La cartografia della paranoia
di Federico Gurgone (il manifesto, 06 Giugno 2013)
La geografia rappresenta l’impalcatura archetipica del sapere. In principio, sotto forma di cosmologia, educava la memoria dell’uomo. Prima dello sviluppo della filosofia, fu il mito a spiegare quel mondo, Ghé, che i greci avrebbero imparato a disegnare, gráphein, per affermare il controllo sulla realtà. Strumento principe della disciplina è, da allora, la cartografia. Una carta, tuttavia, non può essere uno specchio del territorio: è per definizione una raffigurazione approssimata, ridotta e simbolica che implica una fisiologica arbitrarietà da parte dell’autore.
Di qui l’uso strategico oggetto di indagine del libro Carte come armi (Edizioni Nuova Cultura, pp. 174, euro 24) di Edoardo Boria, docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’università di Roma La Sapienza e collaboratore di Limes, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo.
Il saggio, appena pubblicato, mostra quanto le mappe ufficiali siano cartine al tornasole per monitorare gli obiettivi che gli stati moderni hanno individuato come prioritari e presenta una ragionata panoramica dei più significativi esempi della cartografia politica, nata con la Rivoluzione francese e divenuta adulta in Germania con la fine della Grande Guerra.
Diverse le curiosità. Dalla satira geografica di René Magritte in occasione delle elezioni in Belgio del 1937 ai francobolli argentini dedicati alle isole Falkland nel 1982, anno del conflitto con la Gran Bretagna, passando per i fotogrammi cartografici della Disney inseriti nei documentari di propaganda realizzati tra il 1942 e il 1945 da Frank Capra. Pagine inconsuete sono dedicate anche a Hitler e Mussolini, Mao e Stalin. Senza dimenticare il sogno americano di Roosevelt e Kennedy.
La carta tradizionale, della quale lei traccia la storia contemporanea, riesce ancora a raccontare con efficacia la politica del XXI secolo?
I fenomeni sociali tendono oggi a despazializzarsi. Di conseguenza, rappresentarli graficamente secondo le regole della cartografia geometrica è diventato difficile. Una modalità che punta a raffigurare dati materiali, in una società in cui contano sempre di più quelli immateriali, va necessariamente in crisi: per questo fatichiamo a decriptare la realtà.
Nemmeno il potere è ormai precisamente localizzato, perché nasce dalla relazione: dunque, non solo le sedi di potere, ma le reti di potere diventano oggetti fondamentali per comprendere lo spazio politico. A partire dagli anni Novanta, sperimentazioni per adeguare sotto questa prospettiva la cartografia alla contemporaneità sono comparse sulle riviste Limes e Le Monde diplomatique.
La carta sembra invitare a considerare il mondo come depositario, a priori, di un ordine razionale e immutabile. Ci sono stati tentativi di cambiare questo paradigma?
La volontà di rifondare su basi nuove le relazioni nord-sud spinse l’Unicef a promuovere, nel 1980, la diffusione di carte nella proiezione di Arno Peters, che riportando le aree geografiche secondo la loro dimensione reale veniva considerata più rispettosa dei paesi del sud del mondo. Ancora prima, nell’Ottocento, una timida produzione di cartografia anarchica era stata tentata da Élisée Reclus. Si trattava, tuttavia, solo di piccole fiammate.
Oggi la situazione sta invece cambiando molto rapidamente. Internet ha introdotto la partecipazione degli utenti finali nella stessa fase di produzione: un sapere inedito è sfuggito al controllo delle autorità, prefigurando decisive novità dal punto di vista scientifico.
Con il romanticismo ottocentesco, il territorio diventa il corpo di una nazione e il paesaggio il suo carattere. Il polipo, russo, prussiano o austriaco, rappresenta il fortunato topos cartografico di un impero che con i suoi tentacoli stritola le nazionalità assoggettate. L’Italia è uno stivale.
Ogni progetto politico ha una sua specifica concezione del territorio. Una delle espressioni più inflazionate nella pubblicistica post-risorgimentale era «Italia irredenta», per indicare i territori sotto il dominio asburgico, Trentino, Trieste, Istria e Dalmazia, dei quali si reclamava l’annessione. Soprattutto dopo la caduta del governo Crispi, nel 1896, in Italia si assistette al boom, anche nelle pubblicazioni scolastiche, delle carte etnografiche. Bisognava far conoscere quei territori agli italiani: per spingerli a rischiare la vita in guerra, al servizio della patria, occorreva che l’obiettivo fosse da loro condiviso. La carta, di conseguenza, ha finito per rappresentare uno strumento politico naturale nel caso dell’irredentismo, il cui contagio avrebbe colpito ovunque in Europa, con particolare virulenza nei paesi balcanici e orientali.
La cartografia scientifica nasce, quindi, insieme al concetto di nazione?
Nasce per soddisfare i bisogni dello stato: fare guerre, riscuotere imposte, controllare lo spazio. Nel momento in cui lo stato diventa nazionale, la cartografia si trasforma nello strumento più idoneo a rappresentare il territorio. Ne è un effetto l’enfasi nuova assegnata al confine, segno ben marcato su tutti gli atlanti.
Il confine mostra il contenitore spaziale della nazione e ne definisce l’ambito di sovranità, compiendo un’operazione funzionale alla sua stessa esistenza. Una nazione per esistere ha bisogno della sovranità su un territorio, altrimenti è costretta a rivendicarlo.
Nel libro, discorsi epocali di Roosevelt e Kennedy sono evidenziati per sottolineare due tappe progressive nell’evoluzione della comunicazione politica, contestualmente alla diffusione della radio e della televisione.
Il 20 febbraio 1942, a due mesi dall’ingresso nella guerra, durante il tradizionale discorso radiofonico alla nazione, Franklin Delano Roosevelt chiese ai concittadini di comprare una carta geografica del mondo, in modo tale che fossero attrezzati per seguirlo nell’appuntamento successivo.
In tre giorni, le vendite di carte geografiche schizzarono alle stelle. Il 23 febbraio, l’atteso discorso iniziò con la richiesta agli ascoltatori di «distendere davanti a sé una carta dell’intero globo». Seguì, pragmatica, la spiegazione della strategia bellica del presidente.
Kennedy, in una conferenza stampa trasmessa in diretta televisiva, non ebbe invece problemi a mostrare le sue, di carte geografiche. Così, il 23 marzo 1961, gli americani videro con i loro occhi i tre grandi pannelli cartografici allestiti affinché meditassero sull’urgenza di impegnarsi militarmente nel lontano Vietnam.
E l’Unione Sovietica?
Per l’Urss si può parlare di una vera e propria cartografia della paranoia. Diffusa era la tendenza a omettere nelle carte i luoghi delle basi strategiche o a non riferire informazioni, anche banali, da una parte per paura che il nemico esterno potesse attaccare, dall’altra per nascondere al pubblico interno informazioni considerate riservate, rinfocolando il principio d’autorità nel mantenimento del segreto. Per esempio, la medesima località siberiana di Logashkino viene deliberatamente riportata in sei modi diversi su sei atlanti ufficiali, dal 1939 al 1969. Del resto, la disponibilità di cartografia adeguata è sempre stata alla base dei successi militari.
L’esempio più emblematico, nella Seconda Guerra Mondiale, è la dettagliatissima tavola del luogo dello sbarco in Normandia: Omaha Beach, con il profilo altimetrico della costa visto dal mare e la visuale zenitale dal cielo per i paracadutisti e i piloti.
Oggi la centralità della cartografia nelle operazioni militari è palese. Nel momento in cui una battaglia si conduce con un drone, i militari devono conoscere esattamente il territorio nemico per dare indicazioni precise, sapendo che non potranno essere modificate da ulteriori interventi.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Pakistan: convocato ambasciatore Usa
Islamabad ha ’fortemente condannato’ il blitz con drone *
(ANSA) - ISLAMABAD, 8 GIU - Formale protesta del governo del Pakistan nei confronti degli Stati Uniti per l’attacco con un drone lanciato nella notte tra giovedi’ e venerdi’ nella provincia del Nord Waziristan. Islamabad ha ’’fortemente condannato’’ il blitz perche’ rappresenta una ’’violazione della sovranita’ e integrita’ territoriale’’ e ha convocato, presso il ministero degli Esteri pachistano, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Pakistan, Richard Hoagland. Nell’attacco sono morti 7 talebani.
PROSPETTIVE Una mostra alla fondazione Benetton dedicata al rapporto tra cartografia e guerra fa capire molto di più.
È il mondo che imita la mappa
La rappresentazione del territorio è una forma di interpretazione della realtà che in fondo la plasma. I Romani lo sapevano. Infatti «vincevano seduti», prima di combattere
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 20.11.2016)
Tra natura e cultura Tolomeo intuì per primo che non sono le dimensioni di un globo a determinare la sua utilità: meglio un atlante. E Bacone raccoglieva la verità su una cartina come si vendemmia l’uva
Per Marco Terenzio Varrone i Romani «vincevano seduti». Espressione sibillina, la cui spiegazione si deve, duemila anni dopo, all’intelligenza americana più lucida del proprio tempo, quella di Charles Sanders Peirce. In un articolo apparso su «The Monist» nel 1906 Peirce finge un dialogo con «un glorioso Generale».
Il tema è: perché costruire un diagramma, uno schema grafico, non basta soltanto pensare? Peirce risponde che in tal caso i militari non avrebbero bisogno di nessuna mappa, perché il terreno rappresentato dalle carte risulta già perfettamente visibile davanti ai loro occhi. Al che il generale ribatte che le carte geografiche servono per conficcarci gli spilli con cui segnare le previsioni degli spostamenti degli eserciti in guerra, le loro probabili future mosse. Fa allora notare Peirce che ciò corrisponde proprio all’utilità di un diagramma, modello per esperimenti mentali in cui le variazioni di un singolo punto determinano complessi mutamenti (difficilmente prevedibili a priori) nel sistema dei rapporti reciproci delle differenti parti. E aggiunge che tali esperimenti equivalgono a quelli che nelle ricerche fisiche o chimiche si fanno sulle cose concrete, perché in ogni caso si riferiscono alla «forma di una relazione».
Il dialogo prosegue, ma intanto si è compreso la ragione delle vittorie romane da fermo: i Romani prevalgono perché, prima ancora di iniziare a combattere, hanno già sperimentato sulla carta tutte le forme delle possibili relazioni. Va dunque rovesciata l’idea che a scuola ci hanno instillato, per cui una mappa è la semplice copia di quel che esiste. Al contrario, è quel che esiste a essere la copia della mappa, perché ne riproduce la logica interna. E ciò vale non soltanto nel caso del progetto di un architetto, ma anche per ogni evento o decisione che si configura in apparenza come frutto di una scelta razionale.
Prima ancora di Peirce l’aveva compreso, ma senza dirlo, il più grande geografo dell’antichità, l’africano Tolomeo, che un secolo dopo Varrone illustra molto bene, nel suo manuale, il senso del rapporto tra cartografia e immobilità. La Terra è un globo, spiega Tolomeo, ma che ve ne fate di un modello davvero fedele della realtà? E continua, in puro stile cibernetico: più il globo è grande, cioè fedele, più esso è scomodo, perché per trovarvi quello che interessa bisogna di continuo girargli intorno, oppure farlo ruotare su se stesso a forza di braccia. Di qui il consiglio di fare invece delle mappe: così si avrà subito a colpo d’occhio tutto quel che serve, e senza alzarsi dal proprio scranno. È già l’Ariosto delle Satire, quello che all’inizio del Cinquecento lascia volentieri agli altri la fatica di andare in giro per il mondo, perché egli trova molto più comodo volteggiare «sicuro in su le carte» del suo «Ptolomeo», del suo atlante. O, se si vuole, è l’inizio della digitalizzazione, che è nient’altro che il tentativo di sottrarre il funzionamento del mondo alle intemperie del mondo stesso, come ha spiegato John Haugeland.
Solo una guerra impegnativa consente l’affermazione di una grande innovazione. Per quanto riguarda l’uso moderno delle mappe la guerra in questione fu, nella prima metà del Seicento, quella dei Trent’anni, nel corso della quale il conte duca Olivares allestisce a Madrid la sua stanza delle carte geografiche, mentre invece il re Gustavo di Svezia, che ne era privo, non riuscì a trar vantaggio dalle sue imprese, vincendo battaglie però perdendo la guerra stessa. Ma poiché tutta la tradizione moderna deriva da Tolomeo, si comprende come proprio dall’Italia tolemaica prenda le mosse l’esemplare e raccolta mostra, pensata da Massimo Rossi e ospitata a Treviso dalla Fondazione Benetton, sul rapporto tra la cartografia e la nostra Grande guerra.
Come già il titolo avvisa (La geografia serve a fare la guerra?) il primo conflitto mondiale è il campo d’illustrazione di una considerazione più vasta. Che la geografia serva, come tutta la scienza, a fare la guerra è banale: Minerva, dea di ogni sapere, nasce armata dalla testa di Giove. Meno scontata è l’analisi del dispositivo cartografico come agenzia che produce pensiero, come macchina da cui discendono tutte le altre macchine, quelle ideative e quelle materiali. Così le tre rigorose stanze di cui l’esposizione si compone, apposta concepite per l’agio della riflessione piuttosto che per la varietà degli effetti, si prestano ad almeno quattro diversi percorsi mentali, scanditi da una ventina di tappe. O meglio: ognuno della dozzina e mezzo di documenti si presta a una lettura su almeno quattro livelli.
Il primo, più immediato, riguarda la progressiva trasformazione della nostra penisola e della sua posizione da tolemaica striminzita gambetta, che pare stia per dare un colpo di tacco all’opposta costa dell’Illiria, alla molto più geometrica immagine dell’inizio del Novecento.
Il secondo itinerario esplora la varietà dei differenti punti di vista con cui nel corso dei secoli il nostro Paese è stato raffigurato.
Il terzo si concentra sulla specificità dello sguardo militare, relativo a quello che Michel Foucault chiamava «il sapere dell’armata».
L’ultimo e più impegnativo verte sulla natura per così dire squisitamente cognitiva di ogni singola rappresentazione cartografica, investe la sua funzione di «talamo per le nozze della mente con l’universo» come all’inizio del Seicento diceva Francesco Bacone a proposito delle tavole. E alludeva, appunto come Peirce, alla loro capacità di guidare l’intelletto nella costruzione degli assiomi che da solo esso sarebbe incapace di creare.
Bacone è moderno proprio perché pensa che una volta ridotta a mappa - cioè a tavola - la realtà, la verità può essere raccolta su di essa quasi in maniera spontanea, come in autunno si vendemmiano le uve. Naturalmente non è più così, non a caso siamo postmoderni e viviamo al tempo della globalizzazione, che (come dice la parola) costringe a ripensare la Terra non più in funzione di un’unica versione, ma della sua forma sferica, composta a differenza della mappa da innumerevoli facce: il che esclude la possibilità che l’intero meccanismo del mondo possa dipendere da un unico principio.
Volendo, le carte esposte alla fondazione Benetton danno l’impressione di un senso complessivo, quello della quasi evolutiva crescente riduzione della faccia della Terra a un unico gigantesco spazio, a un ambito sempre più sistematicamente regolato da una sempre più rigorosa misura metrica lineare standard. E in effetti è anche così. Ma alla fine, con un autentico colpo di scena, si viene a conoscenza della dislocazione delle colombaie mobili sul fronte del Piave, e delle soluzioni escogitate un secolo fa dallo stato maggiore per invitare le popolazioni dei territori occupati a trasmettere informazioni attraverso i colombi viaggiatori, addestrati a tornare nei luoghi di nascita. Luoghi, vale a dire l’esatto contrario dello spazio: non l’ambito unico dell’equivalenza generale, ma invece la pluralità di parti l’un l’altra irriducibili perché dotate di esclusive qualità, di specifiche e distintive proprietà. E si apprende che ancora oggi i colombi potrebbero riuscire preziosi nel caso di blocco della Rete e delle comunicazioni.
Ecco perché la geografia, e più in generale la cultura, serve a fare la guerra: esse sono la stessa cosa, nel senso che così come in realtà di un conflitto non può mai conoscere con certezza l’esito prima che finisca, allo stesso modo la cultura è nient’altro che sapere che non si può mai dire come andrà a finire. È la coscienza che un’altra mossa è sempre possibile.
POESIA E MAGIA. È stato l’enigma meglio custodito dell’«Orlando furioso»: chi, o che cosa, è il temibile negromante che tiene prigioniero Ruggiero in cima ai Pirenei? E qual è il titolo del libro che ha in mano? Gli indizi convergono e mostrano la vera fisionomia del personaggio e la visione del mondo del poema di Ariosto
Segreto svelato: Atlante è l’atlante
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 04.12.2016)
Siamo in grado di svelare il segreto meglio riposto (ma all’inizio di Pulcinella) di tutto l’Orlando furioso : chi, anzi che cosa sia Atlante, il negromante che nel suo castello in cima ai Pirenei tiene prigioniero Ruggiero e produce incanti, illusioni e giochi di specchi.
Una quarantina d’anni fa David Quint avanzò l’ipotesi che dietro tale figura si celasse quella del Boiardo, dal cui Orlando innamorato l’Ariosto trasse molto. Poeta dunque contro poeta. Italo Calvino arrivò invece a pensare che Atlante fosse l’Ariosto stesso, che cioè egli simboleggiasse per così dire la continua lotta dell’artista, trasfiguratore della realtà, nel cavare il meglio dalla propria vena.
In realtà, come nella celebre novella di Poe sulla lettera rubata, non ci si è fin qui accorti della vera identità di Atlante perché si è cercato troppo lontano, senza avvedersi di quel che era invece subito a tiro: Atlante è l’atlante, la raccolta di carte geografiche legate insieme. «La stanza avara», come Ariosto definisce il castello del mago è insomma nient’altro che una mappa, e la «finzïon d’incanto» che la costruzione esercita è quella cartografica.
L’aspetto e l’azione dell’incantatore sono descritti all’ottava diciassettesima del Canto quarto: egli cavalca l’Ippogrifo, il cavallo alato, tenendo nella destra un libro la cui lettura produce un’«alta meraviglia». Questa consiste nel fatto che per un verso sembra che egli attacchi con l’arma, e l’impressione è talmente vivida che, preparandosi a ricevere il colpo, le vittime chiudono istintivamente gli occhi; in realtà egli è lontano, e alla sensazione visiva non corrisponde nessun contatto fisico, nessun «tocco». È il contenuto del libro a produrre l’effetto stupefacente per cui il mondo «al falso più che al ver si rassomiglia» (II, 54), la meraviglia «alta» nel doppio senso ideale e materiale, cioè di ordine superiore e allo stesso tempo di fatto sopraelevata, perché chi subisce l’assalto non cavalca in cielo ma sta a terra.
Ma di quale libro si tratta? Qual è questo libro che «facea tutta la guerra» (IV, 25)? Si tratta di un testo sul cui titolo, dunque sulla cui natura, stranamente, i commentatori non si sono fin qui molto spesi. Ma la risposta non è difficile, se si pone mente alle mosse di cui la guerra in questione consiste.
La logica dello scontro tra Atlante e il resto del mondo non si fonda soltanto sulla tecnica della falsa eliminazione della distanza, sull’illusione che quel che è lontano sia invece vicino e viceversa, ma anche sulla disparazione tra vista e tatto. Disparazione è termine tecnico che si riferisce alla differenza tra l’immagine percepita dell’occhio destro e quella dall’occhio sinistro, che il cervello ricompone in un’unica visione unitaria. Qui invece disparazione serve a definire lo scarto e la frattura tra quel che si vede e quel che si tocca, il cui incrocio risulta, per i malcapitati assaliti da Atlante, del tutto fuorviante: non soltanto la punta della lancia è lontana e non vicina come pare, ma il contatto che di conseguenza vien dato per imminente non si produce.
Si potrebbe obiettare che comunque anche in tal modo la coincidenza tra l’impressione visiva e quella tattile resta impregiudicata, perché ambedue risultano nel medesimo tempo illusorie, ambedue producono lo stesso concomitante ingannevole effetto. Ma così non è, perché si precisa (in II, 53) che Atlante «quando all’uno accenna, all’altro mena», quando fa finta di colpire uno percuote invece chi gli sta accanto: la vista cioè sembra individuare un bersaglio ma il tatto è dolorosamente costretto a smentirla e a registrarne un altro, diverso e anzi opposto.
Disparazione dunque, e anche la più decisa. Così la domanda diventa: quando nasce la diffrazione, il décalage, la differenza anzi l’opposizione tra il tatto e la vista, quando e dove s’incrina per la prima volta la loro concordanza? Al riguardo non vi sono dubbi: all’inizio del Quattrocento a Firenze, sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito e costruito dal Brunelleschi. La prima struttura architettonica realizzata secondo il modello della prospettiva lineare moderna, vale a dire secondo il codice spaziale.
È sotto tale portico che, con lo spazio, nasce la modernità, perché per la prima volta il soggetto vien chiamato a una decisione inconcepibile sia per l’antichità che per il Medioevo: è costretto a scegliere se credere appunto al tatto - cioè all’intero suo corpo, per il quale le linee che delimitano il pavimento del portico stesso sono rette - oppure, al contrario, concedere fiducia alla sua vista, per la quale le linee in questione appaiono al contrario convergere all’infinito, verso il punto di fuga di fronte a sé, il centro della finestrella dove fino al 1875 i trovatelli fiorentini venivano deposti.
È questa, insomma, la disparazione originaria, la scissione archetipica che fonda l’intera tattica di Atlante, e che implica tra l’altro la fine della coerenza euclidea del mondo, sovvertendone uno dei principali assunti.
Ma da dove deriva, a sua volta, il modello brunelleschiano, qual è l’origine della moderna forma di spazio? La risposta coincide appunto con il titolo del libro che Atlante reca nella destra e che tanta forza conferisce alla sua azione: la Geografia di Tolomeo, appunto un atlante e insieme un manuale d’istruzioni per costruire mappe, che da tempo gli storici dell’arte (Kim Veltman e Samuel Edgerton jr. per primi) hanno individuato come la matrice dell’invenzione della prospettiva fiorentina.
Perciò Atlante è davvero l’atlante, nel senso che quando intorno al 1570 Antonio Lafréri edita a Roma in volume le sue Tavole moderne di geografia raccolte et messe secondo l’ordine di Tolomeo, la prima collezione cartografica sul cui frontespizio appare la figura di Atlante che regge il globo, evidentemente egli sa bene di agire proprio come il negromante che imperversa nell’ Orlando furioso: costringe in un magico, poderoso edificio tutte le forme del mondo, per preservarle dalla vita che, come dicono i tedeschi, fa male alla vita. Proprio come il mago dal cavallo alato aveva imprigionato nel suo castello Ruggiero per preservarlo dalla sicura morte che egli avrebbe incontrato se avesse continuato a duellare in giro per il mondo.
Se finora non ci siamo accorti di quello che, a proposito della figura di Atlante, è sempre stato sotto i nostri occhi è soltanto perché crediamo ancora alla lezione di Max Weber, per la quale l’epoca moderna è l’epoca del «disincanto del mondo», segna la fine della magia come tecnica di salvezza. Ma dall’Ariosto si apprende invece che ogni epoca ha invece il suo incanto, tanto tragico e maggiore quanto la tecnologia avanza: il gran tema della polvere da sparo contro la cavalleria che compare nel canto nono. Allora il problema era la prima forma con la quale l’insieme dei processi che oggi chiamiamo globalizzazione iniziava a manifestarsi.
Di qui il fascino dell’ Orlando, la cui furia corrisponde allo stile parossistico del nuovo funzionamento del mondo, nel bilico di un complesso di storie che riconosce allo spazio che avanza (ad Atlante) la supremazia su ogni antica logica dei luoghi ma che si conclude con la riaffermazione dell’ umanità del destino degli esseri viventi. Per questo il Furioso resta ancora il viatico più utile per inoltrarci sulla Terra che è la nostra, oggi che la globalizzazione assume una seconda forma e spazza via quella spaziale che è stata la prima: perché Ludovico Ariosto ci ha lasciato la prima e forse fin qui unica guida per restare umani in un mondo finalmente diventato un unico globo.