Ecco l’uomo che firmò la Sindone
di Michele Smargiassi (la Repubblica, 20.11.2009)
Nessun Vangelo, neppure gli apocrifi, parla di lui, lo scriba dell’atto di sepoltura di Gesù. I grandi libri della fede preferiscono i personaggi grandiosi agli sbiaditi comprimari rimasti al di qua del bene e del male. Eppure eccolo riemergere da duemila anni di oblio, così stagliato che par di vederlo. Un funzionario dell’Impero romano, un anziano impiegato ebreo della morgue di Gerusalemme, mano tremolante, parsimonioso, sbrigativo ma accurato. In una Deposizione barocca potremmo immaginarlo un po’ in disparte, intento a stilare i documenti richiesti dalla minuziosa burocrazia imperiale per il rilascio del cadavere di un giustiziato. Non sappiamo il suo nome. Ma quello scritto, che per lui era solo l’incombenza quotidiana di un poco gratificante mestiere, ora lo possediamo. Forse per gli anni passati a inseguirlo, forse per la familiarità coi misteri che deve avere una Ufficiale degli Archivi segreti del Vaticano, Barbara Frale non sembra emozionata nel confermarci quello che potrebbe essere uno dei ritrovamenti più sorprendenti dell’era cristiana: «Sì, penso di essere riuscita a leggere il certificato di sepoltura di Gesù il Nazareno». E quel che pare esservi scritto non solo accredita, ma arricchisce il racconto degli evangelisti.
È stato, per la verità, sotto i nostri occhi per secoli, impresso come una fotocopia sul telo più venerato della storia, la Sindone di Torino; ma per estrarlo di lì occorreva frugare il lino fibra per fibra, con sapere archeologico, storico, paleografico. Ciò che la dottoressa Frale assicura di aver decifrato, e come lo ha fatto, ce lo racconta lei stessa nel volume La sindone di Gesù Nazareno (Il Mulino, 375 pagine, 28 euro), sul quale prevedibilmente si scateneranno le controdeduzioni degli specialisti. Ma questo è il meno: se Frale vede giusto, allora si riapre clamorosamente, proprio alla vigilia della nuova ostensione torinese prevista in primavera, non solo la questione della datazione della Sindone, ma quella ben più scottante della sua autenticità come «la reliquia più splendida della Passione» (Giovanni Paolo II) e non più come semplice «icona veneranda» (cardinal Ballestrero).
La presenza di scritture sulla Sindone è nota da oltre trent’anni. Stringhe di caratteri latini greci e ebraici circondano il volto dell’Uomo, impresse in negativo: macchie chiare visibili solo dove si sovrappongono al colore rossastro che disegna l’immagine più controversa del mondo. Se ne accorse per primo nel 1978 il chimico Piero Ugolotti esaminando alcuni negativi fotografici del Telo, e sentendosi incompetente a decifrarle chiamò in aiuto il classicista Aldo Marastoni. Altri studiosi, francesi e italiani, recuperarono poi nuovi frammenti di vocaboli. L’insieme sembrava promettente: iber poteva essere un moncone di Tiberios, nome dell’imperatore regnante al tempo della Passione; l’apparente neazare suggeriva ovviamente un nazarenos, e quell’innece(m) poteva alludere alle circostanze di una morte. Il senso, però, restava un puzzle insolubile. A che genere di testo appartenevano quelle parole, ma prima ancora: come si stamparono sul lino?
Reperti che presentano ricalchi e impressioni delle scritture con cui vennero casualmente a contatto non sono rari in archeologia: tavolette d’argilla, persino strati di fango ci hanno trasmesso testi il cui supporto originario è andato perduto. Il metallo contenuto nell’inchiostro di un foglio venuto a contatto con la Sindone può aver rilasciato sul telo particelle poi "rivelate" dalla misteriosa reazione chimica che ha impresso l’immagine dei misteri. Ma di che foglio si trattava? Forse l’etichetta, la cedola, di uno dei reliquiari che custodirono la Sindone quando era già oggetto di culto? Ad ogni modo, quando nel 1988 la famosa e clamorosa prova del radiocarbonio stabilì per il Lenzuolo una data di nascita tardomedievale, l’interesse per la questione delle scritte crollò a zero: a chi poteva ormai interessare la presenza di complicati graffiti su una falsa reliquia?
Barbara Frale però è tra quanti non hanno mai creduto a quella datazione scientifica. Per lei, che ne ha tracciato la storia nel suo recente I Templari e la Sindone, il telo di Torino è il bizantino Mandylion di Edessa, trafugato durante il sacco di Costantinopoli del 1204, poi clandestinamente adorato dai monaci guerrieri. Dunque le scritte possono risalire ai primi secoli dell’era cristiana.
Devono, anche? Non mancherà chi accusi la ricercatrice di aver forzato le sue ipotesi per arrivare alla spiegazione più clamorosa. Lei lo mette in conto, e replica: «Non ho voluto dimostrare verità di fede. Io sono cattolica, ma tutti i miei maestri sono stati atei o agnostici, l’unico credente era ebreo. Il mio libro non si esprime sull’origine miracolosa o meno dell’immagine della Sindone. Fin dall ’inizio mi sono imposta, anche per disinnescare l’emozione che avrebbe potuto travolgermi, di lavorare come avrei fatto su qualsiasi reperto archeologico».
Frale procede per deduzione, confronto ed esclusione, come un detective. Impossibile, è la sua prima conclusione, che quelle scritte provengano da un testo scritto da cristiani; infatti, osserva, se oggi è abituale chiamare Gesù "il Nazareno", quell’appellativo diventò pressoché eretico per i fedeli dei primi secoli: troppo legato alla sola dimensione umana, terrena del Salvatore. «Sarebbe stata un ’offesa suprema scrivere Nazareno in un testo destinato al culto. Avremmo dovuto trovare invece Cristo: ma di quella parola sulla Sindone non c’è traccia». Quelle parole straordinariamente salvate dal ricalco, ne deduce, provengono da un documento pre-cristiano. E del tutto "laico". Parlano di Gesù dal punto di vista di chi lo considera solo un uomo. Un documento "gesuano", dunque, non "cristologico".
Ma a che scopo ne parlano? Il confronto con le sepolture coeve, lo studio delle procedure giudiziarie romane e dei regolamenti necrofori giudaici suggerisce alla fine questa ipotesi: un povero corpo crocifisso dopo una condanna poteva essere riconsegnato ai parenti solo dopo un anno di "purificazione" nella fossa comune; per identificarlo, evitando che si perdesse nel caos del sepolcreto di Gerusalemme, i necrofori utilizzavano cartigli incollati con colla di farina all ’esterno del sudario già avvolto attorno al cadavere, a incorniciarne il volto nascosto dalla tela. Corriamo avanti, alla ricostruzione finale proposta da Frale: un funzionario al servizio dell ’amministrazione romana, attingendo ai documenti del processo e nel rispetto delle leggi sulle inumazioni, redige con la mano un po’ tremolante (per l’età?) e con calligrafia un po’ demodé ma ancora in uso nel primo secolo una sorta di "bolla di accompagnamento necroforo", come i cartellini appesi ancor oggi all’alluce dei cadaveri negli obitori; un informale certificato di sepoltura che, visto lo scopo pratico, può essere steso su sparsi scampoli di papiro e vergato in fretta, con errori e incertezze ortografiche.
Frale riprende là dove la decifrazione si era arenata, lancia nuove ipotesi, corregge quelle vecchie, completa le lacune, ricorre ai vocabolari greco, latino ed ebraico e alla fine propone la sua lettura. Eccola: quel testo riferisce di un certo (I)esou(s) Nnazarennos che nell’anno 16 dell’impero di (T)iber(iou), una volta "deposto sul far della sera", (o)psé kia(tho), dopo essere stato condannato "a morte", in nece(m), da un giudice romano "perché trovato", mw ms’, secondo la denuncia di un’autorità che parlava ebraico (il Sinedrio?), colpevole di qualcosa, viene avviato a sepoltura con l’obbligo di essere consegnato ai parenti solo dopo un anno esatto, ossia nel mese di ada(r); c’è infine l’"io sottoscritto", o meglio "io eseguo", pez(o), del nostro umile burocrate.
Tutto torna, il puzzle va miracolosamente a posto. L’anno 16 di Tiberio è l’anno 30 dopo Cristo, il periodo è la primavera, l’ora è la nona, quella del Golgota, le parole superstiti di quella che potrebbe essere una copia del verbale del processo (un testo greco lungo ma illeggibile appare sotto il mento) coincidono con le espressioni che i Vangeli attribuiscono al Sinedrio di Caifa, quell’in necem sarebbe dunque una citazione delle parole della sentenza del romano Pilato; la mescolanza di citazioni in tre lingue non farebbe problema visto l’ambiente poliglotta in cui si muovono gli attori della Passione. Questo complicato puzzle di parole, conclude Frale, è «l’anello mancante» tra dati della storia e racconto del Vangelo. Tutto torna perfettamente.
Magari un po’ troppo, dottoressa? «Io ho incontrato un documento archeologico che parla della condanna e della sepoltura di un uomo di nome Yeshua Nazarani: a lui ho intitolato il mio lavoro. Se quell’uomo fosse anche il Cristo, il Figlio di Dio, non è compito mio stabilirlo»
FOTO: Le scritte ricostruite sul libro della Frale
Sindone firmata: è già polemica
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 21 Novembre 2009)
«In base ai confronti svolti, oggi sono convinta che le tracce di scrittura identificate sul lino della Sindone possano appartenere ad un testo derivato direttamente o indirettamente dai documenti originati fatti produrre per la sepoltura di Yeshua ben Yosef Nazarani, più noto come Gesù di Nazareth detto il Cristo». È questo il sasso lanciato nello stagno della scienza della Sindone, il celebre (e discusso) sudario di Cristo conservato a Torino, da una storica di recente balzata agli onori delle cronache per i suoi saggi medievalistici. Già il volume I Templari e la sindone di Cristo (Il Mulino), uscito a inizio anno, di Barbara Frale, funzionaria dell’Archivio Segreto Vaticano, aveva diviso gli esperti.
Ora, con La Sindone di Gesù nazareno (Il Mulino, pp. 254, euro 28), la Frale - nata a Viterbo nel 1970 - lancia un’altra ipotesi suggestiva: che sul lino custodito all’ombra della Mole si annidino alcune scritte multilingue vergate da un funzionario addetto alla sepoltura dei condannati a morte nella Gerusalemme del I secolo. Qui Barbara Frale interpreta un’iscrizione compatibile con la tradizione che vede nel sudario il telo che avvolse il corpo di Gesù di Nazareth, che nella primavera prossima verrà di nuovo mostrato in pubblico: a Torino si recherà pellegrino anche Benedetto XVI.
La Frale ha interpretato la seguente scritta: «Gesù Nazareno deposto sul far della sera, a morte, perché trovato» colpevole. Il tutto scritto con termini di tre idiomi: latino, greco ed ebraico. E al profluvio di critiche che si preannunciano, la giovane addetta dell’Archivio vaticano risponde così nelle conclusioni del suo volume, anticipato ieri da Repubblica: «L’ipotesi che le scritte siano state messe da un falsario per avvalorare l’autenticità della Sindone è da scartare: infatti questo truffatore avrebbe dovuto inventare un sistema complicato per lasciare sul telo certe tracce che sarebbero divenute visibili ai posteri solo tanti secoli dopo, con l’invenzione della fotografia; inoltre qualunque falsario avrebbe usato le diciture del titulus crucis, quelle descritte dall’evangelista: non certo quelle strane parole che con i Vangeli non c’entrano proprio nulla».
E la discussione si infiamma. «Sono molto stupito». Monsignor Giuseppe Ghiberti, vicepresidente del Comitato per l’ostensione della Sindone, non nasconde la sua perplessità, sebbene metta le mani avanti: «Prima di tutto bisogna leggere l’opera. Sono stato di fronte alla Sindone ore e ore e mai ho avuto sentore di nulla del genere. E nemmeno l’hanno avuto professori competenti in elaborazione di immagini». Circa il carattere multilinguistico della ricostruzione, Ghiberti afferma: «L’unico precedente che può dare peso a questa ipotesi è il titolo della croce di Gesù, che era in più lingue». Ma alla domanda se ritenga realistica la tesi della studiosa laziale, Ghiberti risponde con un eloquente sospiro. E riprende: «Quando non si conoscono bene gli argomenti altrui, si preferisce sospendere il giudizio. Ma tutto questo non mi convince».
«Non voglio essere ironico né polemico», esordisce Luciano Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari. «Ma secondo me Barbara Frale si è avventurata in qualcosa di molto insidioso». Per lo studioso barese «la ricchezza di particolari nascosti nelle fibre di lino fa pensare a una vera falsificazione». Canfora qualifica come errata l’ipotesi della Frale in base a due elementi: la ricchezza di dettagli e il poliglottismo della scritta decifrata. «Si presenta tutto ciò come una gigantesca novità, ma così non è. La prima, forte perplessità è la presenza di tre lingue nella scritta ritrovata. La Frale spiega tale riscontro con il pluriculturalismo della Gerusalemme del tempo. Ma un conto è l’ambiente culturale di una città - annota Canfora -, altra cosa un documento che racchiude tre lingue. È come se oggi un taxista di origine indiana a Londra, per scrivere una ricevuta, utilizzasse tre idiomi diversi».
Canfora sottolinea un altro particolare per spiegare la sua disapprovazione: «Tutto si basa sull’idea che al collo del condannato vi sia il verbale del giudizio di Caifa su Gesù». L’affermazione che si trattasse di uno scritto fatto da un becchino trova l’antichista pugliese nettamente scettico: «Non è ovvio che esistesse una figura del genere. Non abbiamo ancora una trattazione sistematica sulla figura di funzionari addetti alla sepoltura dei condannati a morte nella Giudea del I secolo: vi sono testimonianze contraddittorie al riguardo».
Canfora stabilisce un parallelo tra il papiro di Artemidoro e la Sindone, o meglio tra la contestata autenticità della seconda e la dimostrata falsità del primo: «I numerosi dettagli, che vogliono avvalorare l’autenticità, indicano invece che questi elementi scritturistici sono aggiunte tardive. Com’è stato constatato dalla polizia scientifica per il papiro di Artemidoro». Canfora riconosce che Barbara Frale non propone una tesi: «Lei dice: io ho trovato questo. Ma ha riscontrato cose tutt’altro che univoche!».
A Canfora replica Franco Cardini, medievalista e docente all’università di Firenze: «Primo: dobbiamo difendere Barbara Frale dai sindonologi che si scagliano con durezza contro quanti sostengono ipotesi troppo forti. La sua non è ancora una tesi ma un’ipotesi, ragionevole e affascinante, basata su indizi. Si tratta di una pista interessante. Ritengo che gli indizi che lei individua siano troppo coerenti per poterli considerare frutto del caso. Si è limitata a riempire dei vuoti di documentazione come solitamente si fa nella ricerca storica. La sua è un’interpretazione con forti basi storiche, niente a che fare con la fantastoria di Dan Brown». Insomma, per lo storico fiorentino siamo davanti a «un lavoro serio, da prendere in considerazione, in cui ci sono osservazioni geniali».
È poi singolare che Cardini giudichi in maniera opposta il particolare del plurilinguismo rinvenuto dalla Frale sul lino di Torino, cosa che Canfora bolla come «artefatto»: «Se si trattasse di un documento di ambiente caratterizzato da un forte monolinguismo, capirei l’obiezione. Ma la Gerusalemme del I secolo era un luogo di straordinario incrocio linguistico: il latino era la lingua ufficiale ma il greco rappresentava il "basic english" del tempo. Poi c’erano il caldeo, l’ebraico, e altre lingue che poggiavano su una grande tradizione grafica». Cardini guarda all’oggi per suffragare la plausibilità dell’interpretazione plurilinguistica della Frale: «I ragazzini arabi dei suk della Gerusalemme attuale, quando scrivono, passano tranquillamente dalla grafia araba a quella latina dell’inglese. Il plurilinguismo della scritta della Sindone non mi sorprende affatto».
Invece Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di Sindonologia di Torino, non concorda con la Frale: «Premetto che devo leggere il libro per un giudizio completo. Comunque, già nell’opera precedente, questa studiosa faceva un accenno a tali ipotesi. Il nodo è che queste scritte sono tutt’altro che confermate. Non è mai stato fatto un rilievo fotografico che dia risposte definitive se sulla Sindone ci siano delle scritte. Del resto in molti vi hanno rinvenuto tantissime parole: sembra più un’enciclopedia che un sudario!». Barberis afferma che è prioritario «stabilire se queste scritte esistono. Che poi si giunga a conclusioni del genere della Frale, mi sembra fantascienza e fantastoria. Sono inoltre estremamente critico su queste ipotesi perché possono essere strumentalizzate dagli avversari della Sindone».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
SINDONE DI TORINO (Wikipedia)
OXFORD. LUCIANO CANFORA AL CONVEGNO SUL "PAPIRO DI ARTEMIDORO". Una sintesi della sua relazione
SIGMUND FREUD, LUIGI PIRANDELLO, E LA "SACRA FAMIGLIA" CATTOLICO-ROMANA, ZOPPA E CIECA!!!
OSTENSIONE E "CARITAS" ("RICCHEZZA"):«Acquistare è sempre un atto morale oltre che economico» (Caritas in veritate).
Perché si venera un falso
La Sindone non ha misteri
Il fatto che si tratti di una reliquia costruita a fini di lucro tra Due e Trecento nulla toglie al suo interesse storico
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.05.2015)
Almeno da un secolo a questa parte, gli storici hanno imparato che studiare il falso è quasi altrettanto rilevante che studiare il vero. Almeno da quando il medievista francese Marc Bloch trasse dalla sua esperienza della Grande Guerra combattuta sul fronte occidentale una lezione definitiva intorno al valore delle «false notizie», e del loro intreccio con le mentalità collettive: con le aspettative e con gli interessi, con i pregiudizi e con i miti che trasformano una percezione fallace in una leggenda “vera”.
Va letto come una magnifica variazione sul tema di Bloch il libro che uno storico del cristianesimo, Andrea Nicolotti, ha pubblicato da Einaudi con il titolo Sindone. E unicamente si può rimpiangere che il sottotitolo suoni Storia e leggende di una reliquia controversa, mentre la stringente dimostrazione dell’autore avrebbe giustificato un aggettivo diverso: Storia e leggende di una falsa reliquia. Tanto il libro di Nicolotti ha il pregio di certificare - per l’appunto - la ricchezza storico-antropologica di un falso. Nel caso specifico, il falso sudario di Gesù Cristo che in queste settimane nuovamente viene esposto, a Torino, alla venerazione dei pellegrini d’ogni dove.
Dopo il libro di Nicolotti, non si vorrebbero più leggere frasi di circostanza come quelle che figuravano ancora lo scorso 19 aprile, sulle pagine del «Corriere della Sera», sotto la penna di un giornalista còlto e acuto com’è Aldo Cazzullo: «La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resterà sempre». Basta.
La verità sulla Sindone esiste, non c’è più alcun dubbio né alcun mistero. La Sindone è una fabbricazione medievale, è un finto sudario del I secolo d.C. approntato da un qualche falsario in una data compresa fra la metà del Duecento e la metà del Trecento.
Ma il fatto che la Sindone sia taroccata nulla toglie alla sua importanza culturale e spirituale. Al contrario, una volta appurato che siamo di fronte a una falsa reliquia, proprio allora incomincia - per uno storico che abbia letto bene Marc Bloch - la parte più suggestiva e più istruttiva della ricerca. Come e perché la fede nell’autenticità della Sindone ha potuto resistere, per oltre sei secoli, dapprima agli indizi, poi alle prove della sua falsità?
Gli indizi della falsificazione arrivarono presto: a pochi anni o pochi decenni di distanza dall’exploit del falsario. Il luogo è il regno di Francia, la provincia è la Champagne, la città è Troyes, la diocesi è quella del vescovo Pierre d’Arcis-sur-Aube, l’anno è il 1389.
Rivolgendosi sia al re Carlo VI di Valois sia al papa d’Avignone Clemente VII, il vescovo Pierre denuncia le trame dei canonici di una piccola chiesa appartenente a un feudo locale. A Lirey, «una stoffa raffigurata con artifizio, su cui in modo abile è stata raffigurata l’immagine duplice di un uomo», viene spacciata come la medesima in cui, sulla collina del Golgota, era stato avvolto «il preziosissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo». Il tutto «non a fine di devozione ma di lucro», per «un fuoco di avarizia e di cupidigia». Inscenando sul luogo falsi miracoli. E facendosi beffe dell’evidenza per cui «quello in realtà non poteva essere il sudario del Signore, dal momento che il Santo Vangelo non fa alcuna menzione di un’impressione di tal fatta, mentre invece, se fosse vero, non è verosimile che sia stato taciuto od omesso dai santi evangelisti, né che sia stato nascosto od occultato fino a quel tempo».
Scrivendo al papa, il vescovo Pierre riferisce che un’indagine già era stata compiuta, negli anni a ridosso del 1356, dal suo predecessore Henry di Poitiers, e che la truffa era stata fin da allora smascherata, con tanto di confessione dei colpevoli. «Fu comprovato, anche grazie all’artefice che l’aveva raffigurata, che era stata fatta per mezzo umano e non realizzata o concessa miracolosamente».
Per una trentina d’anni i canonici di Lirey avevano smesso, quindi, di profittare della credulità dei fedeli spacciando la reliquia come vera. Ma ecco che la truffa stava ricominciando... Verso la chiesetta di Lirey «ogni giorno affluiva abbondantemente la gente della Champagne e delle regioni vicine per adorare quel panno, non temendo di commettere idolatria». Era ora di finirla. Tale «detestabile superstizione» - implorava il vescovo dal papa - andava «radicalmente estirpata per intervento della stessa Santità Vostra, cosicché quella stoffa non sia esibita al popolo o addirittura venerata».
In una Francia che cercava di risollevarsi dalla Peste Nera e dai terribili lutti che questa aveva seminato, alimentando fra i laici un tanto più impellente bisogno di sacro, il vescovo Pierre seppe dire già tutto: il silenzio della tradizione evangelica riguardo alle stoffe sepolcrali di Gesù, l’irragionevolezza di un’epifania della Sindone dopo milletrecento anni di eclissi, la miscela di speculazione pretesca e credulità popolare che malamente si celava dietro il culto del lino di Lirey.
Ma il vescovo Pierre non poté fare i conti né con le cautele politiche di un papa dimezzato (in tempo d’antipapi) com’era Clemente VII, né - tanto meno - poté fare i conti con uno sviluppo decisivo della storia: la scelta quattrocentesca del duca di Savoia, Ludovico, di acquistare (sotto banco) il falso sudario, per farne il gran simbolo religioso del suo casato.
La parte centrale del libro di Nicolotti è dedicata a questo versante della vicenda: gli usi sabaudi della Sindone, dal Quattrocento all’Ottocento, attraverso ostensioni organizzate prima a Chambéry e poi, dopo il trasferimento della capitale, a Torino. Usi sabaudi, e forse abusi sabaudi: non è infatti da escludere che la falsa reliquia di Lirey sia stata rimpiazzata, nel 1534, da un secondo falso sudario, perché un rovinoso incendio aveva distrutto il primo. Dopodiché la ricostruzione di Nicolotti percorre il versante novecentesco della storia. E brillantemente ragiona del paradosso epistemologico per cui tanto più si è potuto discettare, tra ambienti devoti e cultura popolare, dell’autenticità della Sindone, quanto più gli studi umanistici e le scienze “dure” andavano dimostrandone la falsità.
La prova definitiva intervenne, com’è noto, nel 1988: quando un campione del lino della Sindone fu sottoposto, presso diversi laboratori internazionali, all’esame del radiocarbonio (isotopo C14), e l’unanime referto stabilì trattarsi di un tessuto databile all’epoca 1260-1390.
Ma la radiodatazione non ha scoraggiato gli adepti della pseudoscienza che da qualche decennio in qua si definisce «sindonologia». Al contrario. Mentre la Chiesa cattolica ha precluso alla comunità scientifica accreditata ogni nuovo accesso al tessuto della Sindone, una compagnia di giro internazionale fatta di generosi illuminati e di scienziati della domenica, di pubblicisti compiacenti e di fantasiosi lestofanti, ha costruito intorno a pollini e campi elettrici, laser e neutroni, materia e antimateria, una vera e propria fabbrica mitopoietica: una fucina di assurdità “autenticiste” non si sa se più esilaranti o più inquietanti.
P.S. Giunto in fondo a questo libro dell’Einaudi, l’ammirato lettore potrà chiedersi come mai - secondo quanto si ricava dalla bandella di copertina - Andrea Nicolotti non sia, a quarant’anni suonati, altro che un precarissimo «assegnista» dell’Università italiana. E in attesa che uno storico di tale livello, alimentando la «fuga dei cervelli», si decida a proseguire la carriera in quel di Parigi o di Oxford o di Stanford, il lettore potrà ben sospettare che si tratti dell’ennesimo piccolo scandalo dell’accademia nostrana.
MEMORIA E STORIA (SACRA E PROFANA). L’Italia e... Il Nazareno Prima dei patti viene la dignità:
Prima dei patti viene la dignità
di Maurizio Viroli (il Fatto, 30.01.2015)
Credo che non sia scritto in alcuna dichiarazione, ma per me è il più importante fra i diritti. Parlo del diritto alla dignità, quel sentimento interiore di piccola stima nei confronti di noi stessi per quel che abbiamo fatto e facciamo, e per quel che siamo.
Proprio perché sentimento interiore che emerge dal dialogo con la nostra coscienza e non dall’opinione degli altri, e ancora meno dal riconoscimento delle Costituzioni e delle leggi, nessuno, tranne noi stessi, può toglierci la dignità.
Ma è vero anche che ciascuno di noi porta con sé nel mondo il dato di essere italiano o italiana. Essere italiani oggi vuol dire essere sottoposti alle decisioni prese da un delinquente cacciato dal Parlamento in combutta con un giovanotto che asseconda il suo desiderio di continuare a essere arbitro della politica italiana, con l’avallo di una pletora di servi dell’uno e dell’altro incapaci di dire semplicemente “No!, le indecenze dei vostri incontri segreti non mi riguardano, il mio solo commento è il disprezzo”.
La dignità, ecco quello che ci ha tolto e ci toglie il patto fra Berlusconi e Renzi. Con quel loro accordo ci hanno detto e dicono ogni giorno, con il sorriso sprezzante di chi sa di poter fare ciò che vuole, che l’onestà, la rettitudine, la lealtà alla Repubblica non valgono assolutamente nulla. Conta essere evasori fiscali, sodali di corruttori di giudici, sostenitori di collusi con la mafia. Queste sono le persone con le quali si può eleggere il capo dello Stato, suprema magistratura di garanzia, riformare la legge elettorale, riscrivere la Costituzione.
Se sei una persona onesta e credi nella libertà repubblicana, nell’Italia di Renzi e di Berlusconi vali meno di niente. Ti deridono. Coprono le loro ripugnanti azioni con argomenti ispirati ai triti luoghi comuni della necessità politica. “Ci vuole una legge elettorale che assicuri solidi governi mediante generosi premi di maggioranza”; “bisogna abolire il Senato elettivo per semplificare e accelerare il processo legislativo”, gridano a gran voce. Sono balle che non troverebbero ascolto in nessun consesso civile.
La prova più eloquente che non c’è alcun bisogno di togliere di mezzo il Senato per legiferare è il fatto stesso che questo governo legifera, eccome. Delle due l’una: o Renzi mente quando sbandiera che il suo governo ha “fatto” tante leggi; o mente quando proclama che con l’attuale Costituzione è praticamente impossibile legiferare. In termini di filosofia politica, quella che mi onoro di insegnare da trent’anni fuori d’Italia, ovviamente, il comportamento di Renzi e dei suoi si fonda sul presupposto di poter ingannare i cittadini a suo piacere. Tanto non la capiscono. O fanno finta di non capire?
SONO DUNQUE due i motivi per i quali ci dobbiamo vergognare: essere di fatto governati da un delinquente assecondato da un giovinotto, essere trattati come deficienti. Quel che più avvilisce e indigna è che nessuno compie un passo deciso per uscire dalla palude, formare un partito di dignità repubblicana e civile, alzare una bandiera. Cosa aspettate, persone perbene che state a soffrire nel Pd e fate ormai fatica a guardarvi allo specchio perché sapete che non valete nulla e vi trattano da poveri idioti?
In politica una delle virtù essenziali è la capacità di cogliere l’occasione. Orbene, l’occasione è adesso. Se aspettate che vada al Quirinale il burattino di Renzi e Berlusconi, e poi disfino la Costituzione, sarà troppo tardi per qualsiasi efficacie azione politica.
“Dove eravate?”, vi chiederanno, e vi chiederò, quando Renzi e Berlusconi disfacevano pezzo a pezzo la Repubblica? Non saprete rispondere e sarete finiti una volta per tutte. Perdere una lotta politica non è una tragedia; perdere la dignità sì.
Se poi, per miracolo o per un momento di illuminazione di Renzi non andrà al Quirinale un prodotto dell’accordo con Berlusconi, tanto di guadagnato per la Repubblica. Ma in questo caso bisognerebbe chiedere a Renzi perché ha aspettato tanto a rompere con Berlusconi e perché gli ha concesso tanti favori?
Sindone e Templari, un’ipotesi alla prova dei documenti
di Antonio Carioti (Corriere della Sera 11.5.11
La sconfessione suona clamorosa. Porta infatti la firma di Ian Wilson, l’autore inglese che ipotizzò per primo un legame tra i Templari e la Sindone di Torino, una dichiarazione assai critica verso il lavoro compiuto sull’argomento dall’archivista vaticana Barbara Frale. Wilson scrive di aver visionato il manoscritto medievale da cui la studiosa fa discendere l’identificazione tra il famoso lenzuolo e l’idolo che i Templari furono accusati di adorare. E conclude che «il documento in questione non possiede il senso che Frale gli ha attribuito, e non è di alcuna utilità in favore dell’ipotesi della proprietà templare» .
Il testo è riportato dallo storico Andrea Nicolotti nel saggio I Templari e la Sindone. Storia di un falso (pp. 186, € 12,50) edito da Salerno nella nuova collana Aculei, che va in anteprima al Salone di Torino ed esce in libreria il 18 maggio. Un’indagine a tutto campo, molto severa anche nei riguardi di Wilson, che punta a confutare, sulla base di ricerche certosine, la tesi che il lenzuolo con impressa l’immagine di Cristo crocifisso, prima di apparire nella seconda metà del Trecento nella chiesa del villaggio francese di Lirey, fosse stato custodito dall’ordine dei cavalieri Templari, perseguitato dal re di Francia Filippo il Bello e soppresso dal papa Clemente V mezzo secolo prima, nel 1312.
Bersaglio principale della polemica è appunto Barbara Frale, cui si devono due discussi volumi editi dal Mulino (I Templari e la Sindone di Cristo e La Sindone di Gesù Nazareno), ma Nicolotti non risparmia bordate a molti altri «sindonologi» , di cui definisce gli studi «dilettanteschi, imprecisi e partigiani» .
Al suo fianco, con un’elogiativa prefazione, si schiera il medievista britannico Malcolm Barber, docente dell’università di Reading nonché autore dei libri La storia dei Templari (Piemme) e Processo ai Templari (Ecig). Il lavoro di Nicolotti, sostiene Barber, costituisce «un antidoto essenziale» , perché smaschera molte «storie inventate» e «mostra quali sono i metodi impiegati dagli storici veri» .
La controversia non riguarda in questo caso le rilevazioni scientifiche, come la datazione con il carbonio 14, contestata da più parti, che ha collocato il lenzuolo in epoca medievale, escludendo quindi che abbia potuto avvolgere il corpo di Gesù. Qui il problema è tutto storico: quali tracce vi sono di un’eventuale esistenza della Sindone prima delle notizie risalenti al XIV secolo? Si può colmare lo spazio temporale di oltre 1300 anni che intercorre tra quelle attestazioni documentate e la passione di Cristo?
Il tentativo di spiegare dove si trovava la Sindone nei tredici secoli mancanti, secondo Nicolotti, non ha dato risultati apprezzabili, in particolare per quanto riguarda la pista templare. Se i cavalieri processati avessero posseduto davvero il sacro lenzuolo, scrive l’autore, «non avrebbero esitato a mostrarlo ai loro accusatori o a rivelarne l’identità» , quanto meno per scagionarsi dall’imputazione di idolatria. Invece le ricostruzioni dei sindonologi presentano vistose contraddizioni: «Da una parte si dice che il possesso della Sindone era tenuto in stretto segreto, che non fu mai confessato e rimase ignoto persino al re e al papa; poi la si vuole ritrovare in ogni dove, descritta nelle cronache regali, riprodotta in numerosissime copie, su sigilli, castelli e pannelli sparsi ovunque» .
Allo stesso modo Nicolotti giudica «strampalata» l’ipotesi, spesso ripetuta, che un piccolo panno su cui era impresso il solo volto di Gesù, il cosiddetto mandylion di Edessa, si possa identificare con la Sindone (lunga oltre quattro metri) ripiegata e chiusa in un reliquiario. In effetti bisogna considerare i possessori davvero sprovveduti per pensare che non sapessero «riconoscere ciò che avevano per le mani» e non avessero mai guardato, «neppure in occasione dell’acquisto» , dentro il contenitore dell’oggetto sacro.
Al contrario, aggiunge l’autore, si sa che le reliquie venivano sottoposte a periodiche ispezioni. Se il mandylion, la cui esistenza è nota dal VI secolo, fosse stato in realtà la Sindone ripiegata, lo si sarebbe scoperto senza lasciar passare centinaia e centinaia di anni. Il libro si chiude con un auspicio riguardante l’attività degli storici accademici. Visto che circolano tanti libri inaffidabili sulle vicende del passato, l’impegno contro il sensazionalismo e per una «corretta divulgazione» dovrà rientrare sempre più, afferma Nicolotti, tra i doveri primari di chi è chiamato a esercitare la storiografia secondo i canoni del metodo scientifico.
* l saggio di Andrea Nicolotti I Templari e la Sindone è la terza uscita degli «Aculei» , vivace collana di storia dell’editore Salerno diretta da Alessandro Barbero. In contemporanea, sempre il 18 maggio, va in libreria per gli «Aculei» Luxuria. Eros e violenza nel Seicento, un testo in cui lo storico Oscar Di Simplicio riflette sull’uso delittuoso del potere a partire dalle vicende di un curato senese. Seguiranno nei prossimi mesi Fare la pace di Sergio Valzania, sui grandi trattati europei da Westfalia a Versailles, e Caccia alle streghe di Marina Montesano, oltre a un libro di Renata De Lorenzo sulle condizioni del Sud prima dell’Unità d’Italia.
La Parola e la Sindone
di Piero Stefani (Koinonia-forum, n. 203 del 4 maggio 2010)
Fa parte del nostro destino di eredi della moderna cultura occidentale aver introiettato un approccio storico ai testi antichi (siano o non siano sacri). Nella post-modernità si è colto il limite di questa impostazione critica senza tuttavia ritrovare l’innocenza di un commento capace di leggere le parole arcaiche a prescindere dalle circostanze in cui furono dette o scritte. Non per nulla, il nostro tempo culturale è indicato con un venir dopo («post») che dichiara la propria implicita incapacità di ignorare quanto lo precede.
Ciò vale anche quando ci si trova di fronte alla pagina biblica. Per il credente, e solo per lui, si apre una specie di alternativa in virtù della quale ci si chiede se sia la «parola eterna» a risuonare come storica o se sia quest’ultima a trasmettere risonanze dell’Eterno. Se prevale la seconda ipotesi il senso della presenza di Dio si scopre unicamente attraverso l’atto dell’interpretazione.
La rivelazione sta non nella Scrittura presa in se stessa ma nel modo di porsi di fronte a essa accogliendola come parola che ci interpella pur provenendo da un tempo che non è più il nostro. In questo caso la dimensione del circolo ermeneutico può dirsi nei seguenti termini: ci si inchina davanti a un testo perché è sacro, mentre esso diviene tale anche in virtù del fatto che ci si inchina di fronte a lui.
Nell’interpretazione la pagina eccede la temporalità che l’ha originata non a motivo della sua astoricità, bensì a causa di una paragonabilità di circostanze in cui la distanza storica è mantenuta e negata a un tempo. La situazione di partenza è «loro» e non «nostra»; soltanto il modo di intendere la Parola, venerandola, la rende anche e soprattutto nostra.
È proprio di una fede adulta essere interpellati da una Parola che si sa storicamente distante. Se il punto di partenza fosse costituito da avvenimenti, la lontananza sarebbe incolmabile. In realtà, noi lettori siamo messi di fronte non a dei fatti ma ai modi in cui essi vennero vissuti e interpretati ed è stato proprio lo sforzo volto a dare a essi un determinato senso che rende la Parola attestazione di un significato eccedente offerto al suo attuale lettore. Se la Bibbia fosse cronaca, descrizione letterale e fedelissima di quanto è avvenuto non sarebbe parola di Dio.
Se è questo il modo autentico di leggere nella fede la Parola è facile comprendere perché chi accetta su di sé il primato della Bibbia sia per lo più distante dalla maniera corrente di intendere i miracoli e la venerazione delle reliquie. Né è occasionale notare l’incompatibilità, su questo terreno, tra la tradizione cattolica e il mondo della Riforma. Le norme di canonizzazione che (salvo nel caso dei martiri) richiedono di provare che siano effettivamente avvenuti dei miracoli sono penose. Esse infatti fanno dipendere l’accertamento di questi eventi dalla mancanza di spiegazioni di ordine scientifico. Spesso si cade perciò nell’assurdo che, almeno in una certa misura, a determinare la canonizzazione sia l’incapacità dei medici di trovare una qualche spiegazione a un fenomeno. Se Dio entrasse in quest’ambito sarebbe, per definizione, consegnato alla funzione di tappabuchi.
Si possono venerare le reliquie? Forse sì, a motivo della simbologia, a volte molto alta, che trasmettono. Tuttavia questa possibilità è data in modo autentico soltanto quando si riesce a prescindere dal problema della loro autenticità. Se invece esso irrompe in modo prepotente il discorso si avvita su se stesso: negatori e sostenitori si trovano schierati su sponde opposte solo perché collocati sullo stesso terreno. Entrambi, per stabilire il vero e il falso, dipendono, volenti o nolenti, dalle scienze storiche o da quelle della natura. Essi perciò, per sostenere la loro tesi, tendono ad assolutizzare quanto è relativo e questa operazione si riflette, per forza di cose, nella sopravvalutazione dell’oggetto a cui si riferisce la loro venerazione o la loro confutazione. Solo se fosse possibile prescindere da ogni discorso circa la sua autenticità o la sua falsità avrebbe senso andare a Torino per vedere la Sindone. C’è da dubitare che ci si trovi in queste condizioni.
Resta in ogni caso certezza di fede che leggere e meditare la narrazione della morte di Gesù secondo i quattro evangeli costituisca l’accesso più autentico per cogliere il senso della morte di Gesù. Nel credere, l’ascoltare prevale sempre sul vedere. Scrisse Kafka: «Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle».
La Sindone, non reliquia, ma icona
di Armando Torno (Corriere della Sera, 3 maggio 2010)
Benedetto XVI a Torino per l’ostensione della Sindone ha parlato di icona e non di reliquia. Nel celebre lenzuolo il Papa vede riflessa la vicenda di Cristo; anzi il telo permette di osservare, come specchiati, i nostri patimenti nelle sue sofferenze. Sono state così lasciate in un canto le diatribe sulla datazione. Inoltre, il richiamo a Maria, all’inizio del mese a lei dedicato, reca una riflessione di fede. Fu proprio Maria, del resto, la prima a riconoscere con certezza, oltre ogni prova, nel volto umano di suo figlio quello di Dio.
Viene ora da chiedersi se la distinzione avrà un seguito e se si scriveranno altri capitoli per questa storia millenaria. La «reliquia» (da reliquus, resto, residuo) è quel che rimane di un corpo umano o di parte di esso (in tal caso era detta ex ossibus).
In senso lato, la tradizione cattolica così chiamò anche gli oggetti che furono a contatto di una persona, giacché avevano quasi assorbito le sue «preclare virtù». Vi è un’antica prassi, nata nelle catacombe, che faceva porre delle reliquie entro l’altare, nell’atto della sua dedicazione al culto. Successivamente esse diventeranno oggetto di abusi e commerci, tanto che il Concilio Lateranense del 1215 comminò gravi pene contro i trafficanti. Quasi superfluo aggiungere che prosperavano ovunque e a Roma si ricordava ancora un falsificatore, il diacono Deusdona (prima metà del IX secolo), che spediva corpi di gente comune sino in Germania, trafugando i cadaveri dai cimiteri dell’Urbe e spacciandoli per martiri.
Finite in mille dispute e in altrettante opere letterarie, le reliquie si ritrovano in quasi tutte le religioni, come prova il culto tributato al pelo della barba di Maometto a Bijapur o il fatto che le ceneri del corpo del Buddha furono divise in otto parti e conservate in santuari.
È poi pratica antichissima. Diversamente non si spiegherebbe il perché gli egizi nel Serapeo di Alessandria meditassero sulla mummia del bue Api, considerata reliquia dell’Osiride ultramondano, né perché i greci conservassero la testa di Orfeo a Lesbo (in verità ce n’era una anche a Smirne, mentre la sua lira era ovunque), né perché i romani si recassero in pellegrinaggio alla tomba di Romolo nel Foro e venerassero i sandali e la conocchia di Tanaquilla (la moglie, secondo la tradizione, di re Tarquinio Prisco).
E c’è dell’altro. Le reliquie laiche dei personaggi del nostro tempo, più o meno trasformati in miti, vengono disputate sulla rete. Si va dalla biancheria intima di Marylin Monroe al pettine di Elvis Presley, dalle magliette dei calciatori a qualcosa che non è il caso di segnalare.
«Icona», invece, dal greco eikón, ci porta al significato di immagine, anche se la tradizione bizantina ne ha fatto qualcosa di più (e di meno di una reliquia). Nel libro dell’Esodo (20,4) si legge la proibizione: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»; tuttavia qualche eccezione ci fu, come provano i cherubini dell’arca dell’alleanza (Esodo 25,18) o il serpente di bronzo (Numeri 21, 8-9).
Di certo agli inizi del cristianesimo vi sono le molteplici pitture delle catacombe, le sculture dei sarcofagi; nel IV e V secolo l’uso si rileva ovunque, anche se, in un primo tempo, il culto era rivolto alla Croce. Tra gli altri, Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica (7,18), dice di aver visto con i propri occhi dipinti dei santi Pietro e Paolo e dello stesso Gesù. L’inizio della libertà portò con sé casi di idolatria verso talune rappresentazioni: se così non fosse, sarebbe difficile spiegare i discorsi di Leonzio, vescovo a Cipro alla fine del VI secolo, che appunto difende dall’accusa i cristiani e traccia le prime linee di una teologia del culto della Croce e delle immagini.
Poi, si sa, nel 726 l’imperatore bizantino Leone III Isaurico fece rimuovere un’icona venerata del Cristo, dando avvio al movimento degli iconoclasti. Da allora, anche se le figure sacre popolano buona parte dell’arte occidentale, la tentazione di abolirle non si è spenta e periodicamente invoca il versetto dell’Esodo.
Nell’epoca delle immagini digitali e delle icone mediatiche papa Benedetto XVI è andato oltre. Anzi, forse ha ripreso in chiave teologica la Teoria estetica di Theodor W. Adorno. In essa il loro compito, più che di riprodurre il mondo, è quello di offrire il «contenuto di verità» che si è sedimentato nella forma stessa dell’immagine o dell’icona. E ne costituisce la storicità immanente.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, del 3 maggio 2010)
Ci voleva un Papa tedesco di vasta cultura per citare La gaia scienza di Nietzsche davanti alla Sindone. «Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!», ripete Benedetto XVI e spiega: «Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo». Il pontefice fissa in ginocchio il lino per cinque minuti e muove le labbra in una preghiera silenziosa prima di cimentarsi in una meditazione che affronta il tema centrale del suo pontificato, il «nascondimento di Dio» nel tempo che viviamo, «dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è divenuta in misura sempre maggiore un Sabato Santo».
La «Sacra Sindone», dice Benedetto XVI, è una «icona straordinaria» del «mistero del Sabato Santo», nei Vangeli la «terra di nessuno» tra la crocifissione e morte del venerdì e la risurrezione della domenica, il «tempo oltre il tempo» nel quale Cristo «è disceso agli inferi» e ha condiviso «l’abbandono totale, la solitudine assoluta dell’uomo», il giorno oscuro del Dio nascosto che riguarda l’intera umanità e anche i credenti, «anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità». Specie dopo gli orrori del Novecento: «Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più».
«Questo è per me un momento molto atteso», ha esordito ieri pomeriggio nel silenzio sospeso del Duomo. Ratzinger aveva già visto la Sindone «ma questa volta vivo il pellegrinaggio con particolare intensità», ha detto, «forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria icona».
Icona. Giovanni Paolo II arrivò a definirla la « reliquia più splendida della Passione e Resurrezione». Benedetto XVI usa la stessa parola che scelse il cardinale Ballestrero, «una veneranda icona di Cristo». Come spiegava la storica Barbara Frale, ne I Templari e la sindone di Cristo, «icona» significa molto più d’una immagine: e richiama il pensiero dei teologi del secondo Concilio di Nicea (787 d.C.), per i quali «l’immagine prodigiosa del Cristo è luogo del contatto col divino», esprime «reverenza e stupore». Benedetto XVI ha scelto un’espressione alta ma insieme rispettosa delle diverse opinioni e della fede.
Parla di «un telo sepolcrale in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù», che «testimonia» quell’«intervallo irripetibile della storia» e parla di oscurità ma insieme di «consolazione e speranza», di Risurrezione: «Mi sembra che, guardando questo sacro telo con gli occhi della fede, si percepisca qualcosa di questa luce».
Nella messa in piazza San Carlo, al mattino, Benedetto XVI aveva ricordato disoccupati, anziani soli, emarginati, immigrati. La sera ha visitato tra lacrime e ovazioni i malati del Cottolengo. «Porto nel mio cuore tutta l’umanità», aveva detto davanti al sudario dell’«Uomo dei dolori». Se tanti arrivano, due milioni per l’ostensione, è perché in quell’«icona scritta col sangue» vedono «la vittoria della vita sulla morte». Nel libro su Gesù citava il Salmo 27, «il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto».
Il volto del prossimo
di Beppe Sebaste (l’Unità, 11 aprile 2010)
Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa». Ripenso a questa frase del filosofo Emmanuel Levinas a proposito della nuova Ostensione della Sìndone a Torino, meta di pellegrinaggio. Perché è importante? In un mondo in cui si fanno guerre per non guardarsi in faccia, e si trasformano le singole vite in cifre statistiche o «danni collaterali»; dopo secoli di fisiognomica, ossia tentativi razionali di assoggettamento e annullamento del volto (dell’alterità) dell’altro, la contemplazione dell’impronta di un volto non può che dare speranza.
Si sa, la Sìndone non raffigura Cristo, ma un povero cristo, il lino è medievale, ma che importa: la sua eccezionalità, disse Papa Woytila nel 1998, è nel testimoniare le più intime e private delle impronte, gli umori del dolore (sudore e sangue) che la morte ha fissato sul lino: «icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi». La Sindone commuove per la sua nudità inerme: volto che soffre, che s’offre. Testimonianza, non reliquia, aggiunse Woytila: «la contemplazione di quel corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e l’egoismo (...), ricorda all’uomo moderno distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita a interrogarsi sul mistero del dolore».
La Sìndone è una ghost story che ammonisce alla sacralità assoluta del volto del prossimo, dello straniero; che ricorda i volti dei morti e dei dispersi, e l’obbligo dell’accoglienza; fino allo scandalo dei volti velati delle donne, o coperti dal burka, oggi per noi la nudità più inerme, ma inaccettabile.
È l’archetipo del volto che sfugge all’imposizione poliziesca e razzista dell’identità, e che, agli antipodi del ritratto, è tanto più volto quanto più è sfuocato, frontale, fantasmatico, e soprattutto anonimo. Questo della Sìndone ci commuove.
L’uomo che soffre si specchia nella Sindone
di Franco Garelli (La Stampa, 11 aprile 2010)
«Specchiatevi nella Sindone»: lo slogan coniato dal cardinal Poletto per questa Ostensione della Sindone può valere non soltanto per i pellegrini credenti, ma per molti altri visitatori. Anche chi non crede che quel lino abbia avvolto il corpo di Cristo, anche chi è mosso alla visita da curiosità turistica o culturale non potrà fare a meno di essere colpito dai segni di passione e morte impressi su quel telo. L’immagine si svela a poco a poco al visitatore, e con essa il volto di un uomo a un tempo severo e sereno, la figura di una persona crocifissa, che è stata flagellata, incoronata di spine, inchiodata su una croce. Al di là che si pensi o no che si tratti dell’«Ecce Homo» dei Vangeli, questa è la forza di attrazione che da secoli viene esercitata dall’icona di dolore conservata nel Duomo di Torino.
Ovviamente i sentimenti cambiano a seconda degli stati d’animo e delle motivazioni che spingono la gente a non mancare a un appuntamento assai raro nel tempo. Chi sono e che cosa cercano i pellegrini della Sindone?
Il popolo che più si mobilita è certamente quello della devozione popolare, in gran parte veicolata dalle diocesi e dalle parrocchie, che è alla continua ricerca di volti e segni di una fede religiosa sensibile e «concreta». Questo popolo, che in genere affolla i molti santuari disseminati nel Paese, è particolarmente attratto dall’icona della Sindone, in cui vede i segni tangibili di una passione di Cristo che è al centro del suo sentire religioso. La «sacra Sindone» non è pregata da questi fedeli (anche se molti di essi ne conservano un’immagine in casa), ma costituisce per i più una prova di seconda mano della trascendenza. Il Dio che non si vede, si manifesta in un lino che rispecchia i racconti del Vangelo. Finalmente è possibile incontrare «la faccia» di Gesù, verificare i segni della sua sofferenza umana, dare un volto a un Dio che la teologia cattolica ha reso nel tempo impalpabile e indefinibile.
A fianco dei fedeli più devoti, vi è poi un vasto insieme di visitatori - rappresentato da credenti più moderni, ma anche da non credenti o da persone in ricerca - che si recano alla Sindone per vivere un’esperienza significativa sia dal punto di vista umano che spirituale. Per costoro il lenzuolo di Torino ha un carattere sacro, anche se non è riconducibile alla vita di Cristo. Si tratta di un reperto umano così raro, serio e impegnativo da giustificare un incontro ravvicinato, che è a un tempo di conoscenza e di contemplazione. La sacralità sta nell’uomo dei dolori impresso in quel lino, capace di richiamare la gente al senso della finitudine umana, al mistero della sofferenza e della passione, alle cose che contano; tutti sentimenti che affollano molti uomini e donne del nostro tempo in particolari circostanze, quando di fronte a casi limiti si riflette maggiormente sulle questioni ultime.
Infine, una parte dei visitatori della Sindone è rappresentata dai turisti o dai curiosi, da quanti entrano nel Duomo di Torino per la rarità o l’importanza dell’evento, il richiamo dei mass media, la voglia di non perdersi la grande occasione, la possibilità di dire ai nipoti «c’ero anch’io». E’ in questo gruppo che prevalgono gli atteggiamenti più disincantati, anche se il linguaggio evocativo del «sacro lino» può operare qualche «conversione».
La Sindone dunque è in grado di richiamare pubblici diversi, i cui sentimenti variegati sono stati ben descritti da un’indagine condotta durante l’Ostensione di oltre dieci anni fa. Pochi sono rimasti freddi o insoddisfatti, mentre i più di fronte a questa icona del dolore umano si sono commossi, emozionati, hanno provato stupore e angoscia, si sono identificati. Per molti la visita è stata un’intensa esperienza religiosa, altri sono stati scossi umanamente.
Ovviamente gli scettici se ne staranno a casa o andranno al mare. Ma la maggior parte dei pellegrini della Sindone è ben cosciente che sarà un’esperienza arricchente. Riflettere sul dolore di Cristo o di un uomo antico può favorire una maggior comprensione di sé e delle sorti del mondo.
Vorrei esortare i duellanti, Barbara Frale e Luciano Canfora, a duellare sulla Sindone nell’anno della Resurrezione, NON 3 o 6 anni dopo!
A Enigma 2002 tutti hanno riconosciuto l’errore dei 7 anni (già sospettato, e da tempo, e poi noto presso molti studiosi) fatto da Dionigi al momento di fissare la data del 24 / 25 dicembre DCCLIII a.U.c. come nascita di Gesù.
Tutti sono stati d’accordo nel confermare lo slittamento indietro di 7 anni: dal I a.C. all’ VIII a.C. (1° censimento di Quirinio confermato da Mons. Ravasi), al CULMINE, in autunno, della triplice congiunzione Giove-Saturno (confermata dal Prof. Giovanni Bignami).
DUNQUE: la logica, il comune buon senso dicono che ANCHE l’anno della Resurrezione (SCOMPARSA) di Gesù, fissata da Dionigi nel suo XXXIV A. D., quando Gesù aveva esattamente i 33 anni e mezzo della Tradizione, dev’essere slittato indietro di 7 anni!!
XXXIV A.D.- 7 anni = XXVII A.D.
o :
34° d.C. - 7 anni = 27° d.C. , detto 27 d.C. , che ha il plenilunio all’equinozio di primavera (v. DIMOSTRAZIONE su Coelestis , con i cicli di Metone e con i Calendari Comparati).
Il misterioso fenomeno della Resurrezione (SCOMPARSA) del corpo di Gesù, secondo gli studi di Barbara Frale, dovrebbero portare -eventualmente- impronte di monetine e cartigli dell’anno XIII di Tiberio (XIV in settembre) e QUINDI non sono possibili tracce di monetine coniate anni dopo, nell’anno XVI di Tiberio, corrispondente all’anno 30 d.C., trovate o sperate da Barbara Frale (alla quale va bene anche l’anno 33 della Tradizione, in quanto per il calendario ebraico quell’anno era una specie di anno bisestile...) :
< Se veramente è una cifra corrispondente al 16 ... i nostri dubbi non avrebbero più molto senso di esistere ...> ( a Radio 24 , 6 gennaio 2010 , Oscar Giannino ha intervistato Barbara Frale).
DUNQUE : se veramente Barbara Frale legge (con i moderni strumenti ogni giorno sempre più sofisticati) l’anno XVI di Tiberio, ALLORA è una conferma che si tratta di un falso, essendo Gesù risorto nell’anno corretto 27 d.C., al plenilunio all’equinozio di primavera, quindi in marzo, a 33 anni e mezzo esatti; e NON in un banale 7 aprile del 30 d.C., a circa 36 anni; o 3 aprile del 33 d.C., a circa 39 anni!
Grazie.
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Per gli interessati, le "DIMOSTRAZIONI" si trovano sul forum "Coelestis" http://www.trekportal.it/coelestis/showpost.php?p=328419&postcount=1 :
1) Archeoastronomia
I Calendari Comparati dimostrano che “la Sindone è un falso” (Barbara Frale)
Da Carlo Magno a Gesù Messia nei CALENDARI COMPARATI (1 2 3 ... Ultima pagina)
Dall’Anno corrente all’Anno dell’obelisco nero di Namrud, GS144, Pallottoliere Sirio
...
e
2) Domande alla Redazione
Chiedo aiuto su Calendari Comparati e conferma cicli di Metone (1 2 3 ... Ultima pagina)
Il BUCO di Dionigi (anno per anno, alla moviola...) (1 2 3 ... Ultima pagina)
Calendari Comparati. Periodicità delle Congiunzioni Giove-Saturno (1 2 3 ... Ultima pagina)
La cometa di Halley nei CALENDARI COMPARATI ( 1 2 3 ... Ultima pagina)
Il novilunio dell’Egira nei CALENDARI COMPARATI ( 1 2 3)
Il sudario di Gerusalemme che “rinnega” la Sindone
di Paola Caridi (La Stampa, 17 dicembre 2009)
Un sudario di lana, e non di lino. A significare che l’uomo avvolto nel tessuto funerario era di alto lignaggio. Un sudario trovato a Gerusalemme, quasi dieci anni fa, in quell’area conosciuta come la Gehenna, appena fuori dalle possenti mura di Solimano il Grande che circondano la Città Vecchia.
Un sudario che, attraverso gli esami condotti tra Stati Uniti, Londra e Gerusalemme, si può datare al primo secolo, il secolo di Gesù Cristo. Lo hanno studiato per anni: e i risultati sono stati pubblicati ora su «PloS One», la rivista della «Public Library of Science» americana. In quel sudario non è stato avvolto Gesù di Nazareth. Bensì un uomo affetto da lebbra, morto di tubercolosi. Ma è il primo tessuto funerario dell’epoca di Gesù mai trovato a Gerusalemme, zona umida, clima dove è difficile fare scoperte di questo tipo. E la trama di quel tessuto è completamente diversa dalla trama della Sacra Sindone. Non solo: i frammenti di tessuto trovati sull’uomo della Tomba del Sudario appartenevano a differenti lenzuoli. Come descritto nel Vangelo di Giovanni, quando le donne vanno al sepolcro e lo scoprono vuoto. Più pezzi di stoffa. E non, come per la Sindone, a un solo lenzuolo, che copriva il corpo da capo a piedi.
«Non era pratica del tempo coprire i defunti con un solo lenzuolo - dice Shimon Gibson, l’autore della scoperta del sudario di Gerusalemme -. Questo perché non si era certi della morte. Il defunto poteva essere in coma, risvegliarsi. Se fosse stato coperto da un solo pezzo di stoffa, ci sarebbe stato il soffocamento». Ci sono voluti molti anni per esaminare tutti i dettagli, dice Gibson, protagonista di altre scoperte a Gerusalemme, alcune controverse. Anni per analizzare i frammenti di tessuto trovati sulla testa, sul petto, in diverse parti del corpo del lebbroso.
Shimon Gibson non ha visto direttamente la Sindone di Torino, né ha chiesto al Vaticano di poter esaminare il sudario. Quello che sostiene è che il tipo di intreccio è differente da quello di Torino. E della stessa opinione è il professor Mark Spigelman. Paleoepidemiologo dell’Università di Gerusalemme, in procinto di arrivare per altre ricerche a Tivoli e a Bologna, ha esaminato sia le ossa del lebbroso, trovate alla Gehenna, sia il sudario di Gerusalemme. «Questo sudario - dice il professor Spigelman - è l’unico trovato a Gerusalemme, ma abbiamo trovato altri tessuti in altre parti di Israele risalenti allo stesso periodo. Vicino al Mar Morto. Il periodo che noi definiamo del Secondo Tempio, il tempo di Gesù Cristo». Tra il sudario di Gerusalemme e i tessuti contemporanei, insomma, c’è molto di simile. La trama, l’intreccio, soprattutto. «Il sudario di Gerusalemme ha un tipo di intreccio che si chiama uno-sopra-uno. Quello di Torino ha una fattura medievale, tessuto a spiga, e sicuramente non c’è niente di simile a quanto è stato trovato in Israele risalente al primo secolo».
Il sasso nello stagno è stato lanciato. E la scoperta è di quelle che faranno discutere. Come, negli ultimi anni, hanno fatto discutere altri ritrovamenti archeologici a Gerusalemme. Non ultima, alcuni anni fa, la scoperta di una tomba, sempre nella zona est di Gerusalemme, che sarebbe appartenuta alla famiglia di un uomo chiamato Gesù. Allora si scatenò una polemica durissima. Il problema è che, a Gerusalemme, l’archeologia non è una scienza semplice. Tante religioni, tante sensibilità, tanta ricerca di identità. Spesso, anzi, «l’archeologia diventa uno strumento della politica», come usava spesso ripetere padre Michele Piccirillo, francescano e archeologo, uno dei più famosi di tutto il Medio Oriente, scomparso appena un anno fa.
Non capisco da quale indizio si possa supporre che un unicum come un sudario di lana possa essere significativo del fatto che i ricchi avessero sudari di quella fibra e non di lino. Risulta invece che i panni funebri al tempo fossero di lino a seguito della permanenza del popolo ebreo in Egitto dove il lino e non la lana era simbolo di ricchezza, mentre la lana era considerata la fibra dei poveri.
Quello che posso affermare nella mia veste di ingegnere tessile appassionato dell’argomento è che la tessitura a spina (2/1) è tipica dei lini egizi e quindi il tessuto della sindone non ha una struttura rara al tempo (considerando che il popolo ebreo ha assimilato molto della cultura e del modo di lavorare degli egiziani), mentre la tessitura a tela (1/1) è indice di un minore sviluppo dell’arte del tessere, quindi più vicino a popoli che dovendo supplire alla necessità del vestire non possedessero ancora la padronanza di strumenti (telai) che sono profondamente differenti nel caso delle due strutture, tela e spina, dove la tela può essere eseguita con telai semplicissimi.
Ormai ci si arrampica sui vetri per dimostrare l’autenticità del lenzuolo di Torino
Sindone ovvero come accalappiare turisti
I promotori della sacra reliquia hanno anche inventato una scienza che si chiama «sindonologia» che però non ha nulla di scientifico ma incrementa il mercato religioso
di Carlo Papini ("RIFORMA", VENERDÌ 11 DICEMBRE 2009, p. 14)
CON perfetta tempestività, data l’annunciata «ostensione » della Sindone di Torino, l’archeologa vaticana Barbara Frale ha pubblicato due libri di «scoperte» cui i media hanno dato grande rilievo. Non potendo più contestare direttamente i risultati della prova scientifica del Carbonio 14, che ha datato il telo alla prima metà del XIV secolo, si cerca ora di riesumare vecchie presunte «scoperte» per mantenere vivo l’interesse del pubblico e rimettere in discussione l’antichità e l’autenticità del reperto.
Nel suo primo libro I Templari e la Sindone1 la Frale ha cercato di dimostrare che la nostra Sindone non sarebbe altro che l’antico Mandylien (fazzoletto) di Edessa tenuto sempre piegato. Una vecchia tesi già formulata da Ian Wilson e del tutto insostenibile perché il fazzoletto di Edessa (perduto ma di cui esistono molte copie), seguendo la leggenda della Veronica, raffigurava il volto di Gesù vivo, con gli occhi aperti, prima della Passione, e non morto come nella Sindone.
Inoltre basandosi soltanto su un’omonimia (uno dei capi dei Templari si chiamava de Charmy come il primo possessore occidentale della Sindone), la Frale ha sostenuto che la Sindone era stata conquistata dai Templari che l’avrebbero adorata in segreto come loro «idolo» particolare. Ipotesi assurda perché, se l’idolo che erano accusati di adorare fosse stato la Sindone di Gesù, essi lo avrebbero confessato apertamente, anziché farsi condannare come idolatri.
In realtà pare che il cognome de Charny fosse molto diffuso nella Francia del tempo e nulla prova che vi sia stato un qualche rapporto tra i Templari e la nostra Sindone. Ma oggi, si sa, i Templari vanno di moda! Il giornalista de La Repubblica Michele Serra ha scritto: «Mi basta sentire la parola “templari” e subito mi precipito perché presagisco una formidabile serie di spassose fandonie»2.
Infatti! Non così L’Osservatore Romano che ha preso molto sul serio il primo libro della Frale dedicandogli una lunga recensione positiva. Un secondo libro della Frale: La Sindone di Gesù Nazareno3, appena uscito, riprende l’annosa questione delle «scritte» rilevate sulla Sindone spingendosi fino a sostenere che il nostro telo conterrebbe addirittura: «l’atto di sepoltura di Gesù Nazareno», scritto sulla Sindone da un funzionario imperiale, «un ignoto impiegato ebreo della morgue di Gerusalemme 4.
Naturalmente nessuno studioso dell’epoca ha mai sentito parlare di una prassi funeraria così assurda e inverosimile: scrivere un «atto di sepoltura» sull’abito funebre che avvolge il corpo del defunto e che andrà distrutto insieme al cadavere! A che pro? Del resto l’esistenza di «scritte» di ogni tipo sulla Sindone di Torino (su cui si è sbizzarrita la fantasia di molti «sindonologi») è stata da molto tempo contestata. Il telo sindonico è di grana grossa, intessuto a spina di pesce. Illuminato a luce radente dà luogo a ombre del tessuto che, con molta fantasia, possono essere interpretate come «scritte». Ma si tratta di un semplice e banale trucco ottico. In realtà sul telo sindonico illuminato perpendicolarmente non appare alcuna scritta.
Tutto questo per non voler accettare i dati storici e scientifici, che sono in perfetto accordo. Essi dimostrano che la Sindone di Torino è stata prodotta a Smirne (attuale Turchia) nei primi decenni del ‘300 con una tecnica raffinata ignota in Occidente (l’immagine è una strinatura del tessuto prodotta da un bassorilievo di metallo riscaldato), donata come bottino di guerra a un modesto feudatario francese - Goffredo de Charny - che se la tenne in casa a Lirey come souvenir della Crociata in Oriente guidata dall’ultimo delfino di Vienne Umberto II (1345- 46), cui aveva partecipato.
La storia dimostra che sia Goffredo sia i suoi eredi sapevano benissimo che si trattava di una «figura seu representacio » della vera Sindone (cioè di un’imitazione). Questa è la verità storica pienamente confermata dalla scienza. Tutto il resto è solo fantasia utile per portare a Torino qualche visitatore in più.
1) I Templari e la Sindone, Il
Mulino, Bologna, 2000.
2) M. Serra, «Il Venerdì di Repubblica
», n. 1115, del
31/07/2009, p. 154.
3) Il Mulino, Bologna, 2009.
4) Così Michele Smargiassi,
Sindone. «Così ho decifrato l’atto
di sepoltura di Gesù Nazareno»,
«La Repubblica», venerdì 20 novembre
2009, pp. 58-59.
La Sindone di Torino è autentica? La cosa per cui Torino forse è più nota è la Sacra Sindone, che secondo alcuni sarebbe il lenzuolo in cui si presume che sia stata avvolta la salma di Gesù. Una guida turistica spiega: “La più famosa - e più dubbia - di tutte le sante reliquie è conservata nel duomo di Torino”. È esposta stabilmente in una delle cappelle del duomo, chiusa in una teca di cristallo antiproiettile a tenuta stagna contenente un gas inerte. La guida prosegue: “Nel 1988, però, il mito della Sindone fu demolito poiché la datazione col metodo del radiocarbonio dimostrò che risale solo al XII secolo”.
“Non per visione” Recenti analisi scientifiche hanno confermato che la Sindone di Torino è un falso del XIV secolo. Tuttavia, il New York Times riferiva che “i cattolici sono stati incoraggiati a continuare a venerare la sindone in quanto raffigurazione pittorica di Cristo, tuttora in grado di compiere miracoli”. L’arcivescovo di Torino, Anastasio Ballestrero, ha affermato: “L’eccezionale potere evocativo dell’immagine di Gesù Cristo va preservato”. Cosa significa questo? Significa che anche se la Chiesa ha ammesso che l’impronta sul sudario non è quella del corpo di Cristo, i cattolici devoti dovrebbero comunque continuare a considerarla come se fosse il Cristo e dunque sacra. Perché? Secondo Adam Otterbein, sacerdote cattolico responsabile della Congregazione della Sacra Sindone, reliquie come la sindone possono aiutare i credenti ad onorare colui che l’immagine rappresenta. Non sorprende che, nonostante si tratti di un falso, la sindone rimanga un potente simbolo di fede per la Chiesa Cattolica. “Statue, dipinti e icone . . . sono oggetto di riverenza nella prassi cattolica”, nota il New York Times. L’uso di queste immagini nell’adorazione è sostenuto dalla Bibbia? No! La Parola di Dio dice chiaramente: “Fuggite l’idolatria”. I cristiani sono esortati ad adorare Dio “con spirito e verità”, non con l’aiuto di qualche immagine o reliquia. Appropriatamente, Paolo scrisse che i veri cristiani ‘camminano per fede, non per visione’.
Le ricerche, l’incendio, il futuro
La Sindone dal 1992 a oggi *
"La Sindone: provocazione all’intelligenza, specchio del Vangelo" è il tema dell’incontro che si svolgerà lunedì 11 gennaio, nell’Auditorium della chiesa del Santo Volto a Torino, in occasione della presentazione del volume "Sindone" edito dalla Utet. Dal libro, ancora non in distribuzione, anticipiamo ampi stralci di due saggi. Il primo, qui sotto, è stato scritto rispettivamente dal direttore scientifico del Museo della Sindone e dal direttore del Centro internazionale di sindonologia. Il secondo ripercorre la fortuna della Sindone nella storia dell’arte.
di Bruno Barberis e Gian Maria Zaccone
Nel 1992 l’arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone, il cardinale Giovanni Saldarini, nominò una commissione scientifica internazionale composta da alcuni tra i maggiori esperti di tessuti antichi e da eminenti studiosi, con l’incarico di avviare un ampio e articolato piano di studio per affrontare e risolvere il delicato e importante problema della conservazione della Sindone.
I lavori ebbero inizio nel 1992 con un’ostensione privata alla presenza della commissione e si conclusero nel 1996 con la consegna alla Santa Sede, proprietaria della reliquia, di una relazione finale. In tale relazione la commissione di esperti faceva il punto sullo stato di conservazione della Sindone e suggeriva una serie di indicazioni e condizioni irrinunciabili per la sua conservazione ottimale che si possono così riassumere:
a) la Sindone deve essere conservata in posizione distesa, piana e orizzontale.
b) La Sindone deve essere liberata dagli accessori che servivano alle vecchie modalità di conservazione e di ostensione, ovvero il cilindro di legno, il telo rosso che la ricopriva quando veniva arrotolata, il nastro di seta azzurra cucito lungo il perimetro e le bandelle d’argento cucite all’interno del nastro azzurro lungo i due lati più corti.
c) La Sindone deve essere conservata in una teca di vetro antiproiettile, a tenuta stagna, in assenza di aria e in presenza di un gas inerte, al fine di interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto dovuto al naturale processo di ossidazione e che è responsabile della progressiva riduzione di visibilità dell’immagine. La teca deve essere protetta dalla luce e mantenuta in condizioni climatiche (pressione, temperatura, umidità, e così via) costanti.
d) È necessario studiare a fondo il problema dell’eventuale sostituzione del telo d’Olanda con un nuovo telo e dell’eventuale asportazione o sostituzione dei rattoppi per migliorare le condizioni di conservazione.
Poco mancò che tutti questi studi si rivelassero vani, in quanto il 12 aprile dell’anno successivo un terribile incendio danneggiò seriamente la cappella della Sindone. Fortunatamente il lenzuolo, che era stato spostato nel duomo per permettere i restauri della cappella stessa, fu risparmiato sia dal fuoco, sia dall’acqua, sia dai crolli di materiale.
Le indicazioni suggerite dalla commissione imponevano ovviamente una modalità di conservazione radicalmente diversa da quella utilizzata negli ultimi tre secoli - l’arrotolamento su di un cilindro - e soprattutto la necessità di costruire una teca di dimensioni ben maggiori. L’intera operazione si presentava naturalmente molto complessa e delicata poiché numerose erano le difficoltà da superare tanto in fase progettuale quanto in fase esecutiva. Nonostante le non poche difficoltà incontrate, la costruzione della teca fu completata nei tempi previsti e il 17 aprile 1998 la Sindone venne per la prima volta ospitata nella nuova teca e in essa esposta al pubblico durante l’ostensione tenutasi in quell’anno.
La teca è un parallelepipedo dal peso di 2.500 chilogrammi, le cui superfici laterali e inferiore sono realizzate con un doppio strato di acciaio balistico e la cui superficie superiore è fatta di uno spesso vetro laminato a prova di proiettile. La teca è sorretta da un carrello mobile che consente di effettuare gli spostamenti e le rotazioni necessarie in occasione delle ostensioni. All’interno della teca la Sindone è cucita su di un mollettone non trattato e appoggiata su di un supporto di alluminio scorrevole su rotaia.
Al termine dell’ostensione del 2000 la Sindone fu trasferita dalla teca utilizzata per le ostensioni in una nuova teca, più leggera e maneggevole, destinata alla conservazione ordinaria. All’interno della teca a tenuta stagna è stata introdotta una miscela di argon (99,5 per cento) e di ossigeno (0,5 per cento). La presenza di un gas inerte come l’argon - che non reagisce con i più comuni elementi chimici - miscelato a una piccola quantità di ossigeno è indispensabile per impedire lo sviluppo di batteri sia aerobici che anaerobici e, come si è detto, per interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto. La nuova teca è provvista di un sistema di controllo della pressione interna costituito da una batteria di soffietti mobili (posizionati al di sotto della teca) che garantiscono un costante equilibrio tra pressione interna ed esterna alla teca, necessario per evitare rischi di rotture del vetro.
Al termine di una lunga e delicata fase di preparazione, il 20 giugno 2002 ebbe inizio l’ultima fase dei lavori, consistente in un importante e indispensabile intervento di restauro conservativo che si concluse il successivo 23 luglio. Sotto la guida di Mechthild Flury Lemberg, esperta di fama internazionale di restauri di tessuti antichi, la Sindone venne scucita dal vecchio telo d’Olanda e successivamente furono scucite tutte le toppe al di sotto delle quali fu trovata una notevolissima quantità di materiale inquinante - costituito soprattutto da residui di tessuto carbonizzato durante l’incendio di Chambéry e polverizzatosi durante i secoli successivi - che costituiva ovviamente un notevole rischio per la conservazione del tessuto sindonico. Tale materiale fu asportato, raccolto in appositi contenitori sigillati, catalogato e consegnato al cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone
Prima di provvedere alla cucitura di un nuovo telo di sostegno sul retro della Sindone venne effettuato un completo rilievo fotografico e tramite scanner, oltre a rilievi fotografici in fluorescenza e registrazioni spettroscopiche Uv-Vis e Raman a diverse lunghezze d’onda in siti con diverse caratteristiche - al di sotto di siti senza immagine, con la sola immagine, con il solo sangue, con sangue e immagine, e così via. Fu inoltre effettuata un’analisi microscopica in alcuni siti con l’utilizzo di un videomicroscopio con ingrandimenti.
Infine vennero inoltre effettuati, sempre sul retro, alcuni prelievi microscopici con i metodi della suzione e del nastro adesivo.
Tutti i dati ottenuti e il materiale raccolto furono consegnati al custode pontificio della Sindone e, se e quando la Santa Sede lo riterrà opportuno, potranno essere messi a disposizione degli scienziati per studi e ricerche.
L’esame del retro della Sindone - rimasto coperto, e quindi non visibile, dal 1534 al 2002 - permise di confermare pienamente l’ipotesi avanzata nel 1978 dagli scienziati dello Sturp relativa al fatto che sul retro appaiono ben evidenti le macchie di sangue presenti sulla faccia visibile della Sindone, mentre è assente ogni traccia dell’immagine corporea perché possiede uno spessore solo di qualche centesimo di millimetro.
La Sindone è stata poi ricucita su di un nuovo telo di supporto, anch’esso tessuto in Olanda e preventivamente testato e analizzato per garantirne le caratteristiche chimico-fisiche. Infine i bordi delle bruciature furono cuciti al nuovo telo d’Olanda in quanto si è ritenuto non più necessario coprirli con nuove toppe, sia perché la Sindone è ora conservata completamente distesa in posizione orizzontale e quindi non più sottoposta a tensioni meccaniche, sia per rendere del tutto visibili l’immagine sindonica e le macchie ematiche.
Al termine dei lavori la Sindone è tornata nella sua teca, nel transetto sinistro della cattedrale di Torino, protetta e monitorata da sistemi moderni e sofisticati. Il futuro della ricerca sul misterioso lenzuolo è stato tracciato dal simposio "La Sindone: passato, presente e futuro" svoltosi a Torino nel 2000, che ha visto la partecipazione, su invito, di 40 tra i maggiori esperti a livello internazionale di studi sulla Sindone e dei campi di ricerca a essa connessi, provenienti da dieci Paesi. Al termine del simposio è stato deciso di raccogliere nuove proposte di ricerca al fine di avviare nuovi studi e una raccolta di nuovi dati.
Negli anni successivi al simposio sono pervenute a Torino, da scienziati di tutto il mondo, nuove proposte e progetti di ricerca che sono stati sottoposti all’esame di una commissione internazionale di esperti, per valutare la possibilità di avviare una nuova campagna coordinata di studi e di ricerche. Al momento attuale tutto il materiale raccolto è stato consegnato alla Santa Sede. Sarà la Santa Sede, proprietaria della Sindone, a decidere se e quando avviare una nuova campagna di ricerche dirette. La nuova e affascinante sfida che la Sindone lancia alla scienza per il nuovo millennio è già iniziata.
(©L’Osservatore Romano - 10 gennaio 2010)
1649 scatti per un telo in alta definizione
Un volume di pregio a tiratura limitata - 499 esemplari in numeri arabi, 80 in numeri romani e altre 20 fuori commercio - per uno degli oggetti più studiati nei secoli dal punto di vista scientifico, storico e teologico. Oltre alla prefazione curata dal cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino, e ai saggi storici e artistici di Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia, Gian Maria Zaccone, direttore scientifico del Museo della Sindone, e Timothy Verdon, il volume è caratterizzato da ricco corredo iconografico di oltre 120 immagini. In particolare spiccano le riprese fotografiche della Sindone realizzate ad altissima definizione dalla società Haltadefinizione con un procedimento certificato dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro: l’immagine del telo - ripreso dalla distanza di sicurezza di 30 centimentri con ben 1649 scatti - è stata suddivisa in piccole porzioni ricomposte grazie a un software che ha garantito le migliori condizioni di luce e nitidezza su ogni particolare.
(©L’Osservatore Romano - 10 gennaio 2010) --- CONTINUA
Morte e resurrezione nell’interpretazione dei grandi artisti
Il gonfalone della vittoria
di Timothy Verdon *
"Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio". Queste parole, che un Padre della Chiesa, san Cirillo d’Alessandria, s’immaginava sulla bocca di Cristo, suggeriscono il vero significato della Santa Sindone nella vita della Chiesa: non tanto una reliquia di sofferenza e mortalità, ma il segno della vittoria: della tomba vuota, del sudario abbandonato, della vita che trionfa sulla morte. Tale vittoria coinvolge poi ogni uomo, non solo il Salvatore: "Con la mia carne ho redento la carne di tutti", prosegue Cristo nel testo di san Cirillo, spiegando che "la morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me".
Questa universale e definitiva vittoria è visualizzata in un capolavoro del Rinascimento d’oltralpe: un pannello dell’altare di Isenheim, opera del tedesco Matthias Grunewald, dove Cristo esplode dal sepolcro ancora avvolto dalla Sindone, la quale viene gradualmente impregnata della sua nuova condizione, colorata dalla luce che lo circonda. In questa composizione divisa in due parti, Cristo risorto in alto e i soldati messi a sorvegliare il sepolcro sotto di lui, è infatti la Sindone a collegare la terra e il cielo; e laddove nella parte inferiore i militi sono supini o curvi - intorpiditi dal sonno e spaventati - in alto Cristo sorge eretto e libero, il suo corpo nudo sotto la Sindone sciolta mentre le guardie rimangono imprigionate nelle pesanti armature; libero è anche il volto del salvatore - schietto e gioioso - in contrasto alle facce coperte e ombreggiate delle guardie. Numerosi dettagli, e soprattutto le armi inutilmente impugnate dai militi evocano lo scontro celebrato nell’antica sequenza pasquale, dove si narra che "morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa". Gonfalone e reliquia di questo trionfo è la Sindone.
Il tema della Sindone come reliquia della Pasqua era stato elaborato in un altro dipinto nordico, una Risurrezione attribuita a Michael Wolgemut, trent’anni prima. Nella versione di Wolgemut, il primo maestro di Albrecht Dürer, l’attenzione viene attirata da affascinanti dettagli: l’alba del nuovo giorno su cui si staglia Gerusalemme, sullo sfondo a destra; nella media distanza, poi, le donne che varcano la soglia del giardino murato; e in primo piano i militi assopiti al piede del sepolcro.
S’impongono tuttavia i due elementi narrativi principali, posti al centro della composizione: il Risorto in piedi davanti alla tomba, con lo scettro in mano e un regale manto scarlatto, e, appena dietro di lui, la Sindone, sistemata da un angelo metà dentro il sepolcro, metà fuori. Sappiamo che tra pochi istanti Cristo scomparirà e che le donne, arrivando, non lo vedranno più; rimarrà solo la Sindone come testimonianza della sua Risurrezione.
La Sindone - il lungo telo utilizzato per il trasporto e la sepoltura del Salvatore morto in croce - appare soprattutto in raffigurazioni della sua deposizione e del successivo compianto sul cadavere: una tavola dell’olandese Geertgen tot Sint Jans, assai vicino al linguaggio stilistico e allo spirito pietistico della Risurrezione attribuita al Wolgemut, illustra bene quest’uso iconografico. La stoffa bianca su cui il corpo rigido di Gesù è steso, alla stregua della corona di spine e dei chiodi disposti appena sotto di essa, viene presentata come veneranda reliquia del sacrificio della croce; Golgotha, luogo del sacrificio, di fatto è visibile sopra il gruppo costituito da Cristo morto e Maria. Questa immagine suggerisce poi un’altra dimensione di significato della Sindone. La tavola di Geertgen è quanto rimane di un grande trittico descritto nelle fonti antiche: una pala d’altare databile intorno al 1484, la cui immagine centrale era la Crocifissione, mentre quella a sinistra rappresentava forse la Via Crucis, e quella a destra il Compianto. Tale programma iconografico serviva da sfondo per l’Eucaristia, celebrata davanti a queste raffigurazioni del sacrificio fisico del Salvatore, e il telo bianco steso sotto il corpo di Cristo nella tavola era pertanto visto appena sopra l’altare rivestito di un analogo tessuto bianco, la tovaglia su cui il sacerdote pone il Corpus Domini sacramentale: l’ostia consacrata. Nella simbologia liturgica medievale, l’altare era infatti considerato simbolo del sepolcro, e le "deposizioni" ed "elevazioni" dell’ostia immagine del corpo storico di Gesù tra Venerdì Santo e Pasqua.
La stessa mistica allusione all’altare eucaristico è presente in una piccola tavola del Beato Angelico, dove i temi di compianto e sepoltura, sovrapponendosi e fondendosi, suggeriscono un’adorante "comunione spirituale" che è anche un addio. Il cruciforme corpo di Cristo, sostenuto da Nicodemo, Maria e Giovanni, il discepolo diletto, è poi avvolto nella lunga Sindone che, sull’erba fiorita del giardino, diventa un perfetto rettangolo di stoffa bianca evocante la tovaglia della mensa eucaristica.
Pure in questo caso l’opera era infatti parte di una pala d’altare - il pannello centrale della predella - e anche qui la tovaglia bianca sulla mensa era visibile pochi centimetri sotto la Sindone raffigurata e della stessa forma.
Quest’immagine era al centro della predella della celebre pala angelicana per la chiesa fiorentina di San Marco, oggi conservata nell’attiguo convento domenicano diventato museo. Leggendo dall’alto verso il basso si capiva quindi che Cristo era prima nato, poi morto e successivamente sepolto; l’elevazione dell’ostia dalla tovaglia-sindone, alla consacrazione della Messa, avrebbe sottolineato che Egli era anche, infine, risorto. E la stoffa bianca della Sindone raffigurata nella predella - sotto la tavola grande e sopra l’altare - diventava anche allusione al "velo della carne" avuto dalla madre - il velo con cui Gesù Cristo nascose la sua divinità e s’immolò.
Il collegamento tra la Passione del Salvatore e la sua Natività è antico nell’iconografia cristiana, come suggerisce un’opera palestinese del VI secolo, il coperchio di una teca per reliquie. Il soggetto principale è la Passione, e al centro vediamo Cristo che stende le braccia tra i due ladri, il suo corpo così grande da quasi occultare la croce stessa. Ma l’anonimo artista ha inserito la crocifissione tra altri momenti della Vita Christi, così che l’immagine si presenta come un sunto in cui la crocifissione è l’atto dominante, occupando l’intero centro del campo visivo - anzi, configurando la composizione in termini cruciformi. Ecco allora perché i vangeli e la prima arte cristiana hanno trattato con concisione l’evento della crocifissione in sé, capivano cioè che il senso della crocifissione non era limitato all’evento stesso, ma che sulla croce Cristo aveva portato tutta la sua esistenza passata e futura.
Il legame morte-nascita è ancora più esplicito in uno spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, la Croce di Papa Pasquale i, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio ma i sette episodi vengono organizzati nelle braccia e al centro di una croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo devono essere obbligatoriamente letti tutti in rapporto alla futura crocifissione del Salvatore. Ciò che abbiamo chiamato "croce" è poi in realtà una stauroteca - un contenitore per frammenti della vera croce - sapendo che l’oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia, allusione alla futura offerta del corpo di Cristo come alimento.
Lo stesso modo di riassumere in un’unica immagine gli estremi esistenziali dell’umanato Figlio di Dio emerge in una piccola tavola trecentesca dove sono raffigurati sia il neonato Gesù, in basso, che il Vir dolorum, in alto, quasi a conferma dell’affermazione di san Leone Magno, secondo cui "l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione. Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione". L’enfasi delle Scritture e dell’arte sul legame tra la nascita di Cristo e la sua morte ha la funzione di presentare la Passione non come un episodio tragico - una conclusione imprevista e indesiderata del racconto esistenziale di Gesù - bensì come il senso stesso della sua vita, la ragione per cui è venuto nel mondo (cfr. Giovanni, 19, 37). Ma la morte di Cristo dà senso anche alle nostre vite, come suggerisce un capolavoro assoluto dell’arte occidentale, la grande pala dipinta da Giovanni Bellini per i francescani di Pesaro negli anni 1470, oggi divisa in due parti: la tavola principale al Museo Civico della città adriatica e la cimasa alla Pinacoteca Vaticana. Un’immagine drammatica che descrive l’unzione del cadavere di Cristo, tenuto sull’orlo del sepolcro da Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena, con la Sindone che gli avvolge le gambe; anche qui, nella sistemazione originale sopra l’altare della chiesa, il significato eucaristico della scena doveva essere evidente.
Ma quest’immagine di Cristo morto sovrastava un’altra, più grande, del Salvatore che, risorto, impone la corona a Maria sua madre. Il messaggio complessivo riguardava quindi la morte e la risurrezione di Cristo; riguardava anche la risurrezione di Maria, seduta accanto a Cristo, e dei quattro santi intorno al trono: Paolo e Pietro, Girolamo e Francesco. L’insieme d’immagini rappresenta infatti la meta finale di ogni donna e uomo, la vocazione celeste della carne umana; Maria è l’antesignana di questa "sorte beata", ma con lei ci sono altri e così capiamo che la nuova condizione del Signore morto e risorto si estende anche a noi. La bianca Sindone, in alto, che si trasforma in sontuoso abito di festa nella figura di Cristo in basso, diventa metafora della trasformazione della nostra mortalità in quella vita eterna promessa da lui, Cristo. Piuttosto che "abito di festa" dobbiamo poi dire abito nuziale, perché Chi chiama l’umanità accanto a sé è anche Sposo. Un analogo livello di interpenetrazione dell’umano col divino traspare in alcune raffigurazioni del Cristo morto dei maestri del Cinquecento. La prima è un disegno eseguito da Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna: una Pietà in cui lo stupendo Cristo morto sembra nascere dal corpo della madre. Maria, seduta sotto la croce dalla quale il figlio è stato deposto, con le mani alzate nel gesto antico di preghiera sembra crocifissa anche lei; figura della Chiesa, supplica il Padre di ridare vita al corpo del figlio, anch’esso figura ecclesiale; la Chiesa che chiede dal cielo la risurrezione della Chiesa, si può dire.
La seconda opera, sempre di Michelangelo e strettamente legata al disegno appena citato, è intensamente personale: la monumentale Pietà di marmo iniziata dal Buonarroti nel 1547 e lasciata incompiuta nel 1555, in cui, nella figura del vecchio che sostiene il corpo di Cristo vediamo l’autoritratto dell’artista. Secondo i suoi biografi contemporanei, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, Michelangelo intendeva collocare questo gruppo scultoreo sull’altare della cappella in cui pensava di essere sepolto, probabilmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, servendosene come monumento funebre; esso costituisce pertanto una confessio fidei in cui il committente assume il carattere di un personaggio scritturistico.
In questo caso committente e artista sono la stessa persona, e il "personaggio" assunto ha un significato speciale: Michelangelo si presenta come Nicodemo, il vecchio che "andò da Gesù di notte" per chiedergli "come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?" (Giovanni, 3, 2-4). Secondo una tradizione popolare diffusa in Toscana, Nicodemo era infatti scultore, autore del Volto Santo di Lucca.
Confrontando questa Pietà scolpita e il coevo disegno per Vittoria Colonna, rimaniamo colpiti dall’evidente rapporto tra le due opere. Nel disegno e nel gruppo scultoreo, il corpo di Cristo, potente anche nella morte, è sorretto da un personaggio che lo sovrasta e che, all’apice della composizione, diventa interprete del senso spirituale dell’evento. Ma laddove per Vittoria Colonna l’ "interprete" è Maria (in cui dobbiamo forse vedere un ritratto ideale della devota nobildonna) nella Pietà eseguita per Michelangelo stesso - nella veste di Nicodemo - è il vecchio che vuole rinascere a dare il senso. Nel gruppo marmoreo Michelangelo si sostituisce alla figura di Maria, cioè, mantenendo però l’idea base del disegno in cui il corpo di Cristo "nasce" dal corpo di chi lo sovrasta, così che vediamo Cristo nascere da Michelangelo forse secondo l’intuizione di sant’Ambrogio, per cui "ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio (...) se c’è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede invece Cristo è il frutto di tutti".
* (©L’Osservatore Romano - 10 gennaio 2010)
LA RESURREZIONE E’ AVVENUTA NEL 27 d.C. , NON NEL 30 o 33 d.C.
Ho il piacere di annunciare, su questo sito, che esiste un metodo di datazione più preciso di quello col Carbonio 14: è il metodo astronomico-logico-matematico-storico...
Gli “Anni fa” sono conteggiati a partire dall’Anno corrente con i pallottolieri:
1) Metone, con i pleniluni all’equinozio di primavera;
2) Keplero Corretto, con le congiunzioni Giove-Saturno (con la KCg = 19,98...+/- mesi per il cronista) ;
3) Cometa di Halley (periodo medio costante di 76 anni +/- mesi per il cronista).
Questa Tabellina, così semplificata, non è ancora stata pubblicata su Coelestis (cioè la sto pubblicando adesso... ) .
/+ . . . . 7 . . . . . . . . . . . . . .. . 22 . . . . . . . . . . . . .. . 22
d./ a.M. .. | . a./ d.C. | .. A. D. .. | . A.D.*. | . d./ a.C.*. | d./ a.C.** | Anni fa . . CMN . .. . CGC . . . Ab I.D. c. .di Dionigi. . .. C.U. . . . . . SVA
.. 2039° . | . 2032° . | . 2032° . | .2010°* | . 2010* d. | 1988°** . | 0 - Anno corrente
D 24
.. 2015° . | . 2008° . | . 2008° . | .1986°* | . 1986* d. | 1964°** . | 24 - Cometa Halley N. 1
D 1976
. . . 39° . | . . . 32° . | . . . 32° . | . . . 32° . | . . . 10* d. | . .-13°** .| 2000 - Congiunzione Giove-Saturno N. 101 ; Cometa Halley N. 27
. . . 38° . | . . . 31° . | . . . 31° . | . . . 31° . | . . . . 9* d. | . .-14°** .| 2001 - ...
. . . 37° . | . . . 30° . | . . . 30° . | . . . 30° . | . . . . 8* d. | . .-15°** .| 2002 - XVII Tiberio; V Pilato
. . . 36° . | . . . 29° . | . . . 29° . | . . . 29° . | . . . . 7* d. | . .-16°** .| 2003 - XVI Tiberio; IV Pilato
. . . 35° . | . . . 28° . | . . . 28° . | . . . 28° . | . . . . 6* d. | . .-17°** .| 2004 - XV Tiberio; III Pilato
. . . 34° . | . . . 27° . | . . . 27° . | . . . 27° . | . . . . 5* d. | . .-18°** .| 2005 - XIV Tiberio; II Pilato - Plenilunio all’equinozio di primavera N. 106 - Resurrezione (SCOMPARSA) di Gesù. XIII di Tiberio (XIV in settembre) : http://www.trekportal.it/coelestis/showpost.php?p=329116&postcount=3 http://www.trekportal.it/coelestis/showpost.php?p=329942&postcount=5
. . . 33° . | . . . 26° . | . . . 26° . | . . . 26° . | . . . . 4* d. | . .-19°** .| 2006 - XIII Tiberio; I Pilato
D 3
. . . 30° . | . . . 23° . | . . . 23° . | . . . 23° . | . . . . 1* d. | . .-22°** .| 2009 - Anno I per il nostro C.U. (ignorato a Enigma 2002 ! - N.B. usare sempre i p.a. quando si scavalca lo Zero...)
D 22
. . . . 8° . | . . . . 1° . | . .. . 1° . | . . . . 1° . | . . . 22* a. | . .-44°** .| 2031 - I A.D. - Anno I d.C. , Anno Zero, per il Calendario Gregoriano Corretto ( v. altrove su Coelestis ) .
. . . . 7° . | . . . .-1° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 23* a. | . .-45°** .| 2032 - Anno I a.C. per il Calendario Gregoriano Corretto.
. . . . 6° . | . . . .-2° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 24* a. | . .-46°** .| 2033
. . . . 5° . | . . . .-3° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 25* a. | . .-47°** .| 2034
. . . . 4° . | . . . .-4° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 26* a. | . .-48°** .| 2035
. . . . 3° . | . . . .-5° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 27* a. | . .-49°** .| 2036
. . . . 2° . | . . . .-6° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 28* a. | . .-50°** .| 2037
. . . . 1° . | . . . .-7° . | . - .- .- . | . -. . -.- . | . . . 29* a. | . .-51°** .| 2038 - Anno I d.M. , Anno Zero - Inizio della Nuova Era (riconosciuto e ammesso a Enigma 2002 -come 6 / 7 / 8 a.C.- da Mons. Gianfranco Ravasi, Prof. Giovanni Bignami, Prof. Piergiorgio Odifreddi (con indifferenza) , Vittorio Messori (a mezza bocca e a denti stretti, cercando di "frenare") ...
D 1
. . . .-1° . | . . . .-8° . | . - .- .- . | . - - - - . | . . . 30* a. | . .-52°** .| 2039 - CULMINE della Congiunzione Giove-Saturno N. 103 - Nascita di Gesù, il promesso messia. Pastori e pecore ancora fuori all’aperto di notte - Data di censimento (1° di Quirinio) - Arrivo dei Re Magi a Gerusalemme.
D 1
. . . .-2° . | . . . .-9° . | . - .- .- . | . - - - - . | . . . 31* a. | . .-53°** .| 2040 - Congiunzione Giove-Saturno N. 103 eliocentrica al solstizio d’inverno dell’ Anno IX a.C. in Acquario / Pesci - ESULTANZA di Astrologi e Magi : < E’ nato il messia... il " Soccorritore " ... il re d’Israele!... > ... - Concepimento di Gesù, il promesso messia, nella notte più lunga dell’ anno - Prima Venuta - ... - < M A G N I F I C A T > - Preparativi dei Re Magi per la partenza verso Gerusalemme .
D 188 -
. .-190° . | .. .-197° . | . - .- .- . | . - - - - . | . . 219* a. | . -241°** .| 2228 - Cometa di Halley N. 30 .
=================================================.
Nota:
rispetto al passaggio N. 27 , seguendo un qualsiasi calendario e RICORDANDOSI di usare i p.a., progressivi algebrici, oppure con gli "Anni fa"- si ha:
[38 - (-190)] CMN = [31 - (-197)] CGC = [9 - (-219)] CGT o C.U. = [-13 - (-241)] = ... = -2000 - ( -2228] Anni fa = 228 = 76 anni ciclo * 3 cicli.
Come pure rispetto al passaggio N. 1 , dimostrazione già fatta e ripetuta su Coelestis:
[2014 - (-190)] CMN = [1985 - (-219)] CGT o C.U. = [1963 - (-241)] SVA = ... = [-24 - [-2228] Anni fa = 2004 anni = 76 anni/ciclo * 29 cicli .
Le dimostrazioni si trovano su Coelestis - Il Forum Italiano di Astronomia - Powered by vBulletin e sul Corriere della Sera, forum di Magdi, nickname “il fanciullo”, p.e. PASQUA DI RESURREZIONE: scomparsa del corpo di Gesù. il fanciullo - 17-04-2006 18:58
A) Calendari Comparati , su Coelestis - Il Forum Italiano di Astronomia - Powered by vBulletin :
1) Archeoastronomia: I Calendari Comparati dimostrano che “la Sindone è un falso” (Barbara Frale) ( 1 2)
2) Domande alla Redazione:
Chiedo aiuto su Calendari Comparati e conferma cicli di Metone ( 1 2 3 ... Ultima pagina)
Il BUCO di Dionigi (anno per anno, alla moviola...) ( 1 2 3 ... Ultima pagina)
La cometa di Halley nei CALENDARI COMPARATI ( 1 2 3 ... Ultima pagina)
Calendari Comparati. Periodicità delle Congiunzioni Giove-Saturno ( 1 2 3 ... Ultima pagina)
Il novilunio dell’Egira nei CALENDARI COMPARATI ( 1 2 3)
3) Altre considerazioni nella sezione Sondaggi: Credete in Dio?( 1 2 3 ... Ultima pagina) - v. dalla pag. 189..192..201-202-209...216... in poi ... 238.. ...
B) I Calendari Comparati (edizione semplificata, ancora incompleta e senza colori) spero si possano cliccare, ad es., su queste pagine: http://www.trekportal.it/coelestis/showpost.php?p=332404&postcount=12 http://www.trekportal.it/coelestis/showpost.php?p=328419&postcount=1
C) Calendari Comparati - http://www.astrionline.it/calendari/ con i pleniluni all’equinozio di primavera e i passaggi della cometa di Halley (il caricamento richiede circa 30 secondi di attesa) .
Aggiornamenti sul duello Barbara Frale / Luciano Canfora, in: I Calendari Comparati dimostrano che “la Sindone è un falso” (Barbara Frale)
...
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Chiunque può indietreggiare a piacere, fino al tempo dei faraoni ed oltre, con il nuovo metodo di datazione che non può sbagliare l’anno, grazie agli eventi astronomici, alla Logica matematica, al comune buon senso, alla regola elementare universale “ogni anno passa un anno” per tutti i calendari seri, senza buchi...
( v. Rivista Coelum, Settembre 2008, Adriano Gaspani dell’ Osservatorio astronomico di Brera, ... Una lettera del lettore Maurizio Masetti, che propone un nuovo metodo di calcolo per la determinazione della data esatta della nascita e della crocifissione di Cristo, mi offre la possibilità di parlare di un problema che continua a rivestire un notevole fascino, e che induce ancora oggi molti appassionati a tentare complessi calcoli computistici ... )
Non ci sono diritti d’Autore. Chiunque intuisce la cosa, può far suo il nuovo metodo.
Se qualcuno troverà errori, basterà correggerli.
Grazie
Un ERRATA-CORRIGE (errore alla tastiera) dopo la tabellina, nella Nota:
nella Nota dopo la tabella " [2014 - (-190)] CMN = [1985 - (-219)] CGT o C.U. = [1963 - (-241)] SVA = ... = [-24 - [-2228] Anni fa = 2004 anni = ... "
ERRATA: 2004 - CORRIGE: 2204.
Grazie!