RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
L’Europa fuori di sé
di Ida Dominijanni (il manifesto, 29.08.2008)
L’Europa che non s’è fatta a Bruxelles e Strasburgo, l’Europa bocciata dai civili a Parigi e ad Amsterdam, si farà invece con i militari a Beirut? Certo, c’è da sostenere la missione dei caschi blu, augurandosi contro ogni pessimismo della ragione che sia effettivamente una missione di pace. Certo, c’è da essere soddisfatti che l’Italia, la Francia, la Germania parlino finalmente, sia pure con differenze di tono non lievi, una lingua comune; che a riattivare questa lingua abbia contrubuito in modo rilevante il tandem italiano D’Alema-Prodi; che questa lingua possa contrastare e debilitare quella dell’unilateralismo e della guerra preventiva di Bush, alla quale il precedente governo italiano si era adeguato.
Meno soddisfa tuttavia dare ragioni a quanti, nel processo di costituzione europea, hanno sempre messo al primo posto la moneta e al secondo l’esercito e la difesa, come se forza economica e forza militare fossero i due principali, se non unici, pilastri della formazione della «potenza» europea, e come se l’Europa potesse esistere solo in termini di forza e di potenza.
Un’Europa più politica, impiantata su pilastri diversi (rappresentanza, stato di diritto, stato sociale, cultura, memoria), non sarebbe meno forte e potente, ma solo più capace di contrasto rispetto ai modelli oggi imperanti della forza e della potenza. E di «quale» Europa è in gioco è bene che non ci si dimentichi nel plaudere alla sua presenza nel teatro mediorientale. Dove non ne va e non ne andrà solo di techiche militari e regole d’ingaggio: ne va e ne andrà per l’appunto di sensibilità politica e sociale, di intelligenza storica, di capacità di dialogo, di senso del diritto, di volontà di rispondere delle strategie geopolitiche ai cittadini continentali.
Sul campo non si misurerà solo la forza, ma l’idea d’Europa e l’immaginario europeo; con alle spalle il peso di un passato europeo drammatico e diviso, e di fronte i ritorni europei di antisemitismo e di islamofobia. Per quanto ci accontentiamo per ora di contare navi e soldati e di ponderare le strategie politiche, sappiamo sin d’ora che tutto questo non sarà il contorno ma il contesto della missione, un contesto che la missione rimetterà in movimento non nel teatro mediorientale ma in quello europeo. Un tratto del processo di costituzione europea che si farà e si sta facendo fuori dai confini europei.
Non l’unico, del resto. Per quanto l’impaginazione dei giornali e dei telegiornali le tenga rigidamente divise, dovremmo sforzarci di connettere le immagini dei soldati europei in partenza sulle navi per il Libano con quelle dei migranti africani in arrivo sulla carrette del mare alla porta europea di Lampedusa.
Da una parte uomini in divisa, dotazioni tecniche, schemi di tattica militare e visioni geostrategiche; dall’altra uomini, donne e bambini nudi, cadaveri lasciati in mare e corpi sopravvissuti per caso, e nessuna tattica né strategia di vita, solo una vaga speranza in una possibilità migliore. Da una parte l’Europa degli stati che esce dai suoi confini, dall’altra popolazioni che premono ai suoi confini, li violano, li forzano.
Non solo a Beirut ma anche a Lampedusa è in gioco l’idea di Europa. Non solo nel «peace making» in medioriente ma anche nell’accoglienza dell’altro sul continente si misura la civiltà europea. Non solo sulle navi dei «nostri soldati» ma anche sulle carrette del mare si riformula l’immaginario europeo: non diversamente da come sulla navi dei nostri emigranti, nelle traversate transatlantiche d’inizio secolo, si riformulò l’immaginario dell’America, e quello dell’occidente nel suo insieme fra nostalgia delle origini e sogno del mondo nuovo, fra speranze di accoglienza e frustrazioni razziste.
Dobbiamo sforzarci di connettere queste due immagini perché è duplice e doppia la possibilità che per l’Europa si apre fuori dai confini europei. Duplice e doppia, funzionerà solo se li romperà, non se li rafforzerà, e se scuoterà, non se confermerà, l’identità del vecchio continente. Spogliata delle sue divise, esposta ai rischi della navigazione in mare, dei suoi imprevisti, dei suoi ospiti inattesi.
L’America cambia idea di Siegmund Ginzberg *
Fin imbarazzante. Era da molto tempo, forse dai tempi di Cavour e di Garibaldi, che la politica estera dell’Italia non veniva elogiata coi toni usati l’altro giorno dal New York Times. «Kofi Annan ha ringraziato l’Italia. Ma lo ha fatto anche George W. Bush...», è il modo in cui esordisce l’articolo. Ed è già presentata come una notizia clamorosa, perché non succedeva da anni, al punto da suonare ormai come una contraddizione in termini. Altra novità che fa scalpore: «Usa e Israele sostengono entrambi la missione in Libano...», che pure era stata sollecitata dal Libano e non ha un veto nemmeno da parte di Hezbollah.
E cosa ancora più stupefacente, ringraziano malgrado (o proprio perché) è stata proposta dal governo italiano in termini duramente, apertamente critici della politica sinora seguita da Stati Uniti e Israele nella regione, come via d’uscita alternativa. L’articolo ricorda il precedente di un altro capo di governo italiano, Berlusconi, che invece aveva detto: «Sto dalla parte dell’America, prima ancora di sapere da che parte stia», e non era riuscito ad ingraziarsi nemmeno l’America, figurarsi chiunque altro. Mentre «Prodi e il suo governo sembrano avere una certa libertà di prendere le distanze da Washington... senza pagare un prezzo all’amministrazione Bush». Altra ragione di meraviglia: che tutto questo non venga fatto, come ci si era abituati, per acquistare benemerenze a destra o a sinistra, per calcoli elettorali, o per grandeur di parrocchia, ma nel quadro di una precisa scelta politica di più ampio respiro: sì certo, perché non si può più solo stare a guardare quel che succede in Medio Oriente, ma anche per «riportare l’Italia nel campo dell’Europa», di un’Europa che non si limiti più a dire sì o no, o ni agli Usa in modo sparpagliato, ma sappia esprimere di concerto una propria iniziativa politica autonoma, su cui poi lavorare «mano nella mano» anche con l’America e gli altri. «Non penso che qualunque paese europeo da solo possa avere un ruolo mondiale, perciò voglio creare una sorta di co-azione europea», il modo in cui gliel’ha messa Prodi.
Quanto tempo è che l’Italia e o suoi governanti non venivano presi così sul serio? Mussolini, che pure era un genio dell’autopromozione propagandistica, si giocava i giornalisti stranieri da mago, era oggetto anche di lazzi e derisione. Cavour e Garibaldi venivano presi sul serio, ma con riserve. Sfogliando L’Italia giudicata di Ernesto Ragionieri, accanto a entusiastici giudizi americani, ho trovato anche un osservatore liberal britannico che mette i suoi lettori in guardia sul fatto che «Cavour si burlava della verità e Garibaldi della legge. Una notevole dose di duplicità di comportamento e di spirito d’avventura, come per gli antichi filibustieri, furono gli strumenti principali grazie ai quali gli italiani raggiunsero le loro mete oneste e legittime». Più tardi avrebbero parlato con simili riserve e arrier-pensèes di altri premier e ministri degli esteri italiani, specie quelli colpevoli di aver preso iniziative politiche, come Craxi o Andreotti.
Perché invece in questo momento Prodi e D’Alema sembrano godere di migliore stampa? E, soprattutto, come mai una posizione che in altri momenti avrebbe arruffato le penne oltre Atlantico, evocato spettri di multilateralismo antiamericano, invise velleità di fare da contrappeso alle potenza Usa, sembra passarla così liscia? Grazie solo al fatto che, dopo l’esperienza con Berlusconi quasi chiunque verrebbe preso più sul serio. D’Alema ha una risposta elegante: «Per essere onesti, Berlusconi era in una situazione diversa, con un’Europa più divisa e un’America unilaterale. Noi viviamo una fase diversa, e in questo siamo fortunati, perché oggi l’unilateralismo è chiaramente in crisi, è finito».
Una possibile spiegazione è che ci prendono sul serio anche perché le circostanze si sono evolute in modo tale che non gli è più possibile prendere sul serio le certezze con cui si erano in questi anni buttati. Le cose non sono andate nel modo in cui la Casa bianca pensava quando hanno deciso di fare la guerra in Iraq, non sono andate nel modo in cui Olmert pemsava quando ha ordinato di intervenire in Libano per estirpare Hezbollah, non nel modo in cui Nasrallah pensava potessero andare quando hanno provocato a freddo la guerra col rapimento dei soldati israeliani. Si comincia a sudare freddo all’idea che possano andare a finire male con l’Iran, come non è finita per nulla con la Corea del nord, che a differenza di Saddam l’atomica ce l’ha davvero.
C’è chi nota che è il tempo delle autocritiche. Bush lo scorso aprile aveva già ammesso «errori» nella guerra in Iraq, la settimana scorsa ha dovuto ammettere che sta «stressando» i nervi degli americani. Olmert, pur esorcizzando una «autoflagellazione collettiva», ha dovuto ordinare una commissione d’inchiesta. Il portavoce di Hamas a Gaza, Ghazi Hamad, ha ammesso pubblicamente che «Gaza soffre sotto il giogo dell’anarchia e delle spade dei briganti (e chiaramente non si riferisce all’arcinemico israeliano, ma a briganti di casa sua)», la lamentato: «siamo stati tutti attaccati dal batterio della stupidità... abbiamo perso il senso di orientamento». Persino il capo di Hezbollah, Nasrallah, ha fatto quella che è suonata come un’autocritica, forse si è accorto di non esserne uscito poi così vincente come proclamano gli striscioni dei suoi miliziani. Che qualcuno gli proponga una via d’uscita diversa può fare comodo anche a loro. Quando D’Alema dice che Hamas e Hezbollah non sono Al Qaeda, che ci sarebbe tutto da guadagnare ad aiutarne la metamorfosi in organizzazioni politiche, che una politica diversa in Medio Oriente potrebbe ottenere quel che non hanno ottenuto le politiche dure, oggi in Libano, domani a Gaza, forse dopodomani con l’Iran, dice qualcosa che vorrebbero poter dire, e ancora non possono, anche i leader a Gerusalemme e a Washington. Forse è questa la «fortuna» sua, nostra, di tutti. Speriamo duri.
* www.unita.it, Pubblicato il: 31.08.06 Modificato il: 31.08.06 alle ore 10.51
Europa avanti così di Giuseppe Tamburrano *
Non c’è bisogno di spendere molte parole per sottolineare i meriti e il successo della linea del governo italiano ed in particolare del ministro degli Esteri D’Alema sul problema libanese. Significativo, in proposito, il favore mostrato verso l’iniziativa italiana da parte dei governi israeliano e libanese.
Questo dimostra che quando l’Italia agisce sulla scena mondiale con risolutezza raccoglie i frutti della sua pluridecennale accorta politica condotta specie sullo scacchiere mediorientale da Fanfani a Moro, da Nenni a Craxi (quest’ultimo sul problema palestinese) fino ai Ds, in particolare a D’Alema.
I risultati più importanti ottenuti dal governo italiano sono di aver indotto la Francia ad uscire dalle sue incertezze e reticenze e ad impegnarsi seriamente nella missione, senza di che la risoluzione dell’Onu sarebbe rimasta probabilmente lettera morta, e di aver ottenuto la riunione dei ministri degli Esteri europei a Bruxelles con la partecipazione del segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. In tal modo quella missione, decisa dall’Onu, è stata assunta dall’Europa. Tuttavia non pienamente: si può, ed è ancora possibile dare all’Unione Europea tutta la responsabilità di attuare la risoluzione 1701. Sarebbe per l’Europa la prova della sua capacità di agire come soggetto internazionale autonomo: una grande svolta, un grande passo avanti verso la sua unità sul terreno cruciale della politica estera e della difesa. Non era, non è obiettivo irrealistico. Ad onta delle sue divisioni, che sono le più appariscenti - ad esempio sull’Iraq - l’Unione Europea è protagonista di molte iniziative politiche e di molte missioni di pace nel mondo. L’Economist, che le elenca, ha scritto (n. 34, 26 agosto-1 settembre 2006): le intese tra governi europei sono più numerose delle divergenze. E molto importante sarebbe stata - e può ancora esserlo - l’assunzione in prima persona da parte dell’Unione Europea della missione in Libano per ragioni politiche e per ragioni militari, due aspetti strettamente connessi.
Le ragioni politiche. La soluzione stabile dei problemi in Libano presuppone il coinvolgimento della Siria. L’Europa, presente in Libano con un suo forte corpo militare, può trattare con la Siria più efficacemente degli Stati Uniti guardati con ostilità dal regime di Assad. D’altro canto, la presenza militare e politica dell’Unione Europea in Libano sarebbe un elemento di ragionevole, autorevole pressione su Israele perché consideri con maggiore moderazione e realismo i problemi dei palestinesi e della Siria (restituzione dello alture del Golan e delle fattorie della Sheeba).
In realtà nel Medio Oriente la presenza europea è più accettata di quella americana e pertanto l’Ue può operare efficacemente per la pace e per la soluzione dei gravissimi problemi dell’area a condizione che la sua iniziativa sia autorevole e non sia velleitaria.
E qui veniamo agli aspetti militari della missione.
Come tutti gli esperti hanno detto, perché la missione abbia successo, e cioè, per essere più chiari, perché nel Libano ci sia un governo che eserciti la piena sovranità - e dunque l’Hezbollah sia disarmato come vuole la risoluzione dell’Onu - è necessario che la forza europea di pace sia adeguatamente armata e il suo comando abbia il potere di decisione sul terreno. Senza queste condizioni la missione va incontro al pericolo di sacrificare inutilmente vite di soldati e di rivelarsi inidonea ad aiutare l’esercito libanese ad assorbire i militanti di Hezbollah e incapace di controllare le frontiere libanesi con la Siria e con Israele.
Inutile sottolineare che vi è una terza condizione per il successo della missione: che l’Unione Europea sia disposta, anche mobilitando la solidarietà internazionale, a sostenere la ricostruzione del Libano, consentendo al governo di Siniora di sottrarsi all’accerchiamento economico di Siria ed Israele.
Allo stato delle cose queste condizioni e il ruolo dell’Europa non sono definiti. Anzi, qualcosa è definita, ed in termini negativi. Mi riferisco al doppio comando, quello strategico e quello operativo. Il primo resta a New York, in mano all’Onu. È un grave errore (anche se le mani sono del generale italiano Castagnetti).
Per andare al nocciolo della questione: bisogna cambiare le regole e dare al corpo di interposizione tutti i poteri militari nell’ambito della risoluzione 1701. Il ministro del Lavoro Kanj Hamadé, esponente dell’ala moderata dell’Hezbollah, ha detto ripetutamente che la milizia non consegnerà le armi e che il fine del «partito armato di Dio» resta l’eliminazione dello Stato di Israele. La quale sta con le armi al piede, anzi sta intensificando la preparazione militare. Se la missione non riesce a raggiungere gli scopi della risoluzione 1701, l’Onu e l’Europa saranno umiliati; il Medio Oriente sarà dilaniato da un nuovo e più grave conflitto; il progetto di rendere autorevole la posizione dell’Italia in Europa e nel mondo andrà in frantumi. Una prospettiva raccapricciante.
* www.unita.it, Pubblicato il: 30.08.06 Modificato il: 30.08.06 alle ore 10.42