SYEDA HAMEED: DONNE MUSULMANE FORTI E INDIPENDENTI *
"E quante donne hanno diretto gli affari, si sono fatte notare per l’intelligenza e la perfezione, e la loro istruzione non dipendeva dagli uomini". Questa frase e’ stata scritta nel 1892 da Hind Nawfel, la prima donna egiziana a dare vita ad un giornale femminista in arabo, "Al-Fatat", che fu seguito da una lunga scia di periodici femministi nei successivi due decenni. In effetti, all’epoca della prima guerra mondiale, piu’ di 25 giornali femministi arabi venivano prodotti da donne in tutto il Medio Oriente: al Cairo, a Damasco, a Beirut, a Baghdad. Hind Nawfel parla di donne musulmane forti ed indipendenti, la cui fiducia in se stesse e la cui assertivita’ non erano avvolte nei veli. Ci sono state tante di queste donne, queste grandi antenate, le "Perdute regine dell’Islam", come dice Fatima Mernissi, che sono sempre state parte integrante della tradizione islamica, ma i cui nomi sono stati oscurati dalle sabbie del tempo, i cui successi sono stati dimenticati, e il tutto e’ stato rimpiazzato con un’immagine differente.
E’ lo stereotipo che vuole le donne musulmane prive di potere, oppresse, deboli, senza voce. Oggi vorrei discutere con voi quest’immagine (dando riconoscimento al fatto che esiste non solo come immagine) ma anche viaggiare attraverso i secoli e gli spazi dell’Islam per mostrarvi che cio’ che vedete e avete visto non e’ il quadro completo. Sia l’Islam spirituale sia l’Islam politico sono zeppi di storie e di lotte che hanno per protagoniste donne forti, non soggiogate, le cui eredita’ ci chiedono oggi di ripensare le donne nell’Islam, di reimmaginarle.
Vorrei cominciare con la Surah "Al Ahzab", il comando coranico spesso citato al giorno d’oggi per ribadire l’eguaglianza tra donne ed uomini [la Surah viene ovvamente letta dalla dott. Hameed in arabo, io ne riporto parte in versione italiana - ndt]:
"Per gli uomini musulmani e le donne musulmane Per i credenti e le credenti Per gli uomini obbedienti e le donne obbedienti Per gli uomini sinceri e le donne sincere Per gli uomini pazienti e le donne pazienti Per gli umili e le umili Per i caritatevoli e le caritatevoli (...) Per costoro Allah ha il perdono e una grande ricompensa".
Questa Surah postula l’eguaglianza tra uomini e donne. Eppure attorno a noi vediamo giornalmente come questa eguaglianza, questa dignita’, che fu data come diritto di ciascuna di noi e di noi tutte, vengano violate. La condizione che vivono i 75 milioni di donne e ragazze musulmane in India mi strazia. Come musulmana so che la legge islamica, quale fu estrapolata dai piu’ eminenti Fuqaha o giuristi, non ha mai ordinato le ingiustizie che vengono commesse contro le donne in nome della religione.
Sono stata membro della Commissione nazionale per le donne. Nella ricerca per documentare lo status delle donne musulmane, ho viaggiato per il paese in lungo e in largo, dalle metropoli come Chennai, Trivandrum, Bangalore e Bombay a piccole citta’ come Ahmedabad, Tezpur, Kozhikode, Bhopal, a villaggi ancora piu’ piccoli come Reshampura in Gwalior, Hariya ki Ghari in Mathura, Sudaka in Mewat e Nehtaur in Bijnore, e ovunque ho tenuto audizioni pubbliche con le donne musulmane, per ascoltare i loro problemi.
Ho udito storie di matrimoni di bambine, di poligamia, di divorzi unilaterali. Ho udito storie di sorelle adolescenti che avevano stretto il patto di aiutarsi reciprocamente a morire, perche’ erano state tolte da scuola per essere date in mogli. Le donne hanno narrato di come vengono separate dai figli, o come viene loro comunicato il ripudio via posta o persino via e-mail dopo decenni di matrimonio. Nessuno, ne’ le loro famiglie ne’ la societa’, si era fatto avanti per aiutarle.
Il mio rapporto che scaturi’ da questi incontri, "Voce delle senzavoce", fu pubblicato nel 2000. Ma le parole di una donna che venne all’audizione, Ayesha Khatoon, mi risuonano ancora nelle orecchie: "Mio marito mi ha ripudiata quando ero incinta di tre mesi. Non ho ricevuto compenso ne’ qualcosa per il mantenimento". Ci sono centinaia di migliaia di Ayesha non solo in India, oggi, ma in tutto il mondo.
Nel mio rapporto ho documentato che per le donne musulmane, in circa un secolo, ben poco e’ cambiato. Ed in alcuni casi il cambiamento e’ stato per il peggio. Io vengo da un posto che si chiama Panipat, nella regione di Haryana. C’e’ stato un tempo in cui le abitazioni di Panipat erano conosciute per il nome delle donne che ci vivevano, tale era il livello di riconoscimento per esse. Oggi lo stesso stato, Haryana, e la stessa citta’, Panipat, sono famose per i crimini contro le donne. In questo posto, dove le donne musulmane sono state rispettate ed avevano ruoli di potere, oggi non si permette loro quasi neppure di nascere [Panipat ha un altissimo tasso di aborti selettivi - ndt]. E questo mi addolora immensamente ogni volta che penso a cos’era Panipat un tempo, e a cos’e’ oggi.
Si’, le donne musulmane sono oppresse, e lo sono in nome della religione che ha tentato di riconoscere loro dei diritti, ma queste violazioni non vengono passivamente accettate come in genere si pensa. C’e’ stata una lotta costante all’interno della comunita’ per raddrizzare questa gravosa ingiustizia. Piu’ di un secolo fa, nel 1905, il mio bis-bisnonno Maulana Altaf Hussain Hali, scrisse la sua famosa poesia "Chup ki Daad" (In lode di chi e’ silente), nella quale non parlava solo delle donne musulmane, ma delle donne di tutti i gruppi:
"Fino a che vivi sei deprivata di istruzione, di insegnamento.
Ignorante sei giunta qui, e ignorante diparti.
Apprendere, che per gli uomini e’ l’elisir della vita, per te e’ veleno, e’ amaro, e’ mortale.
Ma il tempo della giustizia si approssima, il giorno del giudizio e’ vicino, e il mondo dovra’ ripagare l’averti derubata dei tuoi diritti".
Nel periodo in cui tentavo di comprendere le molteplici difficolta’
incontrate dalle musulmane indiane, mi imbattei nelle interpretazioni femministe del Corano. La mia scoperta comincio’ con gli scritti di Fatima Mernissi. Altre studiose femministe seguirono: Amina Wudood, Riffat Hasan e, piu’ di recente, Farida Shaheed. Costoro hanno guardato all’Islam attraverso una lente di genere, ed hanno trovato un mondo differente dall’Islam patriarcale che viene insegnato e propagato. Nel suo libro Donne nell’Islam Fatima Mernissi parla della rivelazione della Surah "Al Ahzab":
"Come mai, chiese Umm Salama moglie del Profeta, gli uomini sono menzionati nel Corano e noi no? Il Corano e’ solo per gli uomini?".
Fu allora che i versetti della Surah che ho letto poco fa, e che parlano di uguaglianza fra donne ed uomini, furono rivelati. La domanda di Umm Salama fu l’inizio di un concreto movimento di protesta fra le donne. Secondo lo storico Tabari, alcune donne credenti andarono dalle mogli del Profeta edissero: "Allah vi ha parlato nel nome del Corano, ma non ha detto nulla di noi donne. Non c’e’ nulla, su di noi, che meriti menzione?".
La risposta che venne da Allah nella Surah metteva in discussione i ruoli che regolavano la relazione interpersonale tra i due sessi. Le donne ebbero tale successo nella loro ricerca che un’intera Surah fu rivelata, e porta il loro nome. Essa contiene nuove indicazioni che furono interpretate poi dai giuristi e codificate come legge civile musulmana. Per esempio, le leggi sull’eredita’ danno dettagliate istruzioni sul rapporto fra donne e proprieta’.
Per dirla francamente, la Surah "Al Nisa" privo’ gli uomini dell’epoca dei loro privilegi tradizionali. La donna non poteva piu’ essere vista come una proprieta’, un bene di consumo, non poteva piu’ essere "ereditata" come un pezzo di terra, ma per la prima volta poteva ella stessa ereditare. In effetti cio’ ebbe l’effetto metaforico di una bomba, a Medina, perche’ scosse le fondamenta del patriarcato. Dio c’era in eguaglianza per donne ed uomini.
E il femminismo islamico, comunque, non e’ nulla di nuovo. Fin dai primordi, le donne nell’Islam hanno contribuito ad ogni aspetto della vita, hanno fatto poesia e persino guerre. Il loro contributo e’ stato immenso, ed e’ impossibile elencare tutte queste donne ed i loro successi, pero’ puo’ essere interessante esplorare alcune delle loro storie che si estendono nei continenti e nei secoli.
La prima a cui penso e’ Hazrat Khadija, moglie del Profeta. Poi sua figlia Hazrat Fatima Zehra. E le sue nipoti, Hazrat Zainab e Hazrat Kulsum, e le donne che affiancarono Imam Husain, il nipote del Profeta, alla battaglia di Karbala.
Ma la storia ha moltissimi altri esempi. Amina di Zazzau, nata nel 1533, che apprese le arti del governo e del combattimento sin da bambina, sdegno’ di sposarsi, e indipendente e nubile divenne regina nel 1576; Nana Asma’u, che diede inizio al movimento per l’istruzione delle donne (yan-taru) nel 1840 in Nigeria; Fatima Aliyeh Hanim, la prima scrittrice della Turchia moderna, che nel XIX secolo denuncio’ come l’Islam fosse interpretato male appositamente per opprimere le donne e nei suoi lavori incito’ le donne ad istruirsi e a partecipare alla societa’.
Penso a Huda Sharaawi, pioniera del movimento delle donne egiziano ai primordi del XX secolo, cresciuta in un harem, che fu la prima donna a scendere in piazza contro il colonialismo britannico e fu profondamente coinvolta nell’attivismo politico per il suffragio universale. Come presidente dell’Unione delle femministe egiziane dichiaro’ che lo scopo dell’associazione era il restaurare i diritti perduti dalle donne egiziane, rivendicando la propria storia.
Attraverso i secoli, dalla nascita dell’Islam, le donne musulmane sono state guide ed esploratrici di nuovi territori.
Un altro esempio di questo e’ Bibi Zainab, una donna povera di Tabriz, la cui milizia femminile scosse l’Iran come una tempesta nello sciopero del 1880 contro il monopolio britannico sul tabacco. Quando gli uomini abbandonarono la lotta, per la presenza dell’esercito inglese, Bibi Zainab apparve con le sue donne. Togliendosi il velo, lo getto’ in mezzo agli uomini ed annuncio’: "Potete tutti andarvene a casa. D’ora in poi, le mie compagne ed io combatteremo le battaglie".
Persino dopo che il monopolio britannico fu cancellato, i sette reggimenti di donne monitoravano differenti parti della citta’ e dispensavano giustizia e legge: furono loro ad aprire i magazzini alimentari per distribuire il grano ai poveri. Queste donne ordinarie ruppero molti tabu’: il velo, la separatezza, il prendere le armi ed il mescolarsi liberamente agli uomini nelle case da te’, tabu’ che erano stati creati dal sistema di valori patriarcale per negare alle donne cio’ che era loro di diritto.
Anche in India le musulmane hanno spesso dissolto gli stereotipi con il loro lavoro e le loro scelte personali. La Begum Jahanawara Shahnawaz nacque nel 1896 e fu una delle due donne musulmane elette nell’assemblea federale indiana pre-indipendenza. Fece parte dell’assemblea costituente, ed e’ grazie a lei che le donne furono incluse nelle clausole dei diritti fondamentali.
Nell’India pre-indipendenza, dopo che la Mohameddan Educational Conference aveva deciso di escludere le donne nel 1924, Atiya Fyzee decise di protestare durante il giubileo nell’anno successivo. Nonostante le proteste della presidenza, Atiya sali’ sul podio, senza velo, e tenne un magnifico discorso in cui chiedeva eguali diritti per donne ed uomini.
Poi negli anni ’30 l’India del nord fu scossa da Rashid Jahan, marxista ed attivista sociale che si uni’ al partito comunista di Lahore e fu arrestata per la sua attivita’ politica nel decennio successivo. Rashid Jahan era diventata medica negli anni ’30, ma non fu questa la causa del furore.
Furono i suoi scritti, in cui personaggi di sesso femminile parlavano di argomenti considerati tabu’. Aggredita come "anti-islamica" e accusata di oscenita’, tenne le proprie posizioni. Nel 1932, le storie della sua antologia Angarey erano discusse nella comunita’ con tanta intensita’ che il libro venne bandito nel giro di pochi mesi. Rashid Jahan contribui’ a dare inizio al Movimento degli scrittori progressisti ed ispiro’ molte altre donne, inclusa Ismat Chughtai, l’icona femminista della meta’ del secolo scorso, il cui racconto di un amore lesbico (Lihaaf, o La trapunta, 1940) fu pure bandito per decenni.
All’incirca nello stesso periodo, Begum Sharifa Hamid Ali formulo’ un modello di contratto matrimoniale in cui, fra le altre condizioni, inseri’ il diritto di divorziare per le donne. Lo diede alle stampe nel 1937 e la sua circolazione fu ampia. Durante la seconda guerra mondiale una delle sue battute favorite era: "Noi donne abbiamo sofferto molti Hitler domestici in ogni generazione".
Questi sono solo esempi dei traguardi e delle lotte di donne musulmane attraverso i secoli. Tali donne erano forti, determinate e disposte a lottare: molto distanti dall’immagine comunemente accettata che vuole le donne musulmane silenziose, acquiescenti e separate dal resto del mondo. Esse smantellano il mito che le societa’ islamiche non sono interessate dalla lotta delle donne per i propri diritti. Invece, come in ogni altra societa’, comunita’ o religione, le donne si sono alzate in piedi ed hanno lavorato per la giustizia sociale, lottato per i diritti delle donne, sfidato la visione patriarcale attribuita all’Islam ed hanno vissuto vite di cui esse stesse definivano i termini.
E ci sono numerose donne musulmane, oggi, invisibili e senza nome, che giornalmente lottano contro l’ingiustizia, il patriarcato e l’oppressione, anche se questo non le fara’ finire sui libri di storia. I media non riportano il loro valoroso impegno; le vittorie che ottengono e le loro interpretazioni del Corano sono oscurate, e l’Islam viene presentato ovunque come contrario alle donne.
Per contrastare questo stato di cose, e’ importante andare indietro e capire le origini dell’Islam. Dobbiamo ricordare che l’Islam nasce in un contesto: era inteso per guarire i mali di una società araba preislamica. In quel momento e in quel luogo, le parole del Profeta, il suo messaggio, erano sicuramente rivoluzionarie. Ma noi musulmani ci aggrappiamo a quelle parole senza comprendere lo spirito profondo che ci sta dietro, e qui e’ il nostro problema. Ibn al-Arabi, ne La mistica dell’Islam, ha detto: "Tutto cio’ che la tradizione ci ha lasciato sono mere parole. Sta a noi scoprire cosa esse significano".
Il Profeta ci ha mostrato una strada e noi l’abbiamo intesa come una destinazione. Non siamo cambiati, non abbiamo progredito, abbiamo fatto pochi passi e poi ci siamo fermati. Le porte della "ijtehad" (interpretazione) ci sono state chiuse in faccia da interessi di parte.
Abbiamo smesso di leggere e di capire lo spirito del Corano. Abbiamo smesso di valutare criticamente gli Hadith (I detti del Profeta). Abbiamo smesso di comprendere il messaggio di Allah e ci basiamo sulle sue interpretazioni fatte da altri. Abbiamo imbevuto l’Islam di altre religioni, ma non di cio’ che c’e’ di buono nelle altre religioni, l’abbiamo imbevuto di ideologia patriarcale e cultura della separatezza.
Per fare un esempio, l’Islam per sua stessa definizione propaga una societa’ senza caste, ma grazie al sistema classista antitetico allo spirito dell’Islam, donne vengono uccise in "delitti d’onore" in tutta l’Asia del sud. Io ricordo ancora Maimum, una diciottenne di un piccolo villaggio chiamato Sudaka. Venne alla Commissione nazionale per le donne assieme al marito Idris, a chiedere aiuto. Oggi, Maimum non esiste piu’. Nonostante l’intervento della Commissione e’ stata assassinata. La sua colpa era questa: aveva rifiutato di sposare il quarantenne scelto per lei dallo zio ed aveva sposato il ragazzo che amava. Idris, secondo la famiglia di lei, apparteneva ad una casta differente, e percio’ il matrimonio non era valido. E’ davvero triste che noi si sia dimenticato tutto quel che il Profeta ci ha insegnato, e si seguano pratiche e costumi patriarcali. Ed e’ davvero tempo che noi, come musulmani, si incarni lo spirito dell’Islam, quello spirito che sanci’ i diritti delle donne, il loro diritto a progredire e ad agire.
Dobbiamo nuovamente valutare le pratiche patriarcali che tentano ancora una volta di relegare le donne alla loro posizione pre-islamica.
Abbiamo bisogno di ascoltare le voci di donne come Rashid Jahan e Ismat Chughtai. In effetti non solo noi, anche i non musulmani hanno bisogno di ascoltare queste voci, le storie di Biwi Zainab e della Begum Sharifa Hamid, per muoversi oltre gli stereotipi e riconoscere l’Islam per cio’ che realmente e’. Cio’ non servirebbe solo come rimedio base per i pregiudizi, ma contribuirebbe a porre fine alle varie discriminazioni che i musulmani affrontano attualmente. Io ho partecipato all’audizione pubblica dei rifugiati interni del Gujarat e le storie che ho sentito la’, storie di boicottaggio economico, di esclusione sociale, di denegazione, ancora mi causano notti insonni. Questo deve finire. Il genere non puo’ essere una scusa per la negazione dei diritti umani, ne’ puo’ esserlo la religione, e sia i musulmani sia i non musulmani devono capire questo.
Inoltre, dobbiamo smettere di considerare i musulmani una massa omogenea. I musulmani non sono un monolito. Le loro condizioni ed i loro problemi variano da paese a paese, da stato a stato, persino da distretto a distretto, proprio come le condizioni di ogni altro gruppo. I musulmani algerini, sauditi, francesi e indiani sono completamente differenti. Persino entro la stessa India, i musulmani delle zone di Kerala, Karnataka e Tamil Nadu stanno economicamente assai meglio dei musulmani delle zone di Bihar e Assam. E mentre i musulmani e i non musulmani si imbarcano in questo viaggio di introspezione e mutua comprensione, il governo deve mantenere i propri impegni per l’equita’: il rapporto della Commissione Sachar ha mostrato che una donna musulmana indiana su due e’ analfabeta, cioe’ che solo il 50% delle donne musulmane sa leggere e scrivere. Si tratta della percentuale piu’ bassa del nostro paese. Similmente, la percentuale del musulmani che si situano sotto la linea di poverta’ e’ molto piu’ alta della media nazionale.
Le zone a maggioranza musulmana hanno minor accesso a servizi pubblici quali l’acqua, gli ospedali e le scuole. Tutto questo io l’ho visto con i miei occhi a Benares, Malegaon, Murshidabad. Un governo democraticamente eletto e’ vincolato ad onorare la promessa di rimuovere iniquita’ e discriminazioni.
Per quanto riguarda le donne musulmane, noi stiamo creando nuovi modi affinche’ reclamino uno status che appartiene loro di diritto, attraverso la promozione di programmi educativi, usando l’apprendimento a distanza, aprendo speciali ostelli per donne, tenendo seminari per ispirarle alla leadership ed al dispiegamento delle loro capacita’ e volonta’. Se togliamo il tappo, per cosi’ dire, alle potenzialita’ delle donne questo avra’ certamente un effetto di riverbero sulle loro comunita’. Dobbiamo ricordare cio’ che Maulana Hali, poeta e femminista, disse ai suoi tempi, un centinaio di anni fa. Questi versi famosi parlano semplicemente e direttamente dello status delle donne nella societa’, non solo delle donne musulmane, ma di tutte le donne:
"O sorelle, madri, figlie
voi siete l’ornamento del mondo
voi siete la vita delle nazioni
voi siete la dignita’ di ogni civilta’".
E’ in questa luce che dobbiamo reimmaginare le donne musulmane. Nella luce lasciata a noi dalle grandi antenate che ci hanno precedute, queste donne che hanno sfidato le strutture e le norme dell’ingiustizia, ed hanno lastricato la strada per noi sin dalla stessa fondazione dell’Islam. Hanno creato un varco per le donne, ed anche per gli uomini, un varco attraverso il quale possiamo seguire i loro passi e creare un nuovo sentiero che ci conduca all’eguaglianza. Siano le loro lotte, la loro saggezza, il loro coraggio a guidarci e a donarci il potere di ricostruire l’immagine delle donne nell’Islam come pilastri di forza, donne che esprimono fiducia e vigore, che camminano al loro proprio passo in ogni paese del mondo.
In conclusione, vorrei chiudere con una poesia di Iqbal:
"Non temere il vento avverso, o falcone.
Esso soffia contro di te solo per spingerti piu’ in alto".
*
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA. Numero 225 del 19 luglio 2009
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Syeda Saiyidain Hameed (Member, Planning Commission, Government of India).
Denuncia Onu. Il quarto che manca agli stipendi delle donne. Campagna social mondiale
Arriva #stoptherobbery ovvero «stop al più grande furto della storia». Mediamente gli stipendi rosa sono inferiori del 23% di quelli degli uomini.
di Antonella Mariani (Avvenire, sabato 20 gennaio 2018)
Un hashtag (il cancelletto che definisce l’argomento sui social network) tira l’altro. Dopo #MeToo, “anch’io”, il movimento contro le molestie sessuali che si è guadagnato il titolo di Persona dell’anno e la copertina del settimanale Time, arriva #stoptherobbery. Il messaggio della campagna dell’Onu è un po’ brutale ma perlomeno è chiaro e concreto: stop al «più grande furto della storia», quello ai danni dei portafogli femminili.
Nel mondo le donne saranno anche l’altra metà del cielo, ma guadagnano in media il 23% in meno degli uomini, a parità di incarico: il dato è stato diffuso ieri dall’economista indiana Anuradha Seth, consigliere dell’Un Women, il dipartimento Donne delle Nazioni Unite creato nel 2011. Dunque, Seth ha riproposto quel che si sapeva già, e cioè che in tutto il mondo le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo. I motivi sono ampiamente analizzati da economisti e sociologi da almeno un ventennio. La stessa Seth ne elenca alcuni, riscontrati in tutti i Paesi del mondo: il livello più basso di qualifiche, la minor rappresentanza nei gradi gerarchici più alti, la iniqua distribuzione delle cure domestiche e familiari che spinge le donne verso impieghi informali, saltuari o a orario ridotto. Secondo stime dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), a ogni figlio che mettono al mondo, le donne perdono il 4% del loro stipendio rispetto agli uomini.
A queste differenze «strutturali» si aggiunge la più classica delle discriminazioni, quella salariale: a parità di incarico «non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini». L’obiettivo della campagna social dell’Onu (tutte le informazioni su www.23percentrobbery.com) è di aumentare il livello di consapevolezza, in modo da spingere i governi a impegnarsi per colmare la distanza. Il modo più rapido, suggeriscono gli esperti dell’Organizzazione mondiale del lavoro, è la fissazione per legge di livelli salariali minimi e l’estensione di misure di protezione sociale.
Il «grande furto» del reddito femminile offre anche un orizzonte simbolico: un quarto in meno di stipendio significa un quarto in meno di libertà per le donne. Di opportunità. Di autostima, talvolta. Continuando nella lista: un quarto in meno di possibilità di decidere. Di scalfire il famigerato soffitto di cristallo che lascia intravvedere la vetta, ma non consente di raggiungerla. Di cambiare le cose per sé e per le proprie figlie. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni, e la crescente partecipazione femminile nel mondo del lavoro e della politica è un dato di fatto. Non si parte da zero, resta però quell’ultimo miglio che non sono solo i soldi guadagnati sul lavoro, ma è l’essere considerate pari agli uomini, valutate e stimate solo per le idee e per l’impegno, per la creatività e per la passione. È un quarto ancora. Ce la possiamo fare: non da sole, ma con gli uomini al fianco.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron (il manifesto, 10.06.2017)
Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali.
Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.
World
In Iran si insedia il nuovo parlamento: più donne che ayatollah
Secondi i calcoli dell’emittente Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi. *
Si sono insediati questa mattina a Teheran i 290 deputati del nuovo parlamento, il decimo Majlis della Rivoluzione islamica, eletto nel voto popolare del 26 febbraio scorso. Sono arrivati su lussuose macchine nere, e hanno giurato tutti insieme, in coro, citando i versi del Corano, sotto la volta piramidale della moderna, gigantesca aula dell’assemblea legislativa.
Secondi i calcoli dell’emittente iraniana Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi, i fondamentalisti - tra cui una maggioranza di contrari all’accordo sul nucleare - il 29%, gli indipendenti il 22,41. Un rimanente 7% e’ occupato dalle minoranze religiose (2 armeni, un caldeo, un ebreo e uno zoroastriano) e da deputati che si sono presentati sia nelle liste dei riformisti che in quelle degli ultraconservatori, cosa perfettamente legittima nella Repubblica islamica.
Ma la grande novità dell’Assemblea è il numero delle donne: diciotto deputate, un record mai raggiunto dai tempi della Rivoluzione islamica.
Un altro dato interessante è il crollo della presenza di religiosi, ridotta ai minimi storici: solo sedici ayatollah sono riusciti a conquistarsi una poltrona, ulteriore conferma di un paese ormai in marcia verso la laicita’. Stamani e’ stato il momento dei discorsi, dei messaggi, dei giuramenti, dell’inno nazionale, dei canti religiosi. Il presidente Hassan Rohani, dal palco dell’assemblea, ha rivendicato i successi del suo governo: dall’accordo sul nucleare al nuovo ruolo politico ed economico dell’Iran sulla scena mondiale, dalla battaglia contro l’inflazione, ridotta dal 40% al 10%, alla ripresa delle esportazioni petrolifere, che hanno ormai raggiunto i livelli del pre-embargo.
Il messaggio inviato ai neo-deputati, dall’ayatollah Ali Khamanei. La Guida Suprema ha chiesto loro di "difendere l’economia di resistenza e i valori islamici" dell’Iran e di "costituire un bastione contro i progetti e le eccessive domande dell’arroganza internazionale". Un invito a posizioni isolazioniste. Sulla carta, la nuova assemblea dovrebbe riuscire ad esprimere una maggioranza moderata e pro-Rohani, a differenza del nono Majilis, dove i falchi ultraconservatori dominavano e facevano di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al governo.
Da ricordare che in Iran non esistono partiti politici organizzati, la politica si presenta molto fluida e l’ago della bilancia potrebbero essere gli indipendenti. Il primo banco di prova per sondare i veri rapporti di forza in Parlamento sarà l’elezione del presidente dell’Assemblea: i due principali sfidanti sono il leader della formazione moderata - riformista, Mohammad Reza Aref, e il presidente del precedente Majlis, Ali Larijani, conservatore fedele alla Guida Suprema e al tempo stesso non ostile all’accordo sul nucleare. Nel caso di vittoria di Aref, Rohani potrebbe contare su un Parlamento amico, in grado di sostenerlo nella sua politica di riforme economiche e politiche e di tirargli la volata per una rielezione come presidente nel voto del 2017.
Il decimo Majlis rimarrà in carica fino al 27 maggio del 2020. La sua attività legislativa e’ sotto il controllo del Consiglio dei guardiani, un organismo giuridico religioso nominato dalla Guida Suprema, che ha il potere di selezionare gli aspiranti deputati e di bocciare tutte le leggi "non conformi ai valori islamici".
* globalist 28 maggio 2016 (ripresa parziale).
Le ragazze del parco
Un telo per dormire sull’erba da New Delhi a Mumbai
Per rispondere agli stupri
La protesta delle giovani indiane che reclamano gli spazi pubblici
di Alessandra Muglia (Corriere della Sera, 16.01.2016)
L’ appuntamento è per questo pomeriggio. In diverse città indiane, da New Delhi a Mumbai, le donne si ritrovano al parco con materassino e coperta. Tutte a terra per un pisolino di gruppo. Una scena decisamente insolita: si dorme per svegliare gli altri. Per combattere paura e pregiudizi. La prima volta, a Bangalore poco più di un anno fa, un vigile aveva provato a far sloggiare Lijya e altre 14 ragazze in dormiveglia al Cubbon Park: «Non potete dormire qui», aveva intimato. Ma loro serafiche: «Questo è un parco pubblico. Chiunque può fermarsi a dormire. Perché non sveglia anche quell’uomo là?». Domanda che costringe il gendarme ad arrivare al punto: «Questo non è un posto sicuro per voi». Replica pacata: «Non si preoccupi per noi».
Fiduciose, indifese, rilassate: così Lijya e le altre hanno inaugurato Meet to sleep (incontrarsi per dormire), iniziativa lanciata da Blank Noise, gruppo di attiviste indiane nel Paese degli stupri, dei delitti d’onore, delle spose bambine e dei matrimoni combinati. «Siamo partite nel 2003 come spazio per poter parlare di abusi e molestie sessuali - racconta al Corriere Jasmeen Patheja, fondatrice del gruppo - io stessa ne avevo subite in strada, e tutti mi dicevano di passarci sopra, che erano cose all’ordine del giorno, che capitavano a tutte. Ho pensato che la città poteva diventare sicura se fosse cambiato l’atteggiamento di chi la frequenta».
Così ha iniziato a mobilitare sul web i cittadini coinvolgendoli in una serie di iniziative per appropriarsi degli spazi pubblici. Meet to sleep rientra nella campagna #INeverAskForIt («non me la sono andata a cercare»), contraltare di quello che spesso si sente dire una donna quando viene molestata: se l’è cercata (uscendo fuori la sera, vestendosi in quel modo e via accusando).
Con Talk To Me (parlami), nel noto «vicolo dello stupro» di Bangalore i volontari invitavano i passanti a sedersi a un paio di tavoli, per parlare. «Alla fine l’abbiamo ribattezzato “vicolo sicuro”: la percezione del posto e la sua reputazione erano cambiati» spiega Jasmeen. Dopo il brutale stupro di una studentessa su un bus di New Delhi nel 2012 è partita l’iniziativa #SafeCityPledge, con i passanti invitati a prendersi un piccolo impegno (messo nero su bianco su un cartello).
Nella stessa direzione si è mosso un altro movimento, #WhyLoiter (Perché gironzolare), anche titolo di un libro-inno al vagare senza meta. Invece le donne si ritrovano sempre a dover dimostrare di avere un motivo per trovarsi in un certo luogo, soprattutto la sera. Per creare un cortocircuito, #WhyLoiter organizza camminate notturne a Mumbai.
Molto è cambiato in India dopo dicembre 2012: la violenza sessuale non è più un tabù, le donne denunciano, i media ne parlano. «Ma che tipo di discorso si sta facendo? - polemizza Jasmeen, attivista e artista, chiamata anche a guidare workshop a Los Angeles, Londra e Germania - Si è discusso tanto di pena capitale per gli stupratori, ma i mostri vivono nella nostra società, che è parte del problema». E se dopo la notte nera di Colonia le donne europee, per non tornare indietro, si ispirassero alla fantasia e al coraggio di chi combatte nell’India sfregiata dalle molestie e dagli stupri?
La donna ritrovi lo spirito indomito dentro di sé
Incontro. Jean Shinoda Bolen, psicologa junghiana, autrice di "Artemide" presenterà il suo libro il 6 dicembre a "Più Libri più Liberi"
di Beatrice Cassina (il manifesto, 05.12.2015)
SAN FRANCISCO
Jean Shinoda Bolen, psicologa junghiana che da molti anni si dedica all’indagine e al racconto degli archetipi junghiani, ci ha raccontato la mitologia nel mondo femminile in molti libri.
Tra questi, a metà degli anni Ottanta, aveva pubblicato Le Dee Dentro La Donna (Astrolabio), in cui le tante divinità sono raccontate come rappresentanti delle caratteristiche dell’animo femminile. Jean Bolen ha vissuto da attivista i tardi anni Sessanta e gli anni Settanta, quelli della rivoluzione femminista e oggi, attivista forse, se possibile, ancora più convita e decisa, ha appena pubblicato Artemide, lo Spirito Indomito nella donna (Astrolabio 16,00 euro), che presenterà a Roma alla Fiera del Libro Più libri Più Liberi il 6 dicembre (e oggi, sempre a Roma, ne parlerà invece all’IAAP Conference degli psicologhi junghiani).
Il libro vuole ispirare e sostenere le donne di tutto il mondo, le donne di piccoli circoli e organizzazioni, di ONG più o meno grandi, cioè tutte le sostenitrici delle silenziose, lente ma inesorabili rivoluzioni del mondo femminile. Proprio dopo che, nel 1995, a Pechino, si era tenuta la Quarta Conferenza Mondiale sulla Donna (4th World Conference on Women - 4WCW), dove si erano riunite in 40.000, e dopo che anche le Nazioni Unite avevano supportato questo evento, oggi, dopo vent’anni di lotte, progressi e sempre più numerose organizzazioni in ogni continente, Jean Bolen è diventata sempre più - e lo provano anche le sue innumerevoli presenze alle conferenze delle Nazioni Unite sullo stato della donna - una sostenitrice convita e «battagliera» per una prossima e quinta Conferenza siglata Nazioni Unite (UN5WCW).
Il successo del 1995 aveva creato uno strumento politico, psicologico, spirituale e di auto determinazione per iniziare un processo di consapevolezza e supporto reciproco per ragazze e donne che, ancora oggi, rappresenta una forza che sostiene e influenza la vita di piccole e micro comunità, dalla Cina all’India, dall’Africa al Sud America.
Oggi, grazie anche e soprattutto al lavoro di moltissime piccole ONG nel mondo, si spera che il prossimo incontro sarà tenuto nel 2020 a Nuova Delhi, dove le proteste contro la violenza e lo stupro sulle donne hanno raccolto adesioni ovunque. Ci sono centinaia di migliaia, se non addirittura più di un milione, di piccoli progetti locali creati da donne, per stabilizzare le micro economie, per dare cibo ai poveri, per affrontare gli effetti devastanti delle guerre e delle malattie, tutti con l’obiettivo di creare situazioni di vita migliori. Jean Bolen si sta impegnando sempre più, anche con questi nuovo libro, perché ci si accorga di queste realtà rivoluzionarie femminili.
E cosa c’entrano mai la psicologia Junghiana, gli archetipi e le dee della mitologia classica che abbiamo conosciuto sui banchi del liceo, con le piccole e valorose battaglie delle ONG e delle organizzazioni femminili?
C’entrano, e molto, perché proprio la bella e atletica Artemide, la cacciatrice vergine e protettrice delle partorienti e delle ragazze preadolescenti, proprio lei, dea delle foreste e della natura, con il suo arco e le sue frecce, sorella gemella di Apollo, rappresenta l’archetipo del coraggio di chi sa cosa fare e che ha trovato un significato potente da perseguire nella vita.
Un filo che collega Artemide agli sforzi sempre crescenti e sempre più vincenti delle donne nella società è che, «l’effetto Artemide», come lo chiama proprio la psicologa americana, seduta di fronte alla natura potente di Mill Valley, nella Bay Area di San Francisco, «è che ci sono studi che mostrano che non esiste migliore indicazione per il benessere di un paese se non quello di un impegno dal basso delle donne. Nessun altra cosa riesce ad avere risultati tanto positivi sulla qualità della vita». Ci si dovrebbe allora chiedere se tutte le donne possiedono le qualità di Artemide.
«Sicuramente noi donne abbiamo il dono di creare legami con il mondo che ci circonda ma, una donna Artemide in piena regola si può riconoscere perché ha una marcia in più, ha la capacità di mobilitare le altre donne e il coraggio di parlare apertamente per cause in cui vede qualcosa che fondamentalmente non funziona». È importante riconoscere il lato Artemide anche - e chissà, forse soprattutto - negli uomini. «Sì, perché gli uomini hanno cominciato a unirsi a queste organizzazioni per incoraggiare e consentire maggiore indipendenza e autonomia a tutte le figlie, sorelle, mogli».
E forse, non è neanche tanto difficile scoprirla, la donna Artemide. «Spesso una piccola Artemide, una bambina anche di solo tre anni, se possiede le qualità della dea dei boschi e della caccia, solitamente sa già cosa vuole, e ha un forte senso del Sé».
Se però esistono imposizioni o pressioni dal mondo in cui vive o anche dalla famiglia o dai genitori, quella sua parte indomita sarà esclusa dalla vita. «Ma», precisa sorridendo, «escludere non significa mai cancellare o far morire. Reprimere un forte desiderio, può fare spesso in modo che quella parte di te andrà a finire nell’inconscio e, alla fine, quei lati che non sono stati mai lasciati liberi di vivere ed esprimersi, saranno i semi di quello che sei in realtà, o che potrai diventare. Quando senti di avere un compito, ecco, come ci diceva anche Joseph Campbell, si dovrebbe trovare il proprio mito personale, e quindi viverlo fino in fondo nella vita di ogni giorno. Lo stesso Jung parlava di processo di individuazione, come premessa dell’autorealizzazione».
Già, quelle caratteristiche specifiche, personali e uniche che rappresentano la propria storia e il proprio scopo nella vita. «Solo così, soprattutto se sei un’Artemide, troverai la tua famiglia particolare, quel mondo in cui il tuo dono, la tua capacità speciale, avranno modo di essere incoraggiati, seguiti, e dove avrai perciò modo di migliorare e crescere. È un processo che parte dall’interno, da necessità personali che arrivano poi al mondo. Il tuo tipo di sofferenza contribuisce - quasi paradossalmente - a vivere la vita che si suppone tu debba vivere».
Artemide, cocciuta? Forse. Ma soprattutto, decisa e cosciente di dovere agire in quel modo, per raggiungere il risultato desiderato. «Ci sono momenti in cui la donna Artemide si alza in piedi e prende una posizione ferma, perché sa che è suo dovere. L’istinto ci fa dire di sì e agire, perché questo ha un significato grande e particolare». Motivi diversi, certo, ma ci sono sempre ragioni che ci fanno capire che quella è la nostra strada.
La donna Artemide sa, perché le esperienze della sua vita le indicano una via da seguire, in cui impegnarsi e che ha significato. Impegnarsi, avendo un compito, diventa allora anche divertente, perché sai che sei davvero te stessa e puoi usare le tue capacità con persone che condividono i tuoi valori e vogliono, lavorando insieme, arrivare a un fine comune. All’obiezione che a volte, forse, ci si può auto ingannare e procedere verso un obiettivo sbagliato, la risposta è semplice e chiara: «Queste sono decisioni sempre motivate dall’amore, non certo dal potere. Parlerai perché sai cosa è giusto dire, che sia poi per diritti umani, per diritti degli animali, o qualsiasi altra cosa, andrà comunque bene. C’è sempre qualcosa che ti ha portato a fare quello che fai.
Sono scelte che hanno a che fare con l’amore e dove, spesso, c’è stato anche molto dolore». Nel momento in cui diciamo «questo non è giusto!», ecco, allora siamo la dea indomabile.
«Anche se ha subito violenza, Artemide non si riconosce mai nel ruolo della vittima. Probabilmente è una donna che ha avuto una iniziazione terribile da piccola, ma adesso esiste come attivista, e con gli altri. Questo è il tipo di energia che fa in modo che resti quello che è sempre stata. Una parte di Artemide resta sempre vergine e pura nel suo profondo».
La donna Artemide, la donna che ha lottato e lotta per i diritti delle donne - che esiste anche nell’uomo, con gli stessi obiettivi e con la stessa passione - si riconosce con le altre donne e con quello che è loro capitato. «Non si sente mai superiore perché, qualsiasi cosa sia successa, è come se fosse capitato anche a lei. Se si vive con questo archetipo, si farà sicuramente qualcosa che possa dare senso e significato al proprio dolore».
«La mitologia e i suoi archetipi», ci ricorda Bolen nel nuovo libro, «sono modelli, modi di essere e di reagire innati - alcuni più istintivi di altri - che sono nell’inconscio collettivo. Lo spirito indomito che io associo con l’archetipo di Artemide, può essere visibile anche fin dalla nascita. Per qualcuno Artemide rimane latente, e può emergere solo molto più tardi nella vita o anche mai. Tutti gli archetipi sono potenziali, e ognuno può, in un certo momento, essere molto importante ed essere alla base di una diversa fase di vita. Sono un modo di vedere la ‘disposizione delle cose’, la geografia psicologica di una persona».
Proprio nell’ultima parte del libro infatti, Bolen ci ricorda che nella vita dobbiamo cercare e trovare un significato. «Entusiasmo, e vitalità sono segni che stiamo vivendo la vita che ci stava aspettando. Ma se questo non succede, ci potrà essere un torpore emozionale, tristezza, ansia, e diversi dolori corporei dovuti a tensioni e stress. Sono cose che possono succedere quando mettiamo una maschera, una facciata sociale, e quando ci identifichiamo con un ruolo, facendo finta di essere felici di avere quel tipo di vita». Ma questo, inutile dirlo, non porta nessun senso di autenticità e spontaneità. Essere in grado di scegliere in base al cuore e all’archetipo che ci governa, dà davvero passione per la vita che stiamo vivendo e che ha un significato. «Questo è possibile solo quando abbiamo l’opportunità e la libertà di seguire la strada dell’anima e del cuore (...) E finiamo con l’amare quello che stiamo facendo e la persona che stiamo diventando».
Nel libro ci racconta il mito di Artemide, e ci fa capire come la dea sia diventata quello che è e come rappresenti proprio le donne che spesso si trovano anche per le strade in una manifestazione per i diritti. Diritti per chiunque ne abbia bisogno.
Ma ci racconta anche la storia, meno conosciuta, dell’altra Artemide, la favola mitologica della piccola Atalanta che, figlia del re di Arcadia e, proprio perché donna, abbandonata nei boschi, viene poi trovata e allevata per i primi anni da una mamma orsa. Atalanta, come Artemide, combatterà per proteggere se stessa e la sua «famiglia», cioè quegli animali e quel mondo selvaggio che le avevano salvato la vita. Ma la storia, la mitologia di Atalanta, è anche quella di un’Artemide donna che, crescendo e cambiando, riesce alla fine, contro ogni aspettativa, a tornare ad essere la figlia del re di Arcadia e ad accettare un compagno di vita.
Che lo si voglia credere o meno, le donne Artemide, che hanno sofferto ma hanno sempre avuto il coraggio e la forza di alzarsi in piedi e tenere la testa alta, la dice proprio Jean Bolen, generalmente riescono a raggiungere i propri obiettivi.
Per adesso, il progetto della Quinta Conferenza Mondiale sulle Donne per il 2020, a cui l’ attivista-psicologa Artemide-Bolen si dedica da almeno quindici anni, è già sul tavolo delle Nazioni Unite, in attesa di essere valutato. Considerando la gentile e simpatica tenacia della nostra psicologa di origine giapponese, che conosce molto bene la parola ottimismo, e forse la considera un efficace mantra, possiamo sperare che il progetto venga presto e promosso a pieni voti.
India, il macabro rito delle stuprate impiccate
Quattro episodi in un mese in Tuttar Pradesh.
Il paese si indigna ma la violenza contro le donne ha radici lontane nella struttura sociale
di Marta Franceschini (il Fatto, 13.06.2014)
L’ultima vittima della mattanza indiana aveva 16 anni. Il suo corpo è stato trovato senza vita, appeso a un albero, nelle campagne dell’Uttar Pradesh. Un massacro che sembra senza fine. Stuprate, seviziate, costrette a bere dell’acido, soffocate, impiccate, uccise. Di fronte al calvario delle donne indiane il mondo, giustamente, inorridisce. L’escalation rimbalza dalle pagine dei giornali agli schermi televisivi, e l’audience rabbrividisce. Non era il paese della non-violenza? La patria del Mahatma Gandhi? Il regno della spiritualità?
La prima cosa che bisognerebbe chiarire è che l’India, prima che dello spirito e del Satyagraha, è la patria delle contraddizioni. Come una Grande Madre primigenia, comprende nel suo grembo tutto e il contrario di tutto. Chiuderla dentro una definizione significa o sbagliare o mentire. All’interno della sua identità millenaria convivono gli opposti più stridenti. Ma una cosa è certa: dall’era patriarcale in poi nel caravanserraglio indiano le donne sono sempre state ultime dopo gli ultimi.
LA VIOLENZA DI OGGI non è una novità. Trenta anni fa, quando arrivai a Delhi per la prima volta, il sistema di divorzio piu’ diffuso era l’omicidio della moglie. Solo nella capitale c’erano una media di tre casi al giorno. Per secoli, millenni addirittura, stupro, abuso, violenza e omicidio sono stati la norma, e non solo in India. A chi inorridisce di fronte alle recenti cronache indiane, ricordo che a Firenze le donne si crocifiggono. E che la frequenza dei casi è proporzionale agli abitanti, che in India sono 30 milioni di volte gli italiani.
Lo stupro è stato usato in tutto il mondo come arma di guerra da tempo immemorabile. Solo che il termine è stato censurato dai libri di testo per ipocrisia mascherata da sensibilità. Tutti abbiamo studiato sui banchi di scuola secoli e secoli di saccheggi, nel corso dei quali è improbabile che alle signore fosse chiesto gentilmente di sgombrare il campo.
La guerra è roba da uomini, ma le donne hanno sempre pagato un prezzo molto alto. Per secoli nelle campagne, in occidente come in oriente, le contadine sono state prede alla mercé di chiunque: padri, padroni, coltivatori, stallieri, servi, garzoni, fratelli e mariti. Durante la rivoluzione industriale le operaie ottenevano e conservavano il posto in fabbrica a una condizione ben precisa, e lo stesso valeva per i bambini. Nemmeno i conventi e i collegi religiosi sono stati risparmiati dal flagello, come hanno provato gli scandali venuti alla luce negli ultimi decenni.
L’abuso sessuale è il crimine più antico e più universale della terra. I tentativi di localizzare e periodicizzare il fenomeno servono solo a ridimensionare l’ampiezza del dramma e, di conseguenza, a contenere le nostre ansie. Certo è più rassicurante pensare che in India ci sia una improvvisa e inspiegabile escalation di violenze, oppure che in Italia, da quando ci sono gli immigrati, gli stupri siano aumentati. Ma sono bugie.
Per millenni stupri e abusi sono stati taciuti con vergogna, come un marchio d’infamia sepolto nel buio della ferita, come una disgrazia e un’onta. L’imperialismo della cultura dominante aveva regalato alle vittime la colpa e ai carnefici l’impunità. L’unico vero cambiamento rispetto al passato è che oggi, in India come altrove, le donne hanno cominciato denunciare i loro stupratori. E che il loro grido, amplificato dai media, è diventato “notizia”.
Islam femminista riletture del corano in una galassia plurale
di Renata Pepicelli (il manifesto, 09.01.2011)
All’alba del XXI secolo sono sempre più numerose le donne che, nei paesi islamici e non solo, considerano il Corano come uno dei principali strumenti per rivendicare l’uguaglianza di genere. Convinte che l’islam sia portatore di un inequivocabile messaggio di giustizia, rileggono i testi sacri attraverso l’ijtihad (lo sforzo interpretativo indipendente) da una prospettiva femminile, enfatizzando gli elementi di uguaglianza e additando come interpretazioni erronee e patriarcali quelle letture che considerano gli uomini superiori alle donne. Diverse per età, classe, professione, collocazione geografica, queste donne, che siano studiose dei testi sacri, attiviste per i diritti delle donne, o semplici credenti, sono accomunate dal proporre esegesi alternative (tafsir) del Corano.
Ciò avviene sia in contesti in cui l’islam è minoritario, come i paesi occidentali - dove, in seguito a migrazioni e a conversioni, la presenza musulmana è però in crescita - sia in quelli dove è la religione maggioritaria, o addirittura ufficiale. Tra questi ultimi, l’Iran è sicuramente uno dei luoghi dove si registrano i dibattiti più interessanti e dove i discorsi del femminismo islamico hanno attecchito per prima.
Da questa prospettiva prende avvio la riflessione dell’iranologa Anna Vanzan nel volume Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, da poco uscito per Bruno Mondadori (pp. 177, euro 20). In un percorso che va dalla Malesia alla Turchia, dall’Iran al Marocco, dall’Italia all’Egitto, Vanzan propone in modo piano e scorrevole un’analisi del crescente fenomeno di una declinazione al femminile dell’islam. Ma è in particolare sull’Iran che la studiosa si concentra, descrivendo il coraggio e la passione con la quale le cosiddette «femministe islamiche» sfidano il regime iraniano proprio su quel terreno, l’islam, su cui si fonda la legittimità del governo.
Lungo più capitoli si susseguono infatti ritratti di donne moderne, emancipate e al tempo stesso devote, pie, esperte in questioni teologiche, che contestano il ruolo assegnato loro dal governo e le interpretazioni della relazione tra i generi date dalla maggioranza dei clerici. Tra di loro, si possono ricordare almeno Nahid Tavasoli, una delle massime esperte di tafsir dell’Iran, Fazeh Hashemi Rafsanjani, fondatrice nel ’98 del primo quotidiano femminile del dopo rivoluzione, «Zan» (donna), e oggi tra le principali oppositrici del regime, e Shahla Sherkat, direttrice della rivista «Zanan» (donne) che per prima ha sdoganato il termine «femminismo» in ambito islamico.
Una pluralità di movimenti
La carrellata di ritratti di femministe islamiche proposta da Vanzan risulta particolarmente interessante non soltanto per l’intrinseco valore di testimonianza che queste biografie rivestono, ma anche perché il libro arriva sulla scena italiana in un momento che sembra esser diventato finalmente fertile per il dibattito su donne, femminismo e diritti nell’islam. Le donne di Allah si colloca infatti all’interno di una fiorente stagione di pubblicazioni sulle trasformazioni del movimento delle donne nel mondo islamico.
Negli ultimi due anni sono apparsi diversi volumi sull’argomento (vedi la scheda in basso) e anche giornali e riviste non specializzate o accademiche gli hanno dedicato più volte spazio e attenzione. Sono studi e articoli che mostrano una realtà in continua evoluzione e che smettono di considerare le musulmane necessariamente vittime della loro religione e bisognose di essere salvate, ma piuttosto danno loro voce in quanto protagoniste dell’affermazione dell’islam nel XXI secolo. In questi testi le femministe islamiche (sia le autrici di nuove interpretazioni dei testi sacri sia le attiviste per i diritti delle donne) sono infatti descritte come donne che riposizionano la religione al centro della loro vita privata e pubblica, e ne fanno uno strumento di emancipazione.
Ripercorrendo itinerari, discorsi e pratiche dell’attivismo femminile in una cornice islamica, questi saggi presentano un’importante e significativa novità: offrono una prospettiva analitica che vuole da un lato abbandonare l’approccio orientalista che ha caratterizzato molti degli studi sul tema, e dall’altro rendere giustizia della pluralità di movimenti che attraversano il mondo islamico, perché,come suggerisce il sottotitolo del libro di Vanzan, siamo di fronte a una varietà di movimenti femministi che seppur attivi su scala globale, hanno caratteristiche locali, legate agli specifici contesti e problemi in cui nascono e operano.
Le condizioni delle donne che vivono in Marocco sono ben diverse da quelle delle donne iraniane o malesi. Non esiste un solo modo di vivere e interpretare l’islam, così come non esiste «la donna musulmana» tout court, uguale in ogni tempo e in ogni luogo. I paesi musulmani sono diversi per leggi, istituzioni e storia. Lo dimostrano bene libri come Essere donna in Asia a cura di Giampaolo Calchi Novati (Carocci 2010, collana Asia Major, pp. 256, euro 25), che dedica diversi capitoli alla condizione delle donne musulmane in paesi come l’Iran e il Pakistan, l’Indonesia e l’India, o, un paio di anni fa, Musulmane rivelate di Ruba Salih (Carocci 2008) che ricostruisce la storia della donna nell’islam con uno sguardo particolarmente attento al presente e alle condizioni della diaspora islamica. Perché, è importante ricordarlo, quando le donne migrano si registrano significativi cambiamenti nelle loro vite e nelle vite delle loro figlie, ragazze di seconda se non anche terza generazione. E queste ultime guardano al femminismo islamico con particolare interesse in quanto permette loro di conciliare la pluralità di identità e appartenenze che le riguarda: essere musulmane, occidentali, credenti, praticanti, femministe. Secondo molte di loro, questo movimento non pretende che le donne operino una scelta a favore di un’identità piuttosto che di un’altra.
Non è un caso che l’ultimo - il quarto in ordine di tempo - convegno internazionale sul femminismo islamico che si è tenuto a Madrid tra il 21 e il 24 ottobre 2010 (www.islamicfeminism.org) abbia visto da un lato del tavolo attiviste e teologhe provenienti da Iran, Egitto, Stati Uniti, Gran Bretagna, Pakistan, Malesia, Marocco, e dall’altro donne musulmane e non, convertite ed emigrate, e soprattutto ragazze di seconda generazione.
Dinamiche in evoluzione
Alla conferenza di Madrid sono emerse diverse posizioni interne allo stesso femminismo islamico, che sono eredi o quanto meno hanno un debito di continuità con la storia del femminismo. Nel mondo islamico i movimenti delle donne hanno infatti una storia lunga oltre un secolo. I lavori di studiose dell’islam come Biancamaria Scarcia Amoretti e di arabiste come Isabella Camera D’Afflitto mostrano un significativo attivismo femminista sin dall’inizio del Novecento. Lungo tutto il secolo scorso donne come May Ziyada, Hoda Shaarawi, Dorya Shafiq, Latifa al Zayyat, Hoda Barakat, Ghada Samman, Nawal al Saadawi (per limitarci a qualche nome e al mondo arabo) si sono battute per l’affermazione del diritto all’uguaglianza.
A differenza delle femministe islamiche, le loro battaglie non possono però essere incluse in una prospettiva islamica, bensì in un quadro di rivendicazioni universaliste, in molti casi legate alle lotte per l’indipendenza contro il colonialismo e agli ideali socialisti e comunisti. Il loro impegno va iscritto nel solco della grande tradizione di femminismo secolare che ha caratterizzato la storia del movimento delle donne, e che oggi continua a essere significativo nel mondo islamico.
Femminismo secolare e femminismo islamico sono oggi quindi le due grandi anime che caratterizzano il movimento delle donne dal Marocco all’Indonesia. Sono anime a volte in contraddizione tra di loro, a volte in aperto conflitto, in taluni casi alla ricerca di elementi di vicinanza e continuità. Si tratta di una dinamica relazionale in evoluzione, in cui non mancano le reciproche accuse di tradimento: nei confronti delle femministe secolari di aver abdicato alla propria cultura, storia, religione a favore di un’idea di emancipazione della donna che nega che la religione possa essere uno spazio di libertà; nei confronti delle femministe islamiche di aver ceduto alle istanze degli islamisti, di essersi piegate a concorrere sul loro stesso terreno, l’islam, contribuendo alla crescente islamizzazione del discorso politico e culturale, e in più autolegittimandosi come l’unica forma autoctona di femminismo in contesti musulmani.
A ben guardare le questioni poste dall’emergere del femminismo islamico interrogano tutte e tutti noi da vicino, non solo perché ci invitano a considerare la dinamicità di un universo troppo spesso banalmente stigmatizzato come monolitico, ma anche perché ci inducono a riflettere su quanto sta accadendo alla questione di genere in Italia e alle difficoltà del movimento femminile in questo paese.
L’analisi di quanto sta avvenendo altrove può forse aiutarci a ripensarci, può suggerire nuove prospettive di sguardo sull’altra/altro, ma anche su noi stesse/i. Da tempo Fatima Mernissi,scrittrice, sociologa e femminista (islamica) marocchina, ci spinge a riflettere, piuttosto che sul velo delle donne musulmane, sulla tirannia della taglia 42 che costringe le occidentali a conformarsi a un unico ideale estetico che pretende omologazione, sacrificio, snaturamento della propria identità, idolatria di un corpo che si svuota e si fa merce, oggetto di consumo, mentre la capacità di scelta e autodeterminazione da parte delle donne, e in particolare delle più giovani, si va erodendo.
Con gli occhi delle altre
Un viaggio nei femminismi dell’islam può quindi essere un’occasione per rimettere in discussione molti stereotipi sul mondo islamico e le sue donne, ma anche per guardarsi con gli occhi delle altre. Si tratta indubbiamente di una sfida importante, e non facile, per i movimenti femministi in Italia perché richiede di accettare l’idea che i percorsi che portano all’emancipazione femminile non debbano necessariamente svilupparsi adottando il modello universalista dell’ideologia femminista cosiddetta «occidentale», «secolare», ma che possano invece realizzarsi per molte donne attraverso l’accettazione e la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e religiosa. E proprio la questione della religione in quanto spazio di emancipazione può risultare particolarmente spinosa da condividere per una parte del pensiero femminista di questo paese.
Ma i tempi sembrano ormai pronti per il confronto e il dibattito. Le sfide poste dal femminismo islamico possono rappresentare un’importante occasione per ripensare il movimento delle donne in Italia, per includere anche le donne migranti, musulmane e non, nella ricerca di nuovi discorsi e nuove pratiche sulla strada dell’uguaglianza di genere.
Prospettive sul mutamento
Intorno ai movimenti femministi che ormai da diversi anni si battono contro i settori più integralisti del mondo musulmano, utilizzando come arma il Corano riletto in una prospettiva di genere, sono usciti in Italia negli ultimi mesi numerosi libri - testi di taglio giornalistico, come «Figlie dell’Islam» di Lilli Gruber (Rizzoli 2008), ma anche saggi che inquadrano il fenomeno da una prospettiva storica e sociologica, come «Teologhe, musulmane, femministe» di Jolanda Guardi e Renata Bedendo (Effatà, 2009) e «Femminismo islamico» di Renata Pepicelli, pubblicato quest’anno da Carocci (pp. 160, euro 12,60). Tra le numerose opere uscite all’estero, vale infine la pena di consultare «Women Claim Islam: Creating Islamic Feminism through Literature» di Miriam Cooke (Routledge 2001) e «Feminism in Islam: Secular and Religious Convergences» di Margot Badran (Oneworld 2009).