INTERVISTA.
La donna nei Paesi islamici: eppure qualcosa si muove.
Parla la scrittrice marocchina Fatema Mernissi
Ecco perché Sherazade è musulmana
«Il mondo femminile arabo non è più quello degli harem, dove le ragazze sono oggetti passivi: già la protagonista delle "Mille e una notte" era bella, intelligente e agguerrita, altro che una velina... E ormai persino Al Jazeera ha assunto un sacco di giornaliste»«Internet e il satellite ci danno la possibilità di avere su noi stessi uno sguardo inedito, abbiamo scoperto le nostre differenze. Da noi inoltre la riforma del Codice ha portato più diritti in caso di divorzio: nel 1960 l’80% delle spose aveva meno di vent’anni, oggi la percentuale è del 20%»
Da Rabat (Marocco) Chiara Zappa (Avvenire, 12.10.2006)
«Guardi la luna: di quanti giorni è secondo lei?».
Silenzio. «Ecco, questa è la differenza tra voi occidentali e noi arabi: chiunque, qui, osservando la luna sa dire con precisione a che punto è del suo ciclo».
Scontro di civiltà secondo Fatema Mernissi, scrittrice marocchina simbolo di quell’islam moderato e "femminista" di cui tanto ha bisogno un Paese che sta faticosamente provando a staccarsi dal suo passato. E non solo.
La luna in questione è quella che brilla su Rabat una sera qualunque di fine estate, quando mancano pochi mesi alle elezioni che chiariranno quanto pesino anche in questa terra le fazioni islamiche fondamentaliste, e la gente nei bar si anima sulle vicende di un Medio Oriente che da qui sembra dietro l’angolo.
«La guerra in Libano ha avuto un effetto positivo: riportare in primo piano il potere materno di nutrire», esordisce la sociologa diventata famosa in tutto il mondo con i suoi libri in cui proprio la bellezza delle donne, e il suo controllo forzato, sono la chiave per capire l’Oriente e l’Occidente.
Nel suo commento sulla crisi libanese Mernissi non si riferisce solo a quelle madri e mogli di opposte fazioni che sono scese in piazza insieme contro il terrore.
«Certo, indubbiamente esiste una saggezza universale femminile, che non dipende dalle culture. Ma ciò di cui sto parlando è un approccio che può appartenere a chiunque, anche se ispirato al potere naturalmente femminile di mettere al mondo figli e garantire loro l’energia di cui hanno bisogno finché non sono autonomi. Questo potere si contrappone a quello che io definisco "paterno", tipico delle istituzioni, dagli Stati alle multinazionali, di controllare e usare l’energia. È il potere della forza, degli eserciti, considerati mezzi leciti di controllo ma che comunque seguono una logica di morte».
E non è esattamente il tipo di approccio usato in Libano?
«Appunto. Ed è stato chiaro a tutti che questo potere non funziona più, non rende forti e non viene più ammirato dall’op inione pubblica. Il potere che viene ammirato dai civili, arabi o israeliani che siano, è invece quello di nutrire, di prendersi cura, di garantire la sicurezza della gente. È sempre più evidente a tutti che le frontiere non esistono più, che quello che esiste, nel mondo, sono solo fragili civili: la vera questione, oggi, non è dunque come difendere le frontiere, ma come tutelare le persone».
Per capire questo, e molto altro, secondo Fatema Mernissi basta accendere la televisione. E fare un po’ di zapping.
«Guardi, guardi quanti canali arabi. Sono 200 - rivela reggendo il telecomando come se fosse la chiave di un nuovo potere -. Un po’ come Internet, il satellite qui ha portato una rivoluzione, perché ha dato la possibilità al mondo arabo di avere uno sguardo inedito su se stesso, uno sguardo non mediato dall’Occidente e soprattutto plurale. Per voi occidentali noi arabi siamo tutti uguali. Invece per noi marocchini, ad esempio, vedere una fiction egiziana, o saudita, è curioso, buffo. Insomma, possiamo fare sentire la nostra voce ma anche scoprire le nostre differenze».
Opportunità non da poco in un tempo in cui il concetto di Umma, la comunità musulmana, viene mistificato e - strumentalmente - applicato da opposte parti a realtà quanto meno spurie.
«E poi c’è Al Jazeera - e qui lo zapping si ferma qualche minuto. Forse per spiegare l’importanza di una multinazionale della comunicazione araba? -.In realtà volevo farle notare quante donne lavorano per l’emittente. Recentemente Al Jazeera ha fatto un’ondata di assunzioni di giornaliste. Ricorda il discorso sull’insicurezza globale? Ebbene, chi più ne porta il peso sono le donne, perché in un mondo di vulnerabili loro sono le più vulnerabili, le meno tutelate. E quindi, le più motivate. Perché per ottenere lo stesso grado di considerazione sociale devono essere più rigorose, più forti, più preparate degli uomini. E così fanno».
Anche nel mondo arabo? Anche qui in Marocco?
«La riforma della Moudawana, il Codice di statuto personale, sta portando molti cambiamenti. Certo, la tradizione è lenta a morire, ma una legge ha anche effetti immediati. Per esempio, i nuovi diritti della donna in caso di divorzio hanno scoraggiato molti uomini al matrimonio, mentre ci sono donne che, piuttosto che scegliere le vite delle loro madri, rinunciano alle nozze in giovane età. Se negli anni ’60 le donne che si sposavano prima dei vent’anni erano l’80%, oggi sono il 20%».
Una rivoluzione.
«Enorme. Specialmente se tiene conto del contesto culturale musulmano. Non dimentichi che nella tradizione cristiana esistono le donne consacrate: donne sole, senza figli, degne di rispetto. Nella tradizione islamica non c’è nulla di tutto ciò. Queste differenze sostanziali tra islam e Occidente sono spesso ignorate, mentre per giustificare le nostre diversità ci si ferma a luoghi comuni. Da secoli».
Per spiegarsi meglio Mernissi prende un foglio e si mette a leggere. È la prima pagina del suo nuovo libro, ancora inedito.«Perché Aladino non poteva che essere musulmano? Perché il tappeto volante, che si muove libero ignorando i confini, è frutto naturale di un contesto islamico?».
La scrittrice cita l’interpretazione che si rifà appunto alla Umma, «che non ha confini interni», e quella che associa la tradizione letteraria musulmana a «un mondo di mistero, irrazionalità, trasgressione. Il mondo degli harem, immaginati come luoghi di lussuria, il mondo in cui le donne da sempre sono oggetti, passivi e inoffensivi.
Ma come la mettiamo con Sherazade, che era bellissima, e insieme molto intelligente, tutt’altro che inoffensiva? Tutti quelli che rivendicano a sproposito la tradizione islamica dovrebbero farsi un esame di coscienza». E anche quelli che ci propinano un mondo di veline e di «pupe» senza cervello.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
World
In Iran si insedia il nuovo parlamento: più donne che ayatollah
Secondi i calcoli dell’emittente Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi. *
Si sono insediati questa mattina a Teheran i 290 deputati del nuovo parlamento, il decimo Majlis della Rivoluzione islamica, eletto nel voto popolare del 26 febbraio scorso. Sono arrivati su lussuose macchine nere, e hanno giurato tutti insieme, in coro, citando i versi del Corano, sotto la volta piramidale della moderna, gigantesca aula dell’assemblea legislativa.
Secondi i calcoli dell’emittente iraniana Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi, i fondamentalisti - tra cui una maggioranza di contrari all’accordo sul nucleare - il 29%, gli indipendenti il 22,41. Un rimanente 7% e’ occupato dalle minoranze religiose (2 armeni, un caldeo, un ebreo e uno zoroastriano) e da deputati che si sono presentati sia nelle liste dei riformisti che in quelle degli ultraconservatori, cosa perfettamente legittima nella Repubblica islamica.
Ma la grande novità dell’Assemblea è il numero delle donne: diciotto deputate, un record mai raggiunto dai tempi della Rivoluzione islamica.
Un altro dato interessante è il crollo della presenza di religiosi, ridotta ai minimi storici: solo sedici ayatollah sono riusciti a conquistarsi una poltrona, ulteriore conferma di un paese ormai in marcia verso la laicita’. Stamani e’ stato il momento dei discorsi, dei messaggi, dei giuramenti, dell’inno nazionale, dei canti religiosi. Il presidente Hassan Rohani, dal palco dell’assemblea, ha rivendicato i successi del suo governo: dall’accordo sul nucleare al nuovo ruolo politico ed economico dell’Iran sulla scena mondiale, dalla battaglia contro l’inflazione, ridotta dal 40% al 10%, alla ripresa delle esportazioni petrolifere, che hanno ormai raggiunto i livelli del pre-embargo.
Il messaggio inviato ai neo-deputati, dall’ayatollah Ali Khamanei. La Guida Suprema ha chiesto loro di "difendere l’economia di resistenza e i valori islamici" dell’Iran e di "costituire un bastione contro i progetti e le eccessive domande dell’arroganza internazionale". Un invito a posizioni isolazioniste. Sulla carta, la nuova assemblea dovrebbe riuscire ad esprimere una maggioranza moderata e pro-Rohani, a differenza del nono Majilis, dove i falchi ultraconservatori dominavano e facevano di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al governo.
Da ricordare che in Iran non esistono partiti politici organizzati, la politica si presenta molto fluida e l’ago della bilancia potrebbero essere gli indipendenti. Il primo banco di prova per sondare i veri rapporti di forza in Parlamento sarà l’elezione del presidente dell’Assemblea: i due principali sfidanti sono il leader della formazione moderata - riformista, Mohammad Reza Aref, e il presidente del precedente Majlis, Ali Larijani, conservatore fedele alla Guida Suprema e al tempo stesso non ostile all’accordo sul nucleare. Nel caso di vittoria di Aref, Rohani potrebbe contare su un Parlamento amico, in grado di sostenerlo nella sua politica di riforme economiche e politiche e di tirargli la volata per una rielezione come presidente nel voto del 2017.
Il decimo Majlis rimarrà in carica fino al 27 maggio del 2020. La sua attività legislativa e’ sotto il controllo del Consiglio dei guardiani, un organismo giuridico religioso nominato dalla Guida Suprema, che ha il potere di selezionare gli aspiranti deputati e di bocciare tutte le leggi "non conformi ai valori islamici".
* globalist 28 maggio 2016 (ripresa parziale).
Marocco, riapre la biblioteca più antica del mondo
Fondata a Fes nell’859 da Fatima El Fihriya, contiene manoscritti del XII secolo
di Karima Moual (La Stampa, 10/03/2016)
Tra i vicoli della vecchia medina di Fes vi è custodito un tesoro che pochi conoscono: la biblioteca di Al Qarawiyyin. Non solo la più vecchia dell’Africa ma, secondo l’Unesco, anche la più antica istituzione di insegnamento operativa mai esistita. Secoli di storia raccolti in manoscritti che risalgono al XII secolo custoditi tra le mura di un edificio che, da solo, rappresenta voce e testimonianza di un passato, una storia, un’epoca d’oro che sfida l’attualità dei figli odierni di quel mondo. Sfida ancora più impegnativa quando si scopre che fu una donna, Fatima El Fihriya, nell’859, la fondatrice di una istituzione d’avanguardia.
Quella del Qarawiyyin non è solo una biblioteca, ma anche una moschea e un’università. E’ stata un punto di riferimento di primo piano sul trasferimento della conoscenza non solo in quel luogo, ma anche tra musulmani ed europei.
Grazie a Fatima, che ci ricorda quanto invece il contributo delle donne nella civiltà musulmana fu attivo e tutt’altro che in ombra, poterono crescere - tra i manoscritti della biblioteca e le mura dell’università da lei fondata - ragazzi e alunni che diventarono pilastri di quella civiltà, come il poeta mistico e filosofo Ibn Al-Arabi e l’economista Ibn Khaldun.
Questa straordinaria storia, però, era in procinto di essere divorata e distrutta per sempre dalla polvere e dalla noncuranza. La buona notizia di questi giorni è che la biblioteca Al Qarawiyyin, dopo che le sue porte erano state chiuse per anni, apriranno finalmente al pubblico da maggio. Sono infatti, terminati i lavori di riabilitazione avviati nel 2012 grazie all’iniziativa del Ministero della Cultura marocchino, che ha affidato ad un’altra donna, l’architetto Aziza Chaouni, il compito di portare a compimento la rinascita di un luogo fondamentale per la storia del Nord Africa.
Tra qualche mese, dunque, si potrà tornare indietro nel tempo non solo attraversando i misteriosi vicoli della vecchia medina di Fes, la bottega di un artigiano del legno o della seta, oppure dei Sherbil di pelle ancora gelosamente lavorati a mano. Ma i fortunati visitatori potranno oltrepassare la porta dei Qarawiyyin, superare gli archi e arrivare alla biblioteca rimanendo estasiati dai Zellij colorati, dai mosaici e dalle fontane completamente ristrutturate, ammirare il giardino in fiori nel Patio centrale ed arrivare alla stanza della conoscenza: la biblioteca che finalmente prende vita con i suoi manoscritti unici, il vero tesoro di Fes e del mondo, come lo è questa città, dichiarata dall’Unesco, patrimonio dell’umanità.
La lezione di Fatima Mernissi (da rileggere oggi)
di Alessandra Coppola (Corriere della Sera, La città nuova, 01.12.2015)
La prima volta che ho letto un suo libro è stato quando, ancora ai primi anni dell’università, mi sono imbattuta nel romanzo La terrazza proibita (Giunti 1996) e mi si è spalancato un mondo: il mondo arabo e, in particolare, il Marocco. Quella narrazione in prima persona capace di restituire orgoglio per le proprie origini e condanna di leggi e sistemi patriarcali ha guidato negli anni a seguire i miei studi e le mie ricerche.
Il suo lavoro di rilettura femminista della storia del mondo islamico e dei testi sacri dell’Islam è stato molto importante per un grande numero di studiose e di attiviste - ma credo che qui potrebbe essere corretto usare anche il plurale maschile - in diverse parti del mondo. Volumi quali Le sultane dimenticate (Marietti 1992) e Donne del Profeta: la condizione femminile nell’Islam (ECIG 1992) svelano - come pochi altri lavori apparsi in quegli stessi anni - una storia sul ruolo e l’attivismo delle donne che ancora oggi risulta nascosta agli occhi di molti.
I libri di Fatima Mernissi hanno formato generazioni di giovani donne e uomini, e hanno aperto la mente di molti lettori e lettrici sui rapporti tra “Oriente” e “Occidente”. Scherazade Goes West tradotto in italiano con il titolo L’harem e l’Occidente (Giunti 2000) è un testo prezioso nello svelare le pratiche di costruzione dell’”alterità” in epoca coloniale, e la persistenza di dinamiche di dominio nel nostro presente post-coloniale.
Ricorderò Fatima Mernissi nel corso delle mie lezione all’università. Credo che sia importante in questo frangente storico ricordare le sue battaglie per la democrazia e i diritti delle donne nell’Islam e in nome dell’Islam.
di Shirin Ebadi, Narges Mohammadi (la Repubblica, 4.11.2015)
SONO anni che le donne iraniane stanno cercando di ottenere pari diritti pagando un prezzo molto alto. Ma il regime al potere ha sempre temporeggiato nel riconoscere uguali diritti per le donne e alcune istituzioni e autorità hanno persino difeso esplicitamente le proprie posizioni discriminatorie contro le donne presentando diverse giustificazioni.
Il regime iraniano non considera i diritti delle donne pari a quelli degli uomini e, nel giustificare le proprie politiche discriminatorie, ritiene che le donne siano incapaci e prive delle necessarie competenze. Ad esempio, secondo il codice penale islamico approvato dopo la Rivoluzione del 1979, la vita di una donna vale la metà della vita di un uomo. Ciò significa che se un fratello ed una sorella sono vittime di un’aggressione o di un incidente stradale, il risarcimento pagato all’uomo è il doppio di quello pagato alla donna.
In tribunale la testimonianza di due donne vale come quella di un uomo. Un uomo può avere contemporaneamente quattro mogli. E molte altre leggi discriminatorie. Porre limiti alle donne nello scegliere gli studi accademici, non riconoscere le donne all’altezza di fare il magistrato, negare l’idoneità a quelle che intendono candidarsi per le presidenziali, e altri casi ancora, vengono motivati con la scusa dell’incapacità e della fragilità fisica e mentale delle donne.
Ora, in un sistema dove alla donna viene negata la parità di diritti per la sua presunta incapacità, arretratezza ed inferiorità, vediamo il punto di vista del regime nell’applicare le sanzioni penali: considera le donne fisicamente e mentalmente inferiori o no? In un sistema giuridico dove la donna è inferiore all’uomo, le sue responsabilità sono invece maggiori. Secondo il codice penale islamico, l’età della responsabilità penale per le femmine è 9 anni, per i maschi 15 anni. La responsabilità penale delle ragazze comincia 6 anni prima di quella dei maschi e esse devono affrontare le punizioni come un adulto.
Nei tribunali le donne sono trattate con maggiore severità. I processi e le pene pesanti inflitte alle donne attiviste socio- politiche rivelano la politica di “due pesi e due misure” applicata a danno delle donne. I tribunali iraniani, nell’infliggere pene severe alle attiviste socio- politiche, non soltanto non considerano le donne più fragili fisicamente e mentalmente rispetto ai loro compagni attivisti maschi, ma talvolta le condannano a pene più pesanti e di solito hanno un atteggiamento discriminatorio nel creare condizioni carcerarie più pesanti e insopportabili. Ad esempio, Zeinab Jalalian, una ragazza che ora si trova in carcere, era stata condannata all’ergastolo per aver sostenuto un gruppo di curdi indipendentisti.
Bahareh Hedayat è un altro esempio: rappresentante degli studenti, arrestata durante la prima settimana della sua luna di miele, è stata condannata a sei anni di reclusione in un processo iniquo e, dopo aver scontato la pena, il tribunale ha emesso un’altra sentenza in base alla quale deve rimanere in carcere altri due anni. Sono numerosi gli esempi come questi.
Ma qual è il motivo di tale accanimento e oppressione contro le donne in Iran? Secondo il regime, la politica in Iran è un campo maschile, che comunque ha limiti stabiliti anche per gli uomini; trasgredire tali limiti è punibile.
L’ingresso delle donne nella vita pubblica e politica non è soltanto considerato come una sfida al potere, ma viene specificamente considerato come una sfida all’ideologia patriarcale del sistema islamico. Quindi si può dire che, secondo il regime, la donna attiva nella sfera sociale e politica commette due reati. Il primo è trascurare i doveri di madre e moglie, suo ruolo principale, entrando nella sfera pubblica e, per giunta, criticando il regime. Il secondo è che, criticando il potere e il regime, trasgredisce e supera i limiti stabiliti e quindi merita la punizione più severa.
Le donne iraniane sono unite nella lotta contro le leggi discriminatorie originate dalla cultura patriarcale. Attualmente più di cinquanta donne si trovano in carcere per aver protestato pacificamente e le donne fuori dal carcere le sostengono e lottano per creare un mondo migliore per tutti, donne e uomini. Il regime sa bene che la vittoria delle donne getta le basi per la democrazia in Iran e per questo motivo cerca di reprimerle e di metterle a tacere. Il regime è così severo contro le attiviste e cerca di reprimerle perché il movimento femminista è riuscito ad entrare anche nelle case dei fondamentalisti al potere, i quali sanno che la vittoria delle donne comporterà grandi cambiamenti sulla scena politica e sociale del Paese.
Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, è presidente e fondatrice del Centre for supporters of Human Rights. Narges Mohammadi è vicepresidente e portavoce (Traduzione di Ella Mohammadi)
Anche l’indifferenza è un tiranno: sconfiggetela con un romanzo
Solo l’immaginazione ci salva dalla dittatura
Dopo “Lolita a Teheran” un nuovo inno alla libertà dell’immaginazione: come salvare la democrazia con le storie di Twain, Lewis, McCullers
E nelle democrazie non spetta solo ai politici difendere la libertà: ogni individuo è tenuto a lottare contro l’indifferenza del benessere
di Azar Nafisi (La Stampa -TuttoLibri, 19.09.2015)
Se dovessi risalire alle origini della Repubblica dell’immaginazione, direi proprio che cominciò tutto a Roma, o con Roma! L’idea, per esser più precisi, mi venne la prima volta nel 2004, quando scrissi un discorso per il Festival internazionale delle Letterature di Roma. Qualche mese dopo, il 5 dicembre 2004 il «Washington Post Book World» ne pubblicò una versione diversa e abbreviata, con il titolo di Republic of Imagination. In onore della nascita italiana del mio libro e del ruolo che l’Italia ha avuto nel suo concepimento, vorrei riportare in vita quella magica serata di Roma aprendo e concludendo questo articolo con i passaggi che aprirono e conclusero il mio intervento di allora.
«Celebro questo paese che tanto spesso avevo già visitato con l’immaginazione prima che nella realtà, fra persone delle quali non parlo la lingua ma con cui condivido un linguaggio comune e universale che sfida tutti i confini geografici. Questa Italia vera e reale dove mi trovo oggi sarà sempre legata nella mia mente e nel mio cuore a quell’altra così piena di magia che ho scoperto per la prima volta grazie ai prodigi dell’immaginazione, nei film, nei romanzi, nell’arte e nella musica.
Da bambina, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Sophia Loren e Gina Lollobrigida non mi erano meno noti dei loro omologhi iraniani. In seguito, una schiera di registi con i nomi che quasi per magia finivano tutti con la stessa vocale, la “i”, lasciò un’impronta profonda sulle mie idee e i miei ideali: Fellini, Antonioni, Pasolini, Rossellini, Minnelli, Bertolucci.
Alcuni decenni dopo, quando qualcuno decise di cambiare il nome del mio paese da Iran a Repubblica islamica dell’Iran e parecchi cinema dove avevo visto quei film furono chiusi o incendiati, per otto anni di guerra, tra un oscuramento e l’altro, tra gli urli delle sirene e il fragore delle bombe, ho continuato a guardare con amici e parenti le videocassette proibite dei vecchi film della mia infanzia e della mia gioventù, insieme a quelli più recenti che venivano introdotti clandestinamente in Iran.
Quante volte, e in quanti soggiorni pieni di amici e semplici conoscenti ho visto Nuovo cinema Paradiso, e mi sono commossa senza pudori vedendo tutti quei baci censurati che toccavano il cuore anche dei meno romantici fra noi. Così, i colori di Tiziano, Caravaggio e Leonardo sono entrati a far parte delle luci e delle ombre dei miei sogni; e mi ricordavo le arie delle opere di Verdi come se fossero state scritte nella mia lingua.
«E poi c’era l’Italia che prendeva forma grazie all’immaginazione di scrittori e poeti, italiani e stranieri. Prima ancora di vedere i quadri di Filippo Lippi e Andrea Del Sarto li ho scoperti nelle poesie di Robert Browning, ed ero già stata a Roma, a Napoli, a Venezia e a Trieste grazie ai racconti di James, Mann, Moravia, Ginzburg, e di tutti quegli scrittori italiani i cui nomi terminavano in “o”: Eco, Calvino e il mio amatissimo Italo Svevo, di cui ero riuscita a scovare La coscienza di Zeno in una libreria dell’usato di Teheran.
L’altro giorno, in mezzo ai quaderni che avevo portato con me negli Stati Uniti dalla Repubblica islamica ho ritrovato un pezzetto di carta dove avevo annotato una citazione da Primo Levi; i suoi libri, con tutta la loro saggezza, mi hanno aiutato a superare alcuni dei momenti più difficili e disperati della mia vita sotto il regime islamico. Levi ci ricorda che, siccome la vita nel campo di concentramento riduce l’uomo a una bestia, “noi bestie non dobbiamo diventare ... e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà”.
«Ho visitato anche tanti altri paesi, la Francia, la Russia, l’Inghilterra, l’America, l’Egitto e la Turchia. Così, fin dalla prima infanzia ho avuto in mente la mappa di un mondo che non aveva confini geografici, ed era popolato da uomini come Dante, Racine, Shakespeare, Boccaccio, Goethe, Tolstoj e Hafiz. Sono stati quel mondo e i suoi illustri abitanti, quella pluralità di lingue, colori e leggi a farmi capire per la prima volta quanto la creazione e la salvaguardia di una vera democrazia dipendano da ciò che potremmo chiamare un’immaginazione democratica».
«I lettori nascono liberi e liberi devono rimanere» ricordò Vladimir Nabokov ai suoi studenti. Prima di essere una scrittrice sono stata una lettrice, e i miei libri celebrano l’atto della lettura». «Da bambina mi resi conto che attraverso le storie potevo invitare nella mia cameretta il mondo intero, ma presto scoprii che la realtà era fragile e che era facilissimo perdere tutto quel che rientra sotto il nome di casa. A tredici anni fui mandata a studiare in Inghilterra.
Fu la prima lezione che ebbi sulla provvisorietà e l’incostanza della vita. L’unico modo che avevo per ritrovare la mia Teheran perduta e sfuggente era affidarmi ai ricordi e a qualche libro di poesia che avevo portato da casa. In quelle notti tristi, nella piccola città umida e grigia di Lancaster, mi infilavo sotto le coperte con la borsa dell’acqua calda e aprivo a caso uno dei tre libri che avevo sul comodino: Hafiz, Rumi e una poetessa persiana contemporanea, Forugh Farokhzad.
Allora non sapevo che in quel modo mi stavo già costruendo una nuova casa, una casa portatile, che nessuno avrebbe potuto togliermi. In seguito, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, mi adattai ad altre nuove case e le seppi accettare con l’aiuto degli amici e dei familiari che incontrai in Sterne, Swift, Fielding, le Brontë, Austen, Auden, Shakespeare, Melville, Poe, O’Connor, Faulkner, McCullers, Baldwin, Dickinson e altri.
Capii a fondo solo nel 1979 quanto sia importante l’immaginazione quando si lotta per conquistare e custodire le libertà individuali e i diritti umani. Quell’anno tornai in Iran subito dopo la Rivoluzione islamica, e compresi che l’esilio più duro è quello in cui non ci si sente più a casa in casa propria. Che i regimi oppressivi prima brucino i libri e poi uccidano le persone non era più un concetto astratto e non faceva più parte delle esperienze degli altri; era diventato un aspetto della mia realtà personale e una parte integrante della mia esperienza quotidiana.
Il regime islamico prese di mira innanzitutto i diritti umani e le libertà individuali, tutto quello che suggeriva differenza e diversità, e le sue prime vittime furono le donne, le minoranze e la cultura. Oltre a emanare leggi contro le donne e le minoranze, colpì gli scrittori, i poeti, gli artisti, i musicisti, i giornalisti. Disse che gli studi accademici, umanistici e sociali in particolare, erano nocivi. L’ayatollah Khomeini giunse a definire le università «la fonte di ogni sciagura»; erano più pericolose delle bombe. Presto furono chiuse in nome della «Rivoluzione culturale», la resistenza e i cortei universitari furono repressi, e così molti persero la vita o i mezzi per vivere.
Non sorprende che siano finite sotto attacco proprio le arti e le discipline umanistiche. I capolavori dell’arte, della letteratura e della filosofia minacciano le tirannie perché incoraggiano a pensare liberamente, immaginare, mettere in discussione le idee preconcette e l’autorità stabilita. Nessun sermone, nessuna forma di correttezza politica può sostituire la profonda empatia che nasce dall’immaginazione, quando questa ci fa vivere le esperienze di altre persone e ci apre gli occhi su idee e punti di vista di cui ignoravamo l’esistenza.
Nel 1997, al mio ritorno in America, mi accorsi in fretta che purtroppo i tiranni sanno molto meglio di certi nostri leader democratici come l’immaginazione e le idee insidino il loro dominio assoluto. Loro sono pronti a uccidere per soffocare la libertà di scelta e d’espressione, ma molti altri sono pronti a perdere il lavoro, la sicurezza e a volte anche la vita per proteggere il loro senso di integrità personale e il diritto di essere come vogliono. Si può arrivare a dire che ai dittatori faccia più paura la cultura democratica dell’Occidente che il suo potere militare, ed eppure la cultura democratica non è un monopolio dell’Occidente: appartiene a tutti quelli che lottano per lei e vi sono votati, a prescindere dalla loro provenienza. Come il totalitarismo, anche la democrazia può esistere ovunque, in Oriente e in Occidente, e non può sopravvivere senza un’immaginazione democratica.
Del resto, per sapere queste cose non bisogna necessariamente vivere in una società oppressiva. Oggi stiamo affrontando, non solo in America ma nella gran parte delle democrazie, una crisi che non si limita all’economia o alla politica; le nostre difficoltà economiche e politiche in realtà si fondano su una crisi di visione. La visione è, come disse Swift, «quel che è invisibile agli altri», e proprio per questo non può esistere senza l’immaginazione. Nelle democrazie non spetta solo ai politici ma a tutti i cittadini difendere quelli che considerano i loro diritti e libertà. E la libertà, come ci ha ricordato Saul Bellow, ha il suo prezzo; i suoi «patimenti».
Molti grandi scrittori ci ammoniscono che la sua nemica numero uno è l’indifferenza di quando preferiamo la comodità al rischio, il nostro appagamento alla compassione, l’ideologia e le banalità allo scambio autentico e all’apertura verso la critica e l’autocritica, l’avidità alla passione, l’intrattenimento alla riflessione, la correttezza politica alla curiosità e all’empatia. La mancanza di libertà attecchisce su una mentalità utilitaristica e mercenaria che promuove la ricerca del mestiere a discapito della ricerca della conoscenza, e così facendo isola la scienza e la tecnologia dalle scienze umane e dalle discipline umanistiche, privandole tutte del loro vero significato e obiettivo.
La domanda è: possiamo affrontare gli immensi problemi che ci si presentano oggi se non siamo capaci di immaginare il passato, di riflettere sul presente e di scorgere le opportunità di cambiare immaginando il futuro? Possiamo vincere le «guerre» contro il terrorismo senza la conoscenza autentica e l’empatia verso chi vive sotto la supremazia del terrore? Possiamo combattere i nostri nemici senza capire chi sono, perché agiscono così o, in altre parole, senza metterci nei loro panni? E possiamo salvare l’ambiente senza la scienza, che ce lo fa conoscere, e la capacità di immaginare le conseguenze dei nostri danni? Possiamo educare i nostri figli a diventare cittadini responsabili, a compiere le giuste scelte in questo mondo commerciale, in questa società dei consumi dove tutto, dai dentifrici ai candidati elettorali, viene confezionato, inventato, reinventato, e dove i soldi - non la passione e la compassione - regnano sovrani? Come rispondiamo a queste domande noi, in quanto lettori?
La questione dei diritti umani e dell’immaginazione non è al primo posto solo in Cina, in Iran o in Arabia Saudita. Credo, come Ray Bradbury, che «Non c’è bisogno di bruciare i libri, per distruggere una cultura. Basta fare in modo che la gente smetta di leggere».
Come affrontiamo questi temi noi, in quanto lettori? E i libri possono aiutarci a risolvere i nostri problemi reali? Mi sono sempre posta queste domande e sono sempre arrivata alla stessa risposta: anche l’immaginazione e il pensiero, come i diritti umani e la libertà, trascendono le barriere di tempo, luogo, nazionalità, religione, etnia, lingua, razza, genere, e creano uno spazio universale dove non solo celebriamo le nostre differenze ma riconosciamo la nostra comune umanità. Ecco perché sono insostituibili, in termini molto pragmatici; ci ricordano che tutti partecipiamo alla lotta umana e ci permettono di cogliere nel profondo la voce e il cuore di chi è diverso da noi. La democrazia dipende dall’immaginazione.
Perché fin dall’alba dei tempi gli uomini e le donne sentono il bisogno di raccontare storie? Le cose che dissi a Roma più di undici anni fa sono ancora vere: «E abbiamo bisogno di scrivere di quegli avvenimenti, di raccontare quello che è successo a noi e agli altri per salvarci dalla disperazione, per ricordare a noi stessi e al mondo che abbiamo vissuto e per raccontare la vita attraverso i nostri occhi, e così recuperare tutto ciò che i tiranni hanno voluto sottrarci.
Contro l’indecenza e la brutalità dei campi di concentramento, sulla soglia della morte e privi di qualsiasi diritto, uomini come Levi e Osip Mandel’štam cercarono conforto nella poesia. Per Levi, ricordare i versi di Dante e insegnarli a un compagno di prigionia era diventato più importante della razione quotidiana di pane, e più tardi volle scrivere di quella sua esperienza per comprenderla a fondo e per «ridiventare uomo, uno come tutti».
«Sono arrivata alla fine della mia storia, e vorrei concludere citando Italo Calvino, che ben sapeva la necessità per i singoli e le comunità di riflettere continuamente su se stessi, e di cambiare mediante l’empatia e la libertà che soltanto un’immaginazione democratica può assicurare: “... e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste”».
© Azar Nafisi, 2015
[traduzione di Mariagrazia Gini e Roberto Serrai]
Azar Nafisi
“Teheran ha paura e sta cambiando Ma l’Occidente adesso deve aiutarci”
La scrittrice esule negli Usa commenta la svolta di Rouhani: “Ma sui diritti umani deve fare di più”
Non è stato lo scià a darci dei diritti e gli ayatollah a toglierceli, le donne se li sono sempre conquistati
Per le democrazie gli stati totalitari dovrebbero essere degli specchi per imparare a prevenire i pericoli
L’indifferenza è il male peggiore. Oggi le persone non leggono e dal conformismo nasce la violenza
di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 27.09.2015)
VENEZIA Servono ancora i romanzi in un mondo dove la realtà è tanto drammatica? Azar Nafisi è sicura: servono. La letteratura è la porta per «la libertà interiore», per resistere «alle menzogne e alle illusioni», i romanzi sono «i nostri guardiani morali», L’Occidente però ne svaluta l’importanza. Uno studente iraniano le disse una volta una frase che la colpì: «Gli americani sono diversi da noi, dei libri non gliene importa niente». Di qui nacque l’idea di questo romanzo, La Repubblica dell’Immaginazione .
Nel 2003, sei anni dopo aver lasciato per sempre Teheran, la sua città natale, Azar aveva scritto Leggere Lolita a Teheran, un dotto lavoro di critica letteraria e insieme un memoir sulle lezioni di letteratura americana che aveva tenuto clandestinamente in casa sua, a Teheran, mentre la rivoluzione cambiava la sua vita e quelle delle sue studentesse.
La Repubblica dell’immaginazione parla invece delle idee che si è fatta sulla mentalità americana attraverso l’esplorazione di tre classici : Huckleberry Finn di Mark Twain, Babbitt di Sinclair Lewis e Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCuller.
Azar oggi è cittadina americana. Lo è diventata nel 2008, in un edificio «senza storia» di Fairfax, Virginia. Ma nella hall dell’albergo sul Canal Grande dove la incontro chiunque capisce da lontano che è iraniana: bella, elegante, pelle luminosa, un’iraniana di buona famiglia, la madre era imparentata con la famiglia reale dei Qajar.
Gli iraniani apprezzano più degli americani la letteratura, soprattutto la poesia, lei dice. Possiamo dunque ben sperare per il futuro dell’Iran?
«La poesia è sempre stata molto importante in Iran e ci sono sempre state grandi poetesse. In un libro recente, Faces of love , Dick Davis, grande traduttore dal persiano, pubblica due straordinari poeti contemporanei di Hafez. Uno è una donna, la principessa Jahan Malek Khatun, l’altro un poeta satirico, Obayd-e Zakani. I loro poemi ci danno un ventaglio di tutti gli aspetti dell’amore, spirituale e non, e già da allora si fanno beffe dell’ipocrisia dei mullah».
Dopo l’obbligo del velo le ragazze della famiglie tradizionali iraniane per la prima volta hanno avuto il permesso di uscire di casa e andare all’università - paradossalmente un merito della Repubblica islamica?
«Se non si dimentica che se sono entrate in un sistema educativo è stato perché era già in atto un sistema che aveva aperto alle donne ogni tipo di lavoro in tutti i campi. E le donne poi hanno difeso questi diritti quando il regime ha cercato di restringerli. È sempre stato così: non è stato lo scià a darci dei diritti e gli ayatollah a toglierceli, sono state sempre le donne in prima persona a conquistarseli. Le ragazze di oggi lo sanno. Il problema non è il velo, come ripeto sempre; una delle mie nonne ad esempio lo portava. Ma lo portava per scelta. Il problema è la libertà di scegliere».
Grande letteratura, grande civiltà, come si spiega il muro di pregiudizi che l’Occidente ha costruito nei confronti dell’Iran?
«Io ho fatto l’università in Oklahoma negli anni ‘70 poi sono tornata in Iran all’inizio del ‘79 fino al ‘97. Quando tornai, fui scioccata dal sistema educativo americano. Non si studiavano altre culture, altre lingue. Non si sapeva nulla degli altri paesi. Tantomeno che in Iran la lotta per la democrazia, e per la liberazione delle donne, era cominciata da oltre un secolo».
I libri sono più importanti nei paesi totalitari?
«Sotto la repressione tutto ha un significato più intenso. Me per le società democratiche gli stati totalitari dovrebbero essere degli specchi per imparare a prevenire i pericoli. In Occidente, uno dei peggiori mali è l’indifferenza. Guardi dove ci ha portato in America la cultura del consumismo. Abbiamo un Donald Trump fiero della sua ignoranza. Obama ha detto agli americani: studiate per avere un lavoro migliore. In realtà bisognerebbe studiare per la gioia del sapere. Nel mio libro ho scelto Huckleberry Finn perché per me è come la dichiarazione d’indipendenza: una dimostrazione d’individualismo non egoista, che cresce attraverso l’interazione con gli altri e sa che il peggior male è il conformismo. Di lì viene la violenza. Ma oggi le persone non leggono più, ascoltano notizie banali alla tv che categorizzano tutto, tipo: gli iraniani sono orgogliosi e per questo vogliono la bomba. Oppure: sono orgogliosi di avere la bomba, e così via».
Lei considera positivo l’accordo sul nucleare, spera in Rouhani?
«Io spero solo nella gente, dei governi diffido: ci sono ancora tante persone in prigione, nonostante le promesse fatte da Rohani, perfino un giornalista americano. Lo stesso Khatami era molto più riformatore di Rouhani».
E infatti non ce la fece. Ma allora gli espatriati iraniani nel mondo non avevano fiducia in lui, lo consideravano un paravento del regime, e non lo aiutarono.
«Cerchiamo di capire. Ci sono carcerieri duri che rifiutano di farti prendere dieci minuti d’aria e carcerieri morbidi che ti consentono una passeggiatina. Per gli iraniani in patria era meglio poter fare la passeggiatina, ma per chi viveva all’estero questo non era abbastanza».
Un andamento moderato come quello di Rouhani potrà alla fine dare più frutti?
«La verità è che il regime ha paura. Hanno paura che la gente prima o poi non dica “vogliamo il velo più corto”, ma “non vogliamo voi”. Detto questo qualsiasi cambiamento anche piccolo che Rouhani possa fare è benvenuto. Ma a patto di poter continuare a insistere sui diritti umani. Io considero che il mio ruolo di persona indipendente sia dire quello che penso. Ho votato per Obama ma non mi sento obbligata ad essere sempre d’accordo con lui. Sono per la libertà di parola!».
Iran: donne ammesse a volley e basket, cade primo muro
Su spalti World League pallavolo, ma per alcuni sarà terremoto *
di Redazione ANSA *
Anche le tifose iraniane potranno assistere agli incontri internazionali di pallavolo valevoli per la World League in programma dal 19 giugno a Teheran grazie al via libera giunto di recente dalle autorità iraniane. Ma se lo faranno, ha avvertito il gruppo ultra conservatore Ansar-e Hezbollah sul suo periodico Ya-Latharat, ci sarà "un terremoto". Che le cose in Iran stiano davvero cominciando a cambiare per l’accesso delle donne agli incontri maschili di alcune discipline sportive - ma non di calcio, pugilato e nuoto - lo si è visto già lunedì scorso, quando hanno potuto assistere alla finale del campionato di basket nel palazzetto dello sport Hakimiweh. Nelle foto diffuse dai media iraniani si vedono donne entusiaste tifare per la propria squadra, in un clima da festa e lanciando anche slogan come "Oggi è il nostro giorno!". Ma l’appuntamento più importante è quello fissato per il girone B di pallavolo del 19 e 21 giugno, quando l’Iran affronterà gli Usa, cui seguiranno le partite con la Polonia del 26 e 28 giugno.
E stavolta non si tratta di una piccola struttura, ma dello stadio Azadi (’Libertà’) con una capienza da 12 mila posti, ed in cui per le donne vi sarà un’area riservata. All’inizio di aprile, parlando con il quotidiano riformista Sharq, la vicepresidente iraniana Shahindokt Molaverdi, anche responsabile per gli affari femminili, aveva illustrato l’accordo raggiunto nel Consiglio di sicurezza nazionale su un pacchetto di misure proposte da lei stessa e dal ministero per la Gioventù. In base a tale programma, le donne possono ora assistere a partite di pallavolo, basket, tennis e altri sport, ma non ancora, appunto, a incontri di calcio, pugilato e nuoto. "Si dovranno prevedere misure per rendere questo possibile - aveva però dichiarato - e andremo avanti passo dopo passo".
Una cosa tuttavia è stata intanto chiarita, aveva sottolineato la vicepresidente: in base alla sharia, non vi è alcun problema nella presenza delle donne nei luoghi dove si pratica sport. Diversamente erano andate la cose il 20 giugno del 2014, quando la polizia intervenne contro un gruppo di donne che volevano assistere, sempre all’Azadi, alle partite di pallavolo dell’Iran con il Brasile e l’Italia. In quell’occasione fu arrestata anche la giovane anglo-iraniana Ghoncheh Ghavami, liberata poco dopo con le altre ma poi riarrestata, ed accusata di legami con l’opposizione e di aver fatto propaganda contro il sistema in occasione della partita.
Dopo diversi scioperi della fame in carcere ed una mobilitazione internazionale in suo favore, in novembre era stata liberata su cauzione e un paio di mesi fa perdonata dalla Corte d’appello. Il divieto alle donne di entrare negli stadi iraniani - nonostante recenti aperture che riguardano pero’ solo le straniere - era stato indicato dal presidente dimissionario della Fifa Sepp Blatter come un ostacolo all’assegnazione all’Iran della Coppa d’Asia 2019, poi andata agli Emirati.
* ANSA 07 giugno 20150 (ripresa parziale)
Assia Djebar, la rivincita delle donne arabo-musulmane
Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayen, era nata a Cherchell, 80 chilometri a Ovest di Algeri il 30 giugno 1936
Si è spenta a 78 anni la scrittrice algerina che si batté per l’indipendenza del suo Paese e aprì la strada al femminismo islamico
di Francesca Paci (La Stampa, 08.02.2015)
Quando c’interroghiamo sul ruolo delle donne nel mondo arabo-musulmano, presupponendo una subalternità quasi genetica, dimentichiamo spesso nomi come quello di Assia Djebar, la scrittrice algerina morta a 78 anni ieri in un ospedale di Parigi. Ritenuta una sorta di Toni Morrison nordafricana, a detta di Le Figaro ha sempre mancato di poco il premio Nobel per aver voluto scrivere solamente in francese (la lingua che suo padre insegnava alla scuola elementare di Cherchell, sulla costa algerina).
Chi studia il femminismo islamico nelle sue molteplici declinazioni, dalle attiviste di «Tahrir bodyguard» che denunciano il dilagare delle molestie sessuali in Egitto fino alle aspiranti mujaheddin follemente ma consapevolmente votate alla guerra santa di Siria, non può ignorare l’opera e la vita di Assia Djebar, in trincea quando ignoravamo quella trincea.
La futura autrice di opere come Donne d’Algeri nei loro appartamenti e Lontano da Medina ha 22 anni quando nel 1958 sposa a Parigi il membro della resistenza algerina Ahmed Ould-Rouis conosciuto durante le proteste studentesche. L’Europa in quel momento è lanciata verso il futuro e la Francia, dove il padre ha mandato Assia a studiare storia dopo la scuola coranica privata algerina frequentata da due sole bambine, è assai diversa dal paese spaventato che oggi vede nel fondamentalismo islamico la propria immagine distorta e profanata.
Assia cresce, assorbe, conosce, quando decide di mettersi a scrivere dimentica di chiamarsi Fatima-Zohra Imalayen per non creare problemi alla famiglia e durante un gioco in taxi con il fidanzato del momento si ribattezza Assia Djebar, il nome con cui si batterà per l’indipendenza patria, lavorerà come giornalista in Tunisia rivelando il dramma dei connazionali rifugiati, pubblicherà i libri maghrebini più tradotti al mondo e diventerà la prima donna algerina ammessa alla Ecole Normale Supérieure francese. Rinuncerà alla Ecole durante la guerra per l’indipendenza algerina, ma verrà reintegrata da Charles de Gaulle per «meriti letterari» (otterrà anche il titolo di Accademica di Francia).
Pochi hanno raccontato come Assia Djebar il corpo mortificato delle donne arabo-musulmane quando non era di moda, quando le adultere lapidate nello stadio di Kabul non facevano notizia, quando quasi nessuno aveva realizzato che l’Algeria dei primi Anni 90 era un laboratorio di terrore così annichilente da spingere una come lei a lasciare l’università di Algeri e trasferirsi negli Stati Uniti perché stanca di un paese in cui «in strada non si vedono più donne, solo uomini».
Il corpo delle protagoniste dei romanzi e dei documentari di Assia Djebar è lingua, una lingua così tanto silenziata nel suo mondo d’origine d’averla probabilmente spinta a servirsi del francese rinunciando a quell’arabo disprezzato per essersi messo al servizio degli uomini. Con il film in bianco e nero La Nouba des femmes du Mont Chenoua la Djiebar guadagna il premio internazionale della critica al Festival di Venezia 1979, ma a sedurre l’Italia è più la potenza dell’immagine che la forza della denuncia di un’avanzata integralista che dopo la marginalizzazione delle donne come lei sarebbe dilagata oltre.
Negli ultimi anni si è sentito poco il suo nome, aveva sempre meno voglia di parlare. Una delle ultime uscite risale all’indomani delle Twin Towers, la Djebar era a New York mentre le Torri Gemelle crollavano seppellendo l’illusione della fine della Storia e la pacificazione del mondo. Disse di aver pensato che «il dramma conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare». E intitolò il libro appena terminato La donna senza sepoltura, il testamento di una cultura.
Assia Djebar morta: raccontò il corpo delle donne nella società islamica
La scrittrice è morta a Parigi a 78 anni. I suoi 14 romanzi sono stati pubblicati in Italia da Giunti e Il Saggiatore. Le protagoniste, vere e proprie eroine femministe, sfidavano spesso i divieti imposti dalla società musulmana algerina
di Davide Turrini (Il Fatto quotidiano, 7 febbraio 2015)
Assia Djebar, in quell’islamismo radicale che oggi tanto sconvolge, era completamente immersa. Eppure in 50 anni di romanzi, sceneggiature, film e riflessioni su quel macigno storico e culturale, la Djebar, scomparsa la notte scorsa a Parigi all’età di 78 anni, da donna, da algerina, da femminista, e da anticolonialista riuscì a crearci un poema infinito, suadente e penetrante, musicale e magmatico, tumultuoso ed affascinante, lungo 14 romanzi (in Italia pubblicati da Giunti e Il Saggiatore) in 50 anni di carriera.
Nata Fatima-Zohra Imalayan il 4 agosto del 1936 nel sobborgo costiero di Cherchell, vicino al porto di Algeri, quando decise di esordire nel 1957 come scrittrice con il libro La Sete adottò un nom de plume che poi le rimase per il resto della vita: Assia Djebar. Timorosa della punizione paterna e delle leggi di un patriarcato onnipresente e regolatore dimostrò subito di che pasta fosse fatta: quel libro e quello immediatamente successivo - Le Impazienti (1958) - erano romanzi provocatori le cui protagoniste, vere e proprie eroine femministe, sfidavano i divieti imposti dalla società algerina alla condizione della donna. Pubblicità
La Djebar aveva subito compreso che la partita dell’emancipazione femminile, intersecatasi in quegli anni con un’altra “guerra”, quella del popolo algerino contro il colonialismo francese, passava attraverso il corpo delle donne: “Per tutte, giovani o vecchie, in clausura o mezze-emancipate, la lingua resta quella del loro corpo: quel corpo che gli occhi dei maschi chiedono sia invisibile, finché non riescono a incarcerarlo coprendolo interamente; quel corpo in trance, danzante, che si adatta alla speranza e alla disperazione; quel corpo ribelle, in grado di leggere e scrivere, in cerca di qualche spiaggia sconosciuta come meta del suo messaggio d’amore”, spiegò con una prosa armonica la scrittrice algerina.
Perché lei, mentre le cugine pensavano a mettersi il velo, imparava il francese e andava al liceo: nel 1955 va a Parigi, dove è la prima donna ammessa all’École Normale Supérieure de Sèvres. E nel ’58 è a Tunisi dove da un giornale locale denuncia il dramma dei rifugiati algerini. L’esordio letterario si intreccia poi con la guerra di liberazione algerina. Nello stesso anno sposa Ahmed Ould-Rouïs, membro della Resistenza Algerina, dal quale divorzia per poi sposare nel 1980 il poeta Malek Alloula.
Nel 1962 è ad Algeri dopo la dichiarazione d’indipendenza algerina. Insegna Storia del Nord Africa presso la Facoltà di Lettere poi nel 1977 ecco l’esordio dietro la macchina da presa con La Nouba des femmes du Mont Chenoua, film in bianco e nero che vince il Premio Internazionale della Critica al Festival di Venezia nel 1979, dove si narra la vicenda di una donna che decide di tornare sulle montagne berbere del suo paese natale alla ricerca delle “Madri” che parteciparono alla guerra d’indipendenza algerina per ritrovare i suoni della “memoria strappata”.
Con le recrudescenze dell’oscurantismo islamico che fa irruzione in Algeria negli anni ottanta, la Djebar si allontana definitivamente dal suo paese natale per trasferirsi negli Usa, in Louisiana, poi a Parigi, e ancora a New York: ironia della sorte proprio pochi giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001: “Quella mattina ero lì, a dieci minuti a piedi dalle Torri Gemelle, chiusa nel mio appartamento, senza televisione. (...) La mia prima impressione è stata che il dramma che avevo conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare”, spiegò la Djebar.
“La cosa che più mi ha colpito, nei giorni successivi, sono state le fotografie dei dispersi appese dappertutto e, a partire dal quarto giorno, la disperazione dei parenti che capivano che non avrebbero più avuto indietro neppure i loro corpi. È stato allora che ho deciso di chiamare il romanzo che avevo appena finito La donna senza sepoltura”. Djebar è, infine, stata la prima donna di origine araba a far parte dell’Accademia di Francia nel 2006. “E’ una fortuna essere uno scrittore, perché la scrittura - e questo me lo prometto ogni giorno interiormente - deve essere risparmiata dal sangue e dall’oscurità della violenza”, disse in un’intervista a Giovanna Taviani. “Ancor di più oggi mi rendo conto che il compito della scrittura letteraria è proprio questo: lavorare su se stessi, sulla propria memoria, sul ritorno o sul non-ritorno”.
Shéhérazade, la favola che serve alle donne di oggi
L’eroina delle Mille e una notte , come esempio di emancipazione
Una mostra all’Institut du monde arabe di Parigi ne rilancia la figura
di Angelo D’Orsi (La Stampa, 31.03.2013)
Così la vedeva Picasso La principessa Shéhérazade in un’incisione dalla serie Le mille e una notte, realizzata da Picasso nel 1968. Si può vedere fino al 28 aprile a Parigi nella mostra che l’Institut du monde arabe (l’edificio in riva alla Senna disegnato da Jean Nouvel) dedica al libro che ha fatto conoscere in Occidente l’immaginario orientale.
Chi non è rimasto sedotto dalla figura di Shéhérazade, l’affascinante, astuta protagonista delle Mille e una notte? Chi non ha tifato per la sua salvezza davanti alla crudeltà del sovrano che, per una sorta di assurda vendetta di sua moglie, di cui aveva scoperto l’adulterio, aveva deciso di giacere ogni notte con una vergine diversa, facendola decapitare all’indomani? Shéhérazade - l’ultima vergine disponibile nel Regno, figlia del Visir - si salva, e fu la potenza della parola a salvarla.
Anzi, stando allo scrittore arabo contemporaneo Ben Jalloun, Shéhérazade incarna la donna che lotta per emanciparsi: un simbolo di evidente e spesso drammatica attualità: interpretazione peraltro contestata da scrittici femministe. Certo è che, nel racconto, la forza della disperazione, unita alla capacità inventiva, fecero sì che la donna incatenasse il sovrano con mirabolanti racconti, uno per notte: e al sorgere dell’alba il racconto non era finito, sicché il re concedeva un a proroga a Shéhérazade, la quale appena conclusa la favola, dava inizio a un’altra. La dialettica signore/ servo, in certo modo: fu la schiava a soggiogare il padrone, che alla fine, al termine di questa lunghissima maratona si arrese, non solo rinunciando a uccidere la bella fanciulla, ma la prese in sposa, facendola regina del suo regno.
La vicenda di questa fiaba (in realtà si tratta quasi di un meta-testo, con una base e varie inserzioni, per cui i racconti che lo compongono cambiano notevolmente di numero con adattamenti a culture locali, dalla Persia all’Egitto...) è raccontata in una bellissima esposizione all’Institut du Monde Arabe di Parigi (un luogo che di per sé vale sempre la visita, nelle linee ardite e insieme solenni disegnate dall’architetto Jean Nouvel, tra il 1987 e il 1988).
Vi si scoprono davvero mille risvolti, antefatti e conseguenti a questo che è una specie di Cunto de li cunti del nostro Gian Battista Basile che non ebbe altrettanto successo. Invece la fortuna de Le mille e una notte è stata prodigiosa, ma è interessante innanzi tutto la genesi dell’opera, che si colloca originariamente tra la Penisola Arabica e l’India, in un’epoca imprecisata, intorno al IX secolo: ma, in realtà, ebbe ragione Dino Buzzati a definirlo «Un monumento senza età e indiscutibile come le montagne».
In realtà esiste una sorta di cornice base, nel quale nel corso dei secoli sono state fatte aggiunte o sottrazioni, ma - questo è quasi stupefacente - in qualche modo tutti concorrendo alla omogeneità del prodotto finale, e al suo fascino straordinario.
Narrate in pubblico, subivano variazioni e ulteriori aggiunte, suscitando sempre l’entusiasmo degli ascoltatori come dei lettori: «Quanto sono belle queste parole» commentò uno dei narratori; «Esse sanno catturare i cuori più delle più melodiose delle musiche».
Il libro fu importato in Europa, ai primi del ‘700 grazie a un appassionato dilettante francese, Antoine Galland, bibliotecario a Caen, il quale, avendo ricevuto un’edizione araba in tre tomi, ne fece una versione assai ridotta (peraltro in 12 volumi), con non poche manipolazioni volte a rendere più appetibile il testo al gusto dei suoi connazionali.
Di là ha inizio un’altra storia del libro, quella appunto della fortuna in Occidente, che deborda dalla vicenda delle edizioni pur con le sue infinite varianti e genera altre opere, dalla letteratura, al teatro, alle arti figurative, fino alla musica. Shéhérazade, nell’incipiente orientalismo della cultura europea, la quale spesso mescolò Le mille e una notte ad altre opere di origine mesopotamica o indiana, divenne la seducente protagonista di tanta produzione artistica, letteraria, musicale.
Entrò nell’immaginario maschile come un inconfessato oggetto di desiderio, ma anche in quello femminile come il soggetto di un riscatto necessario (e possibile): significativo che, per converso, sia scomparso il nome del re crudele, che pure era stato a sua volta riscattato dalla sua perversione femminicidaria, grazie alla bella Shéhérazade.
I suoi racconti popolati di geni, donne alate, tappeti volanti, ciclopi e uccelli mai veduti, ma anche di squarci di città favolose di per sé stesse (da Baghdad al Cairo) infiammarono dozzine di artisti, da Gustave Doré, con le incisioni di Simbad il marinaio, uno dei personaggi che ebbe maggior fortuna, insieme ad Aladino e la sua lampada magica. Fino al russo Rimsky Korsakov che alla donna intitolò una sua suite sinfonica da cui fu poi tratto un altrettanto famoso balletto.
Per giungere al nostro Pasolini, che, a differenza di numerose altre versioni cinematografiche concentrate su avventure guerresche, firmò una pellicola improntata a un delicato erotismo, Il fiore delle mille e una notte. E si tratta di una storia che non ha fine, forse anche per l’eterno bisogno che abbiamo di sognare.
Ma queste rivoluzioni sono senza donne
di Joumana Haddad (Corriere della Sera, 18 ottobre 2012)
Sin dal marzo del 2011, quando il mondo intero - l’Occidente in particolare - fu travolto dall’euforia delle Primavere arabe, ho avuto modo di esprimere il mio scetticismo verso quegli avvenimenti, in quanto già intuivo i grandi rischi che correvano le donne, malgrado gli slanci iniziali delle varie rivoluzioni. Sono stata criticata da molti, all’epoca, come «uccello del malaugurio». Ma purtroppo gli eventi mi hanno dato ragione, anche se non mi sentirete mai gongolare «ve l’avevo detto!».
Avrei di gran lunga preferito sbagliarmi nella mia analisi dei fatti. Chi non le ha viste, tutte quelle donne coraggiose scese in strada in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, per partecipare alle manifestazioni, reclamare la caduta dei dittatori e dare il loro contributo alla rivoluzione? «Le abbiamo viste», dico, ma è un verbo che va usato al passato. Perché difatti dove sono finite quelle stesse donne, ora che vengono erette le nuove strutture degli Stati, ora che si avverte un estremo bisogno di ascoltare la loro voce e di vedere la loro partecipazione attiva e fattiva nel costruire il futuro di questi Paesi, le loro leggi e i loro valori?
Che razza di rivoluzioni sono queste, se le donne si accontentano di farsi manovrare come pedine, per finire scartate e relegate in un angolo quando viene il momento di prendere decisioni cruciali per il futuro del Paese? Che razza di rivoluzioni sono queste, se non sono riuscite a rovesciare i tavoli del patriarcato sulla testa degli oppressori e se promettono una nuova forma di arretratezza - l’estremismo religioso - per sostituire quella appena abolita?
E chi sarebbe il vincitore in un gioco che vede metà della popolazione ridotta a una schiera di spettatrici mute - e imbavagliate?
Non fraintendetemi: con queste mie parole non intendo affatto tessere una lode ai dittatori e alle dittature. Ma non posso non essere preoccupata dalla crescente influenza dell’estremismo islamico negli ultimi anni in Medio Oriente (tanto nel ramo sunnita che in quello sciita). Non posso non essere preoccupata dal fatto che questo Islam fanatico alimenta la causa dell’estremismo di destra in Occidente. Non posso non preoccuparmi del destino della regione, e specialmente delle donne della regione, se quello che viene dopo la dittatura equivale a una nuova dittatura, ovvero, un regime fondamentalista arretrato che si fonda, tra varie atrocità, su un rincaro di misoginia, violenza, patriarcato, segregazione e intolleranza nei confronti delle donne.
Troppo spesso noi arabi siamo costretti a scegliere tra due mostri, e per quanto mi rallegri che il mostro della dittatura sia stato eliminato, vedo con sgomento un nuovo mostro che alza la testa e si prepara a prendere il potere. È fondamentale sbarazzarsi dei dittatori, ovviamente. È importantissimo combattere la fame e l’ingiustizia, non c’è alcun dubbio. È di vitale importanza mettere fine alla corruzione.
Ma è altrettanto importante combattere l’estremismo religioso, come pure rispettare e legittimare i diritti e la dignità delle donne, e questo vuol dire sbarazzarsi degli strumenti e dei sistemi del patriarcato che fingono di proteggere le donne e che sfruttano questa cosiddetta protezione al fine di giustificare l’oppressione.
Anzi, ciò che aggrava la situazione è sentir dire da alcune donne che essere trattate con tanta superiorità fa parte delle loro «scelte». Potrebbe anche darsi, se per scelta esse intendono «annientamento» o «lavaggio del cervello». Perché come si può mai parlare di scelta quando non esistono alternative? O quando l’alternativa è finire ostracizzate, o aggredite, o imprigionate, o persino uccise?
* * *
Pertanto mi chiedo se le rivoluzioni che si sono verificate e che si stanno ancora verificando nel mondo arabo possano definirsi anche rivoluzioni delle donne: in questo senso, si tratta di vere rivoluzioni? Sotto i perfidi regimi arabi (quelli rovesciati e quelli che a breve cadranno, senza ombra di dubbio), fondati per la maggior parte sul disprezzo della donna e sulla negazione dei suoi diritti, non posso fare a meno di chiedermi: quando verrà il giorno in cui la donna del mondo arabo si stancherà di invocare «datemi i miei diritti» per urlare «i miei diritti me li prendo con le mie stesse mani»?
Quando capirà che i suoi diritti non sono un lusso, ma la chiave di volta di tutto? Quando capirà che non è nata per sposarsi, fare figli, obbedire, nascondersi e servire i maschi della famiglia? Quando capirà che tutti i discorsi di democrazia sono chiacchiere vuote senza l’affermazione della sua uguaglianza con gli uomini? E che tutti i discorsi di libertà sono scempiaggini se le sue libertà civili non vengono rispettate? E che tutti quei discorsi di cambiamento e modernizzazione non valgono un fico secco se la sua situazione, la sua posizione e il suo ruolo non vengono rivalutati? Quando comincerà a infuriarsi per le offese e le ingiurie che le sono rivolte a ogni istante e che mirano ad annientarla giorno dopo giorno, in ogni ambito della vita? E quando, infine, la smetterà di contribuire al rafforzamento del sistema patriarcale, con i suoi valori retrogradi?
In breve, quando esploderà la «bomba» delle donne arabe? E mi riferisco alla bomba delle loro capacità, ambizioni, libertà, forze e fiducia in sé stesse; la bomba della rabbia per tutto quello che è stato loro imposto, e che spesso esse accettano senza osare criticare.
* * *
Le donne che vivono nella nostra parte del mondo sono gravemente discriminate in tanti modi che costituiscono vere e proprie violazioni dei diritti umani, dai delitti d’onore al matrimonio delle bambine, dal test di verginità alle mutilazioni genitali, dal divieto all’istruzione alle limitazioni alla libertà di movimento fino alla posizione di inferiorità in campo sociale, economico e formativo, e via dicendo.
Ma la difesa delle donne non deve limitarsi a diventare uno slogan esclusivamente femminile. Gli uomini sono i compagni indispensabili nella lotta contro le ingiustizie inflitte alle donne che nascono da un’arretratezza in vari ambiti, politici, militari ma soprattutto religiosi, contesti e sistemi che, proprio come la mitica idra, fanno man mano spuntare nuove teste per ognuna delle vecchie che viene recisa.
Per questo motivo ci occorre un nuovo tipo di uomo, l’uomo che non ha bisogno di opprimere le donne, negare i loro diritti e disprezzare i loro sentimenti per sentirsi «virile». Ma ci occorre anche un nuovo tipo di donna, quella donna che saprà lottare con le unghie e con i denti per ottenere i suoi diritti senza dover ricattare o cancellare gli uomini. Vogliamo donne che non si limitino a sostituire il patriarcato con il matriarcato, ma che aspirino a una vera collaborazione e solidarietà con il genere maschile.
«Primavera araba», davvero? Per quanto ne so io, ci si prospetta un nuovo inverno, oppure una primavera semplicemente cosmetica. La soluzione? Ce n’è una sola. Non si tratta di rappezzare il muro che abbiamo davanti, non si tratta di augurarsi che sparisca di colpo. Non si tratta di negare la sua esistenza, né di pregare per la sua distruzione. La soluzione è distruggere, distruggere e distruggere. E ricostruire. Ricostruire insieme, uomini e donne, mano nella mano. È questa la vera battaglia di cui abbiamo bisogno. È questa la vera rivoluzione che ci meritiamo. (Traduzione di Rita Baldassarre)
Finchè il mondo arabo rimarrà sessista, non potrà avanzare di un passo.
Per esempio il governo libico, dopo la "rivoluzione", ha inteso come una "priorità" reintrodurre la poligamia: questo significa voler camminare come i gamberi. Questi Paesi sono troppo concentrati sul come tenere soggiogate le donne per riuscire a combinare qualcosa di veramente importante che consenta loro di diventare moderni. E’ come se ci fosse un unico cervello in cui funziona un emisfero solo. La prima cosa che deve essere capita definitivamente è che Stato e religione devono essere assolutamente separati, perchè la sharia come legge non può che farli rimanere nel medioevo. L’intelligenza brillante delle donne arabe, come la dimostra l’autrice dell’articolo, dovrebbe essere valorizzata e posta al servizio di questi Paesi che ne otterrebero un enorme beneficio; non si dovebbe più sentire parlare di matrimoni con bambine, di molestie e di stupri anche durante le manifestazioni di piazza, di spari a ragazzine che si recano a scuola, di mutilazioni di genitali, di chiamare "velate" donne che girano infagottate dalla testa ai piedi tanto che c’è da chiedersi come riescano a respirare normalmente.
Anche perchè questo potere che si vuole mantenere sulle donne dimostra anche una notevole insicurezza da parte di quelli che vogliono a tutti i costi che le cose non cambino: perchè hanno paura delle donne?
LA BATTAGLIA PER LA PARITA’
Settemila donne saudite al volante
Successo della protesta Woman2drive
Velate alla guida di auto
per sfidare il divieto e lottare
per l’emancipazione in un Paese in cui è proibito anche il voto
Finora nessuna è stata arrestata *
ROMA Iniziano a circolare in queste ore sul sito di micro-blogging Twitter le prime testimonianze di donne saudite che, sfidando il divieto di guida in vigore nel regno di Re Abdullah, oggi si sono messe al volante rispondendo all’appello rivolto da "Women2drive". Il gruppo ha lanciato nei giorni scorsi una mobilitazione attraverso i social network per spingere le donne della monarchia del Golfo a mettersi alla guida di un’auto, pratica vietata nel regno dove le donne non possono neppure votare o scegliere il marito. Secondo gli organizzatori, 7 mila donne avrebbero sfidato il divieto mettendosi oggi al volante.
Uno dei primi tweet "targati" Women2drive apparsi sul social network è stato scritto dall’utente "monaeltahawy". «Mona Eltahawy, prima! Siamo appena ritornati dal supermarket, ho deciso di iniziare la giornata guidando fino al negozio». Scrive un’altra utente: «Non ho visto altre donne al volante oggi, comunque io ho guidato per 15 minuti». Su Twitter si riferisce anche di decine di donne al volante sul lungomare di Damman, città dell’Arabia Saudita orientale.
L’iniziativa di oggi nasce anche come segno di solidarietà con l’attrice saudita Wajanat Rahabini, fermata sabato dalla polizia stradale di Gedda perchè guidava. E’ stata portata in commissariato e dopo alcune ore è stata rilasciata mentre la vettura si trova ancora sotto sequestro. L’attrice ha evitato il carcere sostenendo di essere stata costretta a mettersi alla guida a causa del ricovero del marito in ospedale e dell’assenza del suo autista personale.
In settemila, su Facebook, avevano preso l’impegno di partecipare alla protesta, che proseguirà - promette il comitato di "Women2drive" - fin quando le autorità saudite non estenderanno il diritto di guida alla popolazione femminile. Testimonianze e filmati di cittadine saudite che raccontano, con entusiasmo e determinazione, la loro esperienza alla guida stanno intasando i social network.
Al momento, secondo quando riferiscono le protagoniste della disobbedienza civile, la polizia ha chiuso uno o entrambi gli occhi sulle guidatrici, e non ci sono stati fermi. Una donna di Riad racconta su Twitter di aver superato due macchine della sicurezza, mentre accompagnava in auto i figli a scuola, e di non aver avuto alcun problema.
Un vademecum, diffuso nei giorni scorsi, invitava le donne ad usare l’auto solo per le proprie necessità quotidiane, in modo normale, senza strafare o partecipare a cortei. La protesta è dunque molto fluida, diluita. Impossibile da quantificare, così come da verificare, in un Paese immenso e di difficile lettura come è la penisola arabica. Tuttavia il senso di gioia e di liberazione è stato evidente sin dalle prime ore: a notte ancora fonda, 2Nassaf, questo il suo pseudonimo su Youtube, ha messo sul sito di condivisione un filmato che la ritrae coperta dal niqab (velo nero che lascia intravedere solo gli occhi) mentre guida per le strade semideserte di Riad. Safarzo, su Twitter, invita le compatriote ad evitare le provocazioni, mentre Hendny ricorda che la fede e la convinzione in una causa «possono smuovere le montagne».
Molti uomini, tra cui scrittori e intellettuali, si sono schierati al fianco della battaglia femminile. Altri però hanno organizzato siti e blog in cui invitano, in nome di un Islam ultraortodosso, a bloccare la protesta delle donne, anche ricorrendo alla violenza fisica. La battaglia, che per ora non sembra essere scoppiata per le strade, infuria quindi sui social network. Gli integralisti sembrano privilegiare twitter, dove non mettono i loro volti, ma si nascondono dietro l’icona a forma di uovo. Per questo sono stati chiamati per scherno dagli avversari i «saudieggs», le uova saudite.
* La Stampa, 17/06/2011
ANNA VANZAN,
FIGLIE DI SHAHRAZAD
Scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi,
Bruno Mondadori, Milano 2009
Indice del volume - PER LEGGERE ALCUNI ESTRATTI, CLICCA SULLA ZONA SOTTOSTANTE:
Donne
Quale Barbie meriti?
di Joumana Haddad* (Terra, 29.11.2009)
Una Barbie col burka?! E viene dall’Italia, quest’invenzione prodigiosa? E perché non creano, già che ci sono, la Barbie oppressa dal padre, umiliata dal fratello e picchiata dal marito? Perché non creano, alla Mattel che si batte oggi con Sotheby’s per Save the children, la Barbie sposata, suo malgrado, a 13 anni a Gaza; o quella che non ha il diritto di guidare una macchina a Riyad; o quella che non ha il permesso di andare a scuola a Kabul, perché le donne “non hanno bisogno di leggere e scrivere”? (ci sono 76 milioni di donne analfabete nel mondo arabo-musulmano). Perché non creano quella che è concepita e tollerata solo per diventare un accessorio: cucinare, obbedire, tacere e concepire, quando è il suo turno, figli preferibilmente maschi? Perché non creano quella lapidata per adulterio (dal marito sposato con altre 3 donne), e quella imprigionata perché ha osato indossare un jean? Sono sicura che queste ultime avrebbero un grandissimo successo.
Ci dicono, per rassicurarci, che lo scopo era di rappresentare “le diverse tipologie e culture femminili”. Così hanno messo la nuova Barbie col burka accanto a quella col kimono, quella col tailleur e quella col Sari indiano: le sue “sorelle”. Così facendo hanno banalizzato la carica umiliante del burka e l’hanno trasformato in una scelta di abbigliamento “etnico”, invece della rappresentazione concreta del concetto di donna-oggetto, priva di libertà, di dignità e di diritti umani minimi. Nella mia modesta conoscenza, la donna giapponese e la donna indiana non stanno vivendo le atrocità che vive la donna col burka. Né le accetterebbero, forse. La Barbie ha già fatto tanti danni, promuovendo l’immagine della donna bambola formosa, che passa il suo tempo a preoccuparsi dell’abbigliamento e degli orecchini da abbinarci; e a sognare il muscoloso Ken.
Quella Barbie ha senz’altro qualcosa a che vedere con le caricature di donna che vediamo oggi sulla televisione italiana. E altrove.
Sarà una provocazione ma mi sembra uno dei simboli di questa cultura femminile perdente, basata sull’autodisprezzo, l’auto-indulgenza e la mancanza di ambizione. Con la burka-Barbie la distruzione dell’immagine femminile è completa: dalla donna oggetto da vetrina, alla donna oggetto di sottomissione, il passo è compiuto. Grazie Mattel. Sono sicura che i guadagni commerciali ne valevano la pena. Le ragazze dei paesi del Golfo non aspettavano altro. Anzi no: i loro padri non aspettavano altro.
Questa bambola è un attacco scandaloso e nauseabondo contro la donna. Non ci sono altre parole per descriverlo. E lo sta dicendo una donna araba non femminista. Brava la designer Eliana Lorena: ora l’immagine della donna araba in Italia, e in Occidente, è completamente rovinata.
In quanto a noi, donne arabe che lottiamo per cambiare questi cliché, andremo... a giocare con la Barbie velata che ci meritiamo. Spero solo che nella confezione della Barbie col burka sia compreso un bavaglio. Perché quella donna non tarderà a gridare. E quello che dirà, a molti, non piacerà.
*scrittrice, giornalista e poetessa
La testimonianza di Joumana Haddad, che racconta la sua storia e quella di molte altre
«Ho ucciso Sherazad» sarà in libreria a partire da oggi. Vi anticipiamo alcuni stralci
L’altra donna araba... Libera, ribelle indipendente
Autoritratto. Contro ogni tabù e restrizione
Anticipiamo ampi stralci dal libro «Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata» di Joumana Haddad (Oscar Mondadori, traduzione di Oriana Capezio, pagine 154, euro 10.00).
di Joumana Haddad (l’Unità, 15.02.2011)
«L’essere umano arabo soffre di schizofrenia: una schizofrenia collettiva che tutti noi viviamo, divisi tra ciò in cui è stato detto di credere e ciò in cui crediamo, tra quello che diciamo e quello che facciamo. Ma è giunto il tempo di cominciare a chiamare le cose con i loro nomi e assumerne la responsabilità» scrive Jalila Bakkar, attrice di teatro e autrice tunisina. Dopo aver tentato di descrivere brevemente che cosa significa essere arabo oggi (la schizofrenia, la sindrome del gregge e la situazione di stallo: tre cupi aspetti condivisi da uomini e donne), cercherò con questo testo ibrido di spiegare cosa significa da una parte essere una donna araba (ossia tutti i pregiudizi erronei legati a questa connotazione) e dall’altra che tipo di responsabilità ciò comporta e cosa potrebbe significare realmente (ossia la potenziale realtà positiva e realizzabile, nonostante le sfide e le difficoltà attuali).
Prima di chiederci: «Cos’è una donna araba», abbiamo bisogno di porci un’altra domanda: «Come è percepita una tipica donna araba agli occhi di un non-arabo?». Non è forse una percezione creata nella coscienza collettiva occidentale da una serie di formule e generalizzazioni? E queste non sono determinate da una visione “orientalista” ed esotica persistente o da un atteggiamento ostile, post 11 Settembre, formato da risentimento, angoscia e accondiscendenza? Non è forse una donna spesso vista come un essere povero e indifeso, condannato dalla nascita alla morte a obbedire incondizionatamente agli uomini della propria famiglia: padre, fratello, marito, figlio? Non è forse vista come un’anima impotente senza alcun controllo sul proprio destino?
Come un corpo inerme cui viene detto quando vivere, morire, generare, nascondersi e svanire? Come un volto invisibile mascherato da strati di paura, vulnerabilità e ignoranza, completamente cancellato dall’hijab islamico? O peggio, dal burqa sunnita e dallo chador sciita? Una donna che non è autorizzata a pensare, parlare o lavorare per se stessa. Una donna in grado di esprimersi solo quando le viene detto di farlo e che quando lo fa viene spesso ignorata e umiliata. Una donna, in sintesi, che non ha un posto né una dignità nell’umanità.
Certo, non tutti i cliché sono completamente errati, e non tutti gli stereotipi sono interamente falsi. La donna araba descritta qui sopra esiste. Non solo esiste ma, a essere sincera e precisa, devo purtroppo ammettere che è il modello sempre più diffuso di donna araba contemporanea. Dovunque tu vada, dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Bahrein, ti accorgerai di quanto i poteri religiosi, gli indifferenti, corrotti e/o complici sistemi politici, le società patriarcali e anche la stessa donna araba (che è quasi sempre una co-cospiratrice contro il suo sesso) eccellano nel trovare nuovi modi per umiliare la donna, frustrarla e annullarne il ruolo e l’identità. Però tutto ciò non rende meno scandaloso, triste e ingiusto constatare che quasi nessun’altra immagine della donna araba sia presente nello sguardo e nelle percezioni comuni occidentali. Non vorrei generalizzare. Al contrario, sono perfettamente cosciente che esistono occidentali consapevoli della natura composita, complessa ed eterogenea delle nostre società e culture arabe. Il problema è che questi sono solo l’eccezione che conferma la regola. (...)Bisogna essere onesti però: l’Occidente non è l’unico responsabile di queste idee sbagliate. Noi arabi siamo più che “colpevoli” per la distorsione della nostra immagine. Intrappolati in un circolo vizioso di difesa/ offesa, abbiamo fatto, e continuiamo a fare, di tutto per fomentare l’intolleranza nei nostri confronti e promuovere le immagini false e i cliché sulla nostra società e sulla nostra cultura. In poche parole: siamo bravissimi nell’essere il nostro peggior nemico.
Ciò che segue indubbiamente sorprenderà qualcuno: malgrado quanto ho scritto in precedenza, le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi. Non tutte le donne arabe portano il velo, il burqa o lo chador. Non tutte le donne arabe subiscono aborti selettivi, né mutilazioni e matrimoni combinati. E, cosa più importante: non tutte le donne arabe piegano la schiena. «Per la maggior parte della Storia, l’Anonimo era Donna» (Virginia Woolf). Questo vale certamente per le donne arabe. Però la “non-anonima” donna araba non è un mito. L’altra donna, quella atipica, libera, ribelle, indipendente, moderna, aperta, anticonformista, colta, autosufficiente esiste accanto alla prima, e non è, come si pensa, tanto difficile trovarla.
E questa è la sfida della mia testimonianza, solo un piccolo anello di una lunga catena di saggi sull’argomento. La vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo).
Sì, un’altra donna araba esiste. Ha bisogno di essere notata, merita di essere riconosciuta. E io sono qui per raccontarti la sua storia. Tra molte altre: la mia.
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. Milano
* Chi è. Una donna araba arrabbiata racconta cosa significhi appartenere all’altra metà del cielo nel mondo islamico. In queste pagine Joumana Haddad, protagonista della cultura libanese contemporanea, sconfigge tabù e restrizioni per svelarci la sua vita: dalla lettura del marchese de Sade a dodici anni alle sue prime poesie erotiche, alla fondazione della rivista «Jasad».
Aki-Adnkronos 21.10.09
Libri: Haddad, da "Il ritorno di Lilith" una speranza per tutte le donne oppresse "Spero sia punto d’incontro tra Medioriente e Occidente
Roma, 21 ott. -(Aki) - "Spero che questo libro rappresenti una speranza per la donne arabe oppresse, ma anche per quelle italiane, e che sia un punto d’incontro tra Medioriente e Occidente". E’ quanto ha affermato ad AKI - ADNKRONOS INTERNATIONAL la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per presentare il suo nuovo volume ’Il ritorno di Lilith’ (ed. L’asino d’oro), disponibile da domani in libreria.
La poetessa spiega i motivi che l’hanno spinta a scrivere un’opera in cui viene riportato alla memoria dei lettori il mito antichissimo di Lilith, la prima donna creata, che non volle sottomettersi ad Adamo, ma che anzi lo abbandonò nel paradiso con un atto di disobbedienza. "Ci sono tanti cliché sulla donna araba in Occidente - afferma la Haddad - la maggior parte ritiene che tutte le donne arabe sono oppresse e velate. E’ una tendenza a generalizzare, mentre in verità ci sono molte più sfumature e c’è anche un altro modello di donna nella società araba, emancipata e libera, che si batte per i suoi diritti".
’Il ritorno di Lilith’, la prima opera integrale della Haddad in italiano, è un libro scritto "con le unghie", secondo la poetessa libanese per la quale "scrivere è innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo, ma solamente nei confronti di me stessa". "E’ qualcosa - afferma - come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare i segreti, i misteri, le parole nascoste che ci sono in me".
La Haddad in Libano è caporedattrice di ’Jasad’, una rivista in lingua araba specializzata nella letteratura e nelle arti del corpo, all’interno della quale vengono trattati argomenti come la sessualità e i diritti delle donne, temi di cui è difficile parlare nella società araba. "Jasad è una rivista per uomini e donne - afferma la Haddad - che affronta il tema del corpo, anche se non è facile trattare questo argomento nella mia lingua e nel mio mondo. Eppure, se torniamo ad alcuni scritti in lingua araba di mille anni fa ci sono testi che parlano del corpo e dell’erotismo con una semplicità che scioccherebbe anche lo scrittore occidentale più aperto".
La poetessa libanese non teme ritorsioni da parte dei gruppi religiosi più estremisti. "Quando ho scritto ’Il ritorno di Lilith’ non ho pensato che gli estremisti fossero un ostacolo alla sua realizzazione - sostiene - Ero appassionata dall’idea di scrivere quest’opera e l’ho fatto, anche se molti credono che mi sia gettata nel fuoco".
L’ultimo pensiero della Haddad è per Rania, la regina di Giordania, in visita ufficiale a Roma. "Ho tanto rispetto e ammirazione per la regina Rania - dichiara la scrittrice - perché non accetta il modello stereotipato della donna araba oppressa che non ha potere e che vive lasciandosi andare al volere dell’uomo". (Spi/AKI)
Sguardi persiani
Le figlie di Shahrazad. Anna Vanzan racconta l’evoluzione del pensiero femminile iraniano: una finestra aperta sulla vita delle donne persiane tra le timide riforme dello scià, le restrizioni di Khomeini e le riaperture di Khatami
Sotto il velo c’è una testa per comandare
In «Figlie di Sharazad» l’autrice cita numerose scrittrici iraniane. Ecco una breve bibliografia
Di Sharnush Parsipur sono reperibili in italiano «Donne senza uomini» (Aiep, 2000) e «Tuba e il senso della notte» (Tranchida, 2000).
Le scrittrici citate da Anna Vanzan sono antologizzate nel volume «Parole svelate» (Imprimitur, 1998)
«Lo specchio e la rosa. Antologia di poetesse sufi», a cura di Anna Vanzan (San Marco dei Giustiniani, 2003).
di Elena Doni (l’Unità, 5.06.2009)
Un libro dopo l’altro - con in più qualche buon film - procede la scoperta del Vecchio Mondo, in particolare di quello islamico. E sgomenta la nostra ignoranza di un contesto culturale ricchissimo sul quale, fino a ora, abbiamo chiuso gli occhi. Né è mai stato possibile aprirli sulla metà femminile di quel mondo: che invece ha avuto scrittrici di rilievo, con il valore aggiunto di farci comprendere l’evoluzione di un paese che spesso ci è apparso incomprensibile.
A farci conoscere la straordinaria e antica vitalità della produzione letteraria delle donne iraniane è oggi Anna Vanzan, studiosa dell’università di Milano e della Iulm, con Figlie di Shahrazad (Mondadori, pag. 210, euro 18). Nome non casuale quello di Shahrazad: la mitica eroina delle Mille e una notte «aveva letto, libri, annali e leggende, imparato a memoria le opere dei poeti e studiato la filosofia e le scienze». Furono dunque intelligenza, cultura e fantasia a permetterle di sopravvivere notte dopo notte, salvando così anche centinaia di giovani donne dalla crudeltà del sultano.
La domanda di scolarizzazione è stata infatti la principale rivendicazione delle femministe iraniane del Novecento, attraverso giornali e riviste ma anche organizzando loro stesse corsi di alfabetizzazione. Oggi il numero delle studentesse universitarie iraniane supera quello dei maschi e i testi letterari scritti da donne sono più numerosi di quelli degli uomini. Il libro della Vanzan è una porta spalancata su un mondo che fino dal XIV secolo ha avuto letterate al tempo stesso anche donne di potere: Padeshah Khatun, governatrice di una regione, orgogliosamente dichiarava «sotto il mio velo ho una testa adatta al comando».
IL PENSIERO FEMMINILE
Più interessante per noi è l’evoluzione del pensiero femminile iraniano negli ultimi 40 anni: le donne iraniane parteciparono con entusiasmo ai moti contro lo scià, che aveva concesso il voto alle donne ma aveva anche abolito un gran numero di associazioni femminili indipendenti; aveva varato un diritto di famiglia più attento alle donne (un uomo non poteva prendere una seconda moglie senza il consenso della prima) ma conservava poi intatti molti privilegi maschili. Molte donne aderirono così in un primo momento alla rivoluzione islamica per poi sentirsene tradite: Khomeini reinstaurò la poligamia, escluse le donne alla carriera di giudice, proibì l’uso dei contraccettivi. Con l’avvento al potere di Khatami, prima ministro della Cultura e poi presidente della Repubblica islamica, i lacci del regime si allentarono. Negli anni ‘90 l’Iran si è trovato con una popolazione giovanissima, desiderosa di vivere come i coetanei occidentali, con ragazze altamente scolarizzata, e che pretende lavoro e riconoscimento dalla società. Nonostante l’alternarsi di relativa libertà e restrizioni la presenza delle donne sulla scena pubblica è oggi incontestabile: «È una nuova generazione che non rimane segregata in casa e cambia le regole col proprio comportamento», dice Anna Vanzan.
Tra gli strumenti di sopravvivenza c’è il «femminismo islamico», ora diffuso in tutti i paesi musulmani ma nato in Iran proprio all’inizio degli anni novanta. Consiste nell’affermare che il Corano contiene principi di equità di genere e di giustizia sociale permettendo alle donne di reclamare diritti senza uscire dalla cornice islamica. Da percorsi ideologici diversi è nata una straordinaria produzione femminile letteraria, ma anche teatrale e cinematografica, che non si può non ammirare.
Di questa vitalità, dal ribollire di iniziative delle figlie di Shahrazad - che appunto vinse la sua battaglia con l’intelligenza e la cultura - traccia un panorama Anna Vanzan. Includendo, tra l’altro, lodi per chi, come Marjane Satrapi autrice del fumetto (o graphic novel) Persepolis, percorre strade totalmente nuove.
Le donne cancellate
di TAHAR BEN JELLOUN *
Ah, se si potessero soddisfare i complessi e perversi desideri dei fanatici del mondo! Questi vogliono prendere le donne contro la loro volontà.
Quelli vietano contraccezione e preservativi. Tutti sono ossessionati dalla femminilità.
Se nel mondo le donne lottano per la loro dignità e per migliorare le loro condizioni di vita, ci sono Stati come l’Afghanistan che vanno in soccorso degli uomini proponendo una legge che obblighi la donna a soddisfare il desiderio del marito anche se è un eiaculatore precoce o ha l’alito cattivo o più semplicemente se non stimola in alcun modo la sua libido. Contro il rifiuto, la violenza.
I fondamentalisti hanno un vero problema con la donna e la sua sessualità. Vale per l’ebraismo, per il cristianesimo come per l’islam: l’integralismo trema davanti al corpo femminile, ha paura del suo sesso e reagisce con la violenza alla frustrazione o al turbamento. Tutto ruota lì attorno. Non si capisce nulla delle motivazioni degli integralisti se non si considera questa dimensione essenziale della loro psicologia e della loro esistenza.
Ciò si traduce nell’imposizione del velo, del burqa o della djellabah. La donna deve essere celata, invisibile, deve essere allontanata dagli sguardi e dalla vita. L’uomo dice: «Non toccare mia moglie, mia figlia, mia sorella, mia madre». Ovvero, detto altrimenti «Questi corpi mi appartengono e nessuno ha il diritto di avvicinarsi!». Bisogna veramente avere un cattivo rapporto con se stessi per appropriarsi il corpo degli altri. E per giustificare questa mentalità si ricorre alla religione che di per sé non dà affatto un simile diritto. Anche se tutte le religioni in genere non sono molto giuste nei confronti delle donne.
I taleban, ad esempio, immaginano un mondo dove la donna è assente. Esiste, ma è segregata in casa e non ha il diritto di uscirne. Questo non vuol dire che disprezzino il piacere sessuale, anzi, lo amano a tal punto da voler essere certi di essere i soli a gioirne. È il senso del progetto di legge presentato dal presidente Hamid Karzai. Un progetto che voleva rendere legale lo stupro compiuto sulla propria moglie e vietarle di uscire di casa senza l’autorizzazione del marito. Questo provvedimento avrebbe riguardato le donne sciite, che rappresentano il 10% della popolazione. Karzai contava su questo disegno di legge per attirarsi le simpatie e i voti degli sciiti alle prossime elezioni. Dopo le proteste di molti Stati, Karzai ha finito col ritirare il progetto, ma gli uomini continueranno a comportarsi da bruti con le donne, con o senza legge.
In ogni caso, questa ipotesi legislativa, degna dell’epoca della jahilya (il periodo preislamico quando alcuni beduini seppellivano vive le loro figlie per evitare che il loro onore un giorno potesse essere macchiato) è stupida e grottesca. Che va a fare la legge nella camera da letto di una coppia? Cosa può aggiungere all’intimità tra un uomo e una donna? Che piacere ne ricaverà l’uomo che si sentirà forte grazie a questa legge?
Un piacere dettato dalla norma e una violenza legittimata da un diritto che ha un senso dell’equità e della realtà ben singolare. In Afghanistan ci sono donne che si battono, che si organizzano e sono aiutate dalle femministe di diversi Paesi. Ma che un uomo come Hamid Karzai abbia potuto mettere la propria firma su questo progetto di legge la dice lunga sulla fame di potere, sull’ambizione divorante che lo possiede. Con che faccia può presentarsi agli occidentali che frequenta avendo aperto la porta allo stupro legale nel matrimonio? Vorrebbe forse che i taleban lo considerassero vicino a loro? Ma i taleban vogliono di più. Non si accontentano di una legge sulla pratica sessuale. Vorrebbero spadroneggiare su tutta la società e introdurvi una barbarie che va al di là dell’immaginabile. Dunque Karzai ha fatto un passo falso e ha sbagliato i suoi calcoli. E quindi ha fatto marcia indietro. Per ora, almeno.
Una donna che prova piacere è una «porca», è pari a una prostituta (tranne il fatto che le poverette che fanno sesso per mestiere non ne godono affatto, è un lavoro, una fatica necessaria per guadagnarsi da vivere). Sarebbe interessante far leggere agli uomini che parlano di questo godimento qualcuna tra le testimonianze di queste donne che raccontano la loro vita sessuale. Ma non arriveremo a tanto.
L’importante è far sentire la propria voce contro questa iniziativa afghana che non farebbe altro se non aggravare la situazione nel Paese e potrebbe favorire il ritorno sulla scena politica dei taleban. Perché quel che è in gioco in questa regione martoriata da troppe guerre è una scelta di società e anche di epoca.
Sfortunatamente io sono pessimista: gli eserciti occidentali non riusciranno a eliminare il pericolo talebano. Il terreno è difficile, i metodi asimmetrici e la popolazione divisa. Solo gli afghani medesimi potranno farla finita con i taleban. Ma fino a che questa guerra è legata al traffico di oppio, fino a che il guadagno facile è a portata di mano, la lotta sarà dura e impari.
Nel film dell’afghano Siddiq Barmak Opium War (2008) si vede una lunga fila di donne coperte dal burqa avanzare all’orizzonte dirette verso un campo di papaveri da oppio. Quando arrivano al campo sollevano il velo e si scopre che sono taleban armati venuti a prendere la loro parte sull’incasso della vendita di droga. I contadini pagano per non essere uccisi. Questa immagine riassume la situazione: la guerra in Afghanistan ruota attorno all’oppio e alle donne. Bisogna controllarli entrambi, pena la fine di una tragedia innescata dalla barbarie nel nome di un islam totalmente estraneo a queste pratiche.
© Le Monde
* La Stampa, 10.04.2009
I sentimenti visti da una donna islamica
Se Oriente e Occidente rifiutano l’amore
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 1.10.2008) *
Ha l’occhio soprattutto rivolto al passato, la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, quando racconta dell’amore nel mondo islamico. Ne Le 51 parole dell’amore (ripubblicato in questi giorni con una nuova introduzione) ripercorre infatti la grande tradizione araba antica dei poeti, dei letterati, dei filosofi che cantarono passione e seduzione con estrema libertà.
L’amore narrato, insomma, come una specie di paradiso terrestre, dove le donne non erano affatto sottomesse, bensì ascoltate e rispettate quando non anche obbedite, dove i matrimoni combinati non erano affatto la regola, dove si parlava di innamoramento non come di una cosa buona al massimo per gli adolescenti, ma di un prezioso miracolo da gridare ai quattro venti.
Ed è questo ciò che la Mernissi in particolare rimpiange, l’antico piacere di parlare pubblicamente dei sentimenti, oggi quasi completamente perduto, in verità non soltanto nel mondo arabo: nel pudico - o cinico - rifiuto del discorso amoroso Oriente e Occidente sono più o meno alla pari.
Di ciò che nel rapporto tra i sessi succede oggi nell’Islam, l’autrice parla invece assai meno e se anche è ovvio che le infauste notizie riportate dalla cronaca mostrano soltanto un aspetto della questione, nell’insieme la situazione - soprattutto in alcuni Paesi - non sembra così rosea come potrebbero far immaginare i liberi scritti della tradizione. Scritti che, peraltro, non trovano molti corrispettivi nell’antica letteratura occidentale segnata com’era dalla sessuofobia cristiana: del resto non è un caso che le Mille e una notte andassero in scena a Bagdad e non a Roma o a Parigi.
FATEMA MERNISSI Le 51 parole dell’amore GIUNTI PP. 245, e 12,50
Un gruppo di taliban ha fatto fuoco davanti a casa sua. Ferito gravemente un figlio
Dirigeva il Dipartimento per i reati sessuali nella terra del fondamentalismo religioso
Kandahar, uccisa la poliziotta delle donne
"Era la più famosa di tutto l’Afghanistan" *
KANDAHAR - Era la prima donna divenuta poliziotto a Kandahar dopo la caduta dei taliban. L’hanno uccisa stamane, davanti alla porta di casa. Stava andando a lavorare. E’ rimasto ferito gravemente anche uno dei suoi figli. Malalai Kakar era la poliziotta più famosa dell’Afghanistan, un simbolo del riscatto femminile nella terra che fu culla del movimento fondamentalista religioso. Aveva rinunciato a portare il burqa due anni fa e i taliban l’avevano minacciata più volte.
Ma lei non aveva mai chinato la testa: "Era una donna molto coraggiosa", dicono adesso i suoi colleghi. Dirigeva il dipartimento reati contro le donne nella roccaforte dei taliban e sapeva di essere nel mirino dei fondamentalisti. "Girava sempre con la pistola - racconta un agente del suo dipartimento - e sempre insieme a un uomo della sua famiglia".
Ma stamane non le è servito essere armata. Le hanno sparato alla testa ed è morta sul colpo. Aveva quarant’anni ed era madre di sei figli. Suo padre e suo fratello erano poliziotti come lei. Nelle forze dell’ordine era entrata già alla fine degli anni Ottanta, ma poi l’ascesa dei taliban l’aveva costretta a fuggire. Era rientrata alla caduta del loro regime nel 2001 e aveva assunto il comando del Dipartimento con il grado di capitano.
I taliban hanno lanciato una vera e propria guerriglia mortale da quando la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti li ha cacciati dal potere. Malgrado la presenza di 70mila soldati delle forze multinazionali, da due anni le violenze sono aumentate di intensità. Negli ultimi sei mesi i fondamentalisti hanno ucciso 720 agenti. Prima di Malalai Kakar, un’altra donna poliziotto è stata assassinata in Afghanistan nel giugno scorso. Anche allora, la polizia locale di Herat aveva accusato dell’omicidio i taliban.
* la Repubblica, 28 settembre 2008.
Donne forti senza burqa
Ho visto le donne fiere dell’Afghanistan ora inghiottite dai burqa e dalla paura
di Tana De Zulueta (l’Unità, 29.09.2008)
Me le ricordo così, le donne afghane, come Malalai Kakar: forti, esili e volitive. Da studente universitaria ho passato mie vacanze in Afghanistan, raggiungendo i miei genitori con un lunghissimo volo delle linee aeree afghane. Era un viaggio a tappe, con scalo a Francoforte, poi Istanbul, Teheran e infine Kabul. All’arrivo in Asia ero sempre sopraffatta dal sonno, ma non le mie compagne di viaggio, e mai le nostre hostess.
Zahir Shah era ancora re, anche se per poco, i talebani non avevano ancora conquistato il paese, e le donne potevano ancora lavorare. L’Afghanistan era, come oggi, un paese poverissimo, ma il regno di Zahir Shah, iniziato negli anni trenta, era stato una rara parentesi di relativa tranquillità per il suo paese. Il re si considerava un modernizzatore e incoraggiava l’educazione delle donne e la loro partecipazione alla vita pubblica. Le hostess della Ariana erano un simbolo di modernità, e ne erano orgogliose. Mi ricordo le loro voci imperiose quando davano ordini ai passeggeri e le chiacchiere allegre nella zona cucina.
Girando per le strade di Kabul le donne con il burqa erano quasi in minoranza. Le studentesse dell’università vestivano come noi e nell’ospedale donne medico ed infermiere giravano per i reparti senza velo. Mio padre, che lavorava in Afghanistan per le Nazioni Unite, occupandosi di salute pubblica e coordinando la campagna contro la malaria, aveva come interfaccia nel ministero della Sanità una funzionaria donna.
Sono tornata in Afghanistan un anno fa, e ho visto un’altro mondo. Non solo per i segni evidenti di più di trent’anni di guerra, con la città di Kabul quadruplicata nella sua estensione dall’afflusso degli sfollati, circondata da un distesa infinita di baracche di fango, con le carcasse dei carri armati lungo la strada dell’aeroporto.
Ma c’era qualcos’altro. Non ho colto subito la differenza, mi sembrava, però, che mancasse qualcosa. Poi ho realizzato: erano sparite le donne. Oggi anche le più emancipate non escono di casa senza un pezzo di velo in testa, compreso il personale femminile delle organizzazioni internazionali. Le altre, quando escono, sono state inghiottite dall’universale burqa celeste. Un dato di fatto che la cacciata dei talebani dalle città non ha sostanzialmente modificato. Il boom edilizio del dopoguerra ha sventrato la città vecchia e sono spuntati interi quartieri per i nuovi ricchi, ma l’ostentazione femminile, se c’è, si svolge a porte chiuse.
Passando lungo la strada che portava al palazzo del re, ora il palazzo presidenziale, ho finalmente riconosciuto un pezzo della città com’era. Facevo parte, in questa mia ultima visita, di una delegazione parlamentare delle commissioni Difesa, e la prima tappa del nostro viaggio era un incontro con il Presidente Karzai. Il vecchio re, molto malato, ci fu detto, aveva ceduto il suo palazzo, e viveva in una vecchia foresteria nel giardino. Ferma sul marciapiede, ho riconosciuto il posto, poco frequentato, ma non particolarmente pericoloso, dove passeggiavo con il nostro cane. Ora la strada è chiusa al traffico anche pedonale per timore di attentati. Più che trentacinque anni, sembrava essere passato un secolo, anche se l’orologio, da un certo punto di vista - quello delle donne -- più che in avanti sembra essere tornato indietro. Perché le donne, il loro corpo, la loro pretesa di autonomia, sono ridiventate il fronte dell’ultima guerra in atto per la conquista dell’Afghanistan. Nel 1972, studentessa universitaria, giravo da sola, e indisturbata, per le strade di Kandahar, mentre mio padre sbrigava i suoi affari nell’ospedale della città. Oggi sarebbe impensabile.
Malalai Kakar, era nata a Kandahar, la stessa città dove è nato il movimento dei talebani, il movimento degli «studenti» fondamentalisti. Veniva, però, da una famiglia che aveva sposato un’altra idea di progresso. Il padre, ufficiale di polizia, la spinse ad arruolarsi nella polizia nel 1982, come i suoi fratelli, «senza differenza», disse lei. Aveva dato a sua figlia il nome di Malalai, eroina della resistenza afghana contro i colonialisti inglesi. Non si trova traccia del nome di Malalai nelle cronache britanniche della battaglia di Maiwand, storica sconfitta degli inglesi per mano dell’afghano Ayub Khan, ma gli storici locali narrano che ad un certo momento, quando le linee afghane stavano per sfaldarsi, si alzò una ragazza, impugnando come bandiera il suo velo, e incitando, cantando, i suoi compagni a combattere. Malalai fu colpita e uccisa da una pallottola inglese, ma le truppe di Ayub Khan si gettarono contro gli inglesi con rinnovato furore. Fu un umiliazione cocente, immortalata dallo stesso Kipling nella sua poesia That day. Pare che la tomba, vicino a Kandahar, dove Malalai l’eroina fu sepolta con tutti gli onori, esiste ancora.
Malalai Kakar era, anche lei, una combattente. Nelle interviste raccontava volentieri della sua partecipazione a scontri armati con i talebani. Credeva evidentemente nel suo compito, quello di proteggere le donne, e anche, forse, di risollevarle. Sue colleghe della squadra speciale che Malalai capeggiava hanno detto a una giornalista americana che si era avventurata fino al pericoloso posto di polizia dove lavoravano, che si loro si erano arruolate era per merito suo. Un’altra poliziotta di Kandahar fu uccisa a giugno di quest’anno, ma Malalai Kakar era un simbolo, anche internazionale. Il suo assassinio è stato rivendicato da un portavoce dei talebani all’Agence France Presse: «Abbiamo centrato l’obiettivo», ha detto.
Ci sono molte Malalai in Afghanistan, e non solo perché è un nome popolare. Sono donne, ragazze e bambine forti e anche combattive, così, almeno, me le ricordo. Ragazze con lo sguardo simile alla celebre bambina di una copertina del National Geographic, che sembrava sfidare l’obiettivo del fotografo. Quella bambina fu ritrovata dallo stesso fotografo molti anni dopo, in un campo profughi in Pakistan, già madre e con il viso segnato dal tempo, ma con lo stesso sguardo scintillante. Un immagine che è quasi un simbolo di resistenza. Ma forse la più celebre di tutte, in Italia, è la parlamentare Malalai Joya, espulsa dal Parlamento per avere sfidato i signori della guerra che ritiene colpevoli di crimini ed abusi. Ha lo stesso coraggio di Malalai Kakar, e come lei, è convinta di avere il sostegno di molti suoi concittadini, non solo, ma forse specialmente, donne e bambine.
Il diario-confessione
Salwa al-Neimi rivendica l’appartenenza a una tradizione che ha sempre esaltato il sesso
Vietato in quasi tutto il mondo islamico, «La prova del miele» è già un caso
Dice la protagonista: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio»
E la giovane araba scopre l’eros
di Cecilia Zecchinelli (Corriere della Sera, 31.08.2008)
PARIGI - «Come posso gridare al mondo la mia passione per Georges Bataille, Henry Miller, il marchese de Sade, Casanova e il Kama Sutra e non nominare nemmeno Al Suyuti e Al Nafzawi?», si chiede la narratrice senza nome e senza pudori in La prova del miele (tradotto da Francesca Prevedello per Feltrinelli). «Perché tanta sorpresa in Occidente per un libro erotico in arabo, se non per il solito falso cliché che ci vede tutti nemici del sesso, le nostre donne vittime e oppresse? », ci chiede Salwa al-Neimi, autrice dell’opera diventata ormai caso letterario e campione di vendite (anche) nel mondo arabo. Nel cortile del prestigioso Institut du Monde Arabe di Parigi, dove lavora da anni dopo un passato da giornalista letteraria, Salwa ci parla di Al Suyuti e Al Nafzawi, di Al Tigani e Unsi Al Hajj. Ovvero dei grandi autori classici che secoli fa all’eros dedicarono studi e trattati, ne derivarono gloria e ammirazione. E molti di loro, ricorda, erano sheikh religiosi, credenti e pii. «Perché nel mondo arabo-islamico il sesso non è mai stato peccato, anzi il nostro è l’unico popolo, io credo, per cui l’eros è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio». Al punto che «tra gli effetti positivi del coito, dicevano i classici, c’è l’anticipazione del paradiso».
È tutta nel solco della (ri)scoperta dell’eredità erotica araba la prima opera in prosa («non è un romanzo, piuttosto un testo libero») della Neimi. Una sorta di diario- confessione di una giovane araba («non ha problemi di identità anche se vive in Francia, è libera») che nel sesso scopre davvero il suo paradiso. Leggiamo dal libro: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio». «Non ho altri modelli che me stessa. Non sono in cerca di una fatwa che mi dia il permesso di concedermi ai miei uomini». E ancora: «Chi desidera il mio corpo mi ama, chi ama il mio corpo mi desidera. È il solo amore che conosco, il resto è letteratura ». «Se il mistico Al Juneid scriveva "Ho fame di coito come ho fame di cibo", io dico "Ho sete di acqua, di sperma, e parole"».
Nelle centodue pagine della Prova del miele avvenimenti ce ne sono ben pochi: aneddoti, citazioni e molte riflessioni piuttosto, divisi in capitoletti dedicati come nei testi antichi ciascuno a un tema (l’hammam, la dissimulazione) o a una storia intrecciata a quella della protagonista (la massaggiatrice, il sesso arabo nella City). Ma nemmeno i personaggi (gli «amanti» dai nomi un po’ pretenziosi, come il Viaggiatore o il Lontano) hanno personalità delineate e chiare. Ad eccezione del più desiderato e forse perfino amato, il Pensatore, che risveglia nella narratrice la vera passione (il miele), e con lei condivide l’amore, ancora una volta, per i classici e per la lingua araba. «Più di qualsiasi altra la lingua del sesso », che anche in traduzione a volte resiste. Come nella discussione tra lei e il Pensatore su che termine in arabo classico sia più adatto per descrivere la sodomia femminile (la narratrice finirà per inventarlo).
Non che sia tutto così facile, in realtà. La visione dell’Occidente di un mondo islamico sessuofobo oggi è più vera che in passato; moltissimi arabi non conoscono e nemmeno immaginano quei famosi trattati d’amore carnale compilati per giunta da uomini di fede; l’idea che una donna possa scriver di sesso per molti è uno scandalo. E La prova del miele, uscito a Beirut nel gennaio 2007 con la scritta «vietato ai minori» (e lì apprezzato perfino da Al Akhabr, quotidiano del Hezbollah) è stato infatti proibito quasi ovunque nel mondo arabo, esclusi solo il Maghreb e Dubai. «Perfino in Egitto e nella laica Siria, la mia patria, il libro è bandito, anche se per strada lo vendono di nascosto e con Internet arriva ovunque. E ho ricevuto minacce, insulti», dice la Neimi. Censura e attacchi, uniti all’etichetta «il primo libro erotico scritto in arabo da una donna» (record controverso ma in sostanza vero) che hanno però aiutato molto il libro in Occidente. Alla Fiera di Francoforte già 17 Paesi (dal Giappone alla Turchia) lo hanno comprato, in alcuni casi con aste e prezzi assai alti. «Pensare che nei cinque libri di poesie che ho pubblicato in passato l’erotismo era altrettanto presente, ma nessuno li ha mai trovati interessanti », sospira la Neimi.
A sentire lei il successo del Miele sta quindi, soprattutto, «nella lingua facile, moderna, diretta che riesce a parlare anche ai giovani ». Vero forse per la versione originale, in arabo. Mentre è difficile credere che in Occidente non abbia pesato e non pesi quel mix di censura-erotismo-orientalismo che volutamente l’accompagna: l’edizione italiana lo presenta come «le confessioni impertinenti di una Sheherazade contemporanea », cliché che le scrittrici arabe affermate rifiutano da tempo e con forza. Ma comunque sia, ben venga il Miele di Salwa. Per sfatare qualcuno dei tanti falsi miti dell’Occidente sul mondo arabo. Per ricordare a quest’ultimo un passato più libero e in fondo più gioioso. Per chiedersi (siamo umani e curiosi) se questa non sia un’autobiografia. Domanda a cui l’autrice risponde, sorridendo: «Magari».
La Stampa, 11/8/2008 (9:4)
Olimpiade vietata alle arabe,
la ribellione in onda sul web
Un frammento del filmato denuncia apparso su You Tube
Un video di protesta su YouTube:«Aisha moglie di Maometto era una sportiva...»
di STEFANO SEMERARO PECHINO Legate, imbavagliate, prigioniere di un burka nerissimo che scopre giusto le scarpe da ginnastica. Davanti un pallone, sullo sfondo una porta di calcio. In sottofondo la mielosa "One moment in Time" di Whitney Houston. Una foto che una metafora della società reale che permane, nobilmente, religiosamente tollerante, ma soffocata solo il velo nero dell’ipocrisia e della discriminazione sessuale - uno dei pilastri politici e sociali della nazione araba. Finché la donna resta sottomessa e non si ribella, lo status quo è garantito. Il mondo dei maschi può prosperare, non deve temere menadi e sacerdotesse, figuriamo poi quelle di confessione Beckham.
L’immagine è in realtà un frame di un video realizzato dall’attivista Wajeha Al Huwaider, una intellettuale saudita che dirige la Società per la difesa dei diritti delle donne. Anche delle donne che vorrebbero correre, saltare, misurarsi su un campo, dentro uno stadio. Qualificarsi per le Olimpiadi. Niet. La trionfante teocrazia al governo in Arabia bandisce gare di corsa, maratone, qualsiasi attività ginnica in pubblico, arrivando a espellere lo sport dai programmi scolastici femminili. Figuriamoci le Olimpiadi. Wajeah non è la prima a scontrarsi con il muro del maschilismo. Anche alle prime edizioni delle olimpiadi moderne le donne furono prima bandite, poi tollerate, dal 1908, purché non corressero più di duecento metri, per non affaticarsi e rovinarsi la vita. Hassiba Boulmerka nel 1922 divenne la prima atleta algerina a vincere una medaglia d’oro, nel 92 a Barcellona, e un mondiale sui 1500 a Tokyo che scatenò proteste serie dei parrucconi di casa sua: perché Hassiba correva a gambe scoperte, indossando i classici shorts da pista. Capirete il sacrilegio. Si arrivò alle minacce, e Hassiba dovette emigrare in Europa per allenarsi. Un po’ come ha fatto di recente Sania Mirza, campionessina indiana e musulmana che in patria è stata tante volte censurata per le sue mise che rivelano molto delle sue forme generose.
In Arabia esiste anche una squadra semiclandestina di basket, "Jeddah United", mentre Arwa Mutabagani è stata eletta - una donna - amministratrice della federazione sport equestri. Aperture, squarci che non sono quelli invocati da tempo da Sepp Blatter per i pantaloncini aderenti delle pallavolisti. Aperture che si allargheranno con il tempo. Chissà cosa ha pensato Wajeha la pasionara del corpo quando ieri una velista tedesca si è fatta fotografare culetto all’aria durante una minzione d’emergenza a bordo della barca. «Aisha, la moglie preferita di Maometto, andava a cavallo e sapeva combattere», è il motto di Wajeha.
Medio Oriente, la sfida delle prime donne
di Umberto De Giovannangeli *
Belle. Eleganti. Moderne. Buoni studi e ottime letture. C’è chi ha servito nel più agguerrito servizio segreto del mondo (il Mossad), Chi ha lavorato con successo presso la sede londinese della Deutsche Bank e successivamente alla J.P.Morgan. Chi ha inaugurato il suo sito web visitato in soli due giorni da oltre 150mila utenti. Asma. Rania. Tzipi. La «rivoluzione rosa» in Medio Oriente. Hanno conquistato le copertine dei settimanali spesso oscurando mariti re, presidenti e (Tzipi) premi ministri che si vorrebbe spodestare. I tre volti di un Medio Oriente che guarda al futuro: sono loro le «ambasciatrici» del cambiamento.
ASMA al-ASSAD. La moglie «inglese» per il rais di Damasco, Bashar el-Assad. Colta, indipendente, nata in Gran Bretagna, figlia di un noto cardiologo siriano, Fawaz Akhras, Asma e Bashar si sono conosciuti a Londra, quando il giovane delfino di Hafez el Assad studiava da oculista. La loro, racconta, è stata una travolgente love story, un vero colpo di fulmine: con Bashar è bastato uno sguardo: «Ho saputo che mi sposava il giorno prima delle nozze». Hanno una comune passione: le nuove tecnologie. Asma è laureata in informatica e affascinata dalla new economy. Laureata in informatica e letteratura francese, la first lady siriana (33 anni l’11 agosto), ha lavorato nel 1997 presso la sede londinese della Deutsche Bank come analista nel ramo vendita ed acquisto degli «hudge fund», occupandosi dei clienti nell’Estremo oriente e in Europa. È poi passata, un anno dopo,, alla J.P. Morgan dove è rimasta per tre anni, fino al matrimonio. Madre di tre bambini, Asma interpreta dinamicamente il ruolo di first lady: ha dato vita a progetti per lo sviluppo economico della Siria, tra cui la prima Ong siriana per lo sviluppo rurale, il Fund for Integration Rural Development, ed oggi continua ad occuparsi anche di educazione femminile nel mondo arabo e del ruolo delle donne imprenditrici, della diffusione dei libri per bambini, dello sviluppo dell’informatica. La sua attività a sostegno di eventi culturali, ed in particolare storici ed artistici, le è valso il conferimento, da parte dell’Università La Sapienza di Roma, di una laurea honoris causa in archeologia.
RANIA di GIORDANIA. L’identità cosmopolita è l’interfaccia della sua passione per Internet. «Sono araba dalla testa ai piedi, ma parlo anche un linguaggio internazionale...l’incontro con culture e tradizioni diverse mi ha dato molta forza e una certezza: non considero più nessuno come straniero». Bella ed elegante. Nuova icona dello stile e grandissima fans della moda italiana. Rania (38 anni il 31 agosto), la dolce regina (dal 1999) di Giordania, è già considerata la Jacqueline Kennedy del Terzo Millennio. Con la first lady siriana condivide la passione per l’informatica. Chi la conosce da vicino, parla di lei come una persona intelligente, ambiziosa, determinata. Uno spirito libero, fiero e indipendente. Una donna dal fascino indiscutibile: è stata considerata, nel 2005, dal magazine inglese Harpers and Queens come la terza donna più bella del mondo. Moderna come poche, Rania parla ora attraverso il web. Nei primi due giorni on line, il suo video è stato visto da oltre 150mila utenti che hanno postato ben 500 commenti. Rania, che gestiva già dal 2005 il suo sito www.queenrania.jo, ha spopolato con il suo videomessaggio su Youtube. In esso si rivolge prevalentemente al popolo occidentale a cui dice: «In un mondo in cui è così facile essere connessi, restiamo ancora così disconnessi...». Le conversazioni via e-mail sono il naturale proseguimento dei colloqui diretti con al gente che sono nell’agenda quotidiana della regina. Il suo sogno, ha più volte affermato, è aiutare la pace e la prosperità del Medio Oriente dotando di computer ogni casa, ogni scuola, ogni luogo pubblico in Giordania e nel resto del mondo arabo: «Con i computer, Internet e le opportunità offerte dall’informazione multimediale non ci si può più isolare. La pace non può limitarsi alle scelte e al coraggio dei leader. In Medio Oriente non c’è ancora il pieno coinvolgimento della gente. Ma quando la pace rientra nei tuoi interessi, esaltati dalla cooperazione, il rischio di conflitti si allontana, fino ad annullarsi». Sulla sua scrivania, nella semplice palazzina a due piani dove abitava con Abdallah ancor prima di ascendere al trono, situata sulla vetta della collina di Baraka, il computer della regina è sempre acceso. Per Rania il computer è più che uno strumento di potere, è la speranza di una vita migliore. Migliore per il popolo di cui è divenuta regina, e per il popolo di cui, Rania, si sente fiera di essere parte: il popolo palestinese.
TZIPI LIVNI. È la seconda donna nella storia di Israele ad aver guidato la diplomazia dello Stato ebraico. La prima fu Golda Meir. Chi la conosce, parla di lei, Tzipi (Tzipora all’anagrafe) Livni, nei termini in cui definisce la sua diplomazia: efficace, intelligente, a tratti un po’ fredda: un mix tra aggressività e dolcezza. Oggi, Tzipi Livni è considerata il secondo politico più potente di Israele: nelle primarie di Kadima, previste per la metà di settembre, è l’avversaria più ostica per il premier Ehud Olmert.
Sposata con due figli, avvocata di successo, Tzipi (50 anni) nasce da una famiglia dell’aristocrazia della destra storica israeliana: suo padre, Eitan Livni, è stato un combattente dell’indipendenza israeliana, militante nell’Irgun durante gli anni del mandato britannico sulla Palestina. Eletta per la prima volta alla Knesset nel 2001 con Likud (la destra israeliana) prima di divenire titolare degli Esteri, ha ricoperto, tra le altre, le cariche di ministra dell’Immigrazione e, successivamente, della Giustizia. Nel 2007 la rivista Time l’ha inserita fra le 100 persone che stanno trasformando il mondo. Rispetto ad Asma e Rania, Tzipi ha più stile che fascino, lo stile - raccontano i suoi collaboratori - di chi è stato luogotenente di Tzahal e servito per quattro anni nelle file del Mossad, il servizio segreto israeliano. Sulla lapide del padre è incisa una mappa d’Israele che include le due rive del Giordano, ma oggi, Tzipi è decisa sostenitrice di una «pace nella sicurezza», fondata sul principio «due popoli, due Stati». Quanto alla Siria, è stata lei, ben prima di Olmert a sostenere la necessità di dar credito alle aperture di Assad.
* l’Unità, Pubblicato il: 16.07.08, Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.26
Vi racconto le Mille e una notte
di Vincenzo Cerami *
C’è una poesia in Storia della notte (1977) di Jorge Luis Borges intitolata Metafore delle Mille e una notte dove il poeta mette in fila, alla rinfusa, gioielli che pesca a piene mani in quella che viene unanimemente definita la più importante raccolta novellistica di tutti i tempi. Borges resuscita dal ricordo di uno straordinario, indimenticabile voyage en Orient, la caverna che si chiama Sesamo, visir, spade, scacchiere, re lebbrosi, lampade, carovane, mani lavate nella cenere, geni confinati in un vaso, sceicchi, il lungo vegliare delle stelle, Shahrazad che narra la sua storia, i viaggi di Sindbad.
Ogni immagine che compare nel grande libro esotico, una strada, un angelo travestito, un tappeto, un mercante assai ricco... ne chiama a raccolta tante altre, in un gioco, appunto, di metafore, di specchi, di rimbalzi, di inganni, di allusioni. Così, d’incanto, ecco nascere dal nulla un apologo, una chiosa moraleggiante, un fatterello esemplare, una rivelazione, un annuncio, un episodio anodino all’apparenza e invece ricco di arguzia e di saggezza.
Il destino, che di quest’opera è protagonista assoluto, crea gli incroci più improbabili, incongrui, quasi sempre inattesi: il popolo che si muove nel ricco e variegato paesaggio dei racconti va a caccia d’avventure dall’esito incerto e sorprendente. La presenza assente della sorte muove le genti, dà loro voce e silenzi, turbamenti e furie, passioni e meschinità. La vita di ognuno obbedisce a un disegno criptico e iniziatico di Dio, «signore generoso, artefice degli uomini e del creato», che qui è l’oscuro burattinaio di esseri indaffarati e affannati, brulicanti, ritratti mentre creano e combattono prodigi, seducono e si lasciano sedurre, tramano nel caos per intascare pezzi di vita, tra amori casti e sospirosi, e violente scene d’alcova.
L’universo delle Mille e una notte è una società rappresentata in tutti i suoi ranghi, dalla vetta più alta della piramide a lerci bassifondi. Nel popolo sopravvivono, come un residuo della coscienza arcaica, gli spiriti dei jinn, di quella miriade di feticci e simboli pagani cancellati dal monoteismo musulmano, buttati all’aria da Maometto, come fece Cristo con le blasfeme merci del mercato di Gerusalemme. Le paure aleggiano in forma di spiritelli e oggetti incantati, colorando le storie di infantile, favolistico trasognamento e lasciando nel lettore l’impressione di attraversare, sì, il paese delle meraviglie, ma muovendosi lungo una linea di confine tra sincronismo del bambino e diacronia dell’adulto, tra preistoria e storia. Di qui il vitalismo scatenato, dionisiaco, metalinguistico del freudiano principio di piacere, di là l’esistenza codificata del principio di realtà. Nelle Mille e una notte si assiste spesso a forti collisioni tra le categorie dello spirito radicate nell’atavismo creaturale e il tessuto sociale, di arcaica e normale crudeltà. Talvolta a trionfare è l’ovvia giustizia, ma più spesso ha la meglio l’enigmatica, impenetrabile giurisprudenza del destino. Vita e anima sono corpi di uno stesso Io, il quale è felice se le due parti diventano una sola cosa, e rischia di essere infelice se vivono separate.
(...)
È interessante notare come nella mitologia greca esistano episodi che girano intorno agli stessi temi. Basta pensare alle tre mele d’oro che sono servite a Milanione per conquistare la bella Atalanta, cacciatrice velocissima nella corsa. (...) Tre mele compaiono nella sessantanovesima notte, fanno da perno a una vicenda di malanni e infedeltà. E riappare anche, intorno alla settantesima, la figura narrativa dello scrigno-bara che tiene celato un corpo: una bellissima giovane tagliata in diciannove pezzi viene tirata fuori da una cassa pescata con la rete nel Tigri. Quando re Shahriyar e suo fratello Shahzaman, dopo aver scoperto il tradimento della regina (tra l’altro disprezzata dal triviale seduttore Masud che la chiama addirittura «sporcacciona»), se ne vanno in giro per scoprire se nel mondo esistono donne onorate, si imbattono in una fanciulla che invita entrambi a giacere con lei. I due tentano di sottrarsi, ma la ragazza li spaventa minacciando di svegliare l’ifrit, un jinn addormentato sulla spiaggia accanto a lei, che potrebbe ucciderli e gettare i loro corpi in mare. Prima uno e poi l’altro soddisfano la scellerata richiesta della fanciulla. Ma quale è la storia della fanciulla? Vive dentro una cassa di vetro, tenuta sotto chiave da quel demone empio che adesso dorme saporitamente sulla sabbia dopo averla liberata solo per un piccolo lasso di tempo. L’ha rapita il giorno delle nozze e crede di proteggerne la castità segregandola appunto nella cassa. Non sa il mostro che ogni volta che la lascia libera e fa il suo pisolino, lei si accoppia con chiunque passi nei paraggi. Ha già fatto l’amore novantotto volte,e adesso, con i due nobili fratelli, è arrivata a cento. Poi, riferendosi all’ifrit, dice: «Mi ha tenuto protetta sotto chiave, nell’intento di farmi restare casta e pura, senza sapere che niente può mutare o impedire le cose decretate dal destino, e che quando una donna vuole qualcosa non c’è nessuno che possa opporsi».
La figura della cassa che custodisce la castità (simulacro della vita), si trova anche, con diverse varianti, nell’universo mitologico greco e in quello ebraico. Abramo, che non aveva mai avuto rapporti d’amore con Sarah, accortosi della sua bellezza mentre lei si specchiava sull’acqua del torrente che separava l’Egitto da Canaan, sapendo quanto svergognati fossero gli egiziani, nascose la donna dentro una cassa, non prima di averla vestita con i suoi ornamenti più belli e preziosi.
Ma un simile trattamento non è riservato solo alle donne. Subisce lo stesso destino Osiride, chiuso in una cassa sigillata col piombo fuso e gettato nel Nilo. Iside, in preda alla disperazione, va in cerca del suo sposo, e quando lo trova fa ricomporre la salma: si accorge che gli manca il pene. Allora ne prepara uno d’oro (viene in mente il fallo fiammeggiante di Marte, che tolse la verginità a Rea Silvia). Con un incantesimo resuscita Osiride e trascorre con lui una notte d’amore. Anche nella vicenda di Perseo e di sua madre Danae c’è una cassa. Anzi, prima ancora, c’è una cella, nascosta sotto terra, dove la donna viene imprigionata dal padre, re Acrisio. L’oracolo di Delfi ha predetto al sovrano che un nipote lo ucciderà. Siccome Danae è la sua unica figlia, egli la condanna ad eterna sterilità, rinchiudendola in una stanzetta affondata negli abissi. Giove, innamorato della fanciulla, si trasforma in una pioggia d’oro (il seme più prezioso) e, penetrando dalle fessure del soffitto, seduce la vergine. Nasce Perseo. Infuriato, il re fa rinchiudere madre e figlio dentro una cassa, che affida alle onde del mare.
Il mito di Atalanta, cacciatrice cruda e restia, ha molto in comune con il percorso narrativo di re Shahriyar e con il clima favolistico delle Mille e una notte. Quando il padre vuole che Atalanta si sposi, lei pone come condizione che i suoi aspiranti mariti gareggino con lei nella corsa a piedi, dove pensa di essere imbattibile. Il pretendente che accetta la sfida, se perde, deve essere pronto a farsi uccidere da lei. Milanione vincerà la gara grazie a tre mele d’oro: durante la corsa ne getta una alla volta a terra e Atalanta, attratta dallo splendore di quei frutti, si ferma a raccoglierle. Nel frattempo lui taglia da vincitore il traguardo.
Il tesoro di storie dalla forte carica simbolica che è la mitologia greca, basa la sua ricchezza drammaturgica nel politeismo, nelle incessanti e sempre vive conflittualità tra la volontà degli dei e il libero arbitrio degli umani. La stessa parola mito ha come principale significato racconto. Attraverso il fascino della narrazione il sapere riesce a mettere radici nell’uomo. Il racconto mitologico svela il mondo favolistico che si muove di pari passo con quello apparente. L’inganno dell’invenzione serve a smascherare gli inganni delle apparenze. Divinità, maggiori e minori, e creature soprannaturali mettono in scena tensioni sempre vive nelle categorie dello spirito, in quella zona più profonda dell’uomo dove sopravvivono i nostri primitivi impulsi a capire e a dare senso alla vita. Non c’è popolo che non abbia costruito le proprie mitologie, antropomorfizzando i misteri della natura, reificando le paure, popolando la fantasia di mille episodi che, simbolicamente, rappresentano il mondo. Il sole, la luna, la pioggia, i fulmini, la grandine, il fuoco, la vita, la morte... e poi la procreazione, l’amore, la convivenza, la ricchezza, il denaro, il commercio, la forza, la debolezza, le credenze religiose, e così via, sono i veri personaggi, spesso mascherati, degli antichi racconti popolari. Le combinatorie tra tutti questi valori-personaggi sono praticamente infinite. Di qui la ricchezza di ogni mitologia. Su quella greca si poggiano i fondamenti del pensiero occidentale. Il contesto antropologico delle Mille e una notte, seppure più recente (stando ai testi fino ad oggi a nostra disposizione), anche rispetto alla tradizione biblica, si presenta al lettore come costellazione mitologica dell’Oriente. E chi sa quanto materiale mitico politeistico e quanto folclore mediorientale, esclusi dalla Bibbia, sono contenuti nei racconti di Shahrazad.
* www.unita.it, Pubblicato il: 10.12.06, Modificato il: 10.12.06 alle ore 13.29
Parla Rana Husseini, giornalista giordana da anni impegnata contro il “delitto d’onore” nei paesi musulmani
«Il credo religioso non c’entra Arabi o cristiani, è un problema culturale»
di Alessandra Marranghello (www.liberazione.it, 12.10.2006)
Rana Husseini è una giornalista giordana che da anni si batte per i diritti delle donne nel suo paese. Dai primi anni ’90 ha cominciato ad occuparsi del “delitto d’onore”, l’assassinio di donne, stuprate o accusate di avere avuto rapporti sessuali illeciti, per mano dei loro familiari perché ritenute colpevoli di aver compromesso l’onore della famiglia. Una pratica diffusa contro la quale Husseini, che dal 1999 fa parte del “National Committee to Eliminate so-called Crimes of Honour”, ha intrapreso una lunga campagna di denuncia. L’abbiamo incontrata a Cesano Boscone, alle porte di Milano, in occasione della mostra “Coraggio” promossa dalla Robert F. Kennedy Foundation of Europe: trentacinque scatti del premio Pulitzer Eddie Adams che ritraggono attivisti a favore dei diritti umani nei loro paesi.
Qual è la condizione della donna nei paesi mediorientali oggi?
Negli ultimi vent’anni la situazione è certamente migliorata. Sempre più donne cominciano ad ottenere incarichi importanti nel governo o in compagnie importanti. Anche nei così detti “gulf states” è decisamente aumentata la percentuale di donne presenti nel mondo del lavoro. Oggi sono tante le associazioni di donne e le Ong che richiamano l’attenzione su temi fino a poco tempo fa considerati tabù. Purtroppo perché le cose cambino del tutto il cammino è ancora lungo, ma la presa di coscienza è un ottimo segno. Ci sono ancora tante violenze e discriminazioni nei confronti delle donne. Un esempio è la legge di cittadinanza per la quale in molti paesi arabi una donna quando si sposa prende automaticamente la cittadinanza del marito e perde la propria. Sicuramente dietro ci sono ragioni politiche, ma è comunque un atto discriminatorio nei confronti della donna. La Giordania è il paese leader nella lotta alla violenza sulle donne, all’abuso dei minori e questo grazie alle associazioni di donne, alle attiviste e alle Ong. Ma anche negli altri paesi arabi le donne discutono della condizione femminile. Ogni paese ha il suo focus. In Egitto si parla molto di infibulazione, in Marocco di stupro. In Giordania molte donne si sono battute contro i crimini di onore, ma credo che su questo tema ci sia un movimento in tutti i paesi arabi. Il fatto che i media abbiano cominciato ad occuparsene ha fatto aumentare la consapevolezza.
Ha una stima del numero di questo tipo di delitti?
In Giordania i casi registrati sono intorno ai venti l’anno, ma potrebbero essercene anche altri, magari mascherati da incidenti.
Cosa succede a chi commette un delitto d’onore?
Quando una famiglia decide di uccidere una figlia perché disonorata, di solito l’omicidio viene affidato ad un membro della famiglia maschio sotto i diciotto anni. Questo perché data la giovane età le pene non potranno essere troppo severe. Nel 98% dei crimini, i giovani assassini si costituiscono alla polizia. Viene aperta un’inchiesta dopo la quale segue il processo che dura almeno un anno. E’ una procedura lunga. In passato le pene erano molto leggere quando la famiglia dimostrava che la ragazza uccisa aveva agito in modo immorale diventando un problema per la società. Oggi anche l’attegiamento dei giudici è cambiato. Ora quando qualcuno arriva a denunciare la morte di una ragazza in famiglia, spesso la polizia non crede alla versione data e va a fondo nelle indagini.
Ma l’attenzione al fenomeno c’è?
E’ un’attenzione periodica. Quando le associazioni delle donne e le Ong ne parlano l’attenzione è alta. C’è un momento in cui tutti ne parlano, poi l’attenzione cade e per un po’ se ne parla pochissimo. Io ne scrivo da dodici anni per tenere viva l’attenzione. Prima il governo era molto poco sensibile a queste tematiche. Oggi, dopo i nostri sforzi, il problema è sotto gli occhi del governo che non lo nega più, anzi lo riconosce ed è costretto a fare qualcosa. Sicuramente per motivi politici, ma tutto viene fatto per interessi politici. All’inizio la stampa araba non toccava queste tematiche, le riteneva questioni minori. Quando denunciavamo queste cose la gente era convinta che stessimo esagerando. Ora i giornali se ne occupano, anche se devo ammettere che spesso gli articoli non sono fatti molto bene. Anche il re e la regina sono a favore di leggi a tutela delle donne e contro il delitto d’onore, ne hanno parlato, ma non possiamo appoggiarci su di loro. Sono gli individui che si devono battere per cambiare le cose.
Un’attenzione internazionale al fenomeno aiuta?
Sì e no. Da una parte molti governi non si muovono se non c’è l’interesse internazionale, ma le iniziative devono essere fatte a livello locale, sul territorio e non da persone estranee. Il problema è che sembra che sia un fenomeno esclusivo del mondo arabo, ma sappiamo bene che sia la violenza ma anche l’omicidio contro le donne sono un problema internazionale. Un problema che esiste anche da voi in Italia, solo che viene chiamato in maniera diversa, per esempio “delitto passionale”.
Ha mai subito minacce in seguito al suo lavoro?
In dodici anni il governo non mi ha mai perseguitata e se non l’ha fatto vuol dire che è favorevole alla mia battaglia e anche se non fa più di tanto tutto sommato le cose vanno bene. Il problema si crea quando ci sono forze che cercano di portare il paese indietro. Fondamentalisti islamici, conservatori, associazioni come l’Islamic Action Front. Il regime giordano si basa sulle tribù ed è su queste che le associazioni conservatrici hanno presa perché le tribù sono conservatrici.
Cosa bisogna fare per evitare di tornare indietro?
Dobbiamo prendere coscienza del fatto che non ci si può basare solo sul governo, ma che per ottenere qualcosa bisogna battersi e tenere sempre alta l’attenzione. Molte donne nel mondo arabo ancora non hanno coscienza dei loro diritti, non sanno che ci sono Ong nate allo scopo di aiutarle. Si sta facendo un grosso lavoro nelle zone rurali aiutando le donne senza però distruggere le famiglie. Il training ha un ruolo fondamentale. Bisogna continuamente parlare del problema perché ci saranno sempre persone che non ne sono a conoscenza. Il lavoro su questi temi deve essere costante e non periodico. Ci tengo ancora a sottolineare che non bisogna considerare questi crimini un fenomeno legato alla religione araba. Sia la religione araba che quella cristiana sono contro l’uccisione delle donne. Non è un problema di religione, ma un problema culturale. Nel mio lavoro mi sono trovata anche a coprire casi di donne cristiane vittime del delitto di onore. A volte vengo attaccata da altre donne che mi dicono che ci sono tanti altri problemi oltre al delitto d’onore, problemi seri come lo stupro e la violenza, ma secondo me questo omicidio, che segue stupri e violenze, è la cosa più grave che può essere inflitta ad una donna.
Tahereh che leggeva troppo *
Una femminista ante litteram nella Persia dell’’800, un modello per le iraniane di oggi
L’amore per la Persia è nel dna degli iraniani, soprattutto di quelli che non possono tornarvi. Quando vivi all’estero te ne puoi dimenticare per anni. Sei un emigrato, ti integri senza difficoltà. Ma in un certo momento della tua vita l’identità persiana riaffiora. E ti sconvolge la vita. Senti di non poter più fare a meno di quelle note, di quei versi, di quei sapori. La notte sogni il monte Damavand che si staglia a nord di Teheran, oppure i ponti sul fiume che scorre languido a Isfahan.
A sessant’anni, Bahiyyih Nakhjavani si è accorta che dell’Iran non può più fare a meno. Se ne era andata con i genitori quando aveva solo tre anni. Vi era tornata adolescente, al tempo dell’ultimo scià, per scoprire di essere perseguitata perché appartenente alla minoranza bahai, una religione rivelata in Iran nel 1866 da Bahaullah che professava un pacifismo e un umanitarismo universale, affermando che tutte le religioni fondate dai profeti sono vere.
Nella Repubblica islamica i Bahai sono considerati eretici e Bahiyyih non osa tornare, per timore di essere perseguitata. Pur vivendo da sempre in Francia non riesce però a dimenticare il paese in cui è nata. Per sfuggire alla nostalgia che tanto attanaglia gli iraniani della diaspora, Bahiyyig ha scritto “La donna che leggeva troppo” (Rizzoli 2007), un romanzo ambientato nella Persia di metà Ottocento. Un romanzo dedicato alla poetessa bahai Tahereh Qurratu’l-Ayn che rifiutava il velo e insegnava alle altre donne a leggere e a mettere in discussione le tradizioni.
Bahiyyih, chi era Tahereh?
“Tahereh è l’unica donna persiana le cui fattezze sono scolpite su una lapide del cimitero di Qazvin ma non ha mai avuto l’onore di un epitaffio. La sua vita drammatica e idealista, la sua eloquenza che non ha né pari né timori, hanno lasciato il segno in Iran. La poetessa è morta perché lottava contro le tradizioni, una battaglia che le iraniane non hanno ancora vinto”.
Esiste quindi un legame tra la poetessa di metà Ottocento e le iraniane di oggi?
“Tahereh rifiuta la tradizione, osa sfidare le interpretazioni delle leggi islamiche e lo strapotere dei religiosi. Problematiche quanto mai attuali. È una donna dei nostri tempi anche se è diventata leggenda: il suo coraggio di fronte al clero le conferisce una statura eroica ma la sua sofferenza è, in tutta la sua intensità, umana. La sua intelligenza ed erudizione nella giurisprudenza islamica spaventano ma i dilemmi che deve affrontare - come figlia, madre, sorella e moglie - sono contemporanei. Tahereh era più avanti rispetto alla sua epoca? Lottava per una causa persa? Il suo sacrificio ricade sulla sua famiglia? Oppure costituisce un’eredità per le generazioni future? È difficile conoscere la verità, anche perché la sua storia è stata distorta sia dai simpatizzanti sia dai detrattori”.
Che cosa c’è di vero nelle vicende di Tahereh che lei racconta?
“Sebbene la storia delle donne dell’epoca cagiara sia poco documentata, alcuni fatti sono noti. Tahereh nasce in Iran nel 1817 nella provincia di Qazvin e muore a 36 anni nella capitale, agli arresti domiciliari. È accusata dell’assassinio dello zio e condannata per eresia dal suo ex marito, un alto membro del clero sciita che è anche suo cugino. I nemici la definiscono un’apostata che abbandona senza scrupoli i suoi bambini. I simpatizzanti sostengono invece che i figli le sono sottratti contro la sua volontà e la venerano come uno dei più grandi intellettuali dell’epoca. Tutti concordano su un punto: Tahereh rifiuta il velo”.
Un reato che le costerà parecchio...
“Sì, muore strangolata in un giardino abbandonato in una calda notte di agosto, nel 1852, e il suo corpo è ritrovato in un pozzo. In Iran il suo nome è sinonimo di scandalo, i suoi versi sono censurati nella terra che le ha dato i natali ma i diplomatici stranieri, i viaggiatori e gli studiosi scrivono di lei. Talvolta in modo non accurato ma comunque con entusiasmo. I suoi ideali sono fatti propri dalle femministe. La sua vita è messa in versi e persino in scena. Se ne appropriano in molti ed è naturale concludere che non sia stata compresa né da viva né da morta”.
Il velo è un atto di fede ma anche lo slogan degli integralisti. Perché Tahereh lo rifiuta?
“Lo considera il simbolo del pregiudizio, della lettura fondamentalista delle Scritture e dell’uniformità nel pensiero. Rappresenta la manipolazione e l’oppressione, vuole toglierlo per dimostrare di avere un’anima”.
Nel suo romanzo il velo non ha però sempre una connotazione negativa. Per esempio, quando descrive la giovane moglie dell’ambasciatore inglese in visita all’harem dello Shah scrive: “Era una di quelle creature timide che arrossivano facilmente e non sapevano che cosa farsene della mani. Chissà perché, meditò, le occidentali arrossiscono con tanta facilità? Forse sarebbero meno imbarazzate se portassero il velo”. Chi è la donna inglese del suo romanzo?
“Scrivendo “La donna che leggeva troppo” ho voluto svelare la storia della Persia di metà Ottocento. La giovane inglese è Mary Leonora Wolffe Sheil, moglie del colonnello Sheil, ambasciatore britannico in Persia tra il 1847 e il 1853. Il suo soggiorno nel Paese coincide con la prigionia di Tahereh nella residenza del sindaco di Teheran. Nel 1956 Mary pubblica il suo diario in cui descrive la visita alla madre dello Shah, dando sfogo ai proprio pregiudizi vittoriani e infatti è scandalizzata dagli abiti succinti indossati dalle donne nell’harem reale. Per Mary il velo è sinonimo di arretratezza ma si rende conto che è meno fastidioso degli stretti corsetti delle europee. E mette quindi da parte i pregiudizi. Inizialmente, per esempio, crede che “le donne in Persia contino meno degli asini” ma poi si rende conto che le native esercitano libertà a lei vietate e che, a dispetto delle apparenze, quello è un paese governato di fatto dalle donne”.
Noi, donne iraniane della diaspora, siamo spesso interrogate sulla condizione femminile nel nostro Paese d’origine. Perché lei insiste su Tahereh, una donna fuori dal comune, “né pazza né stupida, che difende la giustizia ma sfida le antiche consuetudini”?
“I problemi di Tahereh sono quelli delle donne di oggi: ha tante qualità ma “una donna intelligente dovrebbe essere meno bella, una donna che dà scandalo non dovrebbe essere anche avvenente”. Ed è perseguitata pure per le sue profezie: “Quando la interrogano sulle sue straordinarie doti di preveggenza, lei si mette a ridere e dice che è proprio come leggere. Se guardi solo le parole che ti stanno sotto il naso, risponde, non riesci a vedere il collegamento con quello che viene prima e quello che viene dopo. Se vedi solo quello che ti succede in questo momento, non puoi capire il legame tra ieri e domani”. La poetessa prevede il tradimento dello Shah verso i notabili che faranno da capro espiatorio salvando la capitale dalla rivoluzione, ma anche dei mariti nei confronti delle mogli rinchiuse nell’andarun, l’universo femminile. La sua colpa maggiore sembra però essere il fatto di saper leggere e scrivere. Ad essete istruire erano solo le principesse della corte cagiara. Tahereh insegna l’alfabeto alle mogli e alle figlie dei mercanti. Il suo è un atto rivoluzionario, sono in molti a cadere nell’incantesimo della prigioniera. Le donne intelligenti fanno paura. E più che l’amor per Dio si teme l’amor profano".
Che ruolo ha Dio nel suo romanzo?
“È un Dio su cui le donne non fanno conto. La madre di Nasereddin Shah, il sovrano assassinato in un santuario nel 1896 nel cinquantesimo anniversario (secondo il calendario lunare) del suo regno, è una donna materialista e priva di scrupoli che non si era mai preoccupata troppo dell’amore di Dio. L’aveva sfruttato, come del resto aveva fatto con quello degli uomini. Aveva temuto complotti e cospirazioni, e tanto più regicidi e rivoluzioni. Prima che il giovane Shah salisse al trono, per quanto la riguardava la divinità aveva brillato solo per assenza. Non c’era da stupirsi, dunque, se riteneva che il figlio dovesse i suoi titoli agli sforzi materni più che a una grazia accidentale".
* ISLAM E DEMOCRAZIA di Farian Sabahi, La Stampa, 13/10/2007.
L’Islam trendy delle ragazze di Teheran
di Chiara Valentini *
«Ma voi credete davvero che l’America voglia bombardarci»? La faccia di Salma, incorniciata da un leggero velo colorato, ha un’espressione stupefatta. «Non oseranno farlo. Con tutti i guai che hanno in Iran e in Afghanistan non possono permettersi di aprire un altro fronte, specie dopo che Putin si è fatto sentire», interloquisce Ziba, grandi occhi scuri e macchina fotografica a tracolla, una reporter abituata a girare nella Teheran che conta. «Non riesco neanche pensarci. Invece che aiutare la democrazia le bombe distruggerebbero ogni spazio di cambiamento», aggiunge Shirin, che studia sociologia all’Università. Sedute ad un tavolino del caffè Naderi, tradizionale ritrovo di intellettuali e artisti, le tre amiche esprimono uno stato d’animo largamente condiviso in Iran. I raid e le bombe sui siti atomici e non solo di cui sempre più spesso si parla in alcune capitali occidentali, visti da qui sembrano qualcosa di lontano, di inconcepibile in una società troppo occupata a cercare nuovi equilibri per la sua vita quotidiana e ad immaginare un futuro un po’ meno peggio del presente.
Non c’è bisogno di accurati sondaggi d’opinione, peraltro piuttosto difficili nell’unica repubblica teocratica del mondo, per capire che, a due anni dalla sua elezione, l’appoggio popolare al presidente Ahmadinejad è decisamente in calo, insidiato da un’inflazione al 20 per cento, dalla disoccupazione crescente, dall’aumento dei prezzi e dal razionamento della benzina. In un Paese in bilico fra islamismo di stato e voglia di modernità cova l’insofferenza, specie nei ceti più colti, per l’attacco alle ultime libertà sopravvissute al decennio riformista di Khatami. Non si vede però un vero dissenso organizzato. Al di là delle proteste di qualche intellettuale, il malumore si esprime nelle case e negli incontri privati, un po’ come negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Ma esiste una resistenza tutta speciale all’abbraccio soffocante dei mullah, quella delle donne. Più che con un movimento, che pure esiste, la sfida femminile si esprime in una presenza forte nella società, in una consapevolezza dei propri diritti che viene da lontano. Anche se nel farsi, la lingua dell’Iran, non esiste la parola femminismo, è addirittura dall’inizio del ’900 che le richieste di leggi paritarie si sono ciclicamente ripresentate. Quasi per paradosso proprio la rivoluzione di Khomeini, che aveva imposto alle donne di nascondersi sotto il chador, le aveva poi spinte a frequentare le scuole. Con il risultato che, a trent’anni di distanza, non solo le iraniane sono le più scolarizzate del Medio Oriente, ma che all’università hanno superato i maschi. Come anche da noi, quasi sempre sono più brave negli studi. E poiché superano più facilmente la dura prova d’ammissione che intanto è diventata obbligatoria, sono arrivate ad essere più del 60 per cento delle iscritte degli ultimi anni. In facoltà come medicina questo esercito di future dottoresse ha preoccupato a tal punto gli islamisti, che hanno introdotto le quote a favore degli studenti di sesso maschile, spesso più umiliati che compiaciuti da un privilegio così ambiguo.
«Siamo in tante ad iscriverci all’università perché questo ci rende più libere. La laurea è il passaporto per trovare lavoro e per andarcene da casa anche senza un marito al braccio», taglia corto Sharmin, una venticinquenne che sta per laurearsi in architettura. Il luogo del nostro incontro è una boutique in un appartamento dalle parti di Gandhi Avenue, nuova zona di ritrovo dei giovani. Quello di mettere in piedi un’attività in una casa privata è un’abitudine che si sta diffondendo non solo nel campo della moda. Negli ultimi anni a Teheran si sono aperte decine di gallerie d’arte d’avanguardia, di studi di grafica, di case editrici dirette da donne per lo più giovani e combattive, lontane anni luce dalle ombre femminili in chador nero che pure si incontrano nei quartieri più tradizionali. Proprio nella moda si concentra un’insolente resistenza delle ragazze, che interpretando in modo piuttosto creativo le rigide prescrizioni in fatto d’abbigliamento femminile, hanno realizzato il paradosso dell’Islam trendy. E così i ropush, i casti camicioni che devono coprire le forme femminili fin sotto il ginocchio, completati da ampi pantaloni o da gonne sotto la caviglia, sono diventati cappottini colorati e attillati da cui sbucano i fuseux o i jeans elasticizzati. Il foulard, imposto a fatica da Khomeini dopo la rivoluzione del 1978, si è trasformato in una leggera sciarpa annodata nei modi più originali, come mi fa vedere sorridendo la stilista di Gandhi Avenue. «Anche il trucco in teoria sarebbe proibito. Ma per noi è quasi una sfida usare rossetti violenti e fard che luccicano, è un modo per difendere un nostro spazio individuale di libertà», dice la quasi architetta Sharmin. Resta il fatto che non è tanto facile la vita delle nuove iraniane, appena escono dagli spazi protetti dei luoghi privati. Con l’arrivo di Mahmoud Ahmadinejad è ripartita la caccia alle «malvelate»-così hanno definito queste sovversive dello chador- che spesso vengono fermate e ammonite dai poliziotti e a volte anche arrestate. E ha ripreso forza lo speciale comitato «per difendere la Virtù e combattere il Vizio», a cui spetta il controllo di abbigliamenti e comportamenti nei luoghi pubblici.
Ma dato che controllare il look di un esercito di donne sempre più in movimento è un’impresa dura, i guardiani della moralità se la prendono con i più docili manichini femminili esposti nei negozi di abbigliamento delle strade principali. Una giovane documentarista che come tante altre è spesso alle prese con la censura, ha girato un corto che fra qualche settimana verrà presentato in versione ridotta in una galleria di Roma. È la storia di queste donne di plastica a cui vengono segati via i seni e quasi tutta la parte superiore delle teste, dai peccaminosi capelli e dagli occhi fino alle labbra tentatrici, per sostituirle con pezzi di cartone. Un’interessante metafora del sogno fondamentalista di ridurre le donne, quelle vere, ad oggetti inanimati senza possibilità di reagire, osservano le femministe.
Ben altri sono i sogni delle iraniane in carne ed ossa. Rivelatore, in questo senso, è il boom piuttosto recente di libri scritti da donne. Mi racconta Gelareh, un’ex giornalista che si è riconvertita critica letteraria dopo che il suo giornale, di taglio riformista, è stato chiuso dal governo, che su 100 libri di narrativa pubblicati oggi in Iran, almeno 70 sono di autrici piuttosto giovani e non sempre famose. A leggerli avidamente è un pubblico femminile, stufo delle traduzioni dei romanzi stranieri sforbiciati dalla censura e desideroso di storie più vicine alla realtà iraniana. «Ci sono quasi sempre triangoli amorosi, tradimenti, difficoltà ad avere rapporti sessuali. È la scoperta, perfino implicita, che il privato è politico», dice Gelareh. Ma non mancano immagini e suggestioni di vite diverse, come nel best seller di Zoia Pirzad, dove la protagonista è una ricca imprenditrice single, che vive in una grande casa con una giovane figlia tutta rock e trasgressione, ha una travolgente storia d’amore ma non rinuncia alla sua libertà.
In un Paese dove, al cinema come a teatro, è proibito perfino far vedere una stretta di mano fra un uomo e una donna, questo genere di letteratura è uno dei tanti segni di una condizione schizofrenica che anche le cronache rendono evidente. Se nei villaggi remoti ancor oggi le adultere possono essere lapidate, nelle città continua a diminuire il tasso dei matrimoni e ad aumentare quello dei divorzi, mentre la «fornicazione», cioè i rapporti sessuali fra persone non sposate, si diffondono pur essendo considerati un crimine. È uno scollamento crescente fra regole e comportamenti, che ha spinto il regime a rilanciare l’istituto del sigheh, il matrimonio temporaneo, che può durare anche per un giorno solo e si scioglie con estrema facilità, ma in qualche modo regolamenta la libertà sessuale. In teoria, se dall’incontro viene fuori un bambino, l’uomo deve riconoscerlo e mantenerlo. Ma spesso le cose vanno diversamente, come racconta il film «Ho 15 anni e mi chiamano Taranee», dove un’adolescente viene mollata ed emarginata da tutti dopo uno di questi matrimoni lampo.«Come sempre si tratta di norme che favoriscono solo gli uomini», dice Ziba, 50 anni portati splendidamente, che mi riceve nel suo luminoso ufficio nella zona nord, quasi una città giardino di ville e ambasciate. Ziba, figlia di uno scrittore e madre divorziata di due adolescenti che ha tirato su con le sue sole forze, dirige una casa editrice specializzata in testi femministi (ma lei preferisce definirli di women’s studies), con l’obiettivo di dare strumenti a un pubblico sempre più desideroso di informarsi. Un’impresa non facile in una repubblica islamica, che richiede un’abilità da equilibrista, ma che Ziba porta avanti con tranquilla fermezza, incoraggiata dalla richiesta crescente delle lettrici.
Ma intanto a muovere le acque è andata avanti un’iniziativa, unica in Medio Oriente, di cui si è parlato spesso anche in Italia. E’ la campagna, lanciata un anno fa dal premio Nobel Shirin Ebadi e da altre intellettuali, per la raccolta di un milione di firme per riformare le leggi che discriminano le donne. Sono norme che vanno dal riconoscimento della poligamia alla possibilità per il marito di ripudiare la moglie al fatto che l’uomo abbia diritto al doppio dell’eredità. La campagna si è estesa a macchia d’olio, con le attiviste impegnate in un lavoro capillare nelle università, negli uffici e perfino negli istituti di bellezza, non solo a Teheran ma nelle più lontane province, arrivando un mese fa alle 100 mila firme. Ma anche se le promotrici si sono sempre sforzate di dimostrare che le loro richieste non vanno contro i precetti della legge islamica, il regime ha reagito. Militanti arrestate o intimorite, telefoni sotto controllo, siti internet oscurati. «Non ci siamo fermate ma siamo diventate più prudenti», dice Jila, studentessa universitaria di economia, che quest’estate ha passato tre giorni in una cella di Evin, la grande prigione di Teheran. Come la maggior parte delle sue compagne è convinta che le iraniane devono conquistarsi da sole i loro diritti, senza interventi esterni. E Shirin Ebadi, nei suoi giri all’estero, non si stanca di ripetere che «qualunque attacco militare sarebbe disastroso per la nostra causa».
* l’Unità, Pubblicato il: 21.10.07, Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.14
poesia
Così le donne arabe musicano la parola
DI PIERANGELA ROSSI (Avvenire, 03.11.2007)
Dal Marocco all’Iraq, dalla Siria allo Yemen. Parlano del velo, certo, ma soprattutto d’amore e di non amore le poetesse arabe contemporanee. Proprio come se volessero - e alcune sono emigrate vestire abiti occidentali e liberare l’amore. In alcune zone del mondo arabo non possono firmare autografi in pubblico, e neppure recitare a voce alta un distico. Ad alcune è capitato di finire in carcere per gli scritti saggistici in favore della libertà e dell’emancipazione, altre sono fuggite, c’è chi ha perso il posto di lavoro in università dopo gli attacchi di un poeta islamico conservatore, alcune, come detto, sono in esilio in Occidente - Francia, Germania, Stati Uniti, Canada - , alcune hanno pubblicato in Paesi arabi - il Libano - più moderati.
Esce ora un’antologia a cura di Valentina Colombo, un’esperta, con una accurata introduzione, di poetesse arabe Non ho peccato abbastanza (citazione da Joumana Haddad), Piccola Biblioteca Oscar Mondadori. Scrive l’irachena Amal al-Juburi, emigrata negli Usa: «Oriente, che cosa mi hai fatto? / Ti ho amato ma mi hai portato solo vergogna, / mi hai sfigurato come un esercito di cieche Sharazad, / hai superato ogni limite danzando sul mio corpo, / mi hai nutrita del desiderio delle stelle / nei rapidi istanti del fulmine.../ ma tutto ciò da dietro un velo».
Della guerra scrive Dunya Mikhail, anch’essa irachena, anch’essa negli Stati Uniti: «La guerra / com’è / seria / attiva / e abile!» per poi elencarne le nefandezze, e concludere «La guerra lavora molto / non ha simili / ma nessuno la loda».
L’egiziana Iman Mersal, che vive in Canada, scrive una garbata poesia, «Ho un nome musicale»: «Forse la finestra alla quale mi sedevo / preannunciava una gloria straordinaria / Sui miei quaderni scrivevo: / Iman... / Iscritta alla scuola elementare ’Iman Mersal’ né la lunga bacchetta dell’insegnante / né le risate provenienti dai banchi in fondo potevano / farmi dimenticare la questione. // Pensavo di intitolarmi la nostra via / a condizione che le nostre case venissero ampliate» e via così.
Spesso si tratta di lunghi poemetti, ma non bisogna credere che la scrittura araba femminile sia cosa di oggi, viene da lontano, dall’antica Enheduanna, fino agli anni ’40 e ’70 del Novecento. Nel capitoletto «L’essenza femminile affiora dalle acque del Golfo», si fa notare, da Valentina Colombo, come anche nei paesi più refrattari alla poesia delle donne ora le poetesse crescano di numero. In altri Paesi sono giornaliste, insegnanti, direttrici di riviste, hanno un ruolo pubblico. Sono, comunque, molte.
A cura di Valentina Colombo
NON HO PECCATO ABBASTANZA
Oscar Mondadori. Pagine 292. Euro 9,00
Islam femminista riletture del corano in una galassia plurale
di Renata Pepicelli (il manifesto, 09.01.2011)
All’alba del XXI secolo sono sempre più numerose le donne che, nei paesi islamici e non solo, considerano il Corano come uno dei principali strumenti per rivendicare l’uguaglianza di genere. Convinte che l’islam sia portatore di un inequivocabile messaggio di giustizia, rileggono i testi sacri attraverso l’ijtihad (lo sforzo interpretativo indipendente) da una prospettiva femminile, enfatizzando gli elementi di uguaglianza e additando come interpretazioni erronee e patriarcali quelle letture che considerano gli uomini superiori alle donne. Diverse per età, classe, professione, collocazione geografica, queste donne, che siano studiose dei testi sacri, attiviste per i diritti delle donne, o semplici credenti, sono accomunate dal proporre esegesi alternative (tafsir) del Corano.
Ciò avviene sia in contesti in cui l’islam è minoritario, come i paesi occidentali - dove, in seguito a migrazioni e a conversioni, la presenza musulmana è però in crescita - sia in quelli dove è la religione maggioritaria, o addirittura ufficiale. Tra questi ultimi, l’Iran è sicuramente uno dei luoghi dove si registrano i dibattiti più interessanti e dove i discorsi del femminismo islamico hanno attecchito per prima.
Da questa prospettiva prende avvio la riflessione dell’iranologa Anna Vanzan nel volume Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, da poco uscito per Bruno Mondadori (pp. 177, euro 20). In un percorso che va dalla Malesia alla Turchia, dall’Iran al Marocco, dall’Italia all’Egitto, Vanzan propone in modo piano e scorrevole un’analisi del crescente fenomeno di una declinazione al femminile dell’islam. Ma è in particolare sull’Iran che la studiosa si concentra, descrivendo il coraggio e la passione con la quale le cosiddette «femministe islamiche» sfidano il regime iraniano proprio su quel terreno, l’islam, su cui si fonda la legittimità del governo.
Lungo più capitoli si susseguono infatti ritratti di donne moderne, emancipate e al tempo stesso devote, pie, esperte in questioni teologiche, che contestano il ruolo assegnato loro dal governo e le interpretazioni della relazione tra i generi date dalla maggioranza dei clerici. Tra di loro, si possono ricordare almeno Nahid Tavasoli, una delle massime esperte di tafsir dell’Iran, Fazeh Hashemi Rafsanjani, fondatrice nel ’98 del primo quotidiano femminile del dopo rivoluzione, «Zan» (donna), e oggi tra le principali oppositrici del regime, e Shahla Sherkat, direttrice della rivista «Zanan» (donne) che per prima ha sdoganato il termine «femminismo» in ambito islamico.
Una pluralità di movimenti
La carrellata di ritratti di femministe islamiche proposta da Vanzan risulta particolarmente interessante non soltanto per l’intrinseco valore di testimonianza che queste biografie rivestono, ma anche perché il libro arriva sulla scena italiana in un momento che sembra esser diventato finalmente fertile per il dibattito su donne, femminismo e diritti nell’islam. Le donne di Allah si colloca infatti all’interno di una fiorente stagione di pubblicazioni sulle trasformazioni del movimento delle donne nel mondo islamico.
Negli ultimi due anni sono apparsi diversi volumi sull’argomento (vedi la scheda in basso) e anche giornali e riviste non specializzate o accademiche gli hanno dedicato più volte spazio e attenzione. Sono studi e articoli che mostrano una realtà in continua evoluzione e che smettono di considerare le musulmane necessariamente vittime della loro religione e bisognose di essere salvate, ma piuttosto danno loro voce in quanto protagoniste dell’affermazione dell’islam nel XXI secolo. In questi testi le femministe islamiche (sia le autrici di nuove interpretazioni dei testi sacri sia le attiviste per i diritti delle donne) sono infatti descritte come donne che riposizionano la religione al centro della loro vita privata e pubblica, e ne fanno uno strumento di emancipazione.
Ripercorrendo itinerari, discorsi e pratiche dell’attivismo femminile in una cornice islamica, questi saggi presentano un’importante e significativa novità: offrono una prospettiva analitica che vuole da un lato abbandonare l’approccio orientalista che ha caratterizzato molti degli studi sul tema, e dall’altro rendere giustizia della pluralità di movimenti che attraversano il mondo islamico, perché,come suggerisce il sottotitolo del libro di Vanzan, siamo di fronte a una varietà di movimenti femministi che seppur attivi su scala globale, hanno caratteristiche locali, legate agli specifici contesti e problemi in cui nascono e operano.
Le condizioni delle donne che vivono in Marocco sono ben diverse da quelle delle donne iraniane o malesi. Non esiste un solo modo di vivere e interpretare l’islam, così come non esiste «la donna musulmana» tout court, uguale in ogni tempo e in ogni luogo. I paesi musulmani sono diversi per leggi, istituzioni e storia. Lo dimostrano bene libri come Essere donna in Asia a cura di Giampaolo Calchi Novati (Carocci 2010, collana Asia Major, pp. 256, euro 25), che dedica diversi capitoli alla condizione delle donne musulmane in paesi come l’Iran e il Pakistan, l’Indonesia e l’India, o, un paio di anni fa, Musulmane rivelate di Ruba Salih (Carocci 2008) che ricostruisce la storia della donna nell’islam con uno sguardo particolarmente attento al presente e alle condizioni della diaspora islamica. Perché, è importante ricordarlo, quando le donne migrano si registrano significativi cambiamenti nelle loro vite e nelle vite delle loro figlie, ragazze di seconda se non anche terza generazione. E queste ultime guardano al femminismo islamico con particolare interesse in quanto permette loro di conciliare la pluralità di identità e appartenenze che le riguarda: essere musulmane, occidentali, credenti, praticanti, femministe. Secondo molte di loro, questo movimento non pretende che le donne operino una scelta a favore di un’identità piuttosto che di un’altra.
Non è un caso che l’ultimo - il quarto in ordine di tempo - convegno internazionale sul femminismo islamico che si è tenuto a Madrid tra il 21 e il 24 ottobre 2010 (www.islamicfeminism.org) abbia visto da un lato del tavolo attiviste e teologhe provenienti da Iran, Egitto, Stati Uniti, Gran Bretagna, Pakistan, Malesia, Marocco, e dall’altro donne musulmane e non, convertite ed emigrate, e soprattutto ragazze di seconda generazione.
Dinamiche in evoluzione
Alla conferenza di Madrid sono emerse diverse posizioni interne allo stesso femminismo islamico, che sono eredi o quanto meno hanno un debito di continuità con la storia del femminismo. Nel mondo islamico i movimenti delle donne hanno infatti una storia lunga oltre un secolo. I lavori di studiose dell’islam come Biancamaria Scarcia Amoretti e di arabiste come Isabella Camera D’Afflitto mostrano un significativo attivismo femminista sin dall’inizio del Novecento. Lungo tutto il secolo scorso donne come May Ziyada, Hoda Shaarawi, Dorya Shafiq, Latifa al Zayyat, Hoda Barakat, Ghada Samman, Nawal al Saadawi (per limitarci a qualche nome e al mondo arabo) si sono battute per l’affermazione del diritto all’uguaglianza.
A differenza delle femministe islamiche, le loro battaglie non possono però essere incluse in una prospettiva islamica, bensì in un quadro di rivendicazioni universaliste, in molti casi legate alle lotte per l’indipendenza contro il colonialismo e agli ideali socialisti e comunisti. Il loro impegno va iscritto nel solco della grande tradizione di femminismo secolare che ha caratterizzato la storia del movimento delle donne, e che oggi continua a essere significativo nel mondo islamico.
Femminismo secolare e femminismo islamico sono oggi quindi le due grandi anime che caratterizzano il movimento delle donne dal Marocco all’Indonesia. Sono anime a volte in contraddizione tra di loro, a volte in aperto conflitto, in taluni casi alla ricerca di elementi di vicinanza e continuità. Si tratta di una dinamica relazionale in evoluzione, in cui non mancano le reciproche accuse di tradimento: nei confronti delle femministe secolari di aver abdicato alla propria cultura, storia, religione a favore di un’idea di emancipazione della donna che nega che la religione possa essere uno spazio di libertà; nei confronti delle femministe islamiche di aver ceduto alle istanze degli islamisti, di essersi piegate a concorrere sul loro stesso terreno, l’islam, contribuendo alla crescente islamizzazione del discorso politico e culturale, e in più autolegittimandosi come l’unica forma autoctona di femminismo in contesti musulmani.
A ben guardare le questioni poste dall’emergere del femminismo islamico interrogano tutte e tutti noi da vicino, non solo perché ci invitano a considerare la dinamicità di un universo troppo spesso banalmente stigmatizzato come monolitico, ma anche perché ci inducono a riflettere su quanto sta accadendo alla questione di genere in Italia e alle difficoltà del movimento femminile in questo paese.
L’analisi di quanto sta avvenendo altrove può forse aiutarci a ripensarci, può suggerire nuove prospettive di sguardo sull’altra/altro, ma anche su noi stesse/i. Da tempo Fatima Mernissi,scrittrice, sociologa e femminista (islamica) marocchina, ci spinge a riflettere, piuttosto che sul velo delle donne musulmane, sulla tirannia della taglia 42 che costringe le occidentali a conformarsi a un unico ideale estetico che pretende omologazione, sacrificio, snaturamento della propria identità, idolatria di un corpo che si svuota e si fa merce, oggetto di consumo, mentre la capacità di scelta e autodeterminazione da parte delle donne, e in particolare delle più giovani, si va erodendo.
Con gli occhi delle altre
Un viaggio nei femminismi dell’islam può quindi essere un’occasione per rimettere in discussione molti stereotipi sul mondo islamico e le sue donne, ma anche per guardarsi con gli occhi delle altre. Si tratta indubbiamente di una sfida importante, e non facile, per i movimenti femministi in Italia perché richiede di accettare l’idea che i percorsi che portano all’emancipazione femminile non debbano necessariamente svilupparsi adottando il modello universalista dell’ideologia femminista cosiddetta «occidentale», «secolare», ma che possano invece realizzarsi per molte donne attraverso l’accettazione e la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e religiosa. E proprio la questione della religione in quanto spazio di emancipazione può risultare particolarmente spinosa da condividere per una parte del pensiero femminista di questo paese.
Ma i tempi sembrano ormai pronti per il confronto e il dibattito. Le sfide poste dal femminismo islamico possono rappresentare un’importante occasione per ripensare il movimento delle donne in Italia, per includere anche le donne migranti, musulmane e non, nella ricerca di nuovi discorsi e nuove pratiche sulla strada dell’uguaglianza di genere.
Scaffale
Prospettive sul mutamento
Intorno ai movimenti femministi che ormai da diversi anni si battono contro i settori più integralisti del mondo musulmano, utilizzando come arma il Corano riletto in una prospettiva di genere, sono usciti in Italia negli ultimi mesi numerosi libri - testi di taglio giornalistico, come «Figlie dell’Islam» di Lilli Gruber (Rizzoli 2008), ma anche saggi che inquadrano il fenomeno da una prospettiva storica e sociologica, come «Teologhe, musulmane, femministe» di Jolanda Guardi e Renata Bedendo (Effatà, 2009) e «Femminismo islamico» di Renata Pepicelli, pubblicato quest’anno da Carocci (pp. 160, euro 12,60). Tra le numerose opere uscite all’estero, vale infine la pena di consultare «Women Claim Islam: Creating Islamic Feminism through Literature» di Miriam Cooke (Routledge 2001) e «Feminism in Islam: Secular and Religious Convergences» di Margot Badran (Oneworld 2009).