De Monticelli affogata nel pensiero unico
Nel suo nuovo saggio la filosofa si rivolge ai cristiani e a Dio stesso. Critica l’ideologia, eppure finisce per farsi travolgere dalla «mentalità comune» e dalla logica dello scontro
di Adriano Fabris (Avvenire, 17.03.2007)
Questo libro si presenta in forma di lettera, e più precisamente come una «lettera ai cristiani». Non è certo una novità scrivere una lettera a chi crede. Lo aveva già fatto Simone Weil, molto citata in queste pagine, con la sua Lettre à un religieux. Qui, tuttavia, il "tu" del mittente è rivolto non solo agli «amici cristiani», ma nel congedo conclusivo addirittura a Dio, come accade nelle Confessioni di Agostino e nel Proslogion di Anselmo.
Il libro, in uscita martedì, dà prova di un’indubbia onestà intellettuale. In esso si parla di «fede e ragione» (II capitolo), di «fede e verità scientifica» (III capitolo) e del «disagio intellettuale» provocato dalle concezioni «ideologiche» di un tale rapporto.
Il principale filo conduttore della riflessione è dato, infatti, dalla nozione di "ideologia": quella «malattia che - come afferma l’autrice - sta divorando la nostra lingua» e trasformando le nostre parole in qualcosa che viene «schierato, catalogato e di conseguenza aggredito o applaudito».
Non si può non essere d’accordo. E tuttavia, onestà per onestà, una tale posizione lascia spazio al desiderio di capire per qual motivo De Monticelli accetta a sua volta di farsi coinvolgere in un gioco che finisce per risultare anch’esso strumentalizzabile ideologicamente.
Perché, infatti, l’autrice si lascia talvolta andare a polemiche che accettano la logica dello scontro (si veda il I capitolo, il «Prologo in terra» sul caso Welby), invece che tentare in primo luogo di comprendere? Perché rimprovera agli altri gli stessi errori argomentativi in cui finisce per ricadere, e che dipendono da un’acritica assunzione di termini e concetti nell’accezione dominante della mentalità comune?
Con questo libro infatti, e con la retorica che in esso è inevitabile, Roberta De Monticelli si dispone a entrare nel circuito mediatico, attraversato oggi fin troppo da posizioni e contrapposizioni. Diverso era l’approccio di Simone Weil, che appunto la sua lettera non l’ha pubblicata.
Ecco in fondo il motivo di tutto il contendere, che interessa anche questo libro: il costituirsi della mentalità comune. Si tratta di decidere se ciò che nella mentalità comune è ritenuto condiviso lo è davvero, e qual è la sua legittimità. Un compito culturale, come si vede, non già l’esercizio di un potere. La mentalità comune crede, a torto o a ragione, che l’approccio scientifico e le tecnologie ad esso collegate possano in prospettiva risolvere tutti i nostri problemi. Ora: qual è l’immagine dell’uomo che ne deriva? Che cosa accade della motivazione, del senso, dei valori, anche religiosi, ai quali la stessa De Monticelli si richiama?
Su tutto ciò è legittimo manifestare le proprie opinioni, come hanno fatto anche autorevoli esponenti della Chiesa cattolica. E per ovviare all’unilateralità di certe posizioni hanno proposto, come compito urgente, un «allargamento degli spazi della razionalità»: cercando di capire i motivi dell’imporsi di una certa idea di ragione e di una concezione della fede ritenuta in conflitto con essa.
Questo è infatti un punto che oggi, forse, è poco compreso: il fatto che il richiamo al cristianesimo è in grado di mettere sotto giudizio un tale pensiero unilaterale. E lo può fare perché lo stesso cristianesimo è caratterizzato da una pluralità di esperienze dello spirito che non sono in conflitto fra loro, ma che in molti casi si completano vicendevolmente. Ciò tuttavia non comporta una babele di prospettive, né l’indifferenza delle diverse posizioni, in quanto c’è pur sempre il riferimento a un’identità comune. Né potrebbe essere altrimenti: anche perché non si può dialogare, come dice anche l’autrice, con chi non ha principi di fondo.
È chiaro nel libro che Roberta De Monticelli predilige uno dei filoni della tradizione cristiana: quello che, attraverso Agostino, recupera la grande tradizione platonica e neoplatonica, e valorizza soprattutto l’esperienza mistica. Su questa sua scelta sarebbe bello dialogare ancora con lei. Non sono convinto, infatti, che il credere si risolva alla fine in un sentire, come troviamo scritto. E bisognerebbe fosse meglio precisato, anche, quel concetto di "verità" che l’autrice usa più volte senza mai definirlo.
Roberta De Monticelli
Sullo spirito
e l’ideologia
Baldini Castoldi Dalai
Pagine 160. Euro 12,50
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Nazista, naturalmente
Non c’è quasi nulla di «elevato» nel pensiero di Martin Heidegger. E l’antisemitismo metafisico è un’idiozia
La bizzarra, infinita fortuna del Pastore dell’Essere tra i filosofi italiani è basata su una malintesa idea di che cos’è la modernità
di Roberta De Monticelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.03.2016)
Prosegue, con il secondo volume, la traduzione italiana dei Quaderni neri di Heidegger, nell’attenta traduzione di Alessandra Iadicicco (1938/1939). Dell’antisemitismo “metafisico” di Heidegger si parla dall’uscita del libro di Donatella Di Cesare Heidegger e gli Ebrei (Bollati Boringhieri 2014, edizione riveduta 2016). Tra sconcerti e sdrammatizzazioni, una cosa colpisce: che quasi non ci siano eccezioni all’imperturbata ammirazione che si continua a tributare a questo sofista, alla sua idea della “macchinazione” universale, che ha colpa di tutto, e ha nome Modernità. E più genericamente questa potenza oscura è descritta più siamo tranquilli noi - amici dell’Essere che contemplano l’Essenza del Nichilismo, il Destino dell’Occidente, la Tecnica, il Capitalismo, la Finanza - tutti i volti della Metafisica insomma, e qualcuno ce ne sfugge: il Neoliberismo, forse.
In questa ammirazione c’è tutta la storia dell’irresponsabilità intellettuale e morale di una vastissima parte del pensiero europeo e italiano, dal dopoguerra a oggi. La riflessione che vi propongo si basa sui volumi dei Quaderni neri che usciranno in versione italiana: sono testi che risalgono agli anni dell’impegno nazista di Heidegger.
Cos’è l’antisemitismo metafisico? È l’accusa a «quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio “compito” nella storia del mondo». Così «il mio attacco a Husserl è diretto non solo contro di lui - il che lo renderebbe inessenziale - l’attacco è diretto contro l’omissione della questione dell’Essere, cioè contro l’essenza della metafisica come tale, sulla cui base la macchinazione dell’ente riesce a dominare la storia». Così scrive Heidegger nel Quaderno nero intitolato Riflessioni XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a Est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941.
Ora, Heidegger ha ragione: Husserl è proprio uno sradicatore. Prendiamo un suo testo di quasi vent’anni prima, L’idea d’Europa, sull’universalità dei giudizi veri e ben fondati - anche quelli di semplice esperienza - che costituiscono acquisizioni per tutti: «quello che vedo io può vederlo chiunque... da qualsiasi cerchia culturale provenga, amico o nemico, greco o barbaro, figlio del popolo di Dio o Dio dei popoli nemici». Ecco qui all’opera l’ebreo errante che sradica.
Di più: Husserl insiste sullo sradicamento, non solo in relazione all’evidenza universale dei giudizi di fatto, ma anche e soprattutto in relazione alla ricerca di evidenza per i giudizi di valore: «così profondamente radicate nella personalità che già il loro metterle in dubbio minaccia di “sradicare” la personalità stessa, la quale ritiene di non poter rinunciare a loro senza rinunciare a se stessa - cosa che può portare a violente reazioni d’animo». Cioè: sapere aude. Con l’aggiunta di una nuova e sofferta consapevolezza di quanto sia difficile il passaggio alla maggiore età: dalle care certezze della comunità d’appartenenza all’autonomia del pensiero adulto. Husserl insiste, spietato: «E non importa che piaccia o meno a me o ai miei compagni, che ci colpisca tutti “alla radice”: la radice non serve».
Donatella Di Cesare riassumeva così il risultato della sua esplorazione dei Quaderni neri: «Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale». La mia domanda è: ma che cosa ci sarà di “elevato”? Come si può considerare “elevata” l’idiozia etno-metafisica dell’ebraismo sradicatore? Come risulta bene dal passaggio di Husserl, Heidegger imputa a questo “sradicatore” quella che è per Husserl la gloria di Socrate: la vita esaminata, il vaglio critico delle tradizioni e culture d’appartenenza.
Ma non sembra molto più elevata l’idea di incolpare l’Ebreo Metafisico di essere l’agente della modernità, bersaglio di tutto il linguaggio heideggeriano: e modernità - in filosofia - vuol dire l’Illuminismo, il principio kantiano di autonomia morale della persona, l’universalismo morale, il cosmopolitismo politico, la scienza e la democrazia.
Purtroppo è proprio questa l’idea di modernità ereditata da una grande ala della filosofia italiana contemporanea. Che sembra confondere nel “destino dell’Occidente” la ragion pratica e Auschwitz, l’Illuminismo e il nazismo. Sulle tracce di Adorno-Horkheimer, e della loro oscura Dialettica dell’Illuminismo. E che cosa insegna questo pensiero ai nostri figli? A proposito della macchinazione di cui non siamo mai noi ad aver colpa: sarà un caso se il livello di discriminazione concettuale e di discernimento morale, oltre che di intelligenza politica del male che affligge la democrazia, resta, anche fra molti dei filosofi più in vista, pari a quella di un adolescente narciso alle prese col lato oscuro della forza?
A PARTIRE DAL PRESENTE .... UNA CHIAVE PER CAPIRE LA CONFUSIONE IDEOLOGICA E SPIRITUALE (OLTRE CHE LA DERIVA NAZISTOIDE) DELLA "FAMIGLIA" VATICANA. Avendo buttato a mare tutta la tradizione critica e cristiana, i "cattolici" confondono (livello "storico" e livello "logico" e - in piena notte "edipica" - vogliono riportare direttamente l’ intera famiglia umana ... alla preistoria!!! (fls)
Se la famiglia risale alla preistoria
di Fiorenzo Facchini (Avvenire. 17.03.2007)
Nel dibattito in corso sulla famiglia si registrano proposte di legge relative a nuove forme di aggregato o surrogato familiare. C’è chi ha scritto che la famiglia sarebbe una invenzione del cristianesimo. C’è perfino chi ritiene superata la finalità procreativa della coppia prospettando la possibilità di separare procreazione e sessualità mediante le biotecnologie. Sono posizioni tipicamente ideologiche in cui si dimenticano le esigenze squisitamente antropologiche che fondano la famiglia e sono alla base dello sviluppo e del successo della specie umana.
Frugando nelle pieghe del passato si può cercare se e quale possa essere stato il ruolo della famiglia presso i nostri antenati, soprattutto quale famiglia potessero avere. Non mancano documenti su sepolture di madre e bambino, come attesta la più antica sepoltura, datata a 90.000 anni fa e trovata a Qafzè (Israele). Assai interessante la sepoltura (familiare?) di Sungir (Russia, 28.000 anni fa) con un anziano, una donna e due ragazzi. Il tema della sessualità e della coppia emerge con grande evidenza nelle incisioni rupestri della Val Camonica, e si ritrova anche nei petroglifi dell’Asia centrale.
Ma quale poteva essere il modello familiare nelle prime forme umane? Vari argomenti suggeriscono un’organizzazione basata su un nucleo familiare stabile, imperniato sulla coppia.
Lo richiedeva la stessa condizione umana. La prole, generata in uno stato di immaturità, comporta un periodo molto più lungo di crescita, documentato anche dagli studi sulla crescita dei denti in reperti preistorici, rispetto ai primati non umani e fonda duraturi rapporti parentali e di coppia. Il periodo di dipendenza dai genitori assume un significato educativo e consente l’apprendimento per quei comportamenti tipicamente bioculturali, come il bipedismo, il linguaggio e l’uso delle mani nella tecnologia. Viene ammessa una diversificazione di compiti per l’uomo e la donna, il primo impegnato per la caccia, la seconda per la cura della prole, ma anche nella raccolta di cibo nelle vicinanze della base familiare.
Tutto ciò porta a escludere la promiscuità o modelli simili a quelli dei Primati attuali. Isaac sostiene l’ipotesi di una sussistenza duale reciproca richiesta dalla strategie di caccia e raccolta. Lovejoy, che ha studiato il comportamento sociale degli Ominidi, pone l’accento su relazioni stabili tra individui dei due sessi. Secondo questo autore il comportamento riproduttivo legato a in gruppo bifocale, cioè a una coppia monogama, doveva costituire la forma nucleare primitiva di aggregato familiare che sostituì il modello matrifocale degli scimpanzè.
Anche secondo Quiatt e Kelso con l’ominizzazione si ha un passaggio a un’economia duale reciproca a carattere stabile, con legami intrafamiliari non soltanto per l’allevamento della prole, ma anche per possibili ruoli secondari all’interno della famiglia (nonni, zii) in ordine all’acquisizione e trasmissione di aspetti culturali.
L’aggregato familiare consente una intensa prolungata cooperazione parentale, specialmente nell’allevamento della prole. Reali esigenze di carattere biologico ed educativo fondano la famiglia, primo ambito della inculturazione, facendole assumere anche sul piano adattativo un ruolo fondamentale per il successo per la specie umana.
Abiura di una cristiana laica
di Roberta de Monticelli *
“Questo è un addio. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa italiana. Monsignor Betori nega la coscienza e la libertà ultima di essere una persona. Si rende conto?”
Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo.
L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.
Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.
La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.
E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.
Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?
Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.
Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?
E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?
C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.
di Roberta de Monticelli
RISPETTOSA OBIEZIONE ALLA PROFESSORESSA DE MONTICELLI
Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione
di GIUSEPPE BETORI (Avvenire, 03.10.2008)
Sul ’ Foglio’ di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo « addio » « a molti cari amici - in quanto cattolici » , « un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica » .
Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, « addio » , percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ’ ad’ che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.
E in effetti visto che l’argomento del contendere è la ’ fine della vita’, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola ’ autodeterminazione’, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.
E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole « non spetta alla persona decidere » si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.
Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come « la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale » . Insomma, sarei io - e la Chiesa con me - ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per « il principio di autodeterminazione » . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il « principio di autodeterminazione » : non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.
Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il « principio di autodeterminazione » non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive « ama e fa’ ciò che vuoi » , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.
Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto « principio di autodeterminazione » .
Bisogna cercare di essere « il più buoni possibile » nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul ’ fine vita’. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.
La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre - a volte in condizioni estreme - ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano - direi questo consentire - sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero « nichilismo » come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?
Spero che Roberta de Monticelli - e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita - non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non « per condannare il mondo, ma per salvare il mondo » ( Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un ’ arrivederci’
L’amore addomesticato
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 04.10.2008)
"Crescete e moltiplicatevi": l’invito divino a Adamo ed Eva (Genesi 1,28) è forse il passo della Bibbia ebraica di più lungo corso nelle omelie ecclesiastiche, almeno a partire da quando l’ingresso del matrimonio nella sfera dei sacramenti ha segnalato la volontà del clero di addomesticare l’eros. Oggi l’invito di papa Benedetto XVI ne ripropone la versione antica, di richiamo al dovere di produrre figli senza ricorrere a metodi contraccettivi "innaturali". Ritorna il volto severo e obbligante in coscienza del matrimonio cristiano come rimedio alla lussuria, strumento per spegnere il fuoco dei sensi ("meglio sposarsi che bruciare", un avvertimento paolino che forse il clero dovrebbe meditare di più.
Volto antico: chi sfoglia i testi canonici in materia di matrimonio troverà testi di secoli e secoli fa dove la Chiesa si descrive nata dal costato di Cristo come Eva da quello di Adamo. Ma si dovrà arrivare al decreto approvato dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965 per trovare una definizione del matrimonio, dei legami tra marito e moglie e del rapporto coi figli incentrato su di una parola fino ad allora assente: l’amore, non quello spirituale, non quello divino - quello umano.Parole innovative: era l’uscita del linguaggio ufficiale cattolico dalla tradizione medievale dell’alleanza tra un clero celibatario e l’interesse maschile a disporre di una schiava a basso prezzo, per di più portatrice di dote.
Con quel matrimonio l’amore, quello profano, non aveva nessun rapporto. Le novelle del Rinascimento ne sono testimoni, come raccontò in un vecchio bel libro Lucien Febvre, un grande storico francese non sospetto di anticlericalismo. Del dovere imposto da quella cultura alla donna - dovere di essere sempre e comunque soggetta al marito e obbligata a concepire e partorire, naturalmente nel dolore - approfittarono poteri d’ogni genere pronti ad allearsi con l’egemonia culturale del clero.
Fare figli, possibilmente maschi, servì di volta in volta a tante cose. In primo luogo a far crescere la consistenza e la speranza di durata della famiglia e a trasmetterne il nome - quello maschile, cosa che oggi solo in Italia si ritiene ancora ovvia; ma poi anche a moltiplicare la popolazione come forza lavoro per i campi e le officine, come nerbo della potenza statale e carne da cannone. "La grande proletaria si è mossa", disse Giovanni Pascoli ai tempi di una guerra di Libia di cui paghiamo ancora i costi. La prole che si muoveva era nata da matrimoni obbligati a far molti figli. Ed è singolare che oggi si cerchi di pagare i costi di quella sciagurata avventura con un simbolo indiscutibile dell’amore umano, la Venere di Cirene graziosamente quanto arbitrariamente sottratta da Berlusconi al patrimonio artistico italiano per regalarla a Gheddafi (realizzando così una delle più cupe profezie di Federico Zeri).
Lungo i secoli, l’amore umano era rimasto assente dai documenti canonici e ancor più da quella scienza teologica chiamata a distinguere il lecito e l’illecito degli accoppiamenti umani una scienza che si insegnava ai preti nei seminari perché potessero poi interrogare con adeguata competenza in confessione mariti e soprattutto mogli sulle loro pratiche sessuali.
Ben diverso dal voyerismo mediato dallo schermo televisivo, la confessione ha consentito per secoli di vedere e ancor più di dirigere gli attori nei gesti e nelle tecniche del momento della riproduzione. Su questo sfondo l’apparizione della parola "amore" in un documento ufficiale cattolico sul matrimonio dette l’impressione di una svolta, di una volontà di riprendere contatto con la vita e coi sentimenti reali di donne e uomini, considerati non più solo come "fedeli", cioè passivamente obbedienti.
Oggi si riapre la questione della contraccezione. Il rapporto coniugale cessa di essere visto come il disegno complessivo di una storia di rapporti umani per tornare a frammentarsi nella meccanica della riproduzione, analizzata nelle sue sequenze da uno sguardo estraniato e sospettoso. Verrà ascoltato questo appello? Il Papa lo ha formulato cercando di conciliarlo col linguaggio del testo conciliare ma tornando sul terreno delle istruzioni tecniche. Lo ha fatto richiamando in vigore quel dispositivo della "Humanae vitae" con cui Paolo VI cercò di mettere il vino nuovo dell’amore umano negli otri antichi di una teologia morale impegnata a sorvegliare gli accoppiamenti, a insinuare tra moglie e marito la presenza del prete.
È un segno dei tempi che nello stesso momento giunga tra le mani dei lettori la riflessione del cardinal Martini su questo punto: nientedimeno che una domanda di perdono per la "Humanae vitae". Ripercorrendo il pontificato di Paolo VI il cardinale milanese ha scritto parole dense e pesanti sulla frattura che si è creata con quella enciclica oggi riattualizzata dal papa. La gioventù ha detto Martini ha cessato di chiedere alla Chiesa della "Humanae vitae" istruzioni per l’uso. È avvenuta una frattura di cui il Papa è stato invitato a tenere conto. Riconosciamo in queste parole l’esistenza di un mondo cattolico che non ha dimenticato quel documento conciliare e che non ha cessato di interrogarsi sulla realtà dei tempi e dei sentimenti.
Nella società descritta dal cardinale milanese il messaggio di Benedetto XVI rischia fortemente di cadere nel vuoto, come lui stesso ha mostrato di rendersi conto. Il documento papale è dunque con ogni evidenza una risposta all’appello del cardinal Martini.
Una risposta eloquente che documenta in quale direzione il pontificato attuale intende muoversi. Del resto, anche prescindendo dalla lettura di quella pagina del cardinal Martini, al pontefice romano non poteva essere sfuggito un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: è proprio l’amore umano la molla che ha contribuito a rendere oceanici i raduni giovanili nei grandi eventi pubblici così amati in Vaticano. Un amore con largo uso di contraccettivi "non naturali": lo testimoniano le descrizioni di quel che si trova sui prati quando la festa finisce.
E allora, perché tornare su quell’antico deposito di istruzioni tecniche? La domanda si aggiunge alle tante a cui oggi cercano di rispondere i vaticanisti, una specializzazione del sapere giornalistico che si coltiva soprattutto in Italia.
Una cosa è certa: la questione della contraccezione sembra toccare ben poco l’opinione pubblica italiana. Il problema della contraccezione e più in generale dell’educazione sessuale è drammatico non da noi ma nei paesi di quegli altri mondi che compongono la geografia della fame e della sete. In Italia il passaggio dalla crescita demografia record del "crescete e moltiplicatevi" alla denatalità anch’essa da record è avvenuto con una rottura improvvisa e radicale, da parte di un popolo che si riteneva complessivamente cattolico ma non prestava molta attenzione agli avvertimenti ecclesiastici.
E tuttavia è facile prevedere che avremo altre occasioni di tornare sull’argomento. Questo appello fa parte di un’offensiva in atto sui diritti e le possibilità di scelta di tutti noi, credenti e non credenti. Diritti relativi ai momenti cruciali dell’esistenza: la nascita, la morte. Il matrimonio non poteva mancare: ma è come la tessera di un puzzle che viene collocata al suo posto. Senza particolare convinzione. Non è la più importante.