DIMENTICANZA DI PAROLE STRANIERE
di Sigmund Freud *
Il lessico corrente della nostra propria lingua, nell’ambito dell’uso normale, appare protetto dalla dimenticanza. Ciò non accade, notoriamente, quando si tratta di vocaboli di una lingua straniera. La tendenza a dimenticarli esiste per tutte le parti del discorso e un primo grado di disturbo funzionale si manifesta nella irregolarità della nostra padronanza del lessico straniero, a seconda delle condizioni generali e del grado di stanchezza.
Queste dimenticanze presentano, in tutta una serie di casi, il medesimo meccanismo [...] A riprova, comunicherò una sola analisi, ricca però di caratteristiche rilevanti, che riguarda la dimenticanza di una parola non sostantivale di una citazione latina. Mi si permetta di riferire questo piccolo episodio per esteso e in modo particolareggiato.
Ancora in occasione di un viaggio di vacanza, la scorsa estate, rinnovai la conoscenza di un giovane di formazione accademica che - mi accorsi subito - aveva una certa familiarità con alcuni dei miei scritti di psicologia. Non ricordo più come, eravamo giunti a parlare della collocazione sociale della razza a cui noi due apparteniamo, e questo giovane, ambizioso, esprimeva profondo rammarico per il fatto che la sua generazione, così si era espresso, fosse destinata ad atrofizzarsi, non potendo sviluppare i propri talenti né soddisfare le proprie esigenze.
Concluse il suo appassionato e commosso discorso con il celebre verso virgiliano in cui l’infelice Didone incarica i posteri della vendetta contro Enea: “Exoriare...”; anzi avrebbe voluto concluderlo così, ma non portò a termine la citazione e tentò di nascondere un palese vuoto di memoria con un’inversione di parole:”Exoriar(e) ex nostris ossibus ultor!”. Alla fine esclamò seccato: ”Per favore, non mi guardi con quell’espressione derisoria, quasi il mio imbarazzo la stesse divertendo e, piuttosto, mi aiuti. Manca qualcosa al verso. Com’è esattamente, per esteso?”.
“Volentieri” risposi e citai correttamente: “Exoriar(e) aliquis nostris ex ossibus ultor!”.
“Che sciocco a dimenticare una parola così. D’altronde sappiamo da Lei che nulla si dimentica senza una ragione precisa. Sarei proprio curioso di sapere come mai io abbia potuto dimenticare il pronome indefinito aliquis”.
Accolsi prontamente la sfida, sperando in un contributo ulteriore alla mia collezione, e dissi: “Possiamo arrivarci senz’altro, soltanto devo chiederle di comunicarmi con sincerità e non criticamente tutto ciò che le viene in mente quando, senza alcuna intenzione precisa, rivolge la sua attenzione alla parola dimenticata”.
“Bene, allora mi viene in mente una cosa ridicola: dividere, cioè, la parola nel modo seguente: a e liquis”.
“Che intende dire?”
”Non lo so”.
“Che altro le viene in mente?”
“Si continua così: reliquie, liquidazione, fluidità, fluido. Ha già capito qualcosa?”
“No, ancora nulla, ma prosegua”.
“Penso” continuò, ridendo sarcasticamente “a Simonino da Trento, di cui un paio di anni fa ho visto le reliquie in una chiesa di quella città. Penso alla sanguinosa accusa che proprio ora, di nuovo, si sta levando contro gli ebrei e al saggio di Kleinpaul, che in tutte quelle presunte vittime ravvisa incarnazioni, riedizioni, del Redentore”.
“L’idea non è del tutto scollegata dal tema sul quale ci stavamo soffermando prima che le sfuggisse la parola latina”.
“Vero. Penso, inoltre, a un articolo di un giornale italiano, che ho letto non molto tempo fa. Credo fosse intitolato: Ciò cbe sant’Agostino dice delle donne. Cosa se ne fa, di questo?”
“Attendo”.
“Ora arriva qualcosa che sicuramente non ha alcun nesso con il nostro tema”.
“Si astenga, per favore, da ogni critica, e...”
“Lo so. Mi ricordo di uno splendido vecchio signore, incontrato la settimana scorsa in viaggio. Un vero originale. Somigliava a un grosso uccello rapace. Si chiama, se le interessa, Benedetto”.
“Almeno abbiamo una serie di santi e di Padri della Chiesa: san Simonino, sant’Agostino, san Benedetto. Uno dei Padri della Chiesa mi sembra si chiamasse Origene. Tre dei nomi, d’altro canto, sono anche nomi di persona, come Paolo nel cognome Kleinpaul”.
“Ora mi viene in mente san Gennaro e il suo miracolo del sangue - trovo che così si proceda meccanicamente”.
“Lasci perdere; san Gennaro e sant’Agostino hanno a che fare tutti e due con il calendario. Non vuole ricordarmi il miracolo del sangue?”
”Certamente Lei lo conoscerà! In una chiesa di Napoli si custodisce in un’ampolla il sangue di san Gennaro che, per un miracolo, in una determinata festività, ridiventa liquido. La popolazione attribuisce grandissimo valore a questo miracolo e si eccita molto se esso tarda a manifestarsi, come è accaduto una volta al tempo dell’occupazione francese. Allora il generale occupante (o mi sbaglio? che fosse Garibaldi?) prese da parte il reverendo e gli indicò con gesto eloquente i soldati schierati sulla piazza, lasciandogli intendere che sperava che il miracolo si compisse al più presto, E questo, in realtà, si compì...”.
“Orsù continui, perché si ferma?”
“Ora, mi è senz’altro venuta in mente una cosa... troppo intima, però, per essere comunicata... del resto non vedo alcun nesso, né alcuna necessità di raccontarla”.
“Quanto al nesso, ci penso io. Non posso certo costringerla a raccontare cose per Lei spiacevoli, ma allora non mi chieda di spiegarle per quale via sia giunto a dimenticare la parola aliquis”.
“Veramente? Lei crede? Allora, ho a un tratto pensato a una signora, da cui potrei forse ricevere una notizia che sarebbe sgradevole per entrambi.
“Che non le sono comparse le mestruazioni?”
“Come ha potuto indovinarlo?”
“Non è così difficile. Mi ci ha preparato Lei stesso a sufficienza. Pensi ai santi del calendario, allo sciogliersi del sangue in un determinato giorno, all’inquietudine quando l’avvenimento non si verifica, alla minaccia esplicita che il miracolo deve compiersi, altrimenti... Lei si è servito magnificamente del miracolo di san Gennaro per alludere al ciclo delle donne”.
“Senza averne coscienza. E Lei è veramente convinto che io non sia riuscito a formulare la paroletta aliquis per questa ansiosa attesa?”
“Mi sembra fuor di dubbio. Orbene, si rammenti della Sua scomposizione in a e liquis e dell’associazione: reliquie, liquidazione, fluidità. E proprio necessario che inserisca nella connessione san Simonino immolato da bambino, delle cui reliquie Lei si è qui ricordato?”
“Sarebbe preferibile non lo facesse. Spero che Lei non prenda sul serio questi pensieri, se mai io li abbia veramente avuti. Le confesserò, in cambio, che la signora è italiana e che ho visitato Napoli in sua compagnia. Ma tutto ciò non può essere una pura coincidenza?”
“Lascio giudicare a Lei, se riesce a spiegare tutte queste connessioni ricorrendo alla casualità. Posso, però, dirle che tutti i fatti analoghi, se vorrà analizzarli, la porteranno a "casi fortuiti" altrettanto strani.”.
Ho varie ragioni per attribuire valore a questa piccola analisi e sono grato a quel mio compagno di viaggio di allora per avermela concessa. In primo luogo, perché in questo caso ebbi l’opportunità di attingere a una fonte che di solito mi è preclusa. Nella maggior parte dei casi, devo ricavare dalla mia autosservazione gli esempi, raccolti qui, dei disturbi funzionali psichici nella vita quotidiana. Cerco di evitare il materiale assai più abbondante fornitomi dai miei pazienti nevrotici, perché devo temere l’obiezione che i fenomeni in questione siano appunto conseguenza o manifestazione della nevrosi. Ha quindi grande valore, per i miei scopi, se una persona estranea, sana di nervi, si offre come oggetto per una simile indagine.
[...] Il valore principale dell’esempio di aliquis [...] Il disturbo della riproduzione emerge qui dall’interno del tema toccato, in quanto vi suscita inconsciamente un’opposizione contro l’idea-desiderio rappresentata nella citazione.
Il procedimento va costruito nel modo seguente: il soggetto ha lamentato che la generazione attuale del suo popolo subisce una restrizione dei propri diritti e profetizza, come Didone, che una nuova generazione si assumerà il compito della vendetta contro gli oppressori. Così egli ha espresso il desiderio di avere dei discendenti. In quel momento interviene un pensiero contraddittorio. “Aspiri davvero tanto ardentemente ad avere dei discendenti? Ciò non è vero. Quanto saresti turbato se ora ti giungesse la notizia che, dalla persona che tu sai, devi aspettarti dei discendenti? No, niente progenie, pur avendone bisogno per la vendetta” [...]
* Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana [1901], Biblioteca della Mente - Libri del “Corriere della Sera”, Milano 2011, pp. 13-19, senza le note.
USCIRE DALL’ORIZZONTE EDIPICO: ACHERONTA MOVEBO (Eneide, VII, 312). “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Eneide, VII, 312). Alla base della citazione virgiliana posta ad esergo de "L’Interpretazione dei sogni" c’è l’identificazione di Freud con Giunone/Era (la moglie di "Zeus", e la sua stessa madre) e con Annibale (e Didone), il desiderio "criptato" (teologico-politico) di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma). Con l’aiuto di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a decifrare il sogno del Faraone greco e cattolico-romano, di Platone e di Paolo di Tarso, e venir fuori dalla tragedia (come Dante). Con l’aiuto di Virgilio riece,con gran difficoltà, a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica".
FREUD E IL "RICORDO" DELLA "BAMBINAIA" (Resoconto alla fidanzata della sua visita al Museo di Dresda e della sua riflessione carica di "eresia" sulla "Madonna Sistina" di Raffaello - che "riapparirà" nel "caso Dora").
FREUD E L’ERESIA RELATIVA ALLA "BAMBINAIA":
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
USCIRE DALL’ORIZZONTE EDIPICO. RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO: "UNA VOCE” FUORI DAL CORO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625): "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Annibale (e Didone), il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per "una società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (come l’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
*
IL DESIDERIO DI VENDETTA, (L’ "EXORIARe") DI DIDONE (ANNIBALE), L’ESCORIAL DEL RE DI SPAGNA E DEL VICERE DI NAPOLI, IL CONTE DI OSSUNA, E "IL MERCANTE" MIGUEL VAAZ ..... *
Quella Napoli del Seicento
di Mimmo Carratelli (napoli.com)
Chi è il conte di Ossuna, conte e viceré di Napoli, e perché parla male di don Miguel Vaaz? Parafrasando il titolo di un film di Dustin Hoffman è questa la domanda che nasce dal libro di Nino Masiello (“Il mercante”, Massa Editore) che scava magnificamente nella Napoli del ‘600 proponendo la vicenda partenopea del mercante portoghese, uno dei più grandi mercanti europei di grano, inviso al viceré, e da questi perseguitato, da dover chiedere asilo nella Chiesa dell’Ascensione a Chiaia per sfuggire a suoi sgherri.
La grande lapida posta nella chiesa, traccia del passaggio napoletano di don Miguel Vaaz, che a Napoli, sua patria di adozione, visse per quaranta e più anni, è il punto di partenza per dipanare una storia tanto ricca di particolari da proiettarci nella vita della città e del Regno di Napoli al punto che, andando avanti nella lettura, dalla gran via di Toledo a Chiaia, così chiamata perché era stata una spiaggia, appunto una “chiaja”, tra Eletti, armigeri, carrozze, il Grassiere, i capitani di giustizia, i portieri con le mazze di argento, la Sommaria, la Vicaria, i duchi e le duchesse, gentiluomini e servi, palazzi e chiese, e popolani inferociti (“serra serra ci fanno mancare il pane”), si finisce per sentire i segugi di Ossuna alle calcagna e si prende fiato solo alla tavola di don Miguel dove lui racconta e offre brodo di gallina, crocchette, polpette di montone con zucchero e cannella e qualche frittella dolce per chiudere.
L’abilità di Nino Masiello, giornalista e scrittore, autore teatrale e di una storia del teatro popolare napoletano del ‘900, è proprio questa di attrarre il lettore al Mandracchio, alle “fosse del grano”, alla Marina del vino, al tribunale di San Lorenzo, nella carestia nel 1607, intravedendo l’intrigante cavese don Giulio Genoino e Tommaso Campanella in condizioni pietose nel torrione di Castelnuovo, la Napoli tumultuosa di quel tempo, grande e confusa città europea, alla pari di Parigi e Londra, alimentata da un forte flusso immigratorio e, col porto, città di grandi traffici e opportunità.
La vicenda di don Miguel Vaaz, la sua visione di San Pietro dei Celestini “nell’atto di proteggerlo”, la ristrutturazione della chiesa dell’Ascensione, che aveva le fondamenta su una palude, non solo in segno di riconoscenza per i tre anni di asilo, ma come testimonianza dell’intenzione di “legarsi seriamente alla città”, gli affari di don Miguel, il suo contributo per alleviare la carestia, le cene nel gran palazzo su via Toledo, sessanta stanze su tre piani, costato trentamila ducati, i suoi pomeriggi di siesta in giardino, “su un ampio sedile scolpito in un enorme masso di pietra vesuviana”, all’ombra di un albero di limone, mentre la domestica Dolores gli porta uno sciroppo di menta, e la casa comprata a trenta metri dalla chiesa dell’Ascensione, tutto questo è il canovaccio attorno al quale si muove la città che Masiello ci fa vivere “in diretta”.
La Napoli del ‘600.
Ed eccoci alla “parata del donativo” verso la strada di San Lorenzo, eccoci alle cavalcate dei cavalieri, al porto dove arrivano e partono galeoni, tartane e navi ragusane per i traffici militari e commerciali, eccoci in carrozza dopo lo spettacolo della prima compagnia di comici spagnoli al Teatro dei Fiorentini, e poi nella chiesa di Sant’Agostino dove si riuniscono i rappresentanti del popolo, ai processi e alle decapitazioni, al Te Deum per la nascita del principe Filippo di Spagna.
Vicende piccole e grandi, luoghi importanti e angoli modesti di una città di trecentomila abitanti in grande fermento, in grandi e piccoli affari, speculazioni e miserie, fra gabelle sulla frutta e tassa del sale, la polizia segreta del vicerè Ossuna all’agguato, ma anche gli spioni dell’Inquisizione, da non stare proprio tranquilli leggendo il libro. Se qualcuno bussa alla porta, potrebbe trattarsi di un capitano di strada e di un paio dei duecento e più armigeri di Palazzo, sbirri preoccupanti.
Il vicerè Ossuna è invidioso delle fortune commerciali di don Miguel Vaaz che aveva un patrimonio di due milioni di ducati (“come è potuto diventare tanto potente uno straniero arrivato a Napoli da sconosciuto?”), ci vuol vedere movimenti poco chiari, imbrogli, evasioni fiscali, forse vorrebbe farne parte con adeguate tangenti, o donazioni se vogliamo darle un nome educato. Ossuna ha un viso piccolo, un cranio piccolo, piccoli occhi, come risulta da certe stampe, ma è vistoso nell’armatura guerresca, le guerre di Fiandra alle spalle, prepotente e vessatorio, da far rimpiangere il precedente viceré, il molto nobile conte di Lemos, e anche il prossimo che sta arrivando ed è approdato a Bagnoli, ma Ossuna rimane al suo posto, prende tempo, perché l’uomo di potere non molla mai. Il mondo è stato sempre uguale.
Al tempo di don Miguel Vaaz, non devono essere mancati i furbetti del quartierino o, meglio, delle “ottine” in cui Napoli era divisa. Lo scandalo dello zucchero e il processo alla “banda del grano” furono solo gli episodi più eclatanti della corruzione del tempo. I giudici della Sommaria furono travolti da una serie di accuse, concussione, estorsione, omissione di atti di ufficio, concessioni date in cambio di mille ducati. Meno male che, di tanto in tanto, avveniva qualche miracolo, come l’apparizione di Santa Maria della Consolazione in una piccola stanza sotto i gradini della scala di San Giovanni a Carbonara. La Chiesa era presente con cento monasteri maschili e una quarantina femminili (con la storia morbosa di suor Giulia), e chiese, tante chiese, succhiando sino all’ultimo ducato dai possedimenti che tutelava.
Don Miguel Vaaz si destreggiò magnificamente nella sua vita napoletana. “Neanche lui era uno stinco di santo e aveva più di un peccato da farsi perdonare: non si conduce una vita più che agiata praticando la mercatura per trent’anni senza attraversare la corruzione” scrive Masiello. Ma sfuggì alla galera. Più innocente che colpevole fu la conclusione del processo intentatogli in contumacia.
Di Ossuna si lamentò fino alla fine dei suoi giorni. “Lecco le ferite infertemi da un viceré che ha cercato con tutti i modi, mai leciti, si sporcare il nome dei Vaaz, per fortuna senza riuscirvi”. Il suo secondo dolore. Il primo era l’artrite alle articolazioni e alla schiena col maggiordomo Gaetano sollecito a porgergli l’intruglio calmante di erbe e la domestica Dolores pronta con la tisana, all’ora della tisana nel giardino della casa a Chiaia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA, EBRAISMO E PSICOANALISI: VA’ PENSIERO (G. VERDI, "NABUCCO" - NABUCODONOSOR). MEMORIA, CREATIVITA’ E INTERPRETAZIONE ....
FREUD, RICORDANDO-SI DI NAPOLI (E DEL SOGNO DI UNA NUOVA "POLIS"), COMINCIA A CAPIRE COSA C’E’ DIETRO LA SUA (E NON SOLO SUA) INFATUAZIONE PER ANNIBALE, PER IL "VENDICATORE". Una breve analisi della "dimenticanza di una parola latina" da parte di un giovane accademico
FREUD E MUSSOLINI (E HEIDEGGER E HITLER). "All’eroe della cultura Mussolini, Con rispetto, Sigmund Freud". Una nota di Massimo Ammaniti (1995) su uno scritto dello psicoanalista Glauco Carloni e un articolo (1993) di Giuliano Gramigna -
Giuliano Gramigna (1993): "alcuni anni dopo Freud oppose alla dichiarazione liberatoria estirpatagli dai nazisti prima di lasciarlo partire, (...) chiosa cosi’ concepita: "Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia" (...).
Federico La Sala
“MITIDEOLOGIA”: MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA... *
P. S. - ALL’ESCORIAL, "UN INCONTRO DI SUMO!". CON FILIPPO II, NEL 1584:
"PRINCIPI DAL SOL LEVANTE (...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone" (cfr. A. Spagnoletti, "Filippo II", Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).
Il punto esclamativo, posto alla fine della frase del secondo capoverso della nota su "Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili", "Alfabeta-2", 02.04.2019) di Paolo Fabbri dallo stesso Paolo Fabbri ("[...] fino ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!") , dice di una sorpresa, che sorprende - a sua volta!
La cosa sollecita non solo a "ricordare - come scrive Spagnoletti a proposito del suo “Filippo II” - che la prima globalizzazione fu quella operata da Filippo, che il nome delle Filippine e la diffusione della lingua castigliana (spagnola?) nell’America del centro-sud e, ormai, anche in parte dell’America settentrionale sono un suo lascito culturale dal quale nessun uomo avvertito può oggi prescindere [...] e che forgiò la storia di tanta parte del Vecchio e del Nuovo Mondo [...]" (op. cit., p. 14), ma anche e ancora a rimeditare il prezioso contributo di Arnaldo Momigliano sui limiti della storiografia europea, a partire da "L’errore dei Greci" (cfr. Id., "Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture", Torino 1980, pp. 157-174).
In Puglia c’è una città blu come quelle di India e Marocco: un’architetta svela il filo che le lega
C’è una linea che collega Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele): "Tutte ospitarono comunità di ebrei in fuga"
di NATALE CASSANO (la Repubblica - Bari, 13 giugno 2019)
C’è una linea che collega le città di Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele). Ed è di colore blu, come il colore con cui sono dipinti muri e porte dei quattro borghi turistici distanti migliaia di chilometri uno dall’altro. Quattro casi unici in tutto il mondo, che ne hanno persino modificato la nomenclatura: se il comune nel Barese viene spesso definito ’Paese azzurro’, per le altre tre città nelle guide si trova il termine ’Blue city’ (città blu).
A decifrare il collegamento legato al colore blu è stata l’architetta Marilina Pagliara, che ha figurato una suggestiva ipotesi legata alla religione e che, di fatto, offre un’alternativa alla leggenda della Madonna di Costantinopoli. Già perché finora si è sempre pensato che il colore azzurro di Casamassima fosse legato al ’Maphorion’ (velo) dell’allora protettrice del borgo, come ringraziamento per aver preservato gli abitati dalla peste che aveva colpito Bari e l’entroterra a metà del 1600. Fu l’allora duca Odoardo Vaaz a ordinare di dipingere a calce viva l’attuale centro storico, aggiungendo il colore azzurro del manto della Madonna.
Anche l’ipotesi della Pagliara si lega a motivazioni religiose, ma affonda le radici nella tradizione ebraica. E parte da Chefchaouen per spiegarlo: "La città santa musulmana divenne rifugio di ebrei in fuga dalla Spagna durante l’Inquisizione, occupando le aree musulmane. La città fu dipinta con la polvere blu di tekhelel, un colorante naturale a base di frutti di mare, perché nella Bibbia viene comandato al popolo di Israele di utilizzare questo colore, tradizione portata avanti attraverso i secoli, e oggi gli abitanti, pur non ebrei, ’rinfrescano la vernice’ sulle loro case, con il pigmento blu venduto in vasi".
Anche Jodhpur e Safed ospitarono all’epoca piccole comunità di ebrei in fuga, che usarono appunto la vernice blu per colorare le loro case. Safed in Israele è anche la città natale della Cabala lurianica, uno dei principali bastioni per lo studio della Torah ed è una delle quattro città sante dell’ebraismo legate a simboli biblici, insieme a Hebron (terra), Tiberiade (acqua) e Gerusalemme (fuoco). Safed era associata all’aria, al cielo e quindi all’azzurro, divenendo anch’essa nel XV secolo rifugio per ebrei espulsi nel periodo dell’Inquisizione dai ’Cattolicissimi Reali Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona’, detti ebrei sefarditi dall’ebraico Sefarad (Spagna), che mantennero tradizioni e usanze del periodo iberico.
E anche Casamassima, ipotizza l’architetto, potrebbe quindi aver ospitato una piccola comunità ebrea, identificatasi attraverso il colore blu delle loro abitazioni.
Andando a scavare nella storia della città effettivamente un collegamento c’è, ed è legato alla figura di un ebreo sefardita: Miguel Vaaz de Andrade, considerato da molti storici uno dei maggiori mercanti di grano europei, rifugiatosi a Napoli nel 1580.
La compravendita di grano acquistato dalla Puglia lo rese ricchissimo e "nel 1609 comprò per 76.000 ducati il feudo di Casamassima devoluto al Regio Fisco dopo la scomparsa senza eredi della Baronessa D’Acquaviva e le terre di Rutigliano e Sannicandro ricche di grano - aggiunge Pagliara - Nel 1612 acquistò Mola ottenendo il titolo di conte, dove si reca qualche volta risiedendo nel suo palazzo da cui può seguire la sua flotta impegnata in scambi commerciali nell’Adriatico, diventando sempre più potente e tirannico nei confronti della popolazione". Potrebbe essere stato quindi Vaaz a insediare un comunità ebraica nel borgo barese; ipotesi che trova sostegno anche nella simbologia impressa sui muri del borgo antico. Un esempio? La casa seicentesca del rione Scesciola, dove è presente un’apertura rotonda con una stella a sei punte, che ricorda appunto la Stella di David, simbolo molto diffuso nella Cabala.
Sigmund Freud, Orvieto, la Tuscia e il viaggio in Italia
di Emanuela Colonnelli *
(NewTuscia) - BOLSENA - Venerdì 19 agosto alle ore 20:30, il programma dell’edizione 2016 di Di Tuscia un po’ - la mostra mercato delle eccellenze agroalimentari e delle produzioni artigianali di qualità che si svolge nel centro storico di Bolsena - propone l’evento “Video, musica e filosofia con Sigmund Freud in Tuscia”.
Francesco Lippolis discuterà del padre della psicoanalisi e della sua passione per l’archeologia e il viaggio in Italia con Luciano Dottarelli, autore del libro “Freud, un filosofo dietro al divano”.
L’incontro prende spunto dalla pubblicazione da parte di Annulli Editori di questo originale lavoro su Freud e la psicoanalisi, in cui la figura e l’opera di uno dei protagonisti della cultura del Novecento sono ricostruite dal punto di vista del suo ambivalente rapporto con la tradizione della filosofia come “cura dell’anima”, un tema di cui Luciano Dottarelli si è occupato recentemente con un altro libro su “Musonio l’Etrusco. La filosofia come scienza di vita”.
«In effetti - come recita la presentazione editoriale del libro - con la psicoanalisi di Freud sembra davvero realizzarsi una delle aspirazioni più antiche della filosofia: quella di ricercare e mettere a disposizione degli uomini un’efficace medicina per guarire i mali dell’esistenza e per raggiungere la felicità possibile.
Il libro evidenzia come il rapporto di Freud con la filosofia si sia sempre nutrito di una profonda ambivalenza: da un lato la confessione di un’irresistibile attrazione; dall’altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri su una propria “incapacità costituzionale” alla pura speculazione e sulla sua ferma volontà di sottrarsi - proprio lui, formidabile affabulatore - al fascino delle narrazioni filosofiche».
Giudizio universaleL’evento culturale proposto da Di Tuscia un po’ intende valorizzare soprattutto gli spunti offerti dal libro di Luciano Dottarelli riguardo al rapporto di Sigmund Freud con l’Italia, Orvieto, la Tuscia. Il padre della psicoanalisi fu infatti un grande appassionato del viaggio in Italia e ricavò importanti temi di riflessione dal territorio del lago di Bolsena e da Orvieto, storicamente legata alla Tuscia.
L’incontro focalizzerà l’attenzione soprattutto sull’episodio della dimenticanza del nome di Luca Signorelli, autore del Giudizio universale nel Duomo di Orvieto e sulla nevrotica incapacità di raggiungere Roma da parte di Freud, che nel viaggio del 1897, di decisiva importanza per gli sviluppi teorici della psicoanalisi, non riuscì a spingersi oltre il lago di Bolsena.
L’incontro sarà accompagnato da un video realizzato da Francesco Lippolis e dall’ esecuzione di brani musicali da parte di Gabriella Bussu (flauto) e Gianni Mancini (sax).
I brani scelti dai due studenti del Liceo Musicale “Santa Rosa” di Viterbo, con la consulenza del M° Giuseppe Moscatelli (“I sogni son desideri”, “Buongiorno, principessa!”, “The Postman”, “Gabriel’s oboe” richiamano l’amore, il dolore, l’esilio, la felicità, il ricordo e la morte - tutti temi che si intrecciano nella vita e nella riflessione del padre della psicoanalisi, di cui quest’anno ricorre il 160° anniversario della nascita.
L’evento dedicato al rapporto del grande viennese con l’Italia e la Tuscia ha anche il patrocinio del Club per l’UNESCO Viterbo Tuscia e del Forum Austriaco di Cultura
Poe e Dumas, fratelli notturni
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 30.05.2016)
Edgar Allan Poe sapeva che il suo massimo dono era quello di portare in sé la tenebra: di essere tenebra in ogni luogo dell’intelligenza, dell’animo e del cuore; e di irraggiarla intorno, riversandola su ogni sensazione, oggetto ed evento dell’universo. Non gli bastava lasciarsi invadere passivamente da questa oscurità. Con un amore brillante, febbrile e imperterrito, con un coraggio che non lo abbandonò mai, con un occhio lucido e minuzioso, proiettò, creò questa tenebra. Tre era il numero perfetto: il numero proprio di Dio (e, forse, del diavolo). Nella primavera del 1841, Poe progettò un trittico: quello che potremmo chiamare il Trittico di Dupin. Esso comprende Gli omicidi della Rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt, La lettera trafugata, che propongo di leggere nella bellissima traduzione di Giorgio Manganelli (I racconti, Einaudi, tre volumi).
Ecco dunque Auguste Dupin, l’antenato di Sherlock Holmes, il tenebroso e snobistico principe di tutti gli investigatori moderni. Il narratore, Edgar Allan Poe, conosce tutto di lui. Conosce il suo mondo, dove le sensazioni e gli eventi materiali sono analoghi a sensazioni e eventi immateriali. Nel cuore di questo mondo c’è Dio, il Dio onnipotente e onnipresente rivelato dalla religione cristiana. Egli può modificare le leggi di ciò che, milioni di anni prima, aveva creato: ma non vuole assolutamente modificarle. Vuole che tutto rimanga uguale, fedele e obbediente a sé stesso. Poe dice di abitare insieme a Auguste Dupin a Parigi, nel Faubourg St. Germain, al numero 33 di rue Dunôt, terzo piano; e lì osserva ogni giorno il suo amico.
Auguste Dupin amava la notte, e ne simulava la presenza anche quando non c’era. Al primo albeggiare del mattino, egli chiudeva le imposte massicce del suo vecchio appartamento: accendeva un paio di candele profumate, che diffondevano raggi fiochi e spettrali; e si lasciava invadere dai sogni oppure leggeva e conversava fino al momento in cui il rintocco dell’orologio annunciava il ritorno della vera tenebra. Allora si avventurava nelle strade, insieme all’amico, girovagando in lungo e in largo fino a tarda notte, cercando le luci e le ombre alterne della città popolosa.
Aveva il dono unico di trasformare tutto in notte. Quando il prefetto di polizia di Parigi venne a trovarlo per discutere con lui di un problema, Dupin si sedette al buio. «Se è un problema che esige riflessione», osservò, rinunciando ad accendere il lume, «lo esaminerò al buio». Ma c’erano molti altri modi di fare notte: come quello di piombare in una specie di apatia, o di oppressione, o in una melanconia continua. Tra le molte mitologie che Poe immaginava, la più grandiosa era appunto quella dedicata alla Melanconia, a Saturno, all’Angelo cupo e tenebroso che Dürer aveva rappresentato tre secoli prima. Sebbene Poe conoscesse in sé stesso le alternanze di euforia e di depressione, la melanconia che Auguste Dupin preferiva era quella silenziosa, fredda, automatica.
Dupin era un appassionato lettore, confratello o doppio di Poe. Ma, negli Omicidi della Rue Morgue e negli altri racconti del trittico, non si intravedono libri. Si scorgono giornali. Poe amava le cronache giudiziarie, i rebus, gli enigmi, le parole incrociate, le scritture cifrate, che egli stesso fabbricava per i quotidiani. Tra lui, Dupin e la realtà si estendeva questa infinita e implacabile massa di giornali, che rappresentavano il segno più evidente del mondo moderno a cui sacrificarono anche Gérard de Nerval e Baudelaire.
Questi supremi scrittori-giornalisti sceglievano spesso una parte della realtà: quella che stava in superficie, formata da particolari infimi, irrilevanti e casuali, segnata da minutissimi indizi. I diligenti rappresentanti del mondo diurno - i giornalisti, i poliziotti, i prefetti di polizia - non comprendevano questa realtà: credevano nella ragione; e non possedevano lo sguardo molecolare e prensile adatto alle superfici. Dupin era l’uomo della notte: il tempo in cui non escono i giornali. Ma leggeva o si faceva leggere i quotidiani: gli araldi del giorno; e ci informa ironicamente che «la verità non sta sempre in fondo al pozzo. Credo anzi che ciò che sopratutto interessa stia in superficie».
Possedeva un’intelligenza esatta e inflessibile, architettonica e paradossale, «congetturale e probabilistica», come disse Baudelaire. Coglieva un oggetto, o un pensiero, o un evento particolare: il quale aveva un’aria inquietante, stregonesca, a volte sinistra. Faceva rabbrividire, sebbene egli non ne conoscesse le ragioni.
Questo brivido spingeva Dupin a trasformarsi, e a cercare di identificarsi con il particolare. Ma un singolo particolare non gli bastava. Dupin doveva avere davanti a sé una serie, una linea di particolari, che si svolgevano nella realtà o nella mente del suo compagno o avversario. Osservava, distingueva, analizzava, districava con un acume che alle persone normali sembrava soprannaturale. Finiva per proiettare davanti a sé un complesso analitico, che suscitava nella sua intelligenza una vivissima gioia. Qualche volta, si accontentava di sprofondare in un particolare secondario: l’esperienza gli aveva rivelato che la parte più ampia della verità sorge da ciò che pare poco importante.
Spesso il filo dei pensieri si nascondeva: Poe pensava qualcosa, ma non diceva nulla; e con sua estrema sorpresa, Dupin pronunciava una frase, che rispondeva ai pensieri che Poe aveva avuto, ma non rivelato. «Dupin - Poe disse gravemente - questo supera la mia comprensione. Come avete potuto indovinare quello che stavo pensando?...». Poi Poe comprese. Con la sua logica immateriale, poggiando su una serie di piccole osservazioni, passando di dimostrazione in dimostrazione, Dupin aveva ricostruito il processo celato dei pensieri, portando il nascosto all’estremo della chiarezza. Così tutto diventava visibile, necessario, scintillante.
Nelle lunghe passeggiate notturne per Parigi, Dupin elaborò il suo metodo analitico: fondato sulla facoltà di osservazione, su un dono quasi dostoevskijano di simpatia e di identificazione con l’animo altrui, una prodigiosa memoria, il favore del caso e, sopratutto, una miracolosa capacità di deduzione.
Molti lettori hanno scorto, nel metodo di Dupin, la formula più elegante dell’analisi intellettuale moderna, che avrebbe prodotto, tra l’altro, la psicanalisi e la semiologia. Non avevano torto: Freud e Lévi-Strauss ereditarono il metodo del personaggio di Poe.
Ma Auguste Dupin è molto d’altro e di più. È un meraviglioso ciarlatano, che indossa ironicamente e beffardamente le vesti del visionario antico. Cancella l’ esprit de geométrie : il dono dei poliziotti e dei matematici. E porta l’ esprit de finesse , che Montaigne e Pascal avevano glorificato, al punto estremo di penetrazione, trasformandolo in una scienza che dà certezze più sicure del calcolo matematico.
Poe doveva compiere soltanto un ultimo passo. A lui il racconto - il puro racconto di Dumas o di Dickens o di Tolstoj - non bastava. Forse non gli piaceva. Così, dominato dall’ossessione mentale, trasformò il complesso analitico di Auguste Dupin nel racconto dei Tales of the Grotesque and Arabesque, ognuno dei quali è una deduzione analitica.
Qualche anno più tardi, Poe e Dumas, i due estremi opposti del puro metodo analitico e della pura narrazione, si incontrarono per caso. Nel 1860-1, circa vent’anni dopo la pubblicazione de Gli omicidi della Rue Morgue, Alexandre Dumas era a Napoli, dove pubblicava un quotidiano, «L’indipendente», per sostenere e appoggiare Garibaldi. Il 28 dicembre 1860 e l’8 gennaio 1861, fece tradurre Gli omicidi della Rue Morgue col titolo L’assassinio di Rue Saint-Roch (pubblicato da Baldini e Castoldi, a cura di Ugo Cundari, pagine 108, euro 12). Non sapeva l’inglese: nessuno dei redattori dell’«Indipendente» sapeva l’inglese; così utilizzò la traduzione francese di Isabelle Meunier, oppure quella famosa di Baudelaire.
All’inizio del suo testo, Dumas raccontò che, nel 1832, si era rivolto a lui un giovane americano, Edgar Poe. «Al primo abordo - dice il mediocre testo italiano - riconobbi che avevo a che fare con un uomo rimarchevole, due o tre osservazioni ch’egli mi fece sul mio mobilio e gli oggetti che mi attorniavano, sulla maniera nella quale le mie robe erano sparse nella camera, sulla parte morale e intellettuale del mio individuo - mi colpirono per la loro giustezza e la loro veracità».
Come gli accadeva spesso, Dumas mentiva. Non aveva mai conosciuto Poe, che non era mai stato in Francia e in Italia. Sappiamo soltanto che il grande bugiardo - così bugiardo da cogliere il cuore della verità - arrivava tutte le mattine nell’ufficio dell’«Indipendente». Domandava il numero del giorno prima: dava una rapida occhiata alle appendici, dicendo: «C’est bien!». Poi, con il cappello tra le mani congiunte dietro la schiena, passeggiava su e giù nell’ufficio, e a voce alta, staccando bene le parole, dettava: «Se vi è un paese ove i furti e gli assassinii siano frequenti, questi è Napoli. Se vi è un paese ove i furti e gli assassinii restino impuniti, è in Napoli».
L’enigma Pompei città assediata specchio d’Italia
di Francesco Erbani (la Repubblica, 25.08.2015)
Vista dall’alto, dal terrapieno dove sorge la Casina Dell’Aquila, Pompei trasmette un senso di calma. Il silenzio sembra mescolarsi a una specie di muta saggezza e riveste le pareti scoperchiate, le pietre e i colonnati della città antica. In una mattina d’estate, con il sole che emette solo opachi bagliori, quel che anima le strade, il frastuono di chi visita gli scavi non intacca la quiete che pare attinga la propria misura direttamente dal mondo classico di cui Pompei è testimone. È una trama di muri e di vegetazione, di opere dell’uomo e della natura, un paesaggio culturale che, se si volta lo sguardo verso nord, scivola senza che apparentemente nulla lo contamini fino al Vesuvio, lo “sterminator Vesevo” al quale Giacomo Leopardi nella “Ginestra” conferisce il ruolo di arbitro di un destino contro cui gli esseri umani hanno pochi o nessuno strumento per opporsi. La città morta, insomma, vista da qui sovrasta ogni cosa viva, pulsante, nervosa e rumorosa, e quasi fortifica l’illusione che solo il passato sia sede dell’armonia e che qualunque contatto con il contemporaneo sia un’intrusione, indebita e rovinosa.
È, appunto, un’illusione. Meglio: una pericolosa illusione consolatoria. Senza rapporti con il contemporaneo, con il contesto, Pompei non è più nulla, non essendo un oggetto chiuso dentro la bacheca di un museo. È una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado.
L’area archeologica è grande 66 ettari, la parte scavata 44. Conta 1.500 domus, vanta 242 mila metri quadrati di superfici murarie, 18 mila di superfici dipinte, 20 mila di intonaci, 12 mila di pavimenti. Pompei non è in un museo e neanche in un lembo desertico né è avvolta da una specie di green belt, una cintura protettiva, una camera di compensazione con tanti filtri che depurano tutto ciò che entra, materiale o immateriale che sia.
Pompei vive, sebbene morta, in un contesto dove la densità di popolazione è fra le più alte d’Europa. La sua storia inizia nel VI secolo avanti Cristo, ma ora è parte - grosso modo il 5 per cento - di un comune che si chiama sempre Pompei, nato appena nel 1928 e dove risiedono oltre 25 mila persone. Alle quali si aggiungono, almeno, le 44 mila di Torre Annunziata, le 64 mila di Castellammare di Stabia e le 50 mila di Scafati, tre paesi che stringono la città antica in una morsa edilizia spaventosamente dilatatasi dagli anni Cinquanta del Novecento nella piana del fiume Sarno, fra il Vesuvio e il monte Faito, spazzando via campi fertilissimi e lasciando pochi lacerti di un tessuto residenziale che va ancora tristemente fiero della propria gentilezza, talvolta di una sontuosa solennità - la Reggia di Portici, le ville vesuviane. Mescolando legalità e illegalità, in quest’area della provincia di Napoli si è prodotta una qualità abitativa che anche solo un fugace sguardo coglie nell’inusuale e casuale brutalità.
Pompei è qui dentro, in un ammasso senza vuoti. È una città recintata, gli accessi sono limitati alle ore diurne (salvo rari casi). È una città laboratorio, la si studia, vi si scava. Ma la sua antica e silenziosa saggezza fa i conti con il disagio di questa terra, con gli indici della disoccupazione, in specie giovanile, indici già alti ma aggravati dalla crisi industriale degli ultimi decenni; con la criminalità camorrista; con un ceto politico e amministrativo - non tutto, per carità - che articola il proprio consenso in termini clientelari e che guarda proprio agli scavi di Pompei come serbatoio cui attingere a mani basse; con ambienti imprenditoriali che immaginano grandi affari dentro e soprattutto fuori delle sue mura; con un mondo di piccoli e spesso miserabili commerci ambulanti, attività che si affollano agli ingressi, in parte abusive o con licenze frutto di contrattazioni politiche. E poi i visitatori. Due milioni e mezzo, circa, ogni anno. (...)
Pompei è un enigma italiano, metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico e culturale, del suo stato di conservazione, dei valori che esprime e della qualità della sua fruizione. Ed è metafora di un paese, di tanti aspetti della sua vicenda politica e sociale, un paese che, prendendosi scadente cura di quel patrimonio, mostra un volto di sé rivelatore di un malessere che si fatica anche solo a definire e di una condizione non all’altezza dell’eredità ricevuta e poco adeguata al futuro che quest’eredità lascia intravedere.
Pompei assume su di sé altre metafore. È la metafora di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico per cui ci si muove in maniera ondivaga, inseguendo emergenze, l’ultima emergenza, forzando gli apparati amministrativi e varando provvedimenti di legge sempre in affanno, in contraddizione l’uno con l’altro, e orientandosi al massimo sulla breve durata. (...) Pompei è poi metafora delle relazioni con l’Europa, relazioni segnate da adesioni e ripulse che s’inseguono a singhiozzo, da richieste d’aiuto e timori di commissariamenti, da solidarietà e messe in mora. Dalle casse di Bruxelles provengono i 105 milioni del Grande Progetto Pompei destinati a restaurare oltre una cinquantina di domus e ad altri interventi. Deliberati nel 2012, a marzo del 2015 erano stati spesi in una percentuale minima: appena 5,9 i milioni versati per una manciata di cantieri chiusi, ma non ancora collaudati. Il programma dei lavori prevede come scadenza inderogabile il dicembre 2015, pena il rien- tro di quel pacco di milioni nei forzieri europei, a meno che non si trovi un accordo con Bruxelles per una proroga.
E ancora: come non leggere in tante recenti storie pompeiane la metafora di una dialettica fra il Grande Intervento e la cura minuta e costante, fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale? È una dialettica giocata al tavolo di una retorica che contrappone il fare al riflettere e al discutere. Una retorica che molte cose dice dell’ethos contemporaneo e che in Italia è diventata spesso conflitto su regole e deroghe, sulle funzioni di controllo proprie di una democrazia complessa e sulle accelerazioni forzate, dettate da insofferenza verso quei controlli e scandite da invettive contro un’imprecisata burocrazia: una guerra fra procedure ordinarie e straordinarie - invocando, per gestire queste ultime, commissari, prefetti, manager e generali.
E, sempre restando all’ambito dei beni culturali, Pompei è metafora di altre discussioni, spesso ridotte a ritornello: quella su pubblico e privato, su quanto spetti allo Stato (obbligato dall’articolo 9 della Costituzione) e quanto possano fare imprese, persone singole, associazioni di cittadini, cooperative di giovani; e quella su conservazione e fruizione, perennemente sbilanciata e incapace di verificare nel concreto quanto il buon assetto della prima possa servire alla seconda e quanto un corretto esercizio della seconda sia essenziale per la prima.
Pompei
Così l’Europa scoprì e amò la città antica
Nell’area degli scavi e a Napoli si apre mercoledì una grande rassegna sulla fortuna dei siti vesuviani
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 24.05.2015)
«CHI parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!». La morale cartesiana di Michele (Nanni Moretti) in Palombella Rossa potrebbe stare in epigrafe a tutto lo sgangherato discorso pubblico italiano sul patrimonio culturale: basti pensare alla distorsione del fatale termine “valorizzazione”, o all’osceno ritornello del “petrolio d’Italia”. Ma è a Pompei che essa si adatta in modo tutto speciale: da anni le parole con cui ne parliamo e ne scriviamo sono infatti consumate, scivolose, fallaci.
Sono parole che ci hanno fatto pensare che Pompei fosse un’”emergenza” (magari per giustificarne il commissariamento da parte della Protezione Civile) o un «tesoro» (che potesse legittimare faraonici progetti di luna park dell’archeologia, e speculazioni di ogni tipo). Trovare altre parole per Pompei è urgente: tanto da far accogliere con grande favore persino una mostra, nonostante che il desiderio di una moratoria assoluta delle esposizioni si faccia acutissimo nel momento in cui tonnellate (letteralmente) di opere d’arte vengono irresponsabilmente tradotte al gran bazar dell’Expo.
Ma «Pompei e l’Europa» è un’altra cosa. Perché dietro c’è un solido progetto culturale e scientifico: un primo frutto intellettuale del governo affidato al generale Giovanni Nistri (direttore del Grande Progetto Pompei) e all’archeologo Massimo Osanna, soprintendente e ora curatore di questa mostra insieme alla storica dell’arte Maria Teresa Caracciolo e allo storico dell’architettura Luigi Gallo.
La mostra non vuole sciorinare i “capolavori” restituiti dalla terra che copriva Pompei, né esserne una sostituzione, un succedaneo commerciale da far girare per il mondo (come è invece accaduto anche molto di recente). È, invece, un invito a ritornare nelle strade della città antica, o ad andarci per la prima volta: ma vedendola attraverso gli occhi dei pittori, degli architetti e degli scrittori europei che la amarono dal tempo della sua scoperta, alla metà del Settecento, fino al terribile bombardamento del 1943. Nel 1839 l’architetto tedesco Johann Daniel Engelhardt affermava che «un giovane architetto dovrebbe assolutamente visitare Pompei, anche se questa si trovasse in Giappone». Visitare la mostra significa ritrovare le parole con cui l’Europa, per due secoli, ha parlato di Pompei: per poterle ritessere in un discorso nuovo.
La prima di queste parole è «contesto». Nel 1747 fu il grande antiquario veronese Scipione Maffei a intuire perché la scoperta di Pompei fosse un evento fuori scala: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai che si discopra non uno ed altro antico monumento, ma una città!». Riavere Pompei significava conoscere l’antichità non attraverso una somma di oggetti disparati, ma poter camminare, respirare in una città antica “resuscitata”. Ci volle un secolo, e il genio di Giuseppe Fiorelli, perché questo diventasse possibile: ma intanto Pompei aveva fatto capire che il patrimonio culturale è una rete di relazioni che va conosciuta tutta intera. Quando, cinquant’anni dopo, Napoleone smontò il contesto vivo dell’arte italiana per portarne il fior fiore al museo imperiale del Louvre, un grande intellettuale francese - Antoine Quatremère de Quincy - gridò che «il paese stesso è il museo... senza dubbio non crederete che si possano imballare le vedute di Roma!». Era la lezione di Pompei: una lezione che oggi abbiamo dimenticato.
La seconda parola, tutt’altro che banale, è «conoscenza». Di fronte alle lettere in cui il grande Winckelmann denunciava gli errori delle autorità napoletane, tutta l’Europa colta - la Repubblica delle Lettere, come si diceva allora - rivendicò la sovranità della conoscenza contro quella giuridica della dinastia borbonica: Pompei apparteneva a tutti coloro che la volevano conoscere. Ancora oggi è urgente chiedersi “di chi è Pompei”, e ancora oggi è rivoluzionario rispondere che è di chi la studia, aprendone a tutti la conoscenza.
Un’altra parola terribilmente urgente è «lavoro». Il 20 dicembre del 1860 il grande soprintendente Giuseppe Fiorelli (l’inventore del nuovo metodo per ottenere i celeberrimi calchi dei corpi dei pompeiani: calchi restaurati, e resi nuovamente visibili, in occasione della mostra) annota di aver scritto ai «sindaci dei comuni vicini, onde tutte le persone bisognevoli di lavoro fossero inviate agli scavi, riservandomi di determinare il numero dei lavoratori». Quella era la manovalanza degli scavi: ma quanto lavoro - a partire da quello per i nostri famosi cervelli in fuga - potrebbe oggi dare una Pompei che torni ad essere una città aperta della ricerca!
Potrà sorprendere, ma un’ultima parola che scaturisce dalla città morta è «politica». Nel 1848 «i custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurato fedeltà al Re e alla costituzione con un grido che rimbombando fra queste solitudini troverà un’eco nel cuore di tutti gli italiani, della cui antica gloria, potere e indipendenza qui gelosamente conserviamo molte sacre reliquie». E noi? Qual è il nostro posto in questo cortocircuito continuo tra l’Italia del passato e quella del futuro? Tra le opere esposte c’è un bellissimo quadro di Filippo Palizzi che mostra una ragazza in bilico sul ciglio degli scavi di Pompei, un’immagine che fa salire alle labbra un famoso verso di Hölderlin: «Dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva». Ci ripetiamo che Pompei è in pericolo: ebbene, questa mostra serve a ricordarci perché dobbiamo salvarla. Perché possa essere Pompei a salvare noi: ancora una volta.
Pompei
Prima dell’eruzione, una città che amava le sue attrici
Methe, Cestilia e le altre Le donne di scena come star
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 15.09.2014)
Nel 79 d.C., quando scomparve, Pompei era una città fiorente, vivace e cosmopolita, nella quale diverse etnie e culture si erano nel tempo incontrare e al di là degli inevitabili problemi (e a volte veri e propri conflitti bellici) si erano alla fine amalgamate. Il primo nucleo di abitanti del luogo, nel VII sec. a.C., era composto da popolazioni osche.
Grazie alla posizione particolarmente felice dello stanziamento, allo sbocco marittimo della ricca e produttiva area agricola dell’entroterra campano, la comunità divenne presto una fiorente cittadina, che nei primi secoli della sua vita subì l’influsso sia degli Etruschi (all’epoca ampiamente presenti nella zona), sia dei Greci la cui cultura (a seguito della sconfitta degli Etruschi da parte di una coalizione cumano-siracusana, nel 474 a.C.) prese peraltro il sopravvento. Verso la fine del V secolo una nuova popolazione, i Sanniti, calò dalle sue povere montagne stanziandosi tra l’altro anche a Pompei, e per finire nell’81 (secondo alcuni l’80) a.C. giunsero i Romani.
Pompei, infatti, insieme agli altri alleati italici di Roma (i socii italici), stanchi di essere di fatto trattati come dei sudditi, aveva preso le armi per ottenere la cittadinanza romana, ma nell’89 era stata assediata da Silla, che dopo averla espugnata vi aveva stanziato una colonia. Pompei, insomma era un amalgama di etnie e di culture diverse, ciascuna delle quali aveva lasciato le sue tracce, contribuendo a renderla una città aperta, viva e pronta a recepire le novità.
La sua economia era fiorente. La straordinaria fertilità dell’agro campano aveva consentito di sviluppare diverse industre che esportavano i suoi prodotti. Il vino locale veniva venduto oltre che in Italia in Francia, Spagna, Africa e Germania. Fiorenti anche l’industria della ceramica e quella tessile , nonché la produzione di calzature.
Tutto contribuiva a consentire agli abitanti della città una vita piacevole e varia, arricchita da una intensa vita culturale e da una serie di svaghi tra i quali, in particolare, frequenti rappresentazioni teatrali. Dopo un lungo periodo nel quale queste avevano avuto luogo in strutture provvisorie di legno erette nelle piazze e davanti ai templi, nel secolo a.C. la città si dotò di un edificio teatrale in muratura, il Teatro Grande, eretto presso il margine meridionale della città, la cui capienza, a seguito dei restauri di età augustea, arrivò fino a 5.000 persone. A darci un’idea delle popolarità di queste rappresentazioni sono i graffiti conservati sui muri della città, che testimoniano, in particolare, dell’entusiasmo dei pompeiani per le attrici che giungevano al seguito di compagnie girovaghe.
Anche se non potevano recitare nelle tragedie e nelle commedie, ma solo nelle pantomime e nei mimi vi erano infatti numerose donne che calcavano le scene pompeiane: una certa Methe, ad esempio, definita attrice della «atellana» (un tipo di commedia di origine italica, così chiamata da Atella, in Campania); una Histrionica Actica, della compagnia di Aniceto; una Novella Primigenia, forse identificabile con una Primigenia di Nocera, il cui nome appare insieme a una serie di graffiti di saluto di una troupe di attori girovaghi. E poi una Cestilia, evidentemente molto apprezzata e popolare al punto da essere salutata come «la regina dei pompeiani».
L’attività teatrale a Pompei, insomma, era intensa, non solo nel Teatro Grande ma anche nell’Odeion (che poteva ospitare circa 1.500 persone), costruito a fianco del teatro nei primi decenni della colonia sillana, verosimilmente destinato ad audizioni musicali, scene mimiche, recitazioni e forse anche declamazioni letterarie e poetiche.
L’interesse per il teatro dei pompeiani traspare anche dalle raffigurazioni parietali con soggetti tratti da tragedie e commedie, e dall’ingente numero di maschere realizzate in marmo, in mosaico e in pittura, che decorano molte case della città. È bello, a distanza di quasi due millenni, vedere questo teatro tornare a vivere. Peccato solo (impossibile tacerlo) che ciò accada in un edificio, come il Teatro Grande, irrimediabilmente devastato da improvvide (a dir poco) opere di cosiddetto restauro.
L’importanza di avere Pompei. In 3D
Un documentario per immagini e (poche) parole: per capire cosa combattiamo quando difendiamo questo luogo unico
di Tomaso Montanari (il Fatto, 17.07.2014)
Si racconta che quando qualcuno propose a Winston Churchill di tagliare la spesa sulla cultura per rinforzare ancora la contraerea, il primo ministro avrebbe risposto: “Ma allora, per cosa stiamo combattendo?”. Quando ho finito di vedere, in anteprima, Pompei 3D che andrà in onda stasera alle 21.10 su Sky3D ho pensato subito a questa celebre, e probabilmente apocrifa, battuta.
Già, perché la immagini, la musica e le parole di questo piccolo capolavoro coprodotto da Ballandi Arts e Sky3D sono capaci di spiegare a chiunque per che cosa stiamo combattendo quando combattiamo per Pompei.
DI QUESTA battaglia il documentario non parla. Non parla di crolli, di finanziamenti e di personale, di trattative sindacali o di speculazioni edilizie, di ministeri fallimentari e decreti inutili, di conflitti d’interesse e concessionari onnipotenti. Non parla, cioè, di tutto ciò per cui - inevitabilmente - Pompei è quasi ogni giorno sulle pagine dei giornali italiani e stranieri. Non mostra il degrado, non grida allo scandalo: e non perché a Pompei non ci sia (anche) del degrado, e non perché non ci sia (ancora) da gridare.
Ma perché, appunto, è vitale ricordarci perché gridiamo. Ed è importante particolarmente ora, quando grazie al soprintendente Massimo Osanna e a una pattuglia di giovani archeologi e architetti a Pompei si vede finalmente una luce.
Ebbene Pompei 3D riesce perfettamente a ricordarcelo. Perché le sue straordinarie immagini (ancor più impressionanti se si indossano gli appositi occhiali) sono state girate utilizzando anche un drone sperimentale particolarmente evoluto, che ha sorvolato Pompei in varie condizioni di luce, e anche in parti degli scavi inaccessibili ai turisti, e poco o per nulla filmate. E perché le parole scelte per commentarle non sono da meno.
Si è infatti scelto di rinunciare sia alla classica, didascalica, spiegazione (disponibile per altro in contemporanea su Sky Arte, nella puntata dedicata a Pompei nella serie sulle Sette meraviglie), sia alla passeggiata dell’esperto (che fa ormai troppo Alberto Angela) o alla terribile presenza dei personaggi in costume, un escamotage tristemente vicino alla mascherata dei gladiatori al Colosseo.
Qua invece non si vede anima viva (fatti salvi due dei dolci cani che custodiscono Pompei), e tutto è affidato ad un sapiente montaggio di testi letti da una voce fuori campo. Testi - e questo è il punto - di grandissimi scrittori che hanno lasciato testimonianze di viaggio, pensieri o poesie su Pompei.
Il filo conduttore è una indimenticabile pagina di Goethe che definisce la città morta “un posto mirabile, degno di sereni pensieri”.
MA LO SPETTATORE ha il privilegio di vedere Pompei attraverso gli occhi e le parole di Giacomo Leopardi (“Torna al celeste raggio / Dopo l’antica oblivion l’estinta/ Pompei, come sepolto / Scheletro, cui di terra /Avarizia o pietà rende all’aperto”) e di Shelley, di Dumas, di Dickens (“perdo il conto del tempo, e penso ad altre cose”) e Melville (“Pompei è uguale ad ogni altra città. La stessa antica umanità. Che si sia vivi o morti non fa differenza . Pompei è un sermone incoraggiante”). E così vediamo con i nostri occhi “il segno della corda del secchio sulla vera del pozzo, la traccia dei carri sul basolato delle strade” di cui parla Dickens, e guardiamo il Tempio di Iside mentre ascoltiamo le note del Flauto magico che esso ispirò a Mozart. Nulla ci viene spiegato: ma sentiamo di comprendere tutto. Per questo Pompei3D è un potente argomento contro coloro che, per stupidità o interesse, oppongono la qualità al successo mediatico, e considerano elitarista ogni tentativo di educare: qua le immagini ultramoderne e spettacolari dei droni convivono con il riuscito tentativo di raccontare Pompei come un pezzo della storia della cultura europea tra Otto e Novecento.
NON UNA CURIOSITÀ turistica, non solo materia per gli archeologi, non un problema amministrativo: ma una grande occasione per tornare civili e umani. Ecco perché meriterebbe di essere proiettato nelle scuole: ed ecco perché speriamo che non rimanga un episodio isolato.
E si trattiene il respiro quando si vede il calco del corpo della fanciulla che Primo Levi associò ad Anna Frank e alla scolara di Hiroshima in una poesia il cui incipit basta a spiegare perché Pompei ci sta a cuore, perché combattiamo per salvarla: “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”.
NELLA CITTA’ DI CONTURSI TERME, NELLA VALLE DEL SELE.
Materiali per riflettere ancora e di nuovo sul tema
Il ritorno di Freud scrittore
Le storie cliniche del papà della psicoanalisi raccolte in un nuovo volume «Racconti analitici», pubblicato da Einaudi. Dove si evidenzia la rivoluzione estetica che aveva messo in crisi i canoni narrativi correnti del Novecento
di Albero Luchetti (l’Unità, 09.01.2012)
È forse noto che la prima delle pazienti grazie alle quali si costruì la psicoanalisi freudiana, la famosa «Anna O.», con un termine inglese definì talking cure, «cura parlata», quella strana terapia cui si stava sottoponendo centotrenta anni fa e che affidava alla «magia lenta» della parola la possibilità di liberare dagli affetti collegati ad eventi traumatici rimossi. Meno noto è forse il fatto che la psicoanalisi sia però nata, almeno nella stessa misura, come writing cure, come «cura scritta»: la scrittura fu infatti il vero e proprio «mezzo», nel senso biologico della sostanza o ambiente in cui avviene un fenomeno, in cui germogliò e poi fiorì la nuova disciplina. Freud scrisse instancabilmente giorno e notte: non solo le migliaia di pagine dei suoi numerosissimi saggi e libri, ma migliaia di lettere a colleghi, amici e familiari (oltre novecento solo alla fidanzata). La sua stessa «autoanalisi» procedette per iscritto, diligentemente annotando quasi ogni giorno i propri sogni, i propri lapsus e dimenticanze e le libere associazioni ad essi. Peraltro, già da adolescente Freud, accanito lettore, per un decennio aveva scritto lettere all’amico Silberstein con cui aveva fondato una scherzosa «Accademia spagnola» ispirandosi a Cervantes, e inoltre aveva composto racconti, poesie ed altri tipi di composizione.
LEGAME CON LA LETTERATURA
Fin dall’origine, questo stretto legame della psicoanalisi con la scrittura si articolò con un altrettanto forte legame con la letteratura, in cui Freud ritrovava intuizioni che brillantemente avevano anticipato scoperte che solo con fatica il metodo psicoanalitico riusciva a corroborare scientificamente. Da opere letterarie classiche (Shakespeare, Schiller, Goethe, Heine, per citare solo alcuni autori) sono tratte non solo le innumerevoli citazioni che accompagnano i testi scientifici freudiani, ma altresì quei personaggi che diverranno figure emblematiche della stessa teoria psicoanalitica: uno per tutti, Edipo. Cosicché è comprensibile che, come racconta l’aneddoto, un fisico abbia potuto definire la psicoanalisi come la più scientifica delle discipline umanistiche ed un letterato come la più umanistica delle scienze, e che la sua opera valse a Freud, se non il premio Nobel, almeno l’altrettanto ambito «premio Goethe».
Il nodo che unisce psicoanalisi, scrittura e letteratura peraltro non è affatto formale né estrinseco, bensì intimo e sostanziale, giacché la psicoanalisi mira a fare scienza proprio di quell’inconscio che nell’essere umano è alla base tanto del suo funzionamento psichico e corporeo quanto delle sue creazioni più astratte e sublimi. Inevitabile però che tutto ciò gli procurasse l’accusa di raccontare «favole» inizialmente mossagli dal grande psichiatra dell’epoca Emil Kräpelin, e periodicamente riproposta dal demolitore di turno, nonostante lo stesso Freud subito ammettesse onestamente la propria sorpresa ed imbarazzo per il fatto che le storie cliniche che riferiva si leggessero «come novelle». Quell’accusa e questo imbarazzo egli finì però col ribaltarli in una ricerca narrativa altrettanto innovativa dell’impresa scientifica che aveva intrapreso, come ci mostra efficacemente il volume Racconti analitici recentemente pubblicato da Einaudi, progettato e introdotto da Mario Lavagetto, che raccoglie la maggior parte delle storie cliniche freudiane, tutte in una nuova traduzione di Giovanna Agabio, con note di Anna Buia e illustrazioni di Lorenzo Mattotti.
La tesi del libro, indicata nella esauriente e avvincente introduzione di Mario Lavagetto, è illustrare come Freud si sia trovato «preterintenzionalmente in sintonia con gli esiti di quella rivoluzione estetica che aveva messo in crisi la possibilità di organizzare le storie in base al sistema della verosimiglianza, al gioco di cause ed effetti, all’alternarsi di aspettative, sorprese, riconoscimenti e scioglimenti». Il contrasto tra i paradigmi acquisiti con la sua formazione nella Vienna della seconda metà dell’Ottocento e la necessità di mettere a punto una nuova forma narrativa si trasferirà all’interno della forma di racconto utilizzata per i suoi casi clinici. Storie che, come giustamente nota Lavagetto, «sarà sempre meno possibile leggere “come novelle” o almeno come novelle conformi a un prototipo collaudato».
Non c’è dunque da stupirsi se alla fine Freud stesso si trovasse «davanti la propria opera come qualcosa di “indipendente, perfino di estraneo”», come parallelamente capita in fondo a ogni persona che si affidi alla psicoanalisi per scrivere o riscrivere la propria storia e cercare di ridisegnare la propria vita, allorché le riscopre come qualcosa di altro da sé, nella misura in cui rivelano l’alterità che abita la stessa possibilità di dire «io». E nemmeno meraviglia che la letteratura scaturita dalla rivoluzione estetica a lui contemporanea possa scorgere nell’opera di Freud un sintomo del progressivo e inesorabile dissolversi delle forme classiche della narrazione, riconoscendolo come uno dei padri del pensiero novecentesco non solo in quanto scienziato dell’apparato dell’anima dell’essere umano, ma anche come scrittore.
Così Freud ha inventato il thriller dell’anima
Li leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere e alle loro angosce
Scritti con stile elegante parlavano non di mostri ma di gente perbene che si poteva anche incontrare nei salotti
Ecco i "Racconti analitici" del padre dell’inconscio che fondarono una nuova disciplina e un nuovo genere
di Melania Mazzucco (la Repubblica,03.01.2012)
Nel 1936 uno dei candidati al premio Nobel per la Letteratura, proposto da Romain Rolland, era un anziano psicoanalista viennese: Sigmund Freud. Era stato candidato dozzine di volte al Nobel per la Medicina, che con suo grande dispiacere gli fu sempre negato, perché il suo lavoro "non era basato su prove scientifiche". In suo sostegno erano stati sottoscritti pubblici appelli: tra i firmatari figurano i principali scrittori dell’epoca, da Alfred Döblin a Jakob Wassermann, da Knut Hamsun e Lytton Strachey fino a Thomas Mann. Questi, maliziosamente, firmò purché la candidatura di Freud fosse al Nobel per la Medicina. Con ciò, riconosceva che lo psicoanalista poteva rappresentare un rivale temibile. Il premio per la Letteratura del 1936 fu assegnato a Eugene O’Neill. E Freud rimase senza Nobel: la sua opera era considerata troppo romanzesca per essere scientifica, e troppo scientifica per essere letteraria.
Ripensavo a questa vicenda leggendo la dotta introduzione di Mario Lavagetto ai Racconti analitici di Freud, appena pubblicati da Einaudi nella collezione dei Millenni. Con la consueta acutezza Lavagetto - anch’egli, come Freud, uno scrittore anomalo, che ha regalato alla letteratura italiana, e non solo alla storia della critica, dei gioielli fin dai tempi della Gallina di Saba - affronta la questione centrale dell’opera del fondatore della psicanalisi. Che cosa sono davvero le Krankengeschichten di Freud? Qual è la loro natura? E come dobbiamo chiamarle? Storie cliniche? Casi clinici? Studi? Lavagetto le intitola racconti.
I primi - i quattro casi femminili di isteria - apparvero nel 1895. Erano il frutto eretico di un genere codificato che aveva già prodotto i suoi classici. Fra questi, la Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing (1886), la più straordinaria enciclopedia della devianza mai scritta, nella quale l’autore descriveva, col distacco di un entomologo, innumerevoli casi di zoofilia, coprofagia e via dicendo. Qualcosa di simile aveva fatto in Italia anche Cesare Lombroso, che aveva raccolto storie di perversione e follia tra i bassifondi della società: ma la formazione positivistica e deterministica gli impediva di riconoscere nei suoi casi comportamenti universali e perfino la comune umanità.
Freud scriveva per illustrare le sue nuove teorie. I suoi casi avevano uno scopo "dimostrativo". Divennero subito tutt’altro. Krafft-Ebing li stigmatizzò come "favole scientifiche". I lettori, in un certo senso, fecero lo stesso. Le "favole" - inizialmente rivolte al pubblico dei medici della psiche - attirarono l’attenzione dei profani. Erano scritte con stile elegante, chiaro. Parlavano non di mostri - come quelli di Krafft-Ebing e Lombroso - ma di gente perbene che tutti avrebbero potuto incontrare nei salotti. Le leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere. Le reazioni degli uni e degli altri costrinsero Freud a interrogarsi di continuo sui suoi metodi e a difendere e motivare le sue scelte, tanto che nei testi inserì una quantità di riflessioni "metaletterarie". Benché insistesse a sminuire le sue capacità artistiche e a prendere le distanze dalla letteratura, questa si affaccia spesso nella teoria psicanalitica - offrendole chiavi interpretative, archetipi, immagini, personaggi - e Freud non era ignaro delle sue doti.
Lui stesso si assimilava al romanziere: nell’Introduzione alla storia di Dora del 1905, esprimeva il timore che sarebbe stata vista dai lettori "non come un contributo alla psicopatologia della nevrosi ma come un roman à clef destinato al loro divertimento". Proprio come un romanziere riassumeva, censurava, montava e manipolava la sua materia. Era consapevole che - non potendo riferire il contenuto delle sedute così come si erano effettivamente svolte nel suo studio nel corso di settimane, mesi, a volte anni - la narrazione del caso diventava un’interpretazione e una costruzione: un’opera.
Ciò che costituiva una debolezza scientifica è anche la ragione del suo fascino. La lettura della storia dell’Uomo dei Lupi, il giovane russo che a quattro anni sognò sette lupi bianchi che lo fissavano accoccolati su un albero, restituisce ancora il piacere di quella che fu una delle più avvincenti avventure intellettuali del Novecento. I pazienti fobici, ossessivi, nevrotici di Freud, e il medico che ne raccoglie le angosce, le narra, le spiega e narrandole le guarisce, diventano i protagonisti di un’indagine sull’anima, l’infanzia, la sessualità, la vita - ciò che costituisce anche la materia della letteratura. Freud si paragonava a chi tenta di risolvere un puzzle, a un archeologo che riporta alla luce la città di Pompei, disseppellendo quanto la lava ha nascosto. In realtà usa una strategia narrativa simile a quella del coetaneo Conan Doyle: si tratta di trovare un colpevole che ha agito nell’ombra.
Lo psicoanalista svolge la funzione dell’investigatore. Il lettore viene preso nel meccanismo. Vuole sapere cosa è successo e perché. E Freud interroga, accumula indizi, esplora mondi sotterranei e inaccessibili (l’inconscio, il sogno), guida se stesso, il paziente e il lettore attraverso un labirinto di segni e alfabeti di lingue ignote (le strutture della psiche e il suo funzionamento) e infine consegna a sé e a noi la sua spiegazione. La forza catartica di queste storie resta immutata anche dopo che la teoria di Freud è diventata nozione comune, dopo cent’anni di discussioni e aggiustamenti, dopo che i costumi sessuali e la società sono profondamente mutati.
Quando Freud pubblicò i suoi racconti, doveva tranquillizzare il lettore, attenuare, smussare: il pubblico restava traumatizzato dalle rivelazioni sulla sessualità infantile, l’ambivalenza delle pulsioni, la libidine etc. Oggi la "verità" di Freud suona come la spiegazione di un giallo, che ci interessa meno dei personaggi, del loro desiderio di conoscenza e del loro dolore. E la commedia umana che Freud mette in scena fra il 1895 e il 1920 - negli anni in cui, come osserva Lavagetto, si attua la rivoluzione estetica che scardina la rappresentazione classica basata sulla verosimiglianza e sulla causalità, e in cui nasce la nuova letteratura - ancora turba, appassiona e coinvolge.
Freud narratore Quando l’isteria diventa romanzo
Così il padre della psicoanalisi trasforma i pazienti in personaggi
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 26.11.2011)
N el 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un’acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo - che la gente chiama pessimismo - il Suo essere dominato dalle verità dell’inconscio, dalla natura istintuale dell’uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l’aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un’insolita e inquietante familiarità». Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall’arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell’amico Nathan Weiss fino al suicidio. Ma dopo aver trovato la strada dell’analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere?
A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell’«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni. E non è narrativa quella che scruta un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L’uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa».
Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell’impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent’anni.
È perciò da festeggiare l’ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Sigmund Freud, Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, editore Einaudi, pp. LXVI-812, € 85), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia.
In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell’analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell’interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi.
La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l’autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto».
Per esempio Dora, nel «Frammento di un’analisi d’isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all’«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità.
Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l’autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell’autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l’espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover’uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L’ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo.
Un’altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell’età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com’era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa.
Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m’ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all’inizio dell’analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell’opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un’informazione sbagliata».
Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell’uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni. Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale.
L’analisi
Quell’isola di follia in agguato e dentro ognuno di noi
Ci si può scordare di un figlio? La madre di Elena difende suo marito nonostante la tragedia. Ed è una lezione straordinaria
La gara frenetica. Dobbiamo essere forti, muoverci in fretta per non essere esclusi
di Luigi Cancrini (l’Unità, 23.05.2011)
Psicopatologia della vita quotidiana, una delle opere più famose di Sigmund Freud fu pubblicata nel 1901. Parlando di lapsus e di amnesie, di sogni e di atti mancati, il padre della psicoanalisi e della moderna psicoterapia metteva in evidenza il modo in cui l’inconscio e le sue follie irrompono normalmente nella vita della persona normale. Condizionandoci e riportandoci di continuo all’imperfezione del nostro funzionamento mentale, al dubbio di cui non dovremmo mai liberarci sulla nostra capacità di essere davvero padroni, in ogni momento, del nostro pensiero e delle nostre azioni.
La consapevolezza di questa imperfezione dovrebbe essere (e spesso è) un segno importante del nostro livello di maturità personale. Lo dimostra, meglio di qualsiasi altro esempio, il modo appassionato, fermo, pieno di dolore e di pietà in cui la madre della bambina morta tragicamente a Teramo difende oggi il suo compagno. Parlandone come di un padre straordinario. Riuscendo a restargli vicina anche dall’interno di uno strazio come quello da cui è palesemente travolta. Usando la dolcezza della comprensione invece della lama fredda del giudizio nel momento in cui quelli che vengono colpiti così duramente sono i suoi affetti più cari. La sua stessa vita.
Vale la pena di riflettere davvero molto seriamente su questa straordinaria lezione di stile. “Perdona il peccato, non il peccatore” è sicuramente il più bello e il più importante degli insegnamenti di Gesù nel momento in cui il Vangelo propone di sostituire il perdono alla vendetta “giusta” del Dio insegnato dal Vecchio Testamento. Accettare e praticare questo insegnamento chiede, tuttavia, una capacità appunto straordinaria di vedere
il fatto per cui l’uomo che sbaglia è sempre e solo un uomo che fa del male a se stesso oltre che all’altro e che non trae mai nessun vantaggio sostanziale dal suo errore. Un essere umano come noi da aiutare con la vicinanza. Da non distanziare con la durezza del giudizio di quelli che hanno bisogno di sottolineare gli errori degli altri solo per dimostrare, a se stessi prima che agli altri, di essere migliori di loro. Viviamo un tempo assai difficile proprio da questo punto di vista.
Dai giochi della Playstation alla vita reale, dal mondo dello sport a quello del lavoro, quella in cui viviamo immersi è una competizione senza sosta che non concede nessun perdono. Dove in ogni momento c’è qualcuno che sbaglia e viene eliminato e dove tutto si muove in fretta e sempre più in fretta nella grande corsa ad ostacoli in cui si è trasformata la nostra vita di tutti i giorni. Un mondo in cui lo spazio per chi è più debole si riduce ogni giorno di più ed in cui la paura di perdere rende sempre più feroce la gara in cui si è ingaggiati anche senza volerlo. È proprio di questo, mi pare, che parla a noi tutti la madre della bambina che non c’è più. Duramente rappresentandosi l’assurdità della condizione in cui siamo costretti e abbiamo accettato di vivere.
Correndo da un impegno all’altro senza riuscire più, spesso, a sistemarli all’interno di una gerarchia dotata di senso e senza più provare a volte il tempo necessario per noi e per le cose più importanti. Per la salute e per l’amore di ciò che vi è di più caro. Fino al momento in cui qualcosa dentro si rompe e non funzioniamo più come vorremmo e dovremmo. Travolti dalle isole di follia che sono sempre in agguato. Dentro tutti noi e dentro ognuno di noi.
Vuoto e pietà Il coraggio di una donna
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 22.05.2011)
Distrazione significa, letteralmente, essere trascinati via da ciò che in quel momento dovrebbe occuparti la mente più di ogni altra cosa. Chissà da che cosa è stata trascinata via la mente del papà della piccola Elena, la mattina di mercoledì, alle 8.30, quando ha chiuso la portiera della sua auto per andare a lavorare come tutti i giorni. Producendo una voragine, un buio, un vuoto, proprio là dove invece dovevano esserci presenza, protezione e cura. Avrebbe dovuto portarla all’asilo e probabilmente credeva di averlo già fatto: «credeva» è eccessivo. Diciamo «aveva l’idea» , neanche, «aveva una specie di idea» , «un’immagine mentale» , ma neanche. Non c’è niente, apparentemente, che possa spiegare un salto cognitivo come quello: un padre chiude la portiera dell’auto per andare a lavorare, dimenticando che sul sedile posteriore c’è ancora la sua bambina di due anni, addormentata. Passano le ore e la figura della bambina addormentata non emerge, non viene a galla quella tragica «distrazione» .
In letteratura, la distrazione produce, di solito, effetti comici, come nella pièce secentesca del francese Jean-François Regnard (Il distratto, appunto), il cui protagonista accetta la mano della donna che ama, dimenticandosi di essere già sposato. Oppure in una novella di Pirandello (La distrazione, appunto) dove il nocchiero di un carro funebre si scorda di trasportare una bara e, estenuato dalla sua «vitaccia porca» , lascia scorazzare liberamente i cavalli per la città. Distrazione, vuoto, assenza, dimenticanza, cancellazione, blackout, amnesia.
Il caso di Teramo, Freud lo chiamerebbe un «lapsus memoriae» . Ma va messo tutto tra virgolette, perché ogni tentativo di definizione appare drammaticamente inadeguato alle conseguenze che il gesto (mancato) del papà di Elena ha prodotto. A che serve stare a chiedersi perché e per come? È successo a Teramo, come è successo in un passato recente a Catania, a Lecco, in Francia, in Cina. E spesso in un aeroporto, in un centro commerciale o in un’area di servizio (due anni fa a San Zenone Lambro), come nel film di Soldini Pane e tulipani, dove a essere dimenticata (dalla famiglia: marito e due figli) è una madre.
Una sociologia facile potrebbe trarne la conseguenza che sono i non-luoghi di Marc Augé a favorire l’alienazione, dunque quel clamoroso blackout. Nelle fiabe, i figli vengono abbandonati dai genitori per fame o per cattiveria, mai per distrazione: da Hänsel e Gretel a Pollicino, a Biancaneve. Ma si sa che la realtà è più crudele delle favole, dove a tutto c’è rimedio.
In un famoso verso, Fabrizio De André metteva in musica un dialogo allucinato in cui a una madre che piangeva: «Lo sa che io ho perduto due figli?» , un interlocutore cinico rispondeva: «Signora, lei è una donna piuttosto distratta» . La canzone si intitolava «Amico fragile» . L’amico più fragile è adesso il padre di Elena, certamente travolto dal senso di colpa. A qualcuno toccherà consolarlo, se possibile: «Non è colpa sua» , ha trovato la forza di dire sua moglie. Forse lei riuscirà ad accompagnarlo nel dolore procurato da un mistero a cui la neuropsichiatria troverà spiegazioni superficiali. Più che a Freud e agli scienziati, ora è tempo di ricorrere a Michelangelo e alla sua Pietà.