anticipazione *
L’accusa è di quelle che pesano e attribuisce alla Chiesa un pensiero «antimoderno» sulla sessualità. Due studiose, una laica e l’altra credente, smontano il luogo comune
Riconciliare eros e libertà
Non si tratta di emancipazione o di oscurantismo. Il clima oggi è più favorevole a un confronto tra etica laica e religiosa che veda nell’atto sessuale un nuovo incontro fra anima e corpo
DI MARGHERITA PELAJA E LUCETTA SCARAFFIA (Avvenire, 17.09.2008) *
Quasi tutte le culture hanno fatto ricorso alla religione per governare la sessualità e conferirle un senso simbolico. La sessualità si presenta agli esseri umani come contraddittoria: da un lato potente origine della vita, dall’altro forza oscura che si impadronisce dell’uomo, gli fa perdere la padronanza di sé, e quindi deve essere domata. L’impeto della passione infatti può minacciare la debole coerenza dell’io: le religioni forniscono i mezzi più efficaci per salvaguardare la sua integrità e controllare la violenza degli istinti. Le più antiche attitudini umane nei confronti della sessualità sono state la divinizzazione e la sacralizzazione, entrambe espressioni della percezione dell’amplesso come di una esperienza superiore, divina, per l’energia del desiderio e l’estasi del piacere, per la partecipazione al potere fecondatore.
Il monoteismo, stabilendo la trascendenza del sacro, implica la desacralizzazione delle potenze vitali e sessuali. Il cristianesimo si differenzia tuttavia dagli altri monoteismi a causa dell’Incarnazione, e inaugura così un nuovo modo di dare senso spirituale, all’atto sessuale. Dio che si è fatto carne, i corpi che resuscitano, i corpi visti come tempio dello Spirito Santo conducono infatti a una complessità nuova del rapporto con la carne, che diventa essa stessa parte e strumento del cammino spirituale che ogni cristiano deve compiere. Per la cultura cristiana, il desiderio dell’altro fa parte della dimensione corporea, ed è quindi positivo, perché in essa si rispecchia la volontà di Dio. Il comportamento sessuale diventa allora un altro percorso dell’evoluzione spirituale, sia nella via ascetica, sia in quella matrimoniale: e in tale percorso si intrecciano naturalmente carne e spirito, sentimenti ed eros.
Ma la posizione attuale della Chiesa nei confronti della sessualità è veramente oppressiva e «antimoderna»? Abbiamo voluto consapevolmente sfuggire all’atteggiamento che Odo Marquard individua come specifico dell’epoca moderna, cioè la trasformazione della storia in un tribunale al quale «l’uomo sfugge solo identificandosi con esso». Abbiamo preferito non diventare un tribunale, né due tribunali in confronto fra loro, ma invece ricostruire il processo storico che ha portato fino alla situazione attuale sia la Chiesa sia i suoi critici. Nel ricorso alla storia che giudica infatti, abbiamo colto quello che si può considerare un luogo comune tipico della modernità: quello che fa sì che colui che accusa «assumendo monopolio dell’accusa biasima, quanto al male nel mondo, gli altri uomini in quanto riluttanti all’emancipazio- ne, in quanto cattivi uomini creatori, e li condanna immediatamente a diventare passato».
La concezione rivoluzionaria dell’atto sessuale proposta dal cristianesimo delle origini e poi approfondita e articolata dalla Chiesa è stata considerata negli ultimi secoli obsoleta e dannosa: le scienze moderne - medici, antropologi, poi sessuologi - hanno elaborato una categoria astratta, quella di sessualità,da studiare come fenomeno a parte, e da disciplinare secondo criteri generali, che si sarebbero voluti scientifici ma che spesso sono diventati ideologici. A tali criteri si sarebbe dovuto conformare il comportamento dei singoli, magari con il sostegno e il consiglio degli «esperti».
Per lunghissimi secoli, la visione cattolica ha inserito invece il comportamento sessuale all’interno del cammino personale di purificazione e di santificazione che è compito di ogni cristiano, in quel fragile equilibrio tra corpo e anima che è costitutivo di una tradizione religiosa fondata sull’Incarnazione; ma anche all’interno di un sistema morale globale, costruito sugli enunciati generali del peccato e della sua condanna, e sulla distinzione del lecito dall’illecito. Almeno fino alla metà del Novecento queste due impostazioni non potevano comunicare fra di loro, perché erano per molti aspetti incommensurabili.
Sarà solo quando la Chiesa - a partire dall’Humanae vitae, per proseguire più decisamente con la nuova proposta teorica di Wojtyla - comincia ad affrontare in termini astratti il problema del comportamento sessuale, che lo scontro si trasferirà su un terreno comune. Solo allora cioè diventerà chiaro che non si tratta semplicemente di una dialettica fra libertà e oppressione, tra emancipazione e oscurantismo, ma del conflitto fra due diverse concezioni di sessualità: l’una, quella laica, che colloca anche l’atto sessuale nella sfera della libertà individuale, l’altra, quella cattolica, che lo giudica e lo definisce come momento importante del percorso spirituale di ogni credente, un incontro fra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L’una basata su un’analisi scientifica della sessualità e sull’autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l’altra fondata sulla costituzione dell’individuo come soggetto morale in un sistema di norme definite. Per dirlo con le parole di Foucault, «il compito di mettersi alla prova, di analizzarsi, di controllarsi di una serie di esercizi ben definiti pone la questione della verità - di ciò che si è, di ciò che si fa e di ciò che si è capaci di fare - nel cuore della costituzione del soggetto morale».
Oggi - paradossalmente, vista l’asprezza del dibattito politico-ideologico - è possibile forse un approccio meno conflittuale al problema, almeno dal punto di vista teorico. La differenza fra le due concezioni non costituisce più un momento bruciante di scontro nelle società occidentali, come è stato almeno fino alla metà del Novecento: nei paesi «avanzati » sembra aver prevalso, nella mentalità comune, la proposta laica, ma questa nello stesso tempo è stata sottoposta a critiche da diversi punti di vista - quello femminile, ma anche quello di intellettuali laici come Marcel Gauchet - senza che ciò abbia comportato l’adesione alla visione cattolica, come sarebbe accaduto quando i due schieramenti si fronteggiavano polarizzati. Mentre sono caduti alcuni orpelli ideologici, e soprattutto l’illusione che la libertà sessuale costituisca di per sé una condizione fondamentale per la felicità individuale, altre categorie hanno subito slittamenti di collocazione e di significato: la natura, ad esempio, invocata dai teorici della rivoluzione sessuale come garante di una sessualità finalmente libera da condizionamenti sociali e religiosi, è diventata richiamo severo della Chiesa e un ordine immutabile nella procreazione; la sfera privata, difesa dai modernizzatori laici come ambito intoccabile di scelta individuale, appare prosciugata di senso e di valori, e sembra respingere soprattutto le donne in antiche solitudini, nel rapporto con il proprio corpo e con il proprio desiderio, nella scelta di maternità. È tempo, forse, che il comportamento sessuale torni a essere problema collettivo.
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IL LIBRO
Oltre il cattivo stereotipo della sessuofobia cattolica
Il luogo comune è solido: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso peccato. Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio e principalmente per procreare. Alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica fino a rendere possibile una sintesi così brutale. Ma sensibilità più libere, analisi circostanziate dei testi e delle politiche possono di volta in volta articolare, smentire, fino a sgretolare il potenziale conoscitivo di un assunto così generico. È quel che intende mostrare il libro «Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia» scritto da due studiose - una laica e l’altra cattolica, Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia - che esce oggi da Laterza (pagine 322, euro 18) e dal quale anticipiamo un brano.
La loro indagine rivela come il tentativo di unire lo spirito alla carne, e quindi valorizzare spiritualmente la sessualità, segni potentemente periodi e figure della storia della Chiesa - basti pensare al «Cantico dei Cantici» - mentre una politica della sessualità che alterna repressione e clemenza scorre parallela e agisce da efficace sistema di governo delle anime dei fedeli. La soluzione è sofisticata e funziona per secoli, finché non viene erosa dal primato della scienza che sembra dominare la modernità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FAMIGLIA? MA QUALE FAMIGLIA?! QUELLA DI GESU’ O QUELLA DI EDIPO’?!
I "DUE CHERUBINI" E L’AMORE DI D(UE)IO: L’ARCA DELL’ALLEANZA
-L’EV-ANGELO NON E’ UN "MESSAGGIO" DI "MAMMASANTISSIMA"
DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
FLS
SILVIA BALLESTRA
Da oggi è in libreria Piove sul nostro amore (Feltrinelli), un viaggio nel mondo inospitale dell’aborto, in un paese, l’Italia, dove sta accadendo qualcosa di inquietante...
Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne
di Chiara Valentini (l’Unità, 18.09.2008)
Un paese che ha una passione neanche tanto segreta per tormentare le donne. È questa alla fine dei conti l’immagine che vien fuori dal viaggio che la scrittrice Silvia Ballestra ha voluto compiere su un terreno dove ben poche della generazione under 40 si era finora avventurata, il terreno malfido e pieno di contraddizioni dell’aborto. Capisco bene che non deve essere semplice, per chi come Ballestra aveva nove anni quando la legge 194 era stata votata e 11 quando un referendum che voleva cancellarla veniva respinto massicciamente dal 68 per cento degli italiani, riprendere in mano una vecchia storia derubricata a lungo dal senso comune come fatto privato. Ma chi era cresciuta in quel «dopo» anche troppo rassicurante (quante volte, ancora fino all’altro ieri, abbiamo sentito ripetere come un mantra «l’aborto non si tocca...») ha anche un vantaggio, la capacità di indignarsi che nasce dalla scoperta di qualcosa che non si credeva possibile. E infatti è dall’inimmaginabile 8 marzo 2008 di Giuliano Ferrara, e dalla sua scelta di lanciare proprio quel giorno la sua creatura elettorale a sostegno di una moratoria dell’aborto che parte il libro di Silvia Ballestra (Piove sul nostro amore - Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, Feltrinelli, Serie Bianca, pp. 176, 14 euro).
I segni che in Italia sta succedendo qualcosa di inquietante la Ballestra se li ritrova dove meno se l’aspetta. È in un ambulatorio dell’Aied che scopre l’esistenza di un turismo di specie nuova, tante italiane che se ne vanno in Francia, in Olanda o in Svizzera non per tentare in ambienti migliori quella pratica a rischio che è da noi la fecondazione assistita, ma per interrompere una gravidanza. In Canton Ticino ci sarebbe un calo notevole degli aborti se non ci fossimo noi, le straniere in arrivo da un paese cosiddetto evoluto, a far alzare la percentuale del 25 per cento. Perché? Le ragioni sono molte, e attengono a quella guerra neanche tanto sotterranea alla libertà riproduttiva delle donne di cui la moratoria peraltro fallita di Ferrara è stata solo un sintomo. Una trovata così apparentemente paradossale d’altra parte non sarebbe stata pensabile senza quel retroterra di movimenti per la vita e di centri di aiuto a non interrompere la gravidanza o senza le schiere di militanti pro life appostati all’ingresso degli ospedali che gridano «stai per uccidere un bambino» e sventolano cartelli del genere «Mamma rivoglio bene, non farmi del male».
Ma nel mondo pro life non tutto è così scontato. Meno prevedibile per esempio è il ricorso alla psicoanalisi usata come barriera contro il relativismo culturale che viene fatto nelle scuole di formazione per gli attivisti della vita. In parte inatteso anche lo stile di comunicazione più amichevole di una parte dei centri di aiuto, dove cartelli e volantini rinunciano al terrorismo iconografico per mostrare pance rotonde e mazzi di margherite. Più che donne assassine, sembrano suggerire queste immagini, donne da aiutare e sostenere. Ma poi, approfondendo meglio, Ballestra scopre una specie di doppia morale. «Non sei assassina, ma commetti un omicidio» è il messaggio sotterraneo. Assistendo ad una lezione del professor Mario Palmaro, docente alla Pontificia università Regina Apostolorum, l’astro nascente della bioetica più integrista, comincia a capire la ratio di questa offensiva che specie dopo il fallito referendum sulla fecondazione assistita sta avvolgendo la 194. L’obiettivo, almeno per il momento, non è tanto di mettere mano alla legge, ma di trasformare in senso sempre più negativo la percezione che la società ha dell’aborto. «Far vedere che esiste una 194 percepita e una 194 reale, che ha trasformato un delitto in un diritto», predica il professor Palmaro. Ed ecco la sua ricetta, obiezione di coscienza ad oltranza, «da parte di ciascuno di noi». Non solo insomma della moltitudine crescente dei ginecologi, che in varie regioni ha quasi paralizzato il servizio. No, qualunque strumento che in qualche modo si opponga al dispiegarsi della vita va mandato in tilt. E così i medici del pronto soccorso rifiutino di prescrivere la pillola del giorno dopo e i farmacisti di venderla, per non parlare di quella bestia nera che è la Ru486, la killer pill nel linguaggio antiaborista. Questo farmaco che consente di evitare i ferri e l’anestesia, in uso da tempo in tutto l’Occidente, ha infatti la grave colpa di «banalizzare l’aborto» cancellandone l’aspetto cruento, di renderlo più leggero e accettabile. E quindi in Italia, nonostante la sperimentazione di Silvio Viale a Torino e qualche tentativo in Emilia e Toscana, le donne devono continuare ad «abortire con dolore».
In questo territorio sempre più inospitale che è oggi l’interruzione di gravidanza si aggiranno perplesse ragazze e giovani donne. Sono in numero molto ridotto rispetto al passato, visto che la 194 ha dimezzato le cifre. E sono più isolate. Scrive Ballestra che oggi la grande maggioranza delle giovani si considera immune da qualcosa di cui si parla così poco, non crede che toccherà proprio a lei. Quando succede il problema è grande, come la vergogna che le accompagna in un percorso accidentato di visite e certificati spesso difficili da ottenere, mentre le settimane passano e la paura di non fare in tempo cresce. È forse la parte più bella del libro il racconto di questi aborti legali a cui si arriva avendo sentito parlare in modo piuttosto vago di libera scelta e di autodeterminazione femminile. Come la ragazzina appena diciottenne che piomba in ospedale senza neanche una camicia da notte visto che nessuno le ha detto di portarla, e si ritrova annichilita davanti ai medici «con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, lo slip appallottolato in una mano e gli occhi fissi al soffitto» e poi si trascina per anni un lutto difficilmente gestibile. O quell’altra che seduta in attesa su una panchetta davanti alla «stanza 194» dell’ospedale milanese di Niguarda «sente uno strano rumore, come di aspirapolvere... un rumore assordante, lancinante, che ferisce dentro e fuori».
C’è da dire che in trent’anni è cambiata la percezione stessa della gravidanza, anche per quelle ecografie che ti fanno vedere il feto, quegli esami che ti fanno sapere molto presto se sarà maschio o femmina. La rinuncia può essere più dura, più lacerante. Ma di questi mutamenti e sentimenti c’è poco spazio per parlare. In un paese come l’Italia è pericoloso farlo, puoi sempre trovare un ateo devoto o un militante per la vita che sta lì pronto a ritorcerti contro il tuo dolore, a trasformarlo in un’arma contundente. E così quel poco di riflessione che si è sviluppata negli ultimi anni è stata più uno scontro all’arma bianca che un’analisi meditata. Con qualche femminista come Eugenia Roccella che è passata dall’altra parte e poche altre che invece hanno cercato di aprire nuove porte. Con una di loro, la storica Anna Bravo, Ballestra si sente in sintonia, per quel suo coraggio a sostenere che nell’aborto ci sono due vittime, la donna e anche il feto. È una riflessione che scotta, in presenza di quei «diritti del concepito», perno della legge sulla fecondazione assistita, che ha contrapposto il nascituro alla madre, con quel che ne è conseguito. Allo stesso tempo sono evidenti i prezzi che stiamo pagando proprio per aver lasciato alla Chiesa il monopolio della riflessione etica sui temi della vita. Anche questo viaggio su territori poco frequentati ha il merito di ricordarcelo.
Un libro inchiesta sul mondo dei consultori, dei reparti maternità, dei medici. E il lacerante dibattito sulla vita
Il mio viaggio nell’Italia della 194
Silvia Ballestra: «È in corso una campagna che trascura la realtà»
di Ranieri Polese (Corriere della Sera, 18.09.2008)
Il titolo, Piove sul nostro amore (Feltrinelli, pp. 174, e 14), ripreso com’è da Modugno - Piove: ma piove piove sul nostro amor - farebbe pensare a un romanzo sentimentale riveduto in chiave post-avanguardia, visto che l’autrice è Silvia Ballestra ( Il compleanno dell’Iguana, La guerra degli Anto’). Invece non è un romanzo. E se di un sentimento si deve parlare, è l’indignazione con cui la scrittrice compie un viaggio nell’Italia del 2008 per vedere se c’è davvero, come dicono i cattolici e i pro life, «un’emergenza legata ai temi della vita, se davvero italiane e italiani si sentono minacciati dal dilagare dell’aborto, dall’abuso della pillola del giorno dopo, dal rischio dell’eugenetica». A 30 anni dalla 194 (promulgata il 22 maggio 1978, confermata tre anni dopo dalla sconfitta del referendum abrogativo proposto dal Movimento per la vita: il 67,9% di no), l’interruzione volontaria di gravidanza funziona: il numero di aborti è dimezzato.
Perché dunque l’indignazione? «Perché - dice Ballestra - è in atto una campagna feroce contro l’aborto, che si prende grandissimi spazi su giornali e tv, e che vede un fronte d’attacco composito che va dal Papa - dai Papi, direi, anche Giovanni Paolo II non ci andava leggero - ai medici obiettori sempre più numerosi, dai movimenti pro life diffusi ovunque fino a Giuliano Ferrara, che ha partecipato alle ultime elezioni politiche con una lista a sostegno della sua proposta di moratoria sull’aborto».
Sì, ma la lista Ferrara ha preso solo lo 0,3 per cento dei voti. «È vero. Però, intanto, si è creato un clima di demonizzazione dell’aborto. Si sono usati termini come "assassinio" o "eugenetica", equiparando l’aborto terapeutico previsto dalla legge alle pratiche naziste. Quando, in febbraio, a Napoli la polizia entrò nel reparto di Ostetricia e ginecologia dove una donna aveva fatto un aborto terapeutico perché il figlio concepito era affetto da gravi malformazioni... ».
La polizia era stata chiamata da un portantino che denunciava un infanticidio: falso, ma il giudice autorizzò l’invio di una donna poliziotto. Il giornale di Ferrara denunciò quel caso come l’omicidio di un bambino malato, un caso di eugenetica nazista. «È stato uno dei picchi raggiunti da questa ondata anti-abortista. Tutto era cominciato qualche anno prima, con la brutta legge 40 (19 febbraio 2004) sulla procreazione assistita: il riconoscimento dei diritti per l’embrione è un primo passo per togliere diritti alle donne. È chiaro che se quello è un essere vivente con i suoi diritti, chi abortisce è un’assassina. È assurdo, perché la donna e l’embrione non sono esseri indipendenti».
Da allora, ricorda Ballestra nel libro, le donne sono tornate in piazza: nel 2006 con la manifestazione Usciamo dal silenzio, quest’anno per protestare contro i fatti di Napoli. «Le donne a quel diritto conquistato non vogliono più rinunciare. Ma non si può non vedere - dice Ballestra - come gli antiabortisti ormai, giorno dopo giorno, si fanno più insistenti».
Proliferano siti pro life che mostrano feti maciullati; nelle strutture pubbliche ci sono sempre più medici obiettori; farsi prescrivere la pillola del giorno dopo («un anticoncezionale, si badi bene - ribadisce l’autrice - che in altri Paesi è in vendita tra i prodotti da banco») è un’impresa; e per la Ru486 («un farmaco abortivo») è cominciato il turismo sanitario. Indignata contro questo clima («sembra che tutti abbiano dimenticato la differenza sostanziale: i laici non vogliono imporre niente a nessuno, aborti o eutanasia; sono i cattolici che vogliono impedire agli altri di esercitare la propria libertà di scelta»), Ballestra va in giro nell’Italia 2008 raccogliendo storie di donne, di medici, di ospedali, di consultori, di antiabortisti. L’inizio è a Roma, l’8 marzo, con il ricevimento delle donne in Quirinale e il comizio della lista Ferrara a piazza Farnese; prosegue con la descrizione di due riunioni di Cav (Centri d’aiuto alla vita, ormai fortemente presenti anche negli ospedali), una a Magenta e una a Corbetta. A Corbetta parla il professor Mario Palmaro (docente di bioetica della Pontificia Università Regina Apostolorum) che dice che la legge 194 «trasforma un delitto in un diritto» e che contando 4 milioni e 800 mila aborti compiuti dall’entrata in vigore della legge, afferma che i 4 milioni e 800 mila donne che li hanno fatti «sono una bomba atomica antropologica spolverata sulla nostra società».
Ci sono, poi, tre lunghe interviste. Una al professor Francesco Dambrosio, il medico-simbolo della Mangiagalli di Milano oggi in pensione, denunciato nell’88 per gli aborti terapeutici con la sua équipe, assolto nel 2000. Un’altra è con il dottor Silvio Viale di Torino, che usa la Ru486 ed è indagato per «violazione della legge 194». C’è infine un lungo colloquio con la storica Anna Bravo, che in un’intervista alla Repubblica disse: «Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna e anche il feto». Scatenando le reazioni di tante che, preoccupate dalla crescente ondata cattolica, le rimproveravano di fare il gioco del nemico. Invece, sostiene la storica, proprio l’aver lasciato in ombra la questione etica ha concesso tanto terreno agli antiabortisti, che oggi si ergono come depositari della morale. Certo, di aborto le donne non parlano molto. Pochi film e libri ne trattano, anche se recentemente due pellicole - l’americano Juno, il rumeno Quattro mesi, tre settimane, un giorno - hanno fatto discutere. Rimane, l’aborto, l’oggetto di confidenze tra amiche, un pegno di complicità. «Nessuna donna - scrive Ballestra - ha mai abortito con leggerezza».
Pesa, comunque, il silenzio. Ora soprattutto che i pro life alzano la voce. E magari, dice Ballestra, andrebbe ricordato che i pro choice sostengono la libertà per la donna di scegliere, e la donna può pure scegliere di avere il figlio. Senza forzature altrui, però. Del resto - ed è il tema del bellissimo ultimo capitolo - quelli che gridano tanto di essere «per la vita», che ne sanno davvero della vita? È il messaggio con cui Betty, infermiera in pediatria all’Ospedale di Padova, invita a visitare quelle corsie «dove si trovano bimbi costretti a una vita di sofferenze ». In molti casi, dice, non c’è stata una diagnosi prenatale, o è stata fatta male. Ci sono i prematuri che vengono rianimati una, due, dieci volte: «A un certo punto, quando i genitori non ce la fanno più, quando il bambino non ce la fa più, lo lasci andare». A Padova, nella Basilica del Santo, dietro la tomba di Sant’Antonio ci sono le foto dei bambini che ce l’hanno fatta; ma anche i biglietti delle mamme che i bambini li hanno persi, ma ringraziano Dio che ha posto fine alle sofferenze di quei poverini.