche il linguaggio, il modo di far sentire la protesta. Non a caso, all’inizio, abbiamo usato lo strumento del teatro, portando in scena lo spettacolo "Libere"».
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
SPAGNA
A piedi da Barcellona a Madrid
La marcia degli indignados
Un cammino lungo 29 giorni con altrettante tappe in città del Paese. Lo scopo dei partecipanti è quello di raccogliere altri compagni: sarà "una nuova iniziativa per far recepire l’indignazione". Il 24 luglio una grande manifestazione nella capitale *
BARCELLONA - Non si sono lasciati spaventare dal caldo afoso e, zaino in spalla, hanno iniziato il loro cammino verso la capitale. Una cinquantina di ’indignados’ spagnoli hanno lasciato stamani Barcellona per raggiungere Madrid a piedi: 652 chilometri in 29 giorni per ritrovarsi, insieme ad altre marce partite da Valencia e Cadice, nella capitale spagnola per una grande manifestazione il 24 luglio.
Nel loro viaggio attraverso la Spagna, i giovani di Barcellona si fermeranno in 29 città e paesini per raccogliere altri compagni: sarà "una nuova tappa per far recepire l’indignazione", ha detto David, uno degli organizzatori. In questa prima giornata di cammino, i ragazzi catalani, partiti alle 7 tra gli applausi dei passanti, si fermeranno a Esplugues de Llobregat e hanno previsto di passare la notte a Vallirana. Ogni sera, ad ogni tappa, si terrà un’assemblea, sottolinea un comunicato distribuito dagli ’indignados’ di Barcellona, "perché crediamo che camminare sia un modo per scambiarsi idee, ascoltare, costruire dei domani allo stesso tempo numerosi e diversi, uniti dalla stessa indignazione".
Il gruppo è assistito da un’equipe composta da un medico e da un’infermiera disoccupati. "Ci siamo preparati a ogni tipo di emergenza", ha spiegato il dottor Alvaro, con "medicine e tutto quello che può servire sopratutto a prevenire".
Ispirato dalla primavera araba, il movimento dei giovani ’indignati’ è nato spontaneamente il 15 maggio 1 per denunciare la corruzione della politica e rivendicare il diritto al lavoro e le proprie aspirazioni per un futuro migliore. E dopo lo smantellamento, il 12 giugno scorso, del loro accampamento alla Puerta del Sol a Madrid, i giovani "indignados" vogliono consolidare il loro movimento attraverso assemblee popolari e manifestazioni periodiche. Domenica scorsa almeno 200 mila persone hanno manifestato in tutta la Spagna, nella prima grande mobilitazione del movimento, contro la disoccupazione e la crisi economica.
* la Repubblica, 25 giugno 2011
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione - con una nota
(...) Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia (...) Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare (...)
LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
Le piazze della primavera (globale). Il softpower della politica
Dal web alla partecipazione, anatomia del nuovo attivismo
di Raffaele Simone
(la Repubblica, 25.06.2011)
Le primavere delle piazze arabe, gli indignados madrileni, il fronte referendario in Italia: un’onda anomala fa sentire sempre di più la sua voce al Palazzo. I protagonisti sono qualcosa di più e di diverso dei vecchi movimenti. Sono trasversali, si mobilitano su singoli temi via internet, hanno strutture veloci e leggere senza gerarchie né troppe regole. Per definirli in Usa hanno coniato il termine di "click activism". Ma comunque li si chiami una cosa è certa:stanno rivoluzionando il rapporto tra cittadini, partiti e potere
Su Europa e dintorni s’è rovesciata da tempo un’onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità politica di quest’inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo "movimenti", ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi.
È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l’azione dei partiti pur tenendosene a distanza.
Quei movimenti hanno alle spalle vari predecessori, che negli ultimi anni sono riusciti a richiamare folle nelle piazze quasi senza aspettarselo: i girotondini, le bandiere iridate, le donne di "Se non ora quando", i movimenti per la costituzione, i no-global fino ai gruppi dei grillini. Se dapprima quelli sembravano fenomeni estemporanei, ora è chiaro che sono un trend della cultura politica della modernità.
Anzitutto, l’onda è internazionale. Nelle rivolte in Egitto, in Tunisia e in tutto il lato sud del Mediterraneo la parte decisiva spetta a movimenti "leggeri", di uomini, donne e perfino ragazzi, convocati, raccolti e messi in movimento con messaggi sms.
Senza la "primavera del gelsomino" (come qualcuno l’ha chiamata), Tunisia e Egitto non si sarebbero liberati dei tiranni. In Ucraina il movimento arancione si è adoperato contro il regime poliziesco del paese; e il colore arancione è stato ripreso anche in Italia come simbolo di gruppi di sinistra per i quali il "rosso" non era più abbastanza espressivo. Gli "Indignados" madrileni, per parte loro, si sono riprodotti in tutta la Spagna e in Portogallo e sembrano destinati a influire ancora sulla Grande Politica.
Una delle proprietà di questo fenomeno è la trasversalità. Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: i beni comuni, la dignità delle donne, la difesa della Costituzione, la salvaguardia dell’ambiente.
In Spagna, il movimento "¡Basta Ya!" ("Ora basta!"), tra i cui fondatori c’è anche Fernando Savater, si è battuto contro il terrorismo e per la definizione di un nuovo statuto di autonomia per i baschi; il gruppo francese "Ni putes ni soumises" ("Né puttane né schiave") si adopera dal 2003 in nome della dignità di genere.
La varietà degli obiettivi ha generato anche un gergo: il flash mob, ad esempio, è un movimento che colpisce e si dissolve, come il cartello "Riprendiamoci le spiagge", formato da studenti e precari, che l’altro giorno ha invaso la marina di Ostia senza pagare il biglietto di ingresso. Si tratta insomma di una sorta di attivismo reticolare, che opera in modo leggero, rapido e percussivo (negli Usa è nata la parola "click activism", per la capacità di reazione data dal web).
Trasversali come sono, queste entità esprimono stanchezza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e distanti dalle esigenze della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e concreti. In sintesi: se i partiti sono l’antico hardware della politica, gli attivismi ne rappresentano il software. Da qui l’esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. Ci si può ritrovare la categoria di "leggerezza" di Calvino o la versione migliore della società liquida di Bauman. L’estraneità ai partiti è dovuta anche all’illusione, molto viva, di praticare una sorta di democrazia diretta: una specie di "co-produzione della cittadinanza" (come la chiama Robin Berjon) che duri al di là delle pure elezioni e che permetta di tenere d’occhio le persone a cui viene conferita la delega a governare.
Ma dietro i meriti stanno una varietà di punti deboli. Uno, cruciale, è la volatilità, inevitabile in ogni organizzazione soft e poco strutturata. La storia parla chiaro. Quasi dimenticato il movimento dei girotondi, uscito dal giro quello delle bandiere iridate. L’ultimo blog di "¡Basta Ya!" (www. bastaya. org) apre con un triste "Despedida" ("Congedo"): la mancanza di denaro e di persone che possano lavorare nel sito giustifica la chiusura dopo diversi anni.
Per orientarsi in questa foresta sono nati vari siti, come il francese "Mouvements", ricchissimo di dati. D’altro canto, l’uso della rete è un carattere cruciale di questo trend. Siccome i movimenti non hanno indirizzo né sede, non hanno soci né fondi, non hanno segreterie né archivi, la rete è la loro casa: portali fatti alla svelta, convocazioni lanciate all’istante per mail o sms, liste di simpatizzanti raccolte con Facebook, senza carta, francobolli o servizi postali.
Nella storia pullulano del resto i casi di regimi e forme politiche che si sono costruiti sfruttando i media del tempo: l’uso della radio e del cinema contribuì in modo decisivo all’affermazione di fascismo, nazismo e stalinismo. Degli effetti politici della televisione paghiamo ancora lo scotto.
Ma ora il medium in gioco non è più unidirezionale, ma è interattivo, istantaneo e soprattutto "sociale" e dilagante. Per questo non sappiamo ancora che effetti la rete potrà avere sulla nascita di nuovi paradigmi culturali e politici, ma sarebbe bene che a questo tema si dedicassero accurate previsioni, soprattutto in un paese come l’Italia, dove per il Palazzo la rete è solo un divertente gadget per perditempo.
Il fenomeno dei movimenti non interpella solo i cittadini, che vi trovano nuovi modi di esprimersi e di farsi sentire. Interessa ancora di più i partiti veri e propri e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti fortemente anti-partito e contengono una rischiosa istanza di "uguaglianza estrema" (come diceva Montesquieu).
Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente avvelenato con le metodiche del partito: nomenklature, correnti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze, ecc. Possono senza dubbio servire come elettrochoc per partiti in affanno (come nel caso del Pd in Lombardia), ma il loro rapporto coi partiti è insieme di attrazione e repulsione.
Se riesce a non dissolversi, il movimento prima o poi presenta il conto, con il rischio di trasformarsi in partito o, peggio ancora, in frazione (come accadde coi Verdi in Germania) o in lobby. Altrimenti, il movimento, se è colto da "impazienza verso i limiti" (l’espressione è di Dominique Schnapper), può diventare un fattore di "regresso democratico", insomma un pericolo.
Dall’altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi perché hanno perduto le antenne per "sentire" le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, dato che i movimenti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni della gente, anche se non sanno trasformarli in progetti e proposte, e tantomeno gestire i propri eventuali successi. In ogni caso i partiti e le istituzioni sono avvisati: attenti, un movimento potrebbe seppellirvi!
I mosaici del duomo completati da Federico II?
Lo sostiene il professor Heinrich Pfeiffer, che ha tenuto una lezione in cattedrale
di Maria Modica *
MONREALE, 26 febbraio - I mosaici del duomo di Monreale potrebbero essere stati completati da Federico II.
La rivoluzionaria tesi è sostenuta da uno dei maggiori esperti mondiali di Storia dell’arte, il gesuita Heinrich Pfeiffer della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Lo studioso è stato invitato dall’arcivescovo di Monreale, Monsignor Salvatore Di Cristina, per esporre la terza lezione - concerto, dedicata ai mosaici del duomo. Ultimo appuntamento del ciclo che ha voluto lanciare un dialogo ideale con la Settimana di Musica sacra in programma il prossimo anno.
La prolusione è stata preceduta dall’esecuzione del coro di voci bianche del Conservatorio Bellini di Palermo.
L’oratore ha incantato la platea con osservazioni acute e stimoli lanciati alla mente e al cuore.
«Questo luogo - ha esordito Pfeiffer - è unico al mondo. Presenta una divisione dello spazio basilicale per tematiche, ma quel che stupisce è l’ampiezza della descrizione dedicata al Vecchio testamento: tutta la navata centrale. La narrazione biblica comincia con la morte di Caino per il colpo di una freccia e termina con storia di Giacobbe e l’Angelo, centrale nella storia dell’Ebraismo perché da questo deriva il nome di Israele che significa lotta con Dio. Un’ampiezza descrittiva degna di una sinagoga. Questo spazio E .
Primo indizio che porta all’imperatore svevo è, dunque, l’ecumenismo religioso a lungo accarezzato da Federico II. Ma la stimolante tesi è suffragata dall’osservazione dei canoni estetici che contraddistinguono le raffigurazioni musive, una difformità di stile che non trova giustificazioni nell’esiguo spazio temporale, nemmeno un ventennio, durante il quale sarebbe stato ultimato il duomo.
«La differenza fra alcune icone - ha continuato Pfeiffer - di chiaro stile bizantine, di sicuro risalenti al XII s., e altre raffigurazioni, fra cui il Pantocratore, in cui la plasticità prelude alla soluzione prospettica del ’400, ci indica il trascorrere di almeno un secolo. La "sproporzione" fra il Cristo absidale e le figure circostanti non può essere stata concepita da una personalità mite quale quella del re normanno».
Secondo lo studioso tedesco, la conferma implicita si trova nella leggenda del Carrubo, sotto il quale Guglielmo avrebbe rinvenuto un immenso tesoro con cui edificare il tempio.
«La leggenda - ha proseguito - risponde ad una domanda cui manca una giustificazione storica: chi ha pagato tutto questo? Il regno normanno non avrebbe potuto permetterselo, soltanto l’Impero avrebbe potuto farlo».
La spiegazione del mistero si troverebbe nella "damnatio memoriae" che ha colpito gli Svevi snaturandone la reale portata storica, soprattutto in Sicilia.
«Una damnatio memoriae - ha concluso lo studioso - deve essere tolta da un cristiano: perciò ho parlato».
«Arte e fede devono dialogare»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 18 giugno 2011)
È come nella morte di Bergotte, narrata da Marcel Proust ne La prigioniera. L’anziano scrittore che crolla esanime mentre ammira la perfezione d’una «piccola ala di muro gialla» dipinta da Vermeer, «nelle condizioni della nostra vita su questa terra, non c’è nessuna ragione (...) perché un artista ateo si creda in dovere di fare cento volte un "pezzo"...» , la tensione verso «un altro mondo, fondato sulla bontà, lo scrupolo, lo spirito di sacrificio» , un «oltre» misterioso che l’autore della Recherche tratteggia in quello che forse è l’omaggio più bello della letteratura contemporanea alla fatica creativa: «Durante l’intera notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione».
Il cardinale Gianfranco Ravasi ne è convinto da tempo e ora ripete: «Il dialogo tra arte e fede è necessario, data la parentela che intercorre tra queste due espressioni diverse dello spirito umano, che tendono entrambe, su strade diverse, verso l’eterno e l’infinito». Eppure, spiega, le due strade «si sono divaricate». Da una parte «la teologia, la liturgia sono andate su altre traiettorie quando dovevano introdurre nell’interno dei loro spazi il tema estetico». Dall’altra «le arti hanno avuto i loro percorsi, spesso in maniera abbastanza sorprendente e sconcertante, fino al punto di essere blasfeme, quindi provocatorie nei confronti del punto di partenza: quello religioso che, per secoli, è stato complice della cultura».
Fede e arte devono tornare a parlarsi. È questo il senso profondo della mostra Lo splendore della verità, la bellezza della carità che il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ha voluto come omaggio a Benedetto XVI nel sessantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Era il 29 giugno 1951 quando Joseph Ratzinger ricevette la consacrazione nel Duomo di Frisinga. E così, per festeggiare i sessant’anni, il cardinale Ravasi ha invitato sessanta artisti a celebrare l’occasione con le loro opere, come anticipato dal «Corriere» la settimana scorsa: la mostra, inaugurata dallo stesso Papa il 4 luglio, troverà spazio nell’atrio dell’aula Paolo VI, in Vaticano, e si potrà visitare dal 5 luglio al 4 settembre.
Ad ogni artista è stato chiesto di presentare un’opera per l’evento - e quindi su «lo splendore della verità, la bellezza della carità» - in modo da riprendere quel dialogo interrotto, anche se mai del tutto: Ravasi ha ricordato il Crocifisso che Andy Warhol teneva in camera o i celebri «tagli» che Lucio Fontana descriveva come «spiragli sull’assoluto» . Ognuno si regolerà come crede. Il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer, 103 anni, ha mandato il modello del campanile della cattedrale in costruzione a Belo Horizonte «perché voleva che il Papa lo vedesse», ha spiegato il cardinale. Il poeta Davide Rondoni ha scritto invece Autoritratto con Papa, una poesia inedita che allude alla definizione che Benedetto XVI diede di sé («un umile operaio nella vigna del Signore») e affronta il tema con un incipit sul filo dell’ironia: «Vendemmia o bestemmia?».
Certo la scelta degli inviti non è stata facile e non ha mancato di creare discussioni. L’idea era di abbracciare le più svariate forme di arte: e nell’elenco ci sono pittori e scultori, architetti e musicisti, poeti e scrittori, registi, fotografi e orafi. Nomi celebrati come Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino e Kengiro Azuma, Santiago Calatrava, Mario Botta, Renzo Piano e Paolo Portoghesi, e ancora Ennio Morricone o Pupi Avati. E altri meno conosciuti, almeno al grande pubblico. C’è anche Oliviero Rainaldi, l’autore della discussa statua di Wojtyla alla stazione Termini.
Lo spirito è quello del grande incontro con Benedetto XVI nella Cappella Sistina, il 21 novembre del 2009: l’invito «all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione» che il Papa rivolse agli artisti come «custodi della bellezza nel mondo». Solo che allora ne arrivarono 260 e stavolta, per mantenere la simmetria con l’anniversario del Pontefice, c’era posto solo per 60 persone. Gli esclusi rispetto ad allora sono la maggioranza e nell’ambiente trapela qualche malumore anche fra gli invitati. Ma una scelta si doveva pur fare: «Nei 60 ogni arte doveva essere rappresentata, cercando di far essere presenti esponenti di diverse aree geografiche e culturali, e in più c’era poco tempo», allarga le braccia il cardinale Ravasi. «Come sempre le selezioni possono creare giudizi e critiche, ogni artista siconsidera insostituibile...».
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale
di Francesca Paxi (La Stampa, 16.06.2011)
Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano.
C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni. Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.
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“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa
Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics
Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]
di Natalia Aspesi (la Repubblica/Velvet, n. 56, luglio 2011)
Che uomini e donne siano diversi lo sappiamo, e ne siamo contentissime; però dovrebbe essere scontato che abbiano gli stessi diritti (e doveri), ma in realtà non è ancora così, questo lo sappiamo, sulla nostra pelle.
Michela Murgia nel nuovo bel libro “Ave Mary” ci ricorda che, nella Mulieris Dignitatem, Giovanni Paolo II, esaltando l’originalità femminile, ha confermato che comunque l’uomo e la donna sono pari in dignità davanti a Dio. Menomale. Questa dignità è intaccata, secondo me non credente, dal modo in cui la Chiesa, negando l’uguaglianza, intende la differenza, che non è quella sostenuta da una parte del femminismo.
E’ chiaro che le donne continuano ad essere imbarazzanti, poco gestibili, per la Chiesa, soprattutto per i papi. Non so quante donne, in questo caso credenti, aspirino alla santità, ma se ce ne sono, sappiano che la strada sarà meno ampia che per gli uomini. Per esempio, durante 27 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 persone, di cui 248 laici: fondatori di banche e associazioni caritatevoli, politici, eroici carabinieri e altri beatificati o nominati servi di Dio. Tutti maschi.
Papa Wojtyla, scrive la Murgia, “ha elevato agli altari molte donne, soprattutto martiri, ma anche suore comuni e fondatrici di ordini religiosi. Solo una non aveva preso voti ...”. Gianna Beretta Molla, qualificata dal sito del Vaticano come “madre di famiglia”, santa nel 2004: medico, cattolica praticante come il marito, madre di tre bambini, nel ’61, a 39 anni, durante la quarta gravidanza, le fu riscontrato un voluminoso tumore benigno che richiedeva l’asportazione immediata, il che avrebbe comportato l’interruzione della gravidanza. La signora rifiutò, anche se in un caso come il suo la Chiesa, pur giudicando l’aborto un male, l’avrebbe considerata incolpevole: nacque una bellissima bambina e la madre morì. Esaltando con la canonizzazione il martirio che lasciava un padre solo con quattro figli, si mostrava che la nuova via alla santità femminile era la maternità, soprattutto se costava la vita. Non si conoscono maschi fatti santi per aver accettato di essere padri sino al sacrificio di sé.
Più facile diventare sante in quanto suore, com’è stato per Madre Teresa di Calcutta, cui è stato assegnato il Nobel per la Pace ’79, per aver dedicato la vita ai poveri e agli ultimi del mondo. Quanto alla santità, certo è stata affrettata dalla sua guerra ad aborto, contraccezione, divorzio. Comunque la santificazione femminile privilegia le “morte in verginità”, le donne che, per difendersi dallo stupro, sono state ammazzate. Ovviamente Maria Goretti, non più indicata alle adolescenti come modello, e Antonia Mesina, “martire della purezza”, sedicenne sarda fatta fuori a colpi di pietra dall’assalitore, e altre.
La santità delle donne laiche, e non quella degli uomini, passa insomma attraverso la morte, eventuali opere di bene contano niente.
Un rebus tutto di sinistra: ritrovare i legami perduti
Le ideologie moderate e conservatrici hanno portato gli individui in una condizione di solitudine: una moderna forza democratica dovrebbe riconoscere e costruire i nuovi legami politici e sociali
Cultura politica. Nell’800 e nel’900 si parlava di masse e di classi. E oggi?
Quali sono i legami democratici che uniscono gli individui del 2000: l’Europa, l’ambiente, i nuovi lavori?
di Michele Ciliberto (l’Unità, 08.06.2011)
C’è molta euforia oggi nel campo del centro sinistra, ed è comprensibile e positivo dopo tante dure sconfitte. A patto però di saperla gestire perché il passaggio al quale è arrivato il nostro Paese è estremamente delicato: l’intero sistema politico è entrato in profonda fibrillazione, né è facile capire quali sviluppi avrà questa crisi e quali ne potranno essere gli esiti. Quello che mi pare necessario, soprattutto oggi, è avere uno sguardo lungo sia sul piano politico che sul piano della cultura politica. E a questo proposito considero utile soffermarsi su un punto che a me pare centrale e che per chiarezza chiamerò “il problema dei legami”.
Se infatti il carattere proprio della “democrazia dispotica” è quello di rompere i “legami” fra gli individui precipitandoli in una condizione di reciproca solitudine, compito di una cultura democratica è quello di ricostituirli ad ogni livello. Dei “legami” e di ciò che essi significano insisto su questo punto occorre dunque fare il pilastro di una democrazia moderna, contrastando frontalmente le ideologie moderate e conservatrici. Ma i legami che bisogna costituire oggi devono essere diversi da quelli del passato.
Occorre anzitutto partire dagli individui; e su questa base costruire legami che siano capaci di mantenere vive ed operanti le differenze individuali e se necessario anche il conflitto. I legami, infatti, possono essere declinati sia in chiave democratica che in termini autoritari e anche dispotici. Un esempio: l’idea di nazione può essere declinata in termini di “piccole patrie”, chiuse in se stesse come monadi (e qui basta pensare alle politiche della Lega), oppure e questo è il compito proprio di una nuova cultura democratica interpretando in modi nuovi il rapporto fra nazione e territorio, ponendo al centro un nuovo concetto di cittadinanza, in grado di aprire la nazione a nuovi popoli, nella prospettiva di un nuovo concetto anche dell’Europa.
Bisogna saperlo: la democrazia vive di differenze e anche di conflitto. Senza conflitto non ci sono né libertà né democrazia, se è vero come è vero, che la crisi della democrazia la sua patologia consiste proprio nel quietismo, nella indifferenza, nella staticità. I “legami” di cui si avverte oggi l’esigenza, e che occorre costituire, non sono quelli otto-novecenteschi, tipici anche del movimento operaio: la “massa”, la “classe”, insomma le vecchie identità sociali e collettive.
Il conflitto fra capitale e lavoro ha cambiato forma, globalizzandosi; si è esaurita la vecchia ideologia del “progresso” che era stata una bandiera della classe operaia; si sono consumate le tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale; sono cambiati anche i rapporti con il mondo, con la vita: gli “individui” non sono più disposti a sciogliersi nella “massa”, nella “classe”, come nel XX secolo. Essi sono estranei oggi a queste vecchie forme di legami: come dice in una bella pagina Adam Zagajewski, «le epoche muoiono più delle persone, e non ne resta nulla».
Quelli che bisogna dunque costruire sono legami in grado di coinvolgere la dimensione della generalità, ma in termini nuovi. Sono i legami che possono sorgere dalla comune consapevolezza dei limiti delle risorse naturali; dalla comune assunzione della centralità del rapporto, oggi, fra nativi e immigrati, per il futuro dell’Europa e tendenzialmente del mondo; dalla comune coscienza della necessità di nuove forme di esperienza sociale e di lavoro; dalla comune persuasione dell’esaurimento delle vecchie forme di rappresentanza politica e soprattutto sindacale; da un comune impegno intorno al destino dell’Europa, mentre sono venuti meno i vecchi modelli identitari e antropologici ed è diventato indispensabile, specie per una forza riformatrice, individuare nuove rotte ideali, culturali, politiche lungo le quali incamminarsi. Sono legami che devono coinvolgere anche i problemi del genere (della Gattung avrebbe detto il giovane Marx); del rapporto individuale con la vita e con la morte; delle nuove frontiere e metamorfosi del corpo dischiuse dalle moderne tecnologie; della relazione con la natura.
È su questo terreno che è possibile stabilire campi di confronto anche con le religioni, tutte le religioni, imperniati sul reciproco riconoscimento dell’ “altro” e dei suoi valori, anche di quelli della cultura laica. È sbagliato infatti identificare “storico” e “relativo”: dalla storia salgono e si affermano legami che tendono anch’essi alla universalità, e che come tali sono stati vissuti, e continuano ad essere vissuti, da coloro che si battono per essi e vi si riconoscono. In una parola, quello cui bisogna lavorare sono nuovi “legami democratici”. Un punto però deve essere chiaro: pensare di costruire nuovi legami ignorando il piano dei rapporti materiali sarebbe insensato: come sapevano già i classici (a cominciare da Hegel) è il lavoro la struttura costituiva dell’uomo, la condizione originaria sia della sua libertà che in generale della democrazia. Oggi come ieri, il lavoro è il centro archimedeo di ogni legame democratico.
Il movimento 15M e il Jazz
di Guillermo Kaejane *
All That Jazz
«Il paese cambia sotto i nostri piedi ma la fantasia ha scarponi da montagna»
Wu Ming 1, New Thing
C’è sul giornale, credo sia domenica. Lo ha detto un poliziotto di Valencia, è scritto tra virgolette: «Il movimento 15M è jazzistico». Jazz, musica libera e ribelle. Una serie di strutture ritmiche comuni sulla quale i musicisti improvvisano assoli, si lanciano in giri armonici pazzoidi, inaspettati giri di vite. C’è chi definisce il jazz una musica intellettuale, delimitata, musica per musicisti. Si sbaglia. Il Jazz è la musica dell’ascolto e della connessione con il pubblico. È l’arte di sapere quando improvvisare, quando prolungare l’assolo, quando tornare alla partitura e allo standard. Il movimento 15M è come il Jazz.
Le acampadas resistono una settimana in più, mentre «sopra» il cielo si tinge dell’azzurro di un Partido Popular cresciuto nella debacle istituzionale di un Psoe più perso che mai. Più grottesco che mai. Mi viene in mente una frase. Una frase infantile. La principessa Leila manda un messaggio al vecchio Ben Kenobi: aiutami Obi Wan Kenobi, sei la mia sola speranza. Il movimento 15M è Jazz. Il movimento 15M è la «sola speranza». A Madrid si mettono in gioco due speranze. Una sopra, quella di Esperanza Aguirre [presidente del Pp, ndt], l’altra sotto, la nostra. E hai la sensazione che stai lì, che hai la mappa completa della città per la prima volta nelle tue mani, che sai perché dice quello quando va in televisione, che sai che si riferiscono a te e ai tuoi. Ti senti parte di qualcosa, sai di stare con gli altri.
Scoprire un noi tra tanti io. Succedono molte cose in questa settimana. Dylan compie settanta anni. Ricordo il finale del film «I’m Not There», con l’immagine di Dylan soffiando nella sua armonica e proprio nel momento in cui sembra che non abbia più aria, nel momento in cui pare che il filo del suono evapori, allora un nuovo colpo di polmoni introduce aria nello strumento e torna a farlo suonare. Un cartello piccolo attaccato alla Puerta del Sol: «Non abbiamo bisogno di direttori d’orchestra. Abbiamo bisogno di strumenti». Non abbiamo bisogno dei Bob Dylan, servono armoniche. L’aria la portiamo da casa. I polmoni sono nostri.
Quando sembra che tutto finisca, che l’aria svanisca, che le forme più superficiali della politica assaltino gli spazi comuni...Allora arriva il nuovo soffio. Improvviso. Assemblee in più di 100 quartieri. D’improvviso, commissioni di preparazione con 100 persone, quartieri che devono dividersi perché c’è troppa gente. Improvvisamente. Sol, giovedì ore 21. Migliaia di persone in assemblea 11 giorni dopo. La commissione infantile espone le sue conclusioni. Silenzio. Un silenzio assoluto. Il senso del comune. Il più comune dei sensi. La commissione infantile si lancia in un assolo di tromba, mette in connessione la piazza. La piazza ascolta. Afferra il senso.
Un’altra canzone, più moderna, «oltre quello che dico, ti resta quel che faccio. Mi interessa più il senso che non il significato in senso stretto»? Qual è il senso? Sono gli accordi di minima che mettono insieme le differenze? Sono le liste dettagliate delle rivendicazioni? È l’esperienza intensa che ti attraversa la vita? Leggo una mail che dice: «Sol non è cosa, è un come». Sol come metodo, Sol come codice fonte. Come Adn copyleft di un movimento in mutazione. Sol come i passi di un bimbo, Sol come orientamento. Sol come una macchina in perenne costruzione, come quei disegni del Tbeo. Quelle macchine enormi che erano sempre più interessanti che utili.
Qual è il senso? Il Senso dice Partecipazione cittadina, prendere la piazza, fare la piazza. Il senso dice trasparenza, dice libero accesso all’informazione, dice conoscere lo stato della questione. Il senso dice controllo democratico delle faccende comuni. Capacità di dire No. Capacità di identificare i responsabili. Capacità di fare i conti. Muscolo. Il Senso dice indignazione, rabbia, giustizia. Dice «intollerabile», dice «Basta».
Il senso non si perde in significati. Il senso si deve poter toccare. Non ci sono ricette. Il 15M dice, non ti fermare a quello che dico...Fermati a quel che faccio. Dice che è più importante il senso del significato.
E domani? Che succede domani? Domani già non è più un’amplificazione di oggi. Domani è una domanda che ha preso colori nuovi. Un amico che fa interviste nella piazza sostiene che la gente dice letteralmente: «Fuori di qui non so chi sono». L’esperienza è intensa quanto un viaggio allucinogeno, una droga di intensità. Chi vuole finire una cosa così? E tuttavia le ossa dolgono, la spalla duole. Il corpo fisico si altera. Il sonno si altera. L’alimentazione si altera. Twitter: «Sai quando arriva un punto nella rivoluzione in cui non hai più mutande? Ecco, questo».
La domanda è: si può uscire da Sol e continuare il viaggio? Uno se ne può andare da Sol senza accettare di tornare alla normalità? Si può avanzare e qualche volta fermarsi? Ascolto una conversazione...«Ti ricordi la prima notte? Ti ricordi quella sensazione? Se non ce ne andiamo, non potremo mai tornare». Andarsene per poter tornare. Cambiare per continuare con la vita, come un virus informatico o una malattia contagiosa e febbrile. Allegra e maledetta.
Andarsene per poter tornare. Portarsi Sol perché non possano normalizzare l’esperienza. Portare Sol nei quartieri. Portare Sol nella rete. Togliere Sol da Sol. Andarcene per poter tornare. Sparire, per poter essere visti.
Il paese cambia sotto i nostri piedi come se solo potessimo metterci tranquilli, i media ci raccontano per fissarci al suolo, i politici dicono di ascoltarci per fissarci al suolo... Ma la fantasia è mobile, L’immaginazione è mobile. Il movimento... ridondanza... È mobile. Nuovo soffio di vento.
[Tratto da madrilonia.org]
Superare le piazze
di Santiago López Petit
Santiago López Petit, docente di Storia della Filosofia presso l’università di Barcellona e promotore, con altri, del movimento Espai en Blanc, è tra gli intellettuali più apprezzati nel movimento M15. Pubblichiamo un suo articolo molto discusso in queste ore nelle acapampadas spagnole, da Barcellona a Madrid. *
1. Il movimento 15M che si è manifestato in questi giorni segna la fine di un lungo periodo di obbedienza e di sottomissione. Occupare la piazza è stato il gesto radicale - promosso in molte città - che ci ha permesso di lanciare il grido collettivo di «Basta. Vogliamo vivere». Abbiamo smesso di avere paura. Insieme abbiamo attraversato l’impotenza e la solitudine.
2. Abbiamo imparato a organizzare, prendere decisioni insieme, a vivere in strada e abbiamo vissuto per strada. L’intelligenza collettiva è stata straordinaria e ha permesso di realizzare ciò che appariva impossibile: creare un altro mondo all’interno di questo mondo, ma anche contro questo mondo di miseria morale ed economica. Siamo riusciti ad auto-organizzare un buco nero incomprensibile al potere, che ha paura. Il potere teme ciò che non può capire, e quindi, controllare.
3. La novità fondamentale del nostro movimento è che non si costruisce in fabbrica, ma riunisce e condivide il disagio di ognuno. Non andiamo nella piazza occupata come lavoratori, cittadini... ma ci si lasciamo alle spalle ogni identità. Siamo noi stessi più che in qualsiasi altro luogo, allo stesso tempo siamo parti singole di una forza anonima, una forza di vita che vuole andare oltre ciò che è noto.
4. Il «Noi» che si è formato non pre-esisteva, non era latente, ma è emerso nel momento in cui abbiamo occupato la piazza. Per questo è un Noi aperto, aperto a chiunque vuole entrare e farne parte. Nella piazza abbiamo imparato a coniugare l’espressione «fare politica», e lo spazio stesso è stato quello che ha permesso il coordinamento dei differenti modi di «fare politica», che si presentano necessariamente nel corso del tempo. È emerso il rumore di sottofondo del silenzio del potere. Noi siamo i volti di questo rumore che si è concluso con il silenzio del cimitero.
5. Occupare le piazze significa prima di tutto prendere parola. Ma la parola, il discorso non è tanto ciò che si dice quanto ciò che viene fatto. Nelle piazze occupate la cosa più importante è quello che viene fatto e come viene fatto. Di certo, così è stato. A volte, però, poco a poco il potere ci ha dato un modo di lavorare [commissioni, sottocommissioni, il consenso...] ed è diventato un vero e proprio freno. Da un lato, un’organizzazione così divisa, anche se può essere efficace, favorisce la dispersione, la perdita di contenuti essenziali e, soprattutto, una profonda arbitrarietà che finisce per essere paralizzante. D’altra parte, il consenso deve essere un mezzo, mai un fine, altrimenti decisioni politiche improrogabili non possono essere prese. Lo stare insieme non può essere misurato in unità di consenso.
6. Ora il problema è come proseguire il movimento appena nato. C’è qualcosa che giorno per giorno osserviamo: se non andiamo avanti, necessariamente torniamo indietro. E questo perché la posizione che abbiamo raggiunto occupando le piazze viene compromessa sia dal ritorno alla ribalta di scelte personali, cioè un proliferare completamente soggettivo di interessi che eravamo riusciti isolare, sia per la campagna di diffamazione [«15 M è pericoloso», «provoca danni»...] orchestrata dai media ufficiali.
7. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è come ci muoviamo in avanti con un movimento che è stato il più importante degli ultimi anni e sicuramente ha aperto un ciclo di lotte. In Plaza de Catalunya hanno gridato più volte «Qui comincia la rivoluzione». Forse dovremmo prendere sul serio queste parole. Quando diciamo «noi non siamo merce», «nessuno ci rappresenta» o altre espressioni simili stiamo costruendo un discorso rivoluzionario, che mina l’essenza di questo sistema. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è se abbiamo il coraggio di passare da «indignati» a «rivoluzionari».
8. Come indignati sapevamo di dover attaccare prima di chiunque altro i politici e banchieri. Questa intuizione è stata giusta con particolare riferimento ai primi. Il sottosistema politico che funziona con il codice «governo/opposizione» è molto facile da attaccare. È sufficiente affermare coerentemente «nessuno ci rappresenta» per provocare il corto circuito dei codici fondamentali che organizzano la realtà. Non è un caso se è cresciuta la delegittimazione dello Stato. Invece non siamo riusciti a erodere il codice di «avere/non avere i soldi» che governa il sottosistema economico. Né, ovviamente, abbiamo saputo affrontare la crisi e usare la crisi come una modalità di governo.
9. Per questo motivo il movimento delle «occupazioni delle piazze» è destinato a fare un salto oppure a restare all’interno di una bolla di autocompiacimento fatta di opzioni di avvio; la delegittimazioni della politica da sola non sarà in grado ma di aprire un altro mondo. Essa deve affrontare tutta la realtà, questa realtà completamente capitalista e soffocante. Fare un salto vuol dire avere il coraggio di essere rivoluzionario. Più precisamente. Avere il coraggio di immaginare che cosa vuol dire essere rivoluzionari oggi.
10. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è come superiamo la piazza, e quindi dobbiamo pensare non solo come indignati ma come rivoluzionari. Di fronte a una realtà [il capitalismo] che è essenzialmente depoliticizzante perché consente di replicare il conflitto e nasconde il nemico, perché aumenta costantemente le sue dimensioni in modo che l’ovvio si imponga, l’unico modo è difendere il fare politica, «quando non c’è nulla di politico tutto è politica». Superare la piazza è coniugare collettivamente l’espressione «fare politica», dobbiamo quindi inventare un dispositivo comune che abbiamo già cominciato a utilizzare: sciami cibernetici, assemblee generali e di quartiere, commissioni...
11. Così come siamo non possiamo essere inclusi in uno spazio pubblico statale - siamo un’assemblea generale, un gruppo in fusione, un popolo nomade, un mondo di stranezze - l’organizzazione che sostiene «l’andare oltre» deve essere anche un dispositivo complesso e congiunto. La forza dell’anonimato, la forza della vita che siamo, respinge i vecchi modelli identitari e settoriali. Analogamente, qualsiasi tentativo di riconquistare la nostra forza attraverso la forma partito è necessariamente destinato a fallire. La forza dell’anonimato non può mai essere racchiusa in un’urna.
12. Superare la piazza non è una metafora. Consiste nell’infiltrarsi nella società come un virus, muoversi come partigiani che realizzano un atto di sabotaggio della realtà durante la notte. Ma dobbiamo tornare ad intermittenza nella piazza e lavorare per mantenere il segno della nostra sfida. La piazza occupata deve restare un riferimento politico, e al tempo stesso la migliore base operativa dalla quale partire per continuare questa guerra di guerriglia. Infiltrarsi nella società significa, in breve, una messa in discussione radicale di tutto ciò che è imposto dalla forza delle cose ovvie. Perché questa lotta sia efficace, dobbiamo dotarci di una strategia di obiettivi e di una modalità di interventi adeguati. Il grido di rabbia e di speranza che ha risuonato nelle strade deve organizzarsi politicamente, altrimenti si perderà nel buio. E il silenzio ancora una volta entrerà nei nostri cuori.
13. Quando la vita è il campo di battaglia vengono distinti i diversi fronti di lotta, ed è più facile che mai creare una strategia di obiettivi. La strategia di obiettivi che proponiamo potrebbe cominciare con: a) 1.000 euro a persona per il solo fatto di far parte della società e data la ricchezza già accumulata. b) nessuno sgombero e possibilità di ritorno degli espulsi. Possibilità di restituire la casa alla banca e non pagare più il mutuo. c) No alla legge Sindhi. Contro la privatizzazione della rete. La strategia di obiettivi si adatta e ha senso solo all’interno del movimento che delegittima lo Stato e i partiti. Non si tratta quindi di un punto di minimo che alcuni portavoce negoziano.
14. Una strategia di obiettivi richiede un’azione diretta da eseguire. Nel nostro caso, tuttavia, il suo completamento non può essere considerato sotto il modello classico dello sciopero generale. Da un lato, la fabbrica ha perso ogni centralità politica nella misura in cui è diffusa sul territorio, dall’altro lato, in essa esiste il pericolo per come i sindacati storici le gestiscono. Così come con l’occupazione della piazza è stato creato un modo di lottare non previsto, l’azione diretta stessa deve essere ripensata. La trasformazione sociale, economica e politica che ha avuto luogo negli ultimi decenni - l’intera società è diventata produttiva - gioca a nostro favore perché estende la vulnerabilità il tutto il territorio. Per questo motivo, l’azione diretta deve essere per lo più in grado di interrompere il flusso di merci, energia e informazione che attraversano e organizzano la realtà.
15. Il gesto radicale di occupare la piazza che si è diffuso in molte città dovrebbe favorire lo svuotamento delle istituzioni di potere, ma deve continuare in un blocco reale ed efficace a questo sistema di oppressione. Non è impossibile. Siamo noi stessi vivendo che sosteniamo questa macchina infernale e corrotta. Se siamo davvero indignati dobbiamo rendere la nostra vita un atto di sabotaggio e poi tutto cadrà a pezzi. Tutto crollerà come un castello di carte e forse scopriremo una spiaggia in Puerta del Sol. Non sappiamo ancora quali sorprese possano portare il mondo che stiamo cominciando a costruire.
[Tra i libri di Santiago Lopez Petit, tradotti in italiano, segnaliamo «Amare e pensare. L’odio del voler vivere» e «Lo Stato guerra. Terrorismo internazionale e fascismo postmoderno», edizioni Le Nubi]
Giovani, web e anziani
Il popolo dei disobbedienti
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 15 giugno 20119
Il referendum è passato ma i suoi effetti - politici e sociali - dureranno a lungo. Perché il successo del referendum è, a sua volta, effetto di altri processi, maturati in ambito politico e sociale. E perché i referendum hanno sempre marcato le svolte della nostra storia repubblicana.
Fin dal 1946 - quando nasce, appunto, la Repubblica. Poi: nel 1974, il referendum sul divorzio. Il Sessantotto trasferito sul piano dei costumi. La svolta laica e antiautoritaria della società italiana. Nel 1991, giusto vent’anni fa, il referendum sulla preferenza unica per la Camera. È il muro di Berlino che rovina su di noi. Annuncia la fine della Prima Repubblica e l’avvio della Seconda. Nel 1995, il referendum contro la concentrazione delle reti tivù. Dunque, contro la posizione dominante di Berlusconi. Fallisce. E rende difficile, in seguito, ogni azione contro il conflitto di interessi.
Da lì in poi tutti i referendum abrogativi falliscono. A partire da quello dell’aprile 1999. Riguardava l’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale. Non raggiunse il quorum per una manciata di votanti. Sancisce la fine del referendum come metodo di riforma e di cambiamento istituzionale, ad opera della società civile. Perché i referendum sono strumenti di democrazia diretta. Complementari, ma anche critici rispetto alla democrazia rappresentativa. Ai partiti e ai gruppi dirigenti che li guidano. Per questo hanno la capacità di modificare bruscamente il corso della storia. Quando il distacco fra la società civile e la politica diventa troppo largo. Negli ultimi vent’anni questo divario è stato colmato - in modo artefatto - dalla personalizzazione, dallo scambio diretto fra i leader e il popolo, attraverso i media. Ora questo ciclo pare finito. Il referendum di domenica scorsa lo ha detto in modo molto chiaro e diretto.
In attesa di vedere cosa cambierà - a mio avviso, molto presto - proviamo a capire cosa sia avvenuto e perché.
1. Il referendum, come avevamo già scritto, è il terzo turno di questa lunga e intensa stagione elettorale. Il suo esito è stato, quindi, favorito dai primi due turni. Le amministrative. Dal successo del centrosinistra a Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste. E dalla parallela sconfitta del Pdl e della Lega. Soprattutto, ma non solo, nel Nord. I referendum erano stati dissociati, temporalmente, dalle amministrative, per ostacolarne la riuscita. È avvenuto esattamente il contrario. Le amministrative hanno agito da moltiplicatore della mobilitazione e della partecipazione. Un effetto boomerang, per il governo, come ha rammentato Gad Lerner all’Infedele.
2. I singoli quesiti posti dai referendum, come di consueto, non sono stati valutati in modo specifico, dagli elettori. La differenza tra proprietà e uso dell’acqua, l’utilità della ricerca nucleare. In secondo piano. Al centro dell’attenzione dei cittadini, altre questioni, non di merito ma sostanziali. Il valore del bene comune. Il bene comune come valore. Ancora: la sicurezza intesa non come "paura dell’altro" ma come tutela dell’ambiente. La ricerca del futuro, per noi e per le generazioni più giovani.
3. Letti in questa chiave, i referendum sono divenuti l’occasione per fare emergere un cambiamento del clima d’opinione, ormai nell’aria - chi non ha il naso chiuso dal pregiudizio lo respirava da tempo. Una svolta mite, annunciata dal voto amministrativo, ribadita dal referendum. Una svolta di linguaggio, di vocabolario, che ha restituito dignità a parole fino a ieri dimenticate e impopolari. Vi ricordate altruismo e solidarietà? Chi aveva più il coraggio di pronunciarle? Per questo, paradossalmente, il referendum sul legittimo impedimento, il più politico, il più temuto dalla maggioranza e anzitutto dal suo capo, è passato quasi in second’ordine. A traino degli altri.
4. Qui c’è una chiave, forse "la" chiave del risultato. I referendum riflettono il cambiamento carsico, avvenuto e maturato nella società. Che, secondo Giuseppe De Rita, si sarebbe ulteriormente frammentata. In questa galassia, attraversata da emozioni più che da ragioni, dalle passioni più che dagli interessi, è cresciuto un movimento diffuso. Affollato di giovani e giovanissimi. La cui voce echeggia attraverso mille piccolemanifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso il contatto diretto. Attraverso la Rete. Per questo è poco visibile. Ma attivo e vitale. L’ostracismo della maggioranza di governo, il silenzio di MediaRai. Li hanno aiutati. Legittimati. Perché la tivù MediaRai e i suoi padroni, ormai, sono il passato.
5. Tuttavia, una partecipazione così alta sarebbe stata impensabile se non avesse coinvolto altri settori della società. Il popolo della Rete, per quanto ampio, è una élite. Giovane, colta, cosmopolita. Non avrebbe sfondato se non avesse coinvolto genitori, nonni, zii. Un elettorato largo e politicamente trasversale. Il successo dei referendum, infatti, scaturisce dalla spinta dei movimenti sociali, dal sostegno dei partiti e degli elettori di centrosinistra. Ma anche da quelli di centrodestra.
Si guardi la geografia elettorale della partecipazione. Le Regioni del Nord (ora non più) Padano hanno espresso i tassi di partecipazione fra i più elevati. Osserviamo, inoltre, il risultato complessivamente ottenuto alle Europee del 2009 dai partiti di Centrosinistra, Sinistra e dall’Udc. Quelli che hanno sostenuto l’opportunità di votare in questa occasione. Ebbene, risulta evidente che la partecipazione è stata molto più ampia rispetto alla loro base. Nel Nord Est: ha votato il 32% (e circa 1.700.00) di elettori in più. Nel Nord Ovest: il 29% (e circa 3.500.000) di elettori in più. In Italia, complessivamente, il 28% (e circa 13.000.000) di elettori in più. (Elaborazioni Demos, su dati Ministero degli Interno; indicazioni analoghe provengono dalle analisi dell’Istituto Cattaneo su dati delle elezioni politiche 2008).
6. Da qui il senso generale di questo passaggio elettorale. È cambiato il clima d’opinione. Il tempo della democrazia personale e mediale - come ha osservato ieri Ezio Mauro - forse è alla fine. Mentre si scorgono i segni di una democrazia di persone, luoghi, sentimenti. Passioni. I partiti e gli uomini che hanno guidato la stagione precedente, francamente, sembrano improvvisamente vecchi e fuori tempo. Il Pdl - ma anche la Lega. Berlusconi - ma anche Bossi. Riuscivano a parlare alla "pancia della gente", mentre la sinistra pretendeva di parlare alla "testa". Per questo il centrodestra era popolare. E la sinistra impopolare. Fino a ieri. Oggi, scopriamo che, oltre alla pancia e la testa, c’è anche il cuore. Parlare al cuore: è importante.